Scuola vs ’ndrangheta. La prof all’“inferno” di San Luca, per una “rivoluzione culturale”

Uno legge e poi si chiede ma di cosa parliamo. Avete presente San Luca, la capitale mondiale della ’ndrangheta, il paese di 4mila anime che con il suo santuario della Madonna dei Polsi fa da simbolo “morale” per tutti i clan calabresi dall’Oceania all’America del Nord? Ecco, chiediamoci in coscienza come l’abbiamo immaginato, quel paese. Me lo sono domandato trovandomi tra le mani un rapporto scritto da una giovane ricercatrice dell’Università degli Studi di Milano, Maria Teresa Marchetti, sull’educazione alla legalità nella scuola italiana. Perché vi ho scoperto la storia emozionante di Domenica Cacciatore, la preside dell’Istituto comprensivo statale San Luca-Bovalino intitolato a Corrado Alvaro.

La storia di un’insegnante calabrese che aveva già ben meritato in provincia di Vibo Valentia, e che si vide catapultare come preside in quello che era considerato il cuore dell’inferno. E che appunto per questa fama (“mi sembrò una condanna a morte”) si oppose alla nuova sede rivolgendosi al giudice del lavoro. Ricorso perso perché, così ragionò il giudice, proprio le sue caratteristiche la raccomandavano per quel posto e per quel ruolo. Vi arrivò così in auto per la prima volta nel 2011. Quando chiese a una pattuglia di carabinieri, al bivio di Bovalino, se fosse quella la strada per San Luca, le domandarono che ci andasse a fare. Quando lo seppero la incoraggiarono: “Il destino l’ha portata qui, aiuterà questa gente”. Fu l’inizio di un grande romanzo scolastico, di una imprevedibile storia di comunità.

Domenica Cacciatore prese atto di una realtà sconvolgente anche per la Calabria, “non avrei mai immaginato di trovare una situazione così lacerata”. Capì che mancavano gli stessi luoghi del recupero sociale, “in un territorio con un alto tasso di microcriminalità ed un altissimo tasso di carcerazione”. E tuttavia si diede senza risparmio a salvare i ragazzi “da quel degrado e da quella violenza intra ed extrascolastica”. Chiese aiuto al mondo esterno, partendo dal principio che “i solisti non raggiungono risultato”.

E prese a fare rete con tutti quelli che poteva: carabinieri, prefettura, ministero, Asl, e specialmente tante famiglie fiduciose, “ogni anno di più”. La scuola, decadente, abbandonata, devastata, rinacque, ricevette aiuti che non furono sprecati né usati a fine personali come fece un’altra ma fasulla “eroina” di San Luca, divenne luogo di sperimentazione di nuovi modelli educativi. Gli insegnanti furono rimotivati. Venne inventato il Pics, Prodotto interno culturale socializzante. Il comune considerato roccaforte dell’illegalità conobbe la buona predica della legalità, fece partecipare addirittura una sua delegazione alla “Nave della legalità” che giunge a Palermo il 23 maggio in ricordo di Falcone e della strage di Capaci. Vi furono progetti a raffica. Un libriccino dedicato ai carabinieri, un bellissimo Abc della pace. Furono quattro anni di rivoluzione culturale, “scuola aperta 365 giorni all’anno, mai nemmeno un giorno di ferie” alla fine dei quali Domenica Cacciatore tornò da preside a Vibo Valentia.

Qualcuno seppe di quel romanzo che scorreva nel punto simbolo del potere ’ndranghetista. Così la preside con alcuni alunni fu ricevuta nel 2014 da Papa Francesco. Mentre per un suo tema un’allieva di undici anni dell’“Alvaro” fu nominata da Mattarella “alfiere della Repubblica”. Ma l’Italia colta e civile pronta a entusiasmarsi per eroi veri o di cartapesta fabbricati dai media di lei non seppe praticamente niente. Forse perché non aveva scorte da esibire nei suoi viaggi quotidiani avanti e indietro da Vibo a San Luca e ritorno (“con mia madre, che divenne la nonna della scuola”). Non seppe, l’Italia civile, che a san Luca accadeva “anche” questo. Così, chiudendo il rapporto, ho pensato che anche se studiamo e leggiamo sappiamo poco, troppo poco, di questo paese. In declino sì, ma perché non sa riconoscere i suoi talenti.

 

Covid nel pallone Club in crisi, idea geniale: raddoppiano le partite (e il rischio contagio)

Bisogna che qualcuno li arresti. O quanto meno li fermi, li metta nelle condizioni di non nuocere; e di non uccidere il calcio, e non solo il calcio. Siamo alla follia. Mentre la più contagiosa e disastrosa pandemia della storia sta mettendo in ginocchio il mondo intero provocando ovunque morti e rovina economica e sociale, e la principale arma per combatterla – vaccini a parte – resta quella di ridurre al minimo i contatti tra le persone evitando il più possibile viaggi, contatti, spostamenti e assembramenti, il calcio europeo schiaccia il piede sull’acceleratore e aumenta tornei, trasferte, partite. Li raddoppia, addirittura. Senza che nessuno dica niente. Manco Aleksander Ceferin, presidente Uefa, e Andrea Agnelli, presidente ECA, fossero i geni della lampada capaci di sconfiggere, con uno schioccar di dita, la piaga del Covid.

