I 330 licenziamenti alla Whirlpool di Napoli ci saranno. Dopo due giorni di trattative al ministero dello Sviluppo economico tutto ciò che si è riusciti a strappare dalla multinazionale degli elettrodomestici è un nuovo mini-rinvio di una settimana. Ma è un posticipo virtuale, perché in realtà è stato concesso solo dopo che il Tribunale di Napoli ha a sua volta rimandato al 22 ottobre l’udienza della causa avviata dai sindacati contro la procedura di licenziamento collettivo. In pratica, fino a quella data l’azienda non invierà le lettere di benservito ai dipendenti: nell’alea del giudizio rischierebbe di vedersele annullare dopo pochi giorni. Una volta ottenuto il via libera dai magistrati, darà seguito a quello che cerca di fare ormai da due anni e mezzo. Venerdì a notte fonda è terminata l’ultima riunione di 14 ore, presieduta dalla viceministra del Mise Alessandra Todde. Il ministro Giancarlo Giorgetti, pur annunciato come presente, si è in realtà collegato per pochi minuti. Così come il titolare del Lavoro Andrea Orlando. I due erano in costante contatto. “Il tavolo si è concluso con il mancato accordo tra azienda e sindacati – ha spiegato Todde – e con la seguente comunicazione che dopo il 22 ottobre Whirlpool farà partire le lettere di licenziamento”. L’obiettivo era spingere l’impresa ad allungare la procedura fino al giorno in cui il consorzio di imprese al quale partecipa anche Invitalia, pronto a rilanciare il sito napoletano, sarà in grado di riassorbire i lavoratori. Non prima del 15 dicembre, secondo le ultime comunicazioni. “Abbiamo chiesto che questo elemento sia garantito, i lavoratori devono passare da Whirlpool all’assunzione nel consorzio senza tempo in mezzo”, ha detto la segretaria Fiom Francesca Re David. Martedì 19 il prossimo appuntamento, l’ennesimo di una delle vertenze più lunghe e complesse di questi ultimi anni. La decisione di abbandonare Napoli è stata comunicata dalla Whirlpool il 31 maggio 2019; scelta che ha tradito l’impegno preso a ottobre 2018 con il governo di continuare a investire in tutti gli stabilimenti italiani. Le trattative con governo e sindacati hanno solo rinviato i licenziamenti, poi congelati dal blocco imposto dal governo Conte 2 durante la pandemia. Da quando il 30 giugno sono stati sbloccati, la multinazionale ha subito avviato la nuova procedura, senza altre proroghe che pure avrebbe potuto disporre beneficiando di altra cassa integrazione gratuita.
Incidenti sul lavoro. Altre due vittime a Pisa e Chieti
Non si ferma la strage delle morti sul lavoro. Dopo le 4 vittime di venerdì, ieri se ne sono registrate altre due: un operaio in Provincia di Pisa e un altro nel Chietino. Il primo lavoratore, 47 anni, è morto mentre era al lavoro in una ditta di materiali edili per cantieri a Santa Croce sull’Arno, in provincia di Pisa. A quanto si apprende, l’operaio è morto precipitando da un’altezza di circa tre metri. Sempre in mattinata, un operaio di 37 anni è morto a Marcianese Alto, alle porte di Lanciano in provincia di Chieti. L’uomo, originario della provincia di Enna, è stato travolto da una parete di terra che è crollata. Lavorava allo scavo all’interno di un cantiere per realizzare un metanodotto. “I morti sul lavoro sono una strage che non possiamo permetterci. Finalmente è stato fatto un decreto per le aziende che non rispettano le regole. Ma il punto è fare prevenzione. La salute e la sicurezza diventino vincolo, non un costo”, ha commentato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ieri durante la manifestazione “Mai più fascismi” in Piazza San Giovanni, a Roma.
