Oggi primo decreto Draghi. Vietato spostarsi fino al 25

Cercare nuove forniture di vaccini sul mercato, evitare decisioni dell’ultimo momento, coinvolgere nella Cabina di regia anche il ministero dello Sviluppo economico per velocizzare e coordinare l’erogazione dei ristori alle categorie produttive colpite di volta in volta (ma alla fine sono sempre le stesse) dalle restrizioni. Sono alcune delle richieste consegnate ieri dalla Conferenza delle Regioni alla delegazione del nuovo governo (nuova per metà, dal momento che accanto alla new entry Maria Stella Gelmini, ministra per le Autonomie regionali, siede ancora il ministro della Salute Roberto Speranza, già in carica nel Conte 2). Gelmini e Speranza hanno convocato ieri sera in videoconferenza i governatori per discutere del nuovo decreto legge contenente “ulteriori disposizioni urgenti in materia di contenimento dell’emergenza Covid” che sarà discusso in Consiglio dei ministri oggi e che precede il nuovo Dpcm (il primo dell’era Draghi) che sostituirà quello in scadenza il 5 marzo. Solo allora si potrà valutare se davvero il nuovo corso Draghi segnerà un “cambio di passo” o se l’azione del nuovo esecutivo sarà in sostanziale continuità con la gestione Conte.

Al momento non si scorgono grosse novità. L’unico provvedimento concreto dovrebbe essere la proroga del divieto di spostamento tra regioni (anche gialle, salvo le consuete eccezioni per motivi di lavoro, salute e necessità) fino al 25 marzo o anche fino al 5 aprile, giorno di Pasquetta. Si prospettano poi maggiori restrizioni per le zone rosse locali nei comuni focolaio e zone limitrofe. Detto della richiesta del coinvolgimento del Mise in Cabina di regia, circola anche l’ipotesi che il monitoraggio settimanale, da un anno reso noto il venerdì, sia spostato a inizio settimana, per evitare complicate sovrapposizioni con i weekend.

Le Regioni, si legge nel documento consegnato al governo, chiedono “una revisione dei parametri e la revisione del sistema delle zone, nel senso della semplificazione, che passi funzionalmente anche da una revisione dei protocolli per la regolazione delle riaperture e un cambio di passo che consenta di coniugare le misure di sicurezza sanitaria con la ripresa economica e delle attività culturali e sociali”. Insomma, con una prosa un po’ involuta, pare evidente che il sistema dei tre colori visto fino ad oggi non piaccia ai presidenti di Regione, che peraltro a suo tempo lo concordarono col governo Conte. La palla – ed è una palla pesantissima – passa adesso al governo Draghi, che dovrà fare i conti anche con l’azionista di peso Matteo Salvini, che ieri – in un’intervista ad Affaritaliani.it – ha chiesto il licenziamento del commissario all’emergenza Domenico Arcuri (“ha fallito”, dice il leghista) e lo stop “agli annunci che seminano paura”.

Tuttavia – ci perdonerà Salvini – la situazione non è rosea. Uno studio del Cnr conferma l’aggressività delle varianti Covid: “Nelle Regioni dove si è registrato un rapido aumento dei casi come Abruzzo, Marche, Toscana e Umbria, oltre che nelle Province autonome di Trento e Bolzano – spiega il fisico Corrado Spinella, direttore del Dipartimento di Scienze fisiche e tecnologie della materia del Cnr – le varianti di Sars-Cov-2 sarebbero, secondo le simulazioni sull’andamento dei ricoverati, già tra il 40 e il 50% del totale dei positivi. In Abruzzo, se non dovessero esserci misure contenitive, i casi della variante potrebbero raggiungere la quota del 90% nel giro di un mese. E in tutte le altre Regioni che si trovano già ad avere il virus variato almeno al 50%, la variante a maggiore contagiosità sostituirà pressoché totalmente la versione ‘standard’ nell’arco di un mese e mezzo, dunque a fine marzo”.

I contagi intanto – come ormai da diverse settimane – rimangono stabili: ieri 13.452 nuovi casi a fronte di 250.986 tamponi effettuati, per un tasso di positività (in salita) del 5,3% (13,9% se rapportato al numero effettivo di soggetti testati). Ancora molti i decessi, 232, ma comunque in discesa rispetto alle medie delle scorse settimane. Torna però a salire la pressione sul sistema sanitario (e potrebbe essere un primo effetto della prevalenza delle varianti: i posti letto occupati nei reparti Covid ordinari sono aumentati ieri di 79 unità, per un totale di 17.804 ricoverati. I malati gravi in terapia intensiva di 31, portando il totale dei malati più gravi a 2.094.