Pazzi furiosi. Già prima del virus i calendari calcistici erano al collasso; per capirci, oggi in Serie A si fatica a trovare una data per recuperare Juventus-Napoli non giocata causa Covid il 4 ottobre scorso. Ebbene, non bastasse il fatto di aver partorito l’inutile e insulsa Nations League per nazionali, che intasa ulteriormente calendari già impraticabili, l’Uefa ha appena messo al mondo una terza coppa per club, la Conference League, che già a partire dalla stagione prossima metterà in pista 184 (!) nuovi club che andranno ad aggiungersi a quelli impegnati in Champions e in Europa League.

Ora, a parte l’orrore di una competizione che mette in lizza squadre mai sentite nominare (se nei preliminari dell’Europa League, quest’anno, si sono svolte partite come Tre Penne-Gjilani, Engordany-Zeta e Coleraine-La Fiorita, non osiamo immaginare cosa potrebbero riservarci i preliminari della neonata Conference League), la domanda è: in tempi di pandemia, che chissà quanto ancora ci affliggerà, era il caso di sguinzagliare in ogni più remoto angolo d’Europa eserciti di persone (calciatori, staff tecnici, staff medici, accompagnatori, arbitri, operatori dell’informazione) destinati inevitabilmente a infettare e a essere infettati rendendo ancor più grottesco, oltre che impraticabile, l’impegno cui sono stati chiamati: e cioè un torneo concepito al solo scopo di dare un contentino, e due soldi di mancia, a club diseredati per permettere ai riccastri del piano di sopra di ridisegnare la formula della Champions a proprio piacimento? Per chi non lo sapesse, la nuova Champions League, gallina dalle uova d’oro, passerà da una formula che prevede la disputa di 125 partite (96 nei gironi preliminari più 29 nella fase a eliminazione diretta; e non abbiamo conteggiato le 54 dei turni preliminari) a una di 225 partite, il che equivale a dire 100 in più, quasi il doppio. Il tutto per permettere ai Ricchi Epuloni di fare più soldi, tra incassi al botteghino (ammesso che il pubblico torni un giorno negli stadi) e diritti tv, portando le insipide partite della fase preliminare da 96 a 180, cui se ne aggiungeranno 16 di playoff per l’accesso agli ottavi di finale. Premesso che la Champions, oggi quasi perfetta, diventerà una barba infinita, ciò significa far girare in Europa il doppio di aerei, il doppio di comitive e di potenziali infettanti (e infettati) intasando ogni spazio dei calendari e rendendo impossibile, in caso di rinvii di match causa Covid, il reperimento di date utili a completare regolarmente i tornei. È il caso di dirlo: fermate il calcio, voglio scendere!

 

Renzi tesse l’alleanza a destra, e a sinistra manca Giuseppe Conte

 

BOCCIATI

La “casa viva” nella prateria. Se c’è una cosa che più di qualsiasi altra fa venire l’orticaria agli esponenti di Italia Viva, è l’idea di un’alleanza strutturale tra Pd, Leu e Cinque Stelle. Probabilmente l’idea di sabotare quest’unione è stata addirittura alla base della decisione di aprire una crisi di governo in piena pandemia. Non stupisce dunque che la presa d’atto di aver accelerato un processo in senso contrario possa quantomeno indispettire. E indispettito infatti suona il commento di Ettore Rosato al progetto di Pd, Leu e Cinque Stelle di creare un intergruppo parlamentare, che aiuti l’ex maggioranza giallorosa a rimanere compatta in un governo “multicolor”: “La scelta di andare verso una coalizione strutturale tra Pd, M5s e Leu, codificata anche nell’intergruppo parlamentare appena annunciato, apre una prateria per chi vuole costruire la casa dei riformisti. Italia Viva c’è e ci sarà. Per il riformismo, contro il populismo”. Cosa Rosato intenda per “populismo” rimane oscuro ai più, un po’ come resta incerto cosa intendano i renziani quando parlano di “prateria”, quella stessa prateria che avevano già annunciato di trovare fuori dal partito democratico. Molto chiara è invece la replica arrivata a Rosato da Alfredo D’Attorre, esponente di Liberi e Uguali: “Caro Ettore, non siamo andati sempre d’accordo, ma sei una persona sveglia. Visto pure che rimarrà in vigore il tuo Rosatellum, l’unica ‘prateria riformista’ che vi si apre davanti è trasformare il ‘capolavoro’ di riportare la Lega al governo in un’alleanza stabile con la destra”. Chissà che la fantomatica prateria non finisca davvero per essere quella.