Mafia, sequestrati 4 milioni di euro alla famiglia Riina
Duro colpo al patrimonio della mafia corleonese. Beni per un valore di 4 milioni di euro sono stati confiscati agli eredi di Totò Riina, tra cui Mario Salvatore Grizzaffi e Gaetano Riina, rispettivamente nipote e fratello del boss morto nel 2017, e a presunti fiancheggiatori che avrebbero favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano. Obiettivo della misura è anche il patrimonio di Rosario Salvatore Lo Bue, soprannominato Saro Chiummino. Ha avuto storicamente un ruolo attivo come uomo d’onore e membro apicale della famiglia di Corleone ed è stato a stretto contatto con Riina e Leoluca Bagarella. Mario Salvatore Grizzaffi, invece, ha alle spalle una condanna definitiva per un’estorsione con metodi mafiosi scoperta nel corso delle indagini che hanno portato all’arresto del boss Bernardo Provenzano nel 2006. Grizzaffi era stato condannato anche per il favoreggiamento della latitanza di Giovanni Brusca. Posti sotto sequestro anche i beni di Giampiero Pitarresi, membro del mandamento di Misilmeri e della famiglia di Villabate.
Conte, i nomi per riorganizzare il M5S. Ma Grillo vuole blindare il suo Crippa
Per l’avvocato ripartire fa rima con decidere: chi e dove mettere. L’unica via per costruire il suo M5S, quello a cui le piazze riempite dal nuovo leader non hanno risparmiato il tracollo nelle urne delle Comunali. Ed è soprattutto per questo che da alcuni giorni Giuseppe Conte lo ripete nei colloqui riservati: “Dobbiamo riorganizzarci innanzitutto sui territori, ci giochiamo tutto su questo”. Cioè sulla nuova struttura, nei suoi piani da costruire partendo dai nuovi capigruppo.
Però poi c’è sempre Beppe Grillo, con cui è stata solo tregua formale dopo il durissimo scontro in estate. Il Garante, che nelle telefonate con i big continua a dirsi “molto preoccupato per la situazione” come ribadisce un 5Stelle di peso. E che ieri è parso blindare il capogruppo alla Camera Davide Crippa, suo fedelissimo, che Conte vorrebbe sostituire a breve: molto prima della scadenza naturale del Direttivo, a dicembre. Ieri però Grillo ha pubblicato sul suo blog un post proprio di Crippa, “Pandemia energetica”, sul rincaro dei prezzi di energia e gas. Ed è sembrato un segnale, per fare muro al piano di Conte. Un bel problema per l’avvocato, che aveva rinviato tutte le nomine a dopo le amministrative per evitare contraccolpi sulla campagna elettorale. Temeva che gli esclusi, ergo gli scontenti, potessero tirare indietro la gamba. Ora deve cominciare a scegliere. Ci sono “70-80 persone” da nominare, ha calcolato di recente l’ex premier, tra segreteria e comitati vari. Ma Conte vorrebbe costruire la struttura per gradi, iniziando dai capigruppo. Perché farli eleggere dopo le nomine rischierebbe di esporre gli eletti scelti dal leader a vendette incrociate nelle votazioni dei gruppi parlamentari. E poi a breve scade il capogruppo in Senato, Ettore Licheri: e Conte sarebbe orientato a riconfermarlo. Anche se le indiscrezioni danno come possibile la candidatura anche di Maria Domenica Castellone, già ora nel Direttivo. Ma è alla Camera il passaggio più delicato, perché a Montecitorio c’è Crippa. Conte vorrebbe sostituirlo con Alfonso Bonafede, uomo di strettissima fiducia, che potrebbe essere anche il perfetto pontiere con Luigi Di Maio, l’unico big che controlla ancora almeno una parte del gruppo parlamentare. Però per arrivare alla nuova votazione servono prima le dimissioni dell’attuale Direttivo, partendo da quelle del veterano Crippa: non convinto di farsi da parte, raccontano più fonti.
