Al Liceo scientifico Armando Diaz di Caserta, tra Pietro Taricone e Marco D’Amore, c’era anche Roberto Saviano: “Aveva i capelli lunghi e lisci, lo chiamavo l’indiano. Roberto era molto più grande di me e sapeva come farsi ascoltare”. La seconda stagione di Gomorra-la serie, saggio di bravura collettiva che – sembrava impossibile – supera in meraviglia l’esperimento originario, ha nel personaggio di Ciro Di Marzio, “l’immortale” interpretato da D’Amore: “l’ambizione e il nichilismo di chi nel fronteggiare il potere della famiglia Savastano, non pone limiti al proprio orizzonte e non teme niente, a iniziare dalla morte”. Tra viaggi continentali, regolamenti di conti, sacro, profano, sparatorie, funerali, epifanie e falsi profeti, da stasera e per cinque settimane su Sky Atlantic, Stefano Sollima e la sua banda (Francesca Comencini e i due Claudio, Cupellini e Giovannesi alla regia, Sky, Cattleya e Fandango in produzione, sceneggiatura di Bises, Fasoli, Rampoldi e Ravagli) sono pronti a replicare il trionfo che ha permesso di esportare Gomorra in 130 Paesi e di accendere l’interesse americano (Sundance tv trasmetterà la prima serie e ha immediatamente opzionato la seconda). Dalla pubblicazione del libro che cambiò la vita a Roberto Saviano: “Lessi Gomorra in fotocopie, ai tempi in cui con una compagnia romagnola proponevamo un Macbeth molto sperimentale” sono passati dieci anni. “Io –dice Marco D’amore – ero proprio un ragazzino”.
Leggendo quelle fotocopie a cosa pensò?
All’assoluta potenza dell’intuizione di Saviano: mettere su un piano parallelo il meccanismo criminale e quello familiare. L’esecuzione in strada, il sangue e la paura, con l’apparente calma da tinello in cui sotto la luce al neon, i soldati, una volta appoggiate le armi, si ritrovavano per mangiare con la fidanzata o con mammà.
Ciro Di Marzio è un soldato.
E Sollima, quando ci incontrammo per la prima volta, me lo disse proprio con queste parole. “Dobbiamo dargli un’attitudine militaresca, dobbiamo farne un soldato, dovrai dimagrire un po’”.
Lei era grasso?
Venivo dalla commedia. Avevo i capelli, la barba, un po’ di pancia, un aspetto rassicurante. Per interpretarlo ho dovuto perdere molto peso in poco tempo. Sollima ha molte doti e una qualità rara: sa vedere oltre le apparenze. “Fai l’attore e quindi puoi diventare questo personaggio”, mi disse. Ci credeva.
Lei aveva qualche dubbio?
Qualcuno sì. Anni prima, ero stato provinato da Matteo Garrone per il suo Gomorra.
Ed era andata male?
Malissimo. Fu onesto. Di una sincerità brutale: “Come fai a fare il cattivo? Hai la faccia del bravo ragazzo”. Un giudizio che corrispondeva perfettamente all’idea che avevo di me.
Sollima l’ha pensata diversamente.
Ma Sollima è fatto così. Per il ruolo di Genny, Gennaro Savastano, ha scelto Salvatore Esposito che a 29 anni non aveva mai praticamente recitato e che per gran parte dei provini si era prestato a fare da anonima spalla. Ci ha visto qualcosa, gli ha dato un’occasione e Salvatore si è dimostrato migliore di tutti quelli che l’avevano preceduto. La sua è una favola dentro la favola, ma non è l’unica.
Da Alessandro Roja a Vinicio Marchioni, Sollima aveva scoperto o valorizzato talenti anche in Romanzo Criminale – la serie.
Attori bravissimi, nel contesto di una storia diversa che già nel titolo, un titolo che ha in sé la parola romanzo, si prendeva delle libertà narrative che in Gomorra trovano l’ostacolo della cronaca e della matrice verista.
Cos’altro distingue le due storie?
Un presupposto diversissimo. I delinquenti di Romanzo criminale, anche se vivono una vita di strada, non mettono mai in conto la morte. Vogliono comprare, godersi i guadagni illeciti, andare a donne o mettere su famiglia, ma tutto e sempre, in una logica vitalista e godereccia.
In Gomorra invece?