VOTO 5

 

PROMOSSI

Mai più soli. Mentre diversi esponenti del Partito democratico sono ancora lì a lambiccarsi sul senso profondo della vocazione maggioritaria e trascorrono la vita a coniugare un periodo ipotetico dell’irrealtà, qualcun altro ha imparato dalle esperienze passate quali siano i passi falsi da non ripetere. Tra questi c’è Franco Mirabelli, vicepresidente vicario del Pd: “L’errore di confondere la vocazione maggioritaria con l’autoisolamento l’abbiamo già fatto e ci ha consegnato il risultato elettorale del 2018 e l’attuale posizione di quarta forza parlamentare. Francamente non ho nostalgia della splendida solitudine che fino all’agosto del 2019 ci aveva condannato all’irrilevanza e, in Parlamento, a ridurci ad agitare i cartelli nelle Aula. Oggi il Pd conta in questo Governo ed è stato importante per il Paese, per il suo ancoraggio in Europa, aver scelto di allearsi al governo con LeU e Cinquestelle. È giusto ripartire da qui, se vogliamo costruire un campo democratico che sia ancora più largo”. A tutti coloro che si domandano perché Giuseppe Conte sia così amato da molti esponenti di LeU e dei Democratici, più ancora di alcuni loro leader, la risposta sta proprio in queste parole del senatore Mirabelli: perché la fine dell’isolamento e la possibilità di tornare a incidere nell’agenda politica hanno assunto le sembianze dell’avvocato che ha presieduto la prima fase di questo percorso.

VOTO 7

 

Entra Palombelli esce Alan Friedman. Rai: di tutto, di più

 

PPROMOSSI

Scortato fuori. E La scomunica di Alan Friedman resiste. Dopo aver definito l’ex First Lady d’America Melania Trump, in diretta a Unomattina, “escort di Donald Tump”, il giornalista è stato bandito da Rai 1. Il direttore di rete Stefano Coletta, intervenuto in Commissione di Vigilanza Rai, ha ordinato di non invitare più il giornalista americano nelle trasmissioni della sua rete: “Chiunque abbia lavorato con me sa quanto io abbia lavorato come autore sulla figura femminile e sul tema della violenza alle donne. Sono stato curatore di ‘Amore Criminale’ e capo progetto di ‘Chi l’ha visto?’. Cronache di diverso spessore che non mi possono non aver portato immediatamente a stigmatizzare con grandissima determinazione davvero l’orrenda locuzione linguistica utilizzata da Alan Friedman. Ho chiesto ai miei vicedirettori e a tutti i dirigenti di non ospitarlo più, perché non si possono tollerare nel rapporto uomo-donna, nella quota rappresentativa delle diversità, falsi incidenti”. Parole sante!

Hakuna matata! Stefano Mazengo Loro è un calciatore nato in Italia ma con l’Africa nel cuore. I nonni materni, medici, si sono trasferiti in Kenya dopo il matrimonio. Lì è nata la sua mamma, medico anche lei, che ha conosciuto il padre di Stefano, lui pure medico, in Tanzania. Stefano ha vissuto in Italia, fino al 2006, poi è partito per l’Africa con la famiglia. Era una promessa del vivaio dell’Hellas Verona ed è diventato professionista a 26 anni proprio in Africa. Gioca centrocampista nel Kampala Capital City. È l’unico bianco: “Ogni volta che giochiamo fuori casa, i tifosi avversari mi insultano. La mia colpa è quella di essere bianco. Sui social ho subito attacchi di ogni tipo. All’inizio stavo malissimo, poi un po’ mi sono abituato. Comprendo perfettamente cosa possano provare, all’inverso, i calciatori di serie A”. Si è detto “razzismo al contrario”, ma il razzismo ha una sola direzione, quella “dell’ignoranza!”, come ha spiegato Stefano.

 

NON CLASSIFICATI

Annus horribilis. L’anno che è appena trascorso è stato un bagno di sangue per il mondo dello spettacolo. Le cifre Siae sono spaventose. Complessivamente gli eventi sono diminuiti del 69,29%, gli ingressi hanno segnato un calo del 72,90%, la spesa al botteghino è scesa del 77,58% mentre la spesa del pubblico ha avuto una riduzione dell’82,24% rispetto al 2019. La musica dal vivo ha registrato il crollo più consistente con una diminuzione dell’83,19 per cento degli ingressi e un calo al botteghino di quasi il 90%. Mai numeri sono desolanti anche per cinema e teatro. Il cinema ha chiuso l’anno con meno 70,86% e un calo della spesa al botteghino del 71,55% rispetto al teatro che registra un meno 70,86 e una riduzione di incassi del 78,45%. Speriamo che San Mario diventi velocemente il santo patrono dei lavoratori dello spettacolo. Per il loro futuro e anche per la nostra salute intellettuale.