Anche Grillo sembra non troppo d’accordo. E sarebbe la conferma del perdurante gelo tra lui e Conte. Alimentato dai messaggi inviati in questi giorni da diversi parlamentari al Garante, invocato a Roma come un salvatore. La sua discesa nella Capitale, ventilata per la prossima settimana, è stata velocemente smentita. Ma il cielo resta plumbeo sopra il M5S. Innanzitutto a Montecitorio, dove Conte dovrebbe pescare uno dei vicepresidenti della sua segreteria, Riccardo Ricciardi, vicino a Roberto Fico, membro del Direttivo. Dovrebbero essere cinque, i vice, e di certo ci sarà Paola Taverna. Mentre vengono dati in corsa anche l’ex reggente Vito Crimi e la viceministra al Mise Alessandra Todde. Ma per i vicepresidenti bisognerà aspettare ancora. Anche perché ci sono da costruire pure i vari comitati.
Quello incentrato sui temi economici dovrebbe avere come membri la viceministra all’Economia Laura Castelli, Stefano Buffagni e il deputato campano Michele Gubitosa. E andrà varato in tempi rapidi anche il comitato per i rapporti di prossimità territoriale, centrale per Conte. Ci sarà invece da attendere, molto, per la scuola di formazione. Ma prima c’è da capire, fuori c’è sempre Alessandro Di Battista, a pungere con i suoi progetti: il tour e poi chissà, “magari qualcosa di più strutturato” come continua a ventilare, più per vedere l’effetto che fa. Però il suo attacco di pochi giorni fa ai senatori “che lavorano pochissimo” non è piaciuto a Conte. “Ci sono limiti da non superare” avrebbe in sostanza detto l’avvocato, che deve sbrigarsi a rimettere ordine nelle truppe. Perché nella partita del Quirinale si può giocare solo con gruppi compatti. Ma le variabili sono tante. E la prima è sempre quella, Grillo.
Le Procure chiedono arresti, la Giunta del Senato fischietta
Un anno e otto mesi e ancora non basta: per la Giunta per le autorizzazioni del Senato non è ancora tempo per decidere se dare semaforo verde ai magistrati calabresi che da febbraio 2020 chiedono l’arresto del forzista Marco Siclari. Che nel frattempo è stato processato e condannato per gli stessi fatti che avevano motivato la misura cautelare: si è beccato 5 anni e 4 mesi con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per concorso in scambio elettorale politico-mafioso poiché avrebbe accettato la promessa di Domenico Laurendi (appartenente al ‘locale’ di ‘ndrangheta di Santa Eufemia e uomo di fiducia della famiglia Alvaro) di procurargli i voti che gli hanno spalancato le porte di Palazzo Madama nel 2018, in cambio della sua disponibilità a soddisfare gli interessi e le esigenze dell’associazione mafiosa.
Ma la richiesta dei domiciliari ancora langue a Palazzo: la Giunta per le autorizzazioni, rinvio dopo rinvio, dopo aver preso atto della sentenza che riguarda Siclari si è messa ora in attesa delle motivazioni che non arriveranno prima di altri 90 giorni. Tempi biblici che fanno ben sperare anche l’altro senatore di Forza Italia Luigi Cesaro (nei guai con l’accusa di concorso in associazioni di tipo mafioso e corruzione elettorale), per il quale a settembre i magistrati di Napoli hanno chiesto i domiciliari: la Giunta ha rinviato la trattazione del caso in attesa che venga deciso il suo ricorso al Riesame.
E spera in nuovi rinvii anche il senatore leghista Armando Siri che è a processo con l’accusa di essersi dato da fare, a colpi di provvedimenti ed emendamenti vari (in cambio della promessa di una mazzetta da 30 mila euro), per favorire Paolo Arata, l’imprenditore in affari con il re dell’eolico Vito Nicastri considerato uno dei finanziatori del superlatitante Matteo Messina Denaro. I magistrati di Roma vorrebbero poter utilizzare alcune intercettazioni agli atti dell’inchiesta trasmessa nella Capitale da Palermo, ma la Giunta ha scovato una incongruenza sulla data effettiva di iscrizione di Siri nel registro degli indagati. Risultato? Una nuova richiesta di chiarimenti ai magistrati e un nuovo slittamento in Giunta.