In Gomorra respiri la cupezza di ambizioni senza altra prospettiva di quella del guadagno per il guadagno e capisci che i protagonisti, la morte, non la temono, ma la mettono in conto. L’idea di poter morire li accompagna in ogni istante. Se ascolta le intercettazione dei ras locali se ne accorge subito. I boss dicono che vogliono essere “rispettati e potenti”. Dicono che vogliono “morire da uomini”.
In Gomorra vivono precariamente e violentemente.
E il vivere ogni giorno sul filo, precariamente, grava sulle esistenze dei personaggi di Gomorra fino a consumarli, a scavarli, a dilaniarli. Tra la prima e la seconda stagione, per dire, come consapevolezza e cinismo, Ciro, almeno a me, sembra invecchiato di dieci anni.
La cronaca di Gomorra è tanto cruda da sembrare sceneggiata.
È una realtà così estrema che in tanti credono sia frutto dell’invenzione. E non è vero, come sostenevano con superficialità i denigratori di professione che le cose raccontate da Saviano fossero note. Col cazzo che erano note. Le avresti potute conoscere solo attraverso la lettura delle carte processuali, solo frequentando procure o questure.
Chi è Ciro Di Marzio?
Non è un capo. È uno che vuole diventarlo. È un atleta che corre contro se stesso. Uno che prova a migliorarsi indipendentemente da quanto il contesto lo riconosca. Per affermarsi, da gregario, gli ci vorrà tempo.
Prima di interpretare Ciro ha discusso con Saviano del personaggio?
Sarebbe stato bello approfondirlo con Roberto, ma l’ho incontrato a New York solo dopo la messa in onda della prima stagione. Abbiamo parlato, naturalmente. Dei personaggi e delle biografie reali dei boss di un mondo che Saviano aveva studiato a fondo.
Il suo Ciro si ispira a qualcuno?
I nostri personaggi, tutti i nostri personaggi, sono la somma delle biografie reali che compongono il mosaico delle esistenze di finzione messe in scena per lo schermo. Il rito dell’urina, il Ciro obbligato a bere il piscio davanti al suo capo, Savastano, che ha intenzione di punirlo per uno sgarro, è documentato agli atti. È realtà.
Tra lei e i Savastano c’è un abisso non solo anagrafico.
Ciro e Don Pietro Savastano rappresentano due generazioni di criminali che non parlano più lo stesso linguaggio. Non si ascoltano, non si comprendono più a vicenda e soprattutto non hanno nessuna voglia di capirsi nell’immediato domani. L’unica logica è quella del predominio territoriale. Dell’eliminazione dell’avversario, del potere per il potere, dei soldi da accumulare.
In Romanzo criminale, con l’uso del flashback, lo spettatore veniva a conoscenza dell’infanzia dei componenti della banda. In Gomorra, delle esperienze precedenti e delle biografie di Ciro, dei Savastano e di tutti gli altri sappiamo poco o nulla.
Ciro fa i conti con la propria immortalità fin da bambino e un flashback avrebbe dovuto infatti esserci proprio nella scena iniziale della prima stagione di Gomorra. La sceneggiatura si apriva con Ciro che si ripara sotto il tavolo dalla furia del terremoto irpino del 1980. La casa gli crolla intorno e lui si salva per miracolo. Rimane orfano. Viene mandato dalle suore. È in quel momento che comincia a maturare il sentimento che lo tiene in vita fino alla fine.
Quale sentimento? La tenacia?
L’odio. L’odio per essere rimasto solo. Un odio che cresce quando già grande vede morire il suo padrino.
Avete girato per mesi a Scampia. Che idea si è formato di quel territorio?
Che Scampia è un posto che è molto comodo dare per perso. Nei bambini che ho incontrato, a volte veri e propri talenti naturali, ho visto l’intelligenza rapida di chi è abituato a mangiarsi la vita.
Poi che accade?
Accade che nell’età delle scelte, quel talento viene cancellato per fare spazio ad altro. È una vergogna ed è un peccato. Se quella gente, la gente di Scampia, avesse le possibilità e non solo le speranze, forse le cose potrebbero cambiare.
Non le piace la parola speranza?
Forse è perché ha a che fare con l’ideale cattolico dell’oltre vita, ma in verità no, non mi piace molto. A Napoli si dice “Chi vive di speranza, disperato muore”. Io penso che per capire che esiste altro, abbiamo bisogno di possibilità e non di speranze. Gli adolescenti italiani viaggiano per l’Europa. Molte delle persone che abitano a Scampia non sono mai uscite da quel quartiere.
Lei è partito da Caserta, ma a Caserta è rimasto.
È casa mia, mi conoscono tutti, non ho il problema di dovermi integrare o nascondere.