Raiset. Amadeus ha annunciato il nome della coconduttrice che lo affiancherà nella serata di venerdì (prima ci saranno Naomi Campbell, Elodie e Matilda De Angelis). Di chi si tratta? Di Barbara Palombelli, storico volto Mediaset. Una scelta che ha fatto incazzare tutta la Rai. “Tra le professioniste dell’informazione del Servizio Pubblico, quest’anno, non ne abbiamo trovate altre ugualmente meritevoli. A questo punto mi aspetto la premiazione dei Telegatti su Rai1. Ovviamente in appalto totale”, ha scritto il consigliere d’amministrazione Rai eletto dai dipendenti, Riccardo Laganà. “Ennesimo atto di disprezzo nei confronti delle giornaliste della Rai”: parole di Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai. La consigliera Rita Borioni su Facebook: “Botteri, Sciarelli, Bortone, Giandotti non andavano bene? Evidentemente le giornaliste Rai non sono all’altezza”. Scusate un attimo: ma secondo voi perché Mediaset rinuncia alla controprogrammazione?

 

Legge sull’usura. La formula che fa comodo alle banche

All’Italia servono riforme, parola magica. Andrea Resti dell’Università Bocconi ne ha chieste recentemente due per la legge sull’usura bancaria. Peccato che si sia limitato a rilievi secondari. Riprendendo l’immagine evangelica, ha additato due pagliuzze, ignorando la presenza di due travi. Non rientra certo fra le storture più gravi della normativa il fatto che il tasso massimo d’interesse consentito sia uguale per un cattivo pagatore o per un debitore corretto. Né che la giurisprudenza non applichi sempre la stessa formula per valutare la sussistenza del reato. Che sono i punti toccati da Resti. Altri sarebbero quelli su cui intervenire, ma dirlo al popolino darebbe fastidio alle banche e le persone di mondo non sono così maleducate. Io invece sì. Innanzi tutto c’è il fatto che la formula per la soglia di usura non comprende fra le sue variabili il costo del denaro. Così nel terzo trimestre 2000 il tasso ufficiale di riferimento della banca centrale, il vecchio tasso di sconto, era il 4,5% e vent’anni dopo lo 0%. Le soglie di usura sono scese in misura analoga? Macché! Per i crediti personali e assimilati nel 2000 essa scattava sopra il 16,65%, vent’anni dopo sopra il 16,04%. Una limatura minima. Il calo dei tassi ha regalato maggiori margini di guadagno alle banche, senza comprimere gli oneri dei debitori. Ma c’è di peggio. Il sistema attuale permetterebbe di superare il 50% annuo per chi va in rosso sul conto, senza che tale tasso risulti usurario. L’ipotesi non è campata in aria. È infatti proprio ciò che capiterebbe (o capiterà…) se le altre banche imitassero (imiteranno…) Intesa-Sanpaolo, che è pur sempre il primo istituto di credito italiano. Essa fissa il tasso per chi va in rosso sul conto in funzione della soglia di usura in vigore. Così attualmente a un cliente senza fido addebita interessi del 20,73% annuo. Se lo imitassero le altre banche, la normativa alzerebbe in automatico la soglia di usura e, a cascata, i correntisti in rosso pagherebbero il 26,35%. Il giochetto si ripeterebbe e in meno di due d’anni saremmo appunto sopra il 50% annuo, ovviamente salvo interventi ad hoc. Tutto ciò fornisce un preoccupante insegnamento di validità generale. La legge alla base (n. 108 – 7 marzo 1996) è del governo Dini. Il che fa capire cosa può capitare quando il presidente del consiglio dei ministri ha un passato in Banca d’Italia.

 

Il cuore di Staino, “Storia sentimentale del P.C.I.”: la biografia dell’Italia (con le lagne del Segretario)

Sergio Staino, celebre e amato autore di “Bobo”, di rivoluzionari arruffati, di donne che fanno sempre la domanda giusta, di bambini che capiscono un po’ prima dei grandi, può essere considerato il Geppetto (del resto Staino è toscano) del comunismo italiano. Mi riferisco alla parte della storia in cui Geppetto vive, bene organizzato e orientato, con sedia e tavolo, nel ventre della balena. E da quel suo posto di osservazione vede e racconta (disegna) liberamente, come se il grande pesce non potesse chiudere le ganasce (lo fa) in qualunque momento.

Questo (e molto di più, perché ha avuto una vita artisticamente e politicamente avventurosa) racconta Sergio Staino (Bobo per tutti) nel suo libro Storia sentimentale del Pci (ed. Piemme) con bandiera rossa in copertina, dove il rosso diventa tanti cuori. Eppure non è un catalogo sentimentale, ma l’inventario di momenti storici e vicende politiche di chi oggi, con qualche anno sulle spalle, ci ripensa.