Carlo Giovanardi è invece a processo con l’ipotesi di reato di rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio ma anche per aver usato, secondo l’accusa, le cattive con i funzionari della prefettura di Modena arrivando a minacciarli pur di ottenere che una ditta amica, poi rivelatasi in odore di ‘ndrangheta, entrasse nell’elenco di quelle abilitate a partecipare ai lavori di ricostruzione del terremoto del 2012. In Giunta in realtà sarebbe tutto pronto: è già stata predisposta una relazione in cui si afferma che Giovanardi non si può trincerare dietro lo scudo dell’articolo 68 della Costituzione sull’insindacabilità delle opinioni espresse nel suo ruolo di parlamentare. Ma la proposta non riesce a essere messa ai voti, per un motivo o un altro: le ultime sedute sono state dedicate alla pretesa di Giovanardi che il Senato trascini i magistrati che lo stanno processando di fronte alla Consulta.
Ballottaggi in 10 capoluoghi: Roma e Torino le sfide cruciali
Tutti gli occhi sono puntati su Roma e Torino dove i candidati di centrodestra e centrosinistra si sfidano al ballottaggio per raccogliere l’eredità delle sindache del M5S Virginia Raggi e Chiara Appendino. Nella Capitale il tribuno radiofonico Enrico Michetti (sostenuto dal centrodestra) corre contro l’ex ministro dell’Economia del Pd Roberto Gualtieri, sotto la Mole la partita è tra il dem Stefano Lo Russo e l’imprenditore delle acque minerali Paolo Damilano. Michetti parte in vantaggio contro Gualtieri (30 a 27% al primo turno) e Lo Russo contro Damilano (44 a 39%) ma il ballottaggio è tutta un’altra partita. L’altro capoluogo di Regione dove si vota è Trieste con Francesco Russo (Pd) che cerca l’impresa contro il sindaco di Forza Italia Roberto Dipiazza. Tre partite che – dopo le vittorie del centrosinistra a Napoli, Bologna e Milano al primo turno – sono diventate un test nazionale: da Roma passa la sfida interna per la leadership del centrodestra tra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, mentre Enrico Letta e Giuseppe Conte sperano in un 5 a 0 che rafforzerebbe l’alleanza Pd-M5S. Che Salvini non preveda un buon risultato lo si capisce da cosa farà lunedì: andrà in Calabria e non si farà vedere né in via Bellerio né a Roma.
Per i ballottaggi sono chiamati alle urne 5 milioni di italiani per un totale di 65 comuni sopra i 15 mila abitanti: ai 3 capoluoghi di Regione si aggiungono anche 7 capoluoghi di Provincia. Sono Cosenza, Benevento, Caserta, Latina, Savona, Varese e Isernia. Il centrodestra parte in vantaggio in 5 capoluoghi (Cosenza, Trieste, Latina, Roma e Isernia), il centrosinistra in tre (Torino, Caserta e Savona) e i giallorosa a Varese. Dei ballottaggi “minori” riflettori accesi sulla città lombarda, feudo della Lega, dove il candidato del Carroccio Matteo Bianchi sfida l’uscente Davide Galimberti, ma anche Latina, dove il fedelissimo di Claudio Durigon Vincenzo Zaccheo proverà a scalzare il sindaco Damiano Coletta, e Benevento: qui Clemente Mastella cerca la riconferma contro Diego Perifano (Pd-M5S). Si vota oggi dalle 7 alle 23 di oggi e domani dalle 7 alle 15. A pesare molto sarà il fattore astensione che, dopo le alte percentuali del primo turno, potrebbe assestarsi intorno al 40%.
Voto e disuguaglianze: moderati si muore
Quest’ultima tornata di Amministrative che si va a concludere coi ballottaggi è stata largamente interpretata come una ricomposizione moderata della platea elettorale dopo la sbornia “populista” del 2018-2019, in specie per i buoni risultati percentuali del centrosinistra e il tonfo di Lega e M5S. Il Fatto ha già mostrato come, esaminando i voti assoluti (e dunque non le sole percentuali), questa interpretazione sia poco sensata e non solo perché il voto locale è sempre diverso da quello nazionale: i partiti mainstream come Pd e Forza Italia hanno continuato a perdere consensi, il centrismo è irrilevante e l’elettorato che ha mandato in crisi il bipolarismo sciatto della Seconda Repubblica a questo giro si è semplicemente inabissato, scegliendo l’astensione in percentuali mai viste prima (46% totale, oltre il 50% in quasi tutte le grandi città). Tornare al business as usual come se la tempesta fosse passata non è una buona idea e qui cerchiamo di mostrare come le ragioni che avevano cambiato le abitudini di voto degli italiani (incredibilmente stabili lungo la Prima Repubblica e all’inizio della Seconda) siano ancora tutte lì: la “ribellione” non è finita e domanda ancora risposte che non arrivano.
