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Del libro di Matteo Salvini, Secondo Matteo, si sta parlando molto. Sta pure vendendo molto: primo nella classifica di saggistica. Probabilmente, però, lo leggeranno – davvero – in pochi. Non un gran problema: molto meglio dedicarsi a Vonnegut o Calvino, e il primo a saperlo è Salvini. La curiosità, però, è lecita: com’è questo libro? Si presenta con una strana copertina, un primo piano esageratamente photoshoppato, con un Salvini che non si sa se voglia incutere tenerezza o timore. Viene poi da chiedersi: l’ha scritto lui sul serio? Improbabile, ma è quasi sempre così in questi casi. Dentro il testo si scorgono due nomi, Matteo Pandini e Rodolfo Sala: fisicamente, il libro lo hanno scritto più che altro loro.
Pandini e Sala hanno intervistato Salvini una decina di volte, verosimilmente in Via Bellerio a Milano, e hanno trasformato quel flusso verbale in libro organico. Pandini, su Libero, ha però spiegato che Salvini è stato molto presente e ha corretto le bozze con una meticolosità tale da rischiare di far saltare la data di uscita. Il libro ha 231 pagine, costa 17 euro ed è edito da Rizzoli. Salvini è abile ad adattarsi al contesto: su Facebook fa il bullo, da Del Debbio fa il fascistello, a Otto e mezzo vira sull’oppositore pensoso e quasi conciliante. È un furbacchione. Ovvio quindi che, nel suo primo libro, appaia più dialogante. Persino ironico e autocritico, cifre utilizzate occasionalmente anche in tv. Il sottotitolo recita: Follia e coraggio per cambiare il paese.
La parte più scontata è quella politica: quando il libro diventa il manifesto programmatico di Salvini e Lega, il risultato è soporifero. Più divertente la parte privata. Emerge subito un aspetto: Salvini ci tiene moltissimo a far sapere che lui non è un ignorante. A scuola non era il primo della classe, okay, ma ci sapeva comunque fare (la cosa buffa, casomai, è che per accreditare tale tesi porti come prova la sua partecipazione a Doppio Slalom di Corrado Tedeschi). Salvini si descrive come uno che ha sempre letto in maniera “onnivora”: l’accusa di essere un ignorante, evidentemente, lo disturba più di quanto dia a vedere. Nel prologo cita di getto Gramsci, Don Milani e Fallaci: quella de La rabbia e l’orgoglio, ma pure quella di Lettera a un bambino mai nato e Un uomo (“due dei libri più belli di sempre”). Più avanti menziona pure il Fenoglio del Partigiano Johnny. A dirla tutta non allude al libro ma al film, e in particolare a un dialogo. Un gerarca fascista chiede a un partigiano cosa ne sarà dell’Italia se vinceranno loro. E il partigiano: “Una cosa piccola, ma seria”.
E qui capisci un’altra cosa: Salvini, in cuor suo, si sente un po’ il partigiano dei giorni nostri (non ditelo però a chi lo contesta). Arriva poi un’altra critica che ferisce oltremodo Salvini: quella di non entrarci nulla con Fabrizio De André, suo idolo assoluto, che nelle canzoni denotava un’empatia per gli emarginati che il leader felpato del Carroccio certo non ha. E qui Salvini, per giustificarsi, insiste un capitolo intero su come lui sappia tutto di De André, ma proprio tutto. Non solo: lui è nato lo stesso anno di Storia di un impiegato, e Salvini cita tale notizia non come coincidenza ma come presagio. Una sorta di conferma del suo essere un predestinato. Salvini ha conosciuto De André anche personalmente, ed è stato proprio De André a insegnargli a interrompere i comizi (per Fabrizio erano i concerti) quando qualcuno lo contesta: per dar spazio al dissenso. Salvini rivela di immaginare spesso delle chiacchierate con De André: il cantautore lo attaccherebbe su ruspe e immigrazione, ma magari – dice lui – si troverebbero concordi sul federalismo (De André predicava l’autonomia del popolo sardo) e sulla difesa degli esodati (che per Salvini sono la versione contemporanea degli “ultimi” deandreiani).
Uomo molto scaltro, Salvini. Anche nel libro. Dissemina autoironia. Racconta di bere i Negroni a tarda notte. Ricorda il suo amore per il Milan e un buon passato da terzino (destro, ovviamente). Ammette di avere avuto a lungo un pupazzo con le fattezze di Zorro (“Guai a chi me lo toccava!”). E si autodefinisce, un po’ tronfiamente, “indipendente e disobbediente”. Ne nasce un libro tutt’altro che irrinunciabile, e del resto non era questo l’intento, però godibile. Non è detto che lui lo prenda come complimento, e magari non lo è, ma il Salvini scrittore si rivela assai migliore del Salvini social e politico. Anche se, forse, non era poi una battaglia così difficile da vincere.
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