Famiglia di attori?
Di baskettari soprattutto. A Caserta la pallacanestro è una religione. Da ragazzino volevo diventare musicista. Suonavo qualche strumento. Era attore mio nonno. Proprio come il mio personaggio si chiamava Ciro. Lavorò anche con Francesco Rosi.
I suoi inizi con Toni Servillo?
Mi prese nella sua compagnia, Teatri Uniti e a distanza di anni gli sono ancora molto grato. Servillo è un attore enorme e con lui e per lui ho lavorato benissimo. Mi è capitato anche di sostituirlo in scena, all’improvviso, davanti a seicento persone, fingendo di saper a memoria una parte che a memoria in verità non conoscevo. Lui doveva partire per ricevere un premio. Mi chiese se me la sentissi. Annuii. Mi buttai. Il pubblico rumoreggiò e poi alla fine mi applaudì. Andò bene. Rimane ancora oggi una delle grandi emozioni provate in questo mestiere.
Oggi siete amici?
Lo siamo diventati nel tempo e siamo rimasti tali. I viaggi in macchina con lui e con Andrea Renzi, a ridere fino a sentirsi male, autogrill dopo autogrill, me li ricordo ancora.
Gomorra
le ha cambiato la carriera?
Sicuramente. Mi ha dato la possibilità di sviluppare altri progetti, mi ha fatto conoscere, mi ha accolto in un progetto in cui Sky credeva e ha investito moltissimo. Se Gomorra è spettacolare è anche perché puoi permetterti di far saltare un bar in pieno centro e di ripetere il ciak, se serve, anche quattro volte.
Nel film di Francesco Ghiaccio sull’Eternit e su Casale Monferrato, Un posto sicuro, il budget era molto diverso.
Ma il privilegio è di poter immaginare piccoli film che speri abbiano qualcosa di grandioso nella storia che raccontano a chi sceglie di vederli e progetti come Gomorra, una fiction che con gli strumenti della modernità parla a tutti, alla nicchia che cerca la qualità esattamente come al grande pubblico.
Era di nicchia anche il suo principale rivale, Fortunato Cerlino.
Aveva un’estrazione teatrale. Fortunato è un grande attore classico con la capacità di affacciarsi al futuro. Il suo Don Pietro attiene alla mitologia del camorrista vecchio stampo, ma in realtà è modernissimo.
In conferenza stampa, Andrea Scrosati di Sky ha raccontato dei dubbi iniziali legati a un racconto svolto esclusivamente in dialetto, a volte strettissimo.
Per fortuna ci hanno creduto. Perdere la verità del dialetto e la teatralità del linguaggio napoletano sarebbe stato un peccato. Al di là della ferocia dei personaggi e anche al di là di Gomorra, Napoli la ami anche per questa libertà della lingua.
Quale libertà?
La libertà, ma direi anche l’onestà di non nasconderti la mostruosità che c’è dietro al sipario. Il mostro che vediamo e quello che scegliamo di non vedere. Napoli è una città sfacciata, onesta e crudele. Certe città nascondono persino a loro stesse la loro intima natura e invece Napoli non la teme. Sa come si dice a Napoli?
Come si dice?
“Guagliò, la vita è ‘na chiavica”.
E la vita è una chiavica?
Per qualcuno, per chi ha meno, certo che lo è. Assolutamente. Una vita in cui devi sbatterti dalla mattina alla sera senza neanche sapere se avrai i soldi sufficienti a poter mettere al mondo dei figli, come la definirebbe lei? Per me è una vita di merda. Poi ciascuno di noi prova in qualunque modo a farcela, con tantissimi compromessi. Ci sono passato anche io.
A lei è andata bene.
Molto. Mi sento veramente fortunatissimo. Fino a trent’anni, con alti e bassi, sono stato felice anche senza il successo.
E ora?
E ora il successo è arrivato, ma so che può andarsene perché so perfettamente che faccio un mestiere che poggia su basi labilissime. Credo di essere un buon attore, ma a volte affermarsi o rimanere nell’ombra non dipende solo da te. Per consolarmi, forse per esorcizzare la prospettiva, leggo biografie di musicisti divorati dalla nevrosi di potere, all’improvviso, sparire dalle grazie del pubblico.
È una paura che avverte anche lei?
Io sono molto tranquillo. Mi basta poter continuare a fare l’attore. Sono in scena da quando avevo sedici anni. Anche a volerlo, a questo punto, non saprei proprio cos’altro fare.
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