Gli studi. Per provare a spiegarci useremo due studi – uno appena presentato e l’altro del 2020 – di un team di studiosi dell’Università di Roma Tre e della Scuola Normale Superiore: The electoral consequences of inequality in Italy, 1994- 2018 e Inequality and voting in Italy’s regions. In sostanza Francesco Boise, Daniela Chironi, Donatella Della Porta e Mario Pianta hanno incrociato i risultati elettorali delle Politiche nelle regioni italiane con alcuni parametri economici come l’indice di disuguaglianza, i cambiamenti nei salari, i livelli di ricchezza, la precarizzazione del lavoro, il tasso di disoccupazione, eccetera. Ovviamente questi dati non spiegano tutto, niente spiega tutto, ma la correlazione tra alcuni fenomeni e certi risultati elettorali è assai ben fondata a livello statistico e ci spiega che la realtà è un bel po’ più complicata delle parole “populismo” o “sovranismo” in cui la si vorrebbe rinchiudere.
Se, come questi studi, si analizzano i numeri a partire dal 1994 si vede che il peggioramento delle condizioni di vita di molti italiani procede di pari passo con l’aumento dell’astensionismo e la perdita di consensi dei “partiti di sistema”, che hanno di fatto realizzato le stesse politiche pro-ricchi sotto bandiere diverse: la discesa diventa una valanga dopo la grande crisi finanziaria del 2008.
Più poveri, più precari. Qualche dato darà l’idea: “Tra 1994 e 2018 i redditi da lavoro (prima di imposte e trasferimenti) sono diminuiti in termini reali per tutte le fasce di reddito, ad eccezione del 10% più ricco, che nel 2018 aveva gli stessi redditi reali del 1994. Le perdite di reddito reale sono minori per le classi medie e maggiori per gli italiani a basso reddito, raggiungendo il 25% per il 10% più povero. La quota di lavoratori a tempo parziale nel settore privato è passata dal 14 al 25%”. Lo studio appena pubblicato suggerisce, insomma, che “l’impoverimento, la precarizzazione e la disuguaglianza svolgono un ruolo importante nell’influenzare il comportamento di voto e, di conseguenza, la configurazione del sistema dei partiti”.
L’esempio centrosinistra. Prendiamo come riferimento il centrosinistra, l’area politica che è rimasta più stabile in questi tre decenni: “Il sostegno del centrosinistra è maggiore nelle regioni più ricche ed economicamente più attive ed è minore dove sono più presenti i lavoratori part-time più poveri. Quest’ultima relazione mostra però un notevole cambiamento di segno quando si considerano separatamente il primo e il secondo periodo (fino al 2007 e dopo, ndr). Nel primo periodo le regioni con maggiore precarizzazione hanno votato di più per il centrosinistra, mentre nel secondo periodo è avvenuto il contrario. Nel periodo post-crisi il voto per il centrosinistra appare associato a maggiori disuguaglianze complessive: è maggiore nelle regioni con maggiori disparità di ricchezza, dove i ricchi sono più distanti dal reddito medio da lavoro dipendente e dove il reddito mediano è più vicino ai guadagni dei poveri”. La perdita di consensi, tanto in termini percentuali che in numeri assoluti, come detto riguarda tutti i partiti mainstream, Forza Italia in primis: “In effetti, la ricchezza netta è l’unico driver positivo del voto per i partiti tradizionali in tutti i nostri risultati”. Il che ne spiega anche la parziale tenuta nei grandi centri metropolitani.