Tutti sanno quanto l’autore abbia convissuto con il Partito comunista italiano, con quel tipo di rapporto in cui i partners si definiscono reciprocamente compagni (il mio compagno, la mia compagna) e stanno insieme un po’ più, un po’ meno, ma sempre. Come compagni di vita, Bobo e il suo partito si sono amati sempre, hanno litigato sempre, e sono sempre ritornati insieme. Il libro offre un curioso misuratore. Pagine e frasi e parole e aggettivi si fanno più caldi (o roventi) solo quando l’autore parla di Pci; di persone, leader, figure leggendarie e marginali, ma sempre del Pci. E diventano più saggistiche se non toccano il Pci: allora Staino rovescia il suo binocolo, vede e ricorda alla distanza e nella limitazione delle lenti.

Ma quello che conta, in Italia, nei ben narrati viaggi nel mondo, nei corridoi dell’Unità (che lui ha illustrato fino a diventarne l’editorialista, eretico e amato) e sulle scale di Botteghe oscure, in entrata e in uscita dalla mitica “direzione”; quello che conta è la militanza comunista, o la distanza da quel punto caldo. Con una tenacia simile al rapporto del religioso con Dio, Staino-Bobo valuta 100 la partecipazione al partito e al comunismo (umanissimo, del suo tipo) che lui racconta. E considera fuori graduatoria tutti gli altri, bravi o no. Perché c’è una vita sola, ed è meglio viverla col partito. Naturalmente sia Staino che Bobo sanno che non è rimasto niente di ciò che amano (attenzione: ho usato al presente un verbo che si riferisce al passato; la fede, la loro fede, neanche ora è in discussione).

Ed ecco che abbiamo travestita da biografia di popolare e amatissimo illustratore (che ha fatto anche fior di mostre) una specialissima storia d’Italia in cui il segretario del potente e leggendario Pci, che teneva il mondo sul chi vive, si lamenta con Bobo-Staino per certe caricature non adatte a un simbolo autorevole. Il sottotitolo del libro di Staino è “anche i comunisti avevano un cuore”. Ma si riferisce al cuore di Staino trapiantato in Bobo.

 

Peppino l’arrotino: “Si affilano forbici e coltelli”. Donne, accorrete, potrebbe non tornare più!

“Donne è arrivato l’arrotino”, vi ricordate questo richiamo? A ogni stagione, bastava non piovesse, lui era lì, sotto casa, in chissà quale tappa del tour del quartiere.

Si chiamava Peppino, Peppino l’arrotino, un nome che suonava bene. Mi sono sempre domandata perché si rivolgesse solo alle donne e non agli uomini. Perché gli uomini non hanno bisogno di coltelli affilati? Mio padre, per esempio, è ossessionato dai coltelli, cucina benissimo. Forse a Peppino gli uomini non piacevano, e quindi, li escludeva a priori dalla sua potenziale clientela. Il motivo non lo sapremo mai.

La gente gli voleva bene e gli portava coltelli e lame di ogni tipo. Se c’era qualcosa di rotto, lui era sempre in grado di aggiustarlo. “Le cose sono come le persone, hanno un’anima!”. Da bambina mi piaceva guardarlo, sembrava un Don Chisciotte sul cavallo, e quando rifaceva una lama, aveva un aspetto solenne, come se celebrasse un rito sacro. Pedalava e affilava, e quando la lama toccava la pietra, le scintille sembravano le girandole di capodanno.

Poi un giorno, all’improvviso, Peppino non venne più. Qualcuno disse che aveva cambiato quartiere, altri che aveva cambiato mestiere. Strano, uno che nasce arrotino, rimane arrotino tutta la vita. Forse, per qualche misterioso motivo, gli avevano tolto la licenza, sostituendolo con una macchina e una voce registrata. Tutta un’altra cosa. La voce di Peppino era antica ed essenziale come il canto del gallo. Ti diceva che s’era fatto giorno e che lui era arrivato.

La voce registrata dell’altoparlante invece è diversa: “L’arrotino. L’arrotino e l’ombrellaio. Si arrotano coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta. Se la tua cucina fa fumo, noi togliamo il fumo dalla vostra cucina a gas”. Una voce fredda, disumana. Non è un richiamo, è una pubblicità. Peppino forever!

Ungheria, patto con Pechino. Stop all’Ateneo di Soros, Orbán punta su quello del Dragone

È nel sud di Pest, sulla riva sinistra del Danubio, nei pressi dell’isola di Csepel, che il governo ungherese costruirà la “città universitaria di Budapest”. È qui che, entro il 2024, aprirà anche una sede distaccata dell’università cinese d’élite Fudan, di Shangai. Nell’ottobre 2019, il premier Viktor Orbán aveva incontrato il presidente della Fudan e, il 16 dicembre, era stato firmato un memorandum con il Ministero ungherese per l’Innovazione e la Tecnologia. L’Ungheria investirà nel progetto 821 milioni di fiorini (2,3 milioni di euro). Un progetto faraonico per il paese, che conta dieci milioni di abitanti. La Fudan University formerà tra 5.000 e 6.000 studenti in quattro corsi di laurea, economia, relazioni internazionali, medicina e ingegneria, per un totale di più di 20.000 studenti.

