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Il giudice che fa diventare amici. Che esce dall’aula e riunisce in pizzeria le bulle e la loro vittima. Si chiama mediazione penale. Non è una giustizia del volemose bene, dei processi aggiustati a tutti i costi. È invece il lavoro di un magistrato minorile a corto di mezzi, ma non di entusiasmo. Un lavoro che stabilisce torti e cancella ferite.
Siamo a Bologna nel dicembre scorso. C’è una ragazza di 15 anni, la chiameremo Marina, che proprio non ce la fa più ad andare avanti. Dura da mesi: esce da scuola e quattro compagne le sbarrano la strada. Marina non ha nessuna colpa, se non quella di essere magra, magra. Titubante nei movimenti e nelle parole. Così acerba e diversa dalle altre che diventa la vittima ideale.
Cominciano gli sputi, gli insulti: “Terrona di merda”. Le strappano l’abbonamento del treno: “Con il tuo abbonamento ci siamo pulite il sedere”. Frasi che ti incidono dentro come rasoiate: “Sei una sfigata di merda, devi soffrire”. Infatti Marina soffre. Cerca di tenerselo dentro, ma alla fine sua madre le strappa il segreto. Così si finisce al Tribunale dei minori. Ma davanti a loro c’è Giuseppe Spadaro, il giovane presidente. Uno che combatte contro carenze d’organico pazzesche: nei suoi uffici manca il 50% del personale amministrativo. Ci sono 7 magistrati per tutta l’Emilia Romagna. Ma Spadaro non è tipo da perdere l’entusiasmo: “Tentiamo con la mediazione penale”. È quell’istituto che mette di fronte autori e vittime dei reati. Che cerca di ricostruire cosa è successo, ma spingendo al confronto e alla riconciliazione. Un lavoro duro: tanti incontri di fronte a mediatori esperti. E infine, soltanto se va bene e il ravvedimento è sincero, ci si riconcilia. La pena è estinta. In Italia sono quasi mille casi l’anno (il 60% va bene).
Marina e le bulle cominciano gli incontri con i mediatori. Prima individuali. Poi faccia a faccia. Soffrono tutte, c’è da scommetterci. Ma il nodo si scioglie.
Si arriva all’udienza. Spadaro deve capire se il pentimento è sincero. È il lavoro del giudice: guardare ai fatti, ma provare a leggere dentro le persone. “Potremmo andare a mangiare insieme in una trattoria bolognese”, tenta il giudice. “Allora una pizza, che è napoletana come me”, risponde Marina. Lei che prende l’iniziativa, che scherza sulle origini “terrone”. Sì, si può tentare. Così il processo finisce fuori dall’aula. In una pizzeria dove intorno allo stesso tavolo si ritrovano tutti: Marina, le compagne che l’avevano fatta soffrire, magistrato, mediatori e cancellieri. All’inizio gli sguardi sono imbarazzati, scivolano bassi. Poi l’atmosfera si scioglie.
Sulle carte dei tribunali non resterà traccia di questa storia. Marina e le altre ricorderanno la sofferenza, ma alla fine la cena insieme. “L’alternativa? – si chiede Spadaro – In questi casi si applica spesso il perdono giudiziale o una pena che nessuno sconta. Così la vittima si sente umiliata e i responsabili impuniti”. Meglio una pizza insieme.
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