Onda populista? Falso. Esiste ed è esistita in questi anni una sempre più rilevante percentuale di scelte elettorali “anti-sistema”, dai grillini alla Lega salviniana fino all’astensione, ma non va messo tutto nello stesso calderone (“non abbiamo trovato prove di una generale onda populista”), anche se tutte queste scelte sono fortemente correlate col deterioramento delle condizioni economiche che ha riguardato larghi strati della popolazione.
I casi Lega e M5S. Anche se si tratta di voti “ribelli”, quelli per i due partiti usciti vincitori negli ultimi anni nel voto nazionale non sono elettorati sovrapponibili. Ad esempio, “la Lega ha un consenso maggiore dove i redditi dei ceti medi si sono abbassati avvicinandosi a quelli dei poveri e dove la distanza tra i ceti medi e i lavoratori più pagati è minore” e alto è il tasso di lavoro precario. Invece “il sostegno al M5S è chiaramente caratterizzato da povertà” oltre che da un’alta incidenza di impieghi precari: in sostanza la prima è una risposta che pare aver convinto la classe media in difficoltà, il secondo i poveri diventati ancor più poveri.
L’oceano degli astenuti. L’astensione infine – pressoché raddoppiata alle Politiche tra 1994 e 2018 – dalla crisi finanziaria in poi è fortemente associata a diffusione del lavoro povero e del part-time e a un alto tasso di disoccupazione. Risposte diverse che “hanno però comuni radici in una società più polarizzata, impoverita e disuguale”. Il magmatico malcontento da cui è nata la ribellione dell’elettorato allo status quo è, concludendo, ancora lì e affonda le sue radici in decenni di politiche che, senza distinzioni, si sono dedicate soprattutto a tutelare la ricchezza – tanto a livello reddituale che patrimoniale – mentre la gran parte del Paese pagava il conto delle continue crisi: se anche i cicli vincenti di M5S e Lega fossero arrivati al termine, quell’elettorato è ancora in cerca di risposte. Chi, lunedì, fosse tentato di pensare che la parentesi è finita, che tutto è come prima e si può tornare a vivere del moderatismo come lo abbiamo conosciuto – che è l’immoderata crescita degli squilibri e dell’esclusione sociale – rischia di avere pessime sorprese quando si andrà a votare davvero.
I No Pass stavolta non sfondano (neanche tra l’estrema destra)
I No Green Pass a Milano hanno fatto 13. Tanti, da agosto, i loro cortei senza l’autorizzazione della Questura. Ieri, poi, chi ha esposto lo striscione: “Solidali non con la Cgil ma con i portuali”, ha avuto la “spinta” di circa 50 presunti anarchici. Fino a tarda sera c’era chi, meno di cento, ha tentato lo scontro con la polizia che ha risposto con una carica di alleggerimento. Risultato: 16 identificati, 4 denunciati. L’appuntamento è al solito alle 17 in piazza Fontana, dove già qualche anima dell’area anarchica butta l’occhio. Mezz’ora dopo si parte. Sono 3 mila che diventeranno 10 mila. Dentro anime differenti. L’estrema destra si vede poco. Qualcuno bazzica la testa del corteo che dopo piazza Duomo si infila nello struscio del sabato in corso Vittorio Emanuele. Da qui rimonta corso Venezia in un percorso del tutto caotico, visto che quello proposto venerdì, con passaggio davanti alla sede Rai, è stato bocciato dalla Questura. Si punta verso piazza della Repubblica. Su largo La Foppa che incrocia la movida di corso Garibaldi, gli anarchici alzano la testa. Sono cinquanta, un po’ sparuti, tentano la sortita verso il palazzo della Regione. Il corteo si spezza in due tronconi. Il più nutrito giravolta in piazza Cairoli, verso via Dante e piazza Duomo. Conclusione: tanto caos cittadino, traffico in tilt, corteo nutrito come ormai da settimane, qualche anima da controllare in futuro, ma nessuno scontro vero o disordine oltre il calcolato. Il tutto chiuso in piazza Duomo dopo oltre tre ore di passeggiata urbana senza una vera meta. Chi ha in parte governato il corteo è convinto: “Oggi abbiamo vinto, Trieste chiama, Milano risponde”. Va così in archivio senza grossi patemi il sabato più caldo dei no Green pass a Milano, da quando la protesta ha preso forma lo scorso agosto con la devastazione sul Naviglio di un gazebo del Movimento cinque stelle.