Da parte sua, la Central european university, fondata dal miliardario George Soros, regolarmente nel mirino del governo ungherese, aveva deciso nel 2019 di spostare la maggior parte delle sue attività a Vienna, nella vicina Austria. A parte una business school aperta da Pechino a Oxford, nel 2019, la Fudan University sarà il primo ateneo cinese in Europa. E non sorprende che aprirà proprio in Ungheria: le relazioni tra Budapest e Pechino sono eccellenti. “L’apertura del campus potrebbe promuovere gli investimenti cinesi in Ungheria e la creazione di centri di ricerca e di sviluppo per le aziende cinesi”, ha affermato il ministro ungherese dell’Innovazione e della tecnologia, László Palkovics. Il prestigio di cui gode Pechino agli occhi della destra nazionalista al potere è aumentato con la crisi sanitaria del Covid-19 e le consegne di materiale medico a volontà nella primavera del 2020. Viktor Orbán lo ha fatto sapere sin dal 29 gennaio scorso, in un intervento alla radio pubblica: da parte sua, si farà somministrare solo il vaccino cinese. “È quello di cui mi fido di più”, aveva spiegato. Lo stesso giorno, il suo ministro degli Esteri, Péter Szijjártó, ha annunciato la firma di un contratto con la cinese Sinopharm per la consegna di cinque milioni di dosi, sufficienti per vaccinare un quarto della popolazione ungherese. Si aggiungeranno due milioni di dosi già ordinate del vaccino russo Sputnik V, le cui consegne sono già iniziate e si prolungheranno fino alla fine di aprile. L’Ungheria che, con circa 13 mila morti di Covid, registra un tasso di mortalità superiore a quello della Francia (1.300 morti per 1.200 abitanti, secondo l’istituto Johns-Hopkins), non ha aspettato la Commissione europea, che voleva armonizzare le strategia vaccinale degli stati membri. Dal suo ritorno al potere nel 2010, il partito di Orbán, Fidesz, ha fatto dell’“apertura all’est” il nuovo pilastro della politica estera ungherese, con l’obiettivo di sviluppare gli scambi in particolare con l’Asia centrale e orientale, riducendo così la sua dipendenza dagli altri paesi europei. “Navighiamo con padiglione occidentale, ma il vento soffia a est”, ha detto Orbán. Noto in Europa per le sue uscite nazionaliste, il leader ungherese cambia volto quando si tratta di relazioni internazionali. Quando è al fianco di al-Sisi, al Cairo, prende le distanze da un Occidente che sa solo dare lezioni, mentre “l’Ungheria – sottolinea – non ha un passato coloniale”. In Egitto si mostra lieto anche di incontrare l’imam della moschea Al-Azhar, un alto rappresentante religioso perché, dirà poi al suo rientro in Ungheria, “l’Islam è una grande civiltà e il mondo musulmano non può essere assimilato ai migranti”. Quando è in Cina esalta le radici asiatiche dell’Ungheria che, dice, tutti ci invidiano adesso, dopo essere state a lungo derise in Europa.

Per nutrire le sue relazioni con l’Asia centrale, Orbán ha fatto aderire l’Ungheria al Consiglio turco degli stati turcofoni avanzando la dubbia origine turco-mongola degli ungheresi, “discendenti dei figli di Attila”, una delle tesi privilegiate dall’estrema destra antisemita per prendere le distanze dall’Occidente. “È ormai chiaro che il vecchio ordine mondiale, il cui dogma era che il denaro e la conoscenza provenissero dal ricco e potente Occidente per riversarsi verso i paesi poveri dell’Est, è crollato”, ha dichiarato al vertice del Consiglio turco, in Kirghizistan, nel settembre 2018. Naturalmente è la Cina che solleva le passioni di Orbán. Il governo ungherese aderisce pienamente al progetto geo-strategico delle “nuove vie della seta”, che potrebbe aprire nuovi sbocchi commerciali con il continente africano ed europeo. È membro entusiasta del format “17 + 1”, la piattaforma di cooperazione tra la Cina e i paesi dell’Europa centrale e orientale, che sperano di passare da una posizione periferica all’interno del mondo transatlantico a una posizione centrale nel mondo eurasiatico. “Non abbiamo mai vissuto il ruolo di leadership della Cina nel nuovo ordine mondiale come una minaccia, ma come un’opportunità”, ha detto il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, nel summit del novembre 2017 a Budapest. L’ultimo si è tenuto il 9 febbraio in videoconferenza. Nell’ambito di questa strategia, la linea ferroviaria Budapest-Belgrado, capitale della Serbia, a 400 chilometri di distanza, sarà rinnovata per diventare una linea ad alta velocità, la prima in Ungheria. Un consorzio sino-ungherese sta realizzando i lavori, finanziati all’85% (2,5 miliardi di euro) dallo stato cinese sulla tratta ungherese. La Cina se ne servirà per trasportare le sue merci che entrano in Europa via il porto greco del Pireo. “L’Ungheria offrirà la via di trasporto più veloce per le merci cinesi tra il sud-est e l’ovest dell’Europa”, ha detto Péter Szijjártó, entusiasta. Tuttavia, non bisogna sopravvalutare troppo questa nuova influenza cinese sull’Ungheria. Stando al governo ungherese, che vuole dimostrare che la sua diplomazia, molto criticata dai partiti di opposizione, funziona, il valore degli investimenti diretti dalla Cina nel paese ammonta a cinque miliardi di euro. Ma il mondo universitario è scettico. Se si escludono le acquisizioni di società straniere da parte della Cina in Ungheria, gli investimenti cinesi risultano meno di due miliardi di euro. “Se c’è una reale volontà politica da parte dell’Ungheria e della Cina, la cooperazione tra i due paesi si scontrerà con i limiti dell’economia ungherese. L’Ungheria ha poco da offrire alla Cina”, ha spiegato Pawel Paszak, esperto di Cina, in un podcast realizzato per il think tank polacco Warsaw Institute. Più in generale, la politica estera di Fidesz di “apertura ad est” tarda a dare i suoi frutti: più dei tre quarti degli scambi commerciali del paese sono ancora realizzati con il il resto dell’Unione europea, parte che non è diminuita nell’ultimo decennio.