Il governo non fermerà Forza Nuova da solo
Sciogliere Forza Nuova con decreto legge è una strada che a Palazzo Chigi hanno esaminato, ma che reputano impraticabile. Bisogna aspettare una sentenza – anche di primo grado – della magistratura. Il dossier è stato aperto dopo l’aggressione alla Cgil di sabato 9 ottobre e le conclusioni sono queste.
Nonostante la piazza di San Giovanni di ieri e la richiesta esplicita di Maurizio Landini dal palco al governo di procedere. La materia è regolata dalla legge Scelba, che indica due strade per lo scioglimento: attendere una sentenza della magistratura e poi fare un decreto o procedere per decreto in caso di “necessità e urgenza”. Caratteristiche che non ci sono, secondo il premier. Mario Draghi martedì in conferenza stampa era stato vago, parlando di una “riflessione” in corso, ma facendo poi un riferimento non casuale alla magistratura. Le due strade erano ancora ufficialmente aperte. Sono passati altri cinque giorni, la decisione del premier di aspettare una sentenza è di fatto presa e la discussione si è inabissata.
Il dato tecnico e giuridico va di pari passo alle valutazioni politiche: la scelta è delicata, il rischio è quello di esasperare il conflitto. “Il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell’opinione pubblica”, ha detto, non a caso, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Il caso è diventato un cavallo di battaglia di parte della maggioranza. Il Pd di Enrico Letta ha presentato una mozione parlamentare per lo scioglimento, alla quale hanno detto sì anche i Cinque Stelle, che verrà votata martedì. Il centrodestra, per tutta risposta, ha fatto sapere che ne presenterà un’altra, “contro tutte le realtà eversive, non solo quelle evidenziate dalla sinistra”. Secondo l’ormai consolidato metodo Draghi, in caso di conflitto tra le forze che lo sostengono, l’atteggiamento è quello di andare doppiamente avanti per la sua strada.
Ma la data segnata sul calendario è il 19 ottobre, quando si vota in Senato, e la situazione è potenzialmente esplosiva. Se dovesse passare il testo dei giallorosa, Draghi potrebbe essere costretto a rivedere la sua posizione: la mozione impegna il governo e potrebbe spaccare la maggioranza. Il Pd – davanti a questa eventualità – non ha alcuna intenzione di fare un passo indietro. Almeno a oggi. Da domani, poi, i dem potrebbero essere ancora più fermi sulle loro posizioni, visto che ai ballottaggi Letta accarezza il 5 a 0 nelle grandi città (a Torino, Napoli e Bologna hanno già vinto i candidati di centrosinistra, a Roma e Torino sono favoriti) e continua a sognare la maggioranza Ursula, nonostante la manifesta indisponibilità del premier. L’antifascismo potrebbe essere la miccia. Previsto intanto domani un giro di capogruppo del Senato con Forza Italia, che per mediare punta a una mozione unitaria. Al Nazareno si dicono disposti a dire sì in Aula, ma solo dopo aver votato la propria. Per ora, il muro contro muro resta.
Così Landini svecchia la piazza e ai leader lascia la foto di famiglia
Ristabilite le proporzioni, riposte le aste e piegate per benino le bandiere, la Cgil lascia a piazza San Giovanni i palloncini rossi, saluta i celerini, oggi per fortuna sfaccendati, e fa ritorno ai torpedoni. Duecentomila, forse un po’ di meno, ma tanti come mai da anni a questa parte non si vedevano. Un fiume di gente, e per la prima volta non solo pensionati, ma giovani, persino giovanissimi, che l’irruzione fascista di sabato scorso ha allertato, motivato, e in qualche modo sobillato.