La luna di miele tra Pechino e Budapest non piace agli Stati Uniti. Durante il suo viaggio in Europa, nel febbraio 2019, l’allora segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, secondo quanto scritto dal Foreign Policy, lo aveva detto chiaramente: “Gli Stati Uniti sono stati assenti dall’Europa centrale troppo spesso negli ultimi tempi. I nostri rivali hanno riempito questo vuoto”. Durante una conferenza stampa Pompeo aveva aggiunto: “Ho fatto notare al mio partner ungherese che Russia e Cina non sono paesi amici della libertà delle piccole nazioni e cosa si rischia a permettere alla Cina di stabilire una testa di ponte strategica in Ungheria”. Péter Szijjártó non si era lasciato impressionare: “Non permetteremo a nessuno, che sia l’Unione europea o chiunque altro, di interferire nella nostra politica estera”. Si annunciano pessime le relazioni con l’amministrazione di Joe Biden, che i media pubblici ungheresi, sotto l’influenza del governo, ritengono responsabile delle rivolte del 6 gennaio a Capitol Hill. Le origini ungheresi del nuovo capo della diplomazia statunitense, Antony Blinken, non saranno d’aiuto. Budapest intende tenere testa a Washington sulla questione cruciale dello sviluppo della rete 5G, scommettendo su Huawei. Il gigante cinese delle telecomunicazioni possiede il più grande centro di approvvigionamento fuori dalla Cina vicino a Budapest e lo scorso autunno vi ha aperto un centro di ricerca e sviluppo.

(Traduzione di Luana De Micco)

È allarme nell’enclave di Idlib, assediata da guerra e virus

L’epidemia di Covid-19 sta “andando fuori controllo” in Siria mentre gli ospedali nel nord-ovest del paese esauriscono rapidamente l’ossigeno e i letti per i pazienti definiti critici.

Dall’inizio della pandemia, la Siria ha registrato almeno 40.000 casi di coronavirus, con più della metà dei malati che sono statio segnalati nel nord-ovest del Paese, l’ultima grande roccaforte dell’opposizione armata al governo. La pandemia si è ulteriormente aggravata a Idlib, con ospedali e strutture mediche già limitate, danneggiate o distrutte dai bombardamenti del governo siriano. A Idlib si sono trincerati anche i gruppi di estremisti islamici affiliati ad Al Qaeda.

Amjad Yamin, del team di Save the Children Syria Response, sostiene che i campi sovraffollati e la mancanza di accesso all’acqua abbiano permesso al virus di diffondersi più rapidamente nel nord-ovest della Siria rispetto ad altre parti del paese. “Il motivo per cui i numeri stanno aumentando è perché non c’è modo di contenerlo nel nord-ovest della Siria”, ha spiegato Yamin in un appello via social network. “Quando vivi dieci anni di guerra, le persone sono più preoccupate per i combattimenti in corso che per il virus, la priorità è sopravvivere al conflitto armato, trovare di che sfamarsi”. La Siria nordoccidentale ospita almeno quattro milioni di persone che sono fuggite dai bombardamenti governativi in altre parti del Paese, decine di migliaia vivono in rifugi improvvisati con scarso accesso all’acqua o alle strutture mediche. Idlib ha registrato il suo primo caso di coronavirus nel luglio 2020 arrivato da un medico di un ospedale vicino al confine turco.

Il dilagare della pandemia nella regione e nei campi profughi pone anche il problema della rapida vaccinazione per gli operatori umanitari, per gli operatori delle Ong impegnate sul terreno, i volontari della Croce Rossa, gli osservatori dell’Onu, che presto potrebbero verificare di non potersi muovere rapidamente su un territorio già difficile a causa di un conflitto che non è mai finito.

 

Draghi, un uomo “concreto”? Non dice nulla e piace a tutti

La cortina fumogena dei turiboli agitati da (quasi) tutte le forze politiche e le testate rende difficile prendere il discorso al Senato di Mario Draghi per quello che realmente è: un testo ordinario, non sorretto da una particolare visione e irto invece di luoghi comuni del nostro tempo, e di travestimenti retorici atti a piacere a tutti, cosa possibile solo dicendo il meno possibile. Il pianeta come la moneta, le persone come capitale umano, l’istituto tecnico come avviamento professionale delle classi subalterne, i migranti economici da rimpatriare: il vocabolario è quello liberista corrente (come dimostra il plagio con cui Draghi ha inglobato nel suo discorso intere parti di un articolo dell’ultraliberista Giavazzi).

Un discorso che, quando tocca le materie dell’articolo 9, mostra il disallineamento con il progetto della Costituzione. Mai menzionata nel discorso, quest’ultima è stata invece citata nella (raccogliticcia) replica serale al Senato: per dire che Draghi faceva sua la proposta di Conte di inserire in Costituzione “un punto sull’ambiente e sul concetto di sviluppo sostenibile”. Non tornerò sulla pericolosa ipocrisia del concetto di “sviluppo sostenibile”, ma non si può non sottolineare che l’ambiente in Costituzione c’è già. La costante giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito che il “paesaggio” dell’articolo 9 è l’ambiente, la biosfera. E nell’articolo 117 riformato nel 2001 si cita esplicitamente la “tutela dell’ambiente”. Allora, perché perdere tempo con cose pleonastiche? In genere, quando i governi propongono di cambiare la Costituzione (cosa che non spetterebbe loro) è perché sanno che non la attueranno.

E sulla cultura? Molta facile retorica: “Sulla cultura stamattina ho detto che l’Italia è una grande potenza culturale riconosciuta in tutto il mondo”. Difficile dissentire: non vuole dire nulla. Più incoraggiante il passaggio (sempre della replica, significativamente) in cui Draghi dice che “soprattutto occorre rinforzare le tutele dei lavoratori (dello spettacolo, ndr) e va colta l’opportunità del Next generation per potenziare gli investimenti sul patrimonio culturale”. Bene, ma nulla della concretezza che ci si aspetta dall’uomo dei numeri: quanto, quando, come? Vedremo.

Più inquietante la continua associazione (sia nel discorso sia nella replica) dei concetti di cultura e identità: parola, quest’ultima, carissima alle destre neofasciste, e impronunciabile senza specificare cosa si intende. Ma c’è un punto in particolare, nelle dichiarazioni programmatiche mattutine, che squarcia il velo su cosa davvero l’ex banchiere pensi della tutela di ambiente e patrimonio culturale: “Come ha detto Papa Francesco: ‘Le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento. E io penso che se chiedessi al Signore che cosa pensa, non credo mi direbbe che è una cosa buona: siamo stati noi a rovinare l’opera del Signore’. Proteggere il futuro dell’ambiente, conciliandolo con il progresso e il benessere sociale, richiede un approccio nuovo: digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori, biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra, sono diverse facce di una sfida poliedrica che vede al centro l’ecosistema in cui si svilupperanno tutte le azioni umane. Anche nel nostro Paese alcuni modelli di crescita dovranno cambiare. Ad esempio, il modello di turismo, (…) che avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, cioè almeno non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni che successive generazioni attraverso molti secoli hanno saputo preservare e ci hanno tramandato”. Dunque, prima si cita il papa: ma in uno dei suoi rari “discorsi da prete”, non nei densissimi testi profetici delle encicliche. Poi si dice che l’ambiente va conciliato col “progresso” (leggi: crescita), con un elenco di cose diversissime, senza esplicitare la direzione politica o di scelta (non si lancia, ad esempio, la Grande Opera di messa in sicurezza del territorio che aspettiamo da decenni; né ci si pronuncia sulle grandi opere cementizie). Invece, si fa l’esempio del turismo, forse per non parlare di produzione industriale e modello energetico, ben altrimenti impattanti sul pianeta, e assai più imbarazzanti da affrontare. E sul turismo che si dice? Non cose chiare (tipo: “basta grandi navi in Laguna”), ma solo che se il turismo “sciupa” (scelta semantica tra il salottiero e il romantico) le città, non avremo più turismo: cioè la tutela del patrimonio culturale al servizio della valorizzazione economica, in quella micidiale inversione di senso e priorità che è il problema, in tutti i campi, non la soluzione.

Niente di sconvolgente, intendiamoci: sono i discorsi che sentiamo da decenni, di governo in governo. Non è stato certo un discorso da squalo. Semmai, è stato il discorso vegano di un lupo. Gli Agnelli possono stare tranquilli: ma solo quelli con la maiuscola.