Maurizio Landini è oggi il leader italiano con l’organizzazione più potente, più compatta, più larga. “Mai più fascismi, siamo qui per ristabilire le regole della democrazia”, dice acclamato mentre scorge la folla oltre gli archi che separano la piazza dalla via Appia. San Giovanni è sempre stata rossa, il luogo dove il Pci prima e i suoi eredi dopo misuravano i rapporti di forza. Oggi è solo del sindacato e anche se è il colore del cuore, anche se insomma la Cgil condivide lo stesso sentimento, la prova di forza pare nuova e diversa. Perciò sul palco Landini, e con lui i segretari della Cisl e della Uil, intonano la resistenza attiva e sotto al palco, a far da corona silente, la politica ad applaudire.
Enrico Letta, Giuseppe Conte, Pierluigi Bersani, poi Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio, naturalmente Roberto Gualtieri, il candidato che gode di questo bonus: in piena zona Cesarini, e nel giorno del silenzio elettorale (domani a Roma si vota), la più grande mobilitazione possibile. Non c’è la destra, né quella estrema né quella moderata. Manca Giorgia Meloni, inciampata il giorno prima nel diniego del ghetto a ospitarla per rievocare il funesto rastrellamento nazifascista. Non c’è, e anche qui nessuna meraviglia, il leghista Matteo Salvini, riparato al Nord per tentare di sostenere le città leghiste in bilico nel turno di ballottaggio, prima tra tutte Varese, centro storico della elite lumbard, culla del movimento. Non c’è Forza Italia, se si esclude la presenza singolare di Elio Vito, da tempo nella funzione interna di perfetto bastian contrario. Ma mancano sia Carlo Calenda che Matteo Renzi, rappresentanti di quel centro mobile e disallineato, nei fatti estraneo se non ostile a questo rito, a ciò che la piazza riproduce.
Quindi ad ascoltare Landini si ritrovano quelli che Nicola Zingaretti, al tempo segretario del Pd, definì gli alleati sicuri, i fondatori del campo progressista. Ritorna la vecchia foto di famiglia, il triangolo oltre il quale il centrosinistra non va, con Letta che si dichiara felice, “questo è uno dei momenti più belli per domare quella sempiterna vergogna dell’irruzione fascista”, Conte che riscopre “la grande festa”, Di Maio che, un po’ gigioneggiando, fraternizza con gli assenti: “Mi spiace per chi non è con noi”. I Cinquestelle, ieri acerrimi nemici, oggi partecipi e solidali con i destini del sindacato.
Costoro sono i leader dei partiti che, facendo da soli, non riuscirebbero però neanche a coprire un quarto di questa piazza, oggi blindatissima, ma super partecipe, festosa, convinta. È questo il popolo che manca alla sinistra e che invece ha il sindacato. “Con il Parkinson io sono qui”, dice Saverio, metalmeccanico in pensione. “Quando ho detto a mia moglie che sarei venuto a Roma lei, strabuzzando gli occhi, ha sibilato: così conciato? Così conciato le ho ripetuto. Non potevo certo mancare”.
E in effetti in piazza sono arrivati in così tanti che il flusso non è mai calato: usciva un pezzo ed entrava un altro. Allagata di bandiere rosse la via Principe Amedeo, circondata la Rinascente, assediata la Basilica dei Quattro Coronati a quasi un miglio di distanza.
I giovani, soprattutto i lavoratori attivi, quella fetta tra i trenta e i sessant’anni che nel tempo aveva lasciato la militanza oggi ha ceduto al richiamo della foresta. E vederli fa effetto. Sorride Pierluigi Bersani che abbraccia Susanna Camusso, l’ex segretaria del sindacato rosso. Vero, è dovuto accadere l’impensabile per far riunire questo popolo, ed è buffo vedere signore attempate chiedere ai carabinieri, appena dopo che Landini aveva ringraziato le forze dell’ordine, una foto ricordo. Carabinieri ai lati, bandiera rossa al centro.
Detto che la politica, almeno quella ufficiale, si è tenuta ai margini, che nessun partito ha scelto di portare le sue bandiere (con l’eccezione di Rifondazione comunista), resta un dato, anzi un fatto: è stata tra le più grandi manifestazioni dell’ultimo decennio. E la prima, dall’inizio della pandemia, dove si è cantato “Bella Ciao” senza distanziamento.