“Non tracciato il paziente 0 di Whuan”

Andava fatto un tracciamento più ampio dei contatti del paziente zero, nonché della catena di forniture del mercato di Wuhan. Sarà il caso di farlo. Sono queste le raccomandazioni a cui i 17 inviati dell’Organizzazione mondiale della Sanità in Cina daranno priorità nel rapporto che presenteranno la settimana prossima alla fine della missione nel ground zero del Covid-19, le cui direttive principali ha anticipato la Cnn. A detta dell’Oms, del paziente zero, un impiegato quarantenne risultato positivo l’8 dicembre 2019, non si sarebbero approfonditi né i contatti precedenti, né successivi. L’uomo, la cui identità non è stata rivelata, interrogato dagli inviati avrebbe ripetuto ciò che, secondo le autorità, aveva già dichiarato allora e cioè di non aver fatto viaggi esotici, ma di aver vissuto con moglie e figlio a Wuhan. Unico contatto sospetto: quello con i genitori, frequentatori abituali di un mercato di animali vivi, non quello “incriminato” di Wuhan, ma quello del pesce di Huanan. Eppure quest’ultima informazione pare non abbia indotto il team di scienziati cinesi che da lì iniziò a studiare il virus sconosciuto ad approfondire quel filone di indagine. Mancanza definita “sorprendente” oltreché “non plausibile” dall’Oms, visto l’alto livello degli scienziati cinesi, “in un Paese che ha investito negli ultimi 20 anni in tecnologia sofisticata per tracciare le vie di trasmissione dei virus”, come ha spiegato alla Cnn l’epidemiologa della Columbia University, Maureen Miller. Tornando al rapporto, le autorità cinesi hanno assicurato che l’intera famiglia del paziente 0 fosse risultata negativa al Sars-Covid, motivo per cui avrebbero chiuso lì l’indagine sulla catena di trasmissione. Quanto al mercato, l’Oms raccomanda alla Cina un’inchiesta immediata sulla catena di approvvigionamento di Huanan, partendo dalle fattorie delle province meridionali di Yunnan, Guangxi e Guangdong che rifornivano di fauna selvatica entrambi i mercati, “per scoprire se lì ci siano stati focolai prima di Wuhan”. “Nessuno ha testato gli animali”, ha detto Peter Daszak, membro del team dell’Oms. “Le fattorie sono state chiuse”.

La sai l’ultima

 

Salerno Il marito torna a casa, l’amante si lancia dal balcone e finisce all’ospedale
San Valentino promiscuo e indimenticabile in provincia di Salerno. In assenza del marito, la moglie aveva invitato in casa l’amante per celebrare come si deve la festa degli innamorati. Il consorte però è rientrato tra le mura domestiche senza preavviso. E non era nemmeno solo: per farle una sorpresa si era fatto accompagnare dal padre e dal fratello di lei con relativa fidanzata. Una grande festa familiare. L’unico non invitato era l’amante, che in un gesto estremo di codardia e disperazione ha tentato di salvare il salvabile lanciandosi dalla finestra della camera da letto. L’appartamento era al secondo piano: non poteva finire bene. “Per fortuna – scrive il Mattino – grazie anche a delle sterpaglie, ha riportato solo lievi traumi alla spalla e alle gambe. Ma non ha potuto fare a meno di chiamare i soccorsi. Sul posto sono arrivati i sanitari del 118 e i carabinieri”. Ulteriore beffa: l’amante – che ovviamente è stato scoperto da tutto il paese – è pure un poliziotto.

 

Parma L’erba di Sartor: l’ex terzino finisce ai domiciliari, stava coltivando 106 piante di marijuana in un casolare
Dall’erba di Coverciano a quella che si fuma, il passo è dolorosamente breve per Luigi Sartor, ex terzino (così così) della serie A con due presenze nella nazionale italiana, oggi coltivatore (straordinario) di marijuana. La guardia di finanza ha trovato un esercito di piantine verdi in un casolare abbandonato a Lesignano Palmia, in provincia di Parma. Centosei (106) pianticelle che avrebbero fruttato oltre due chili di fumo. Sartor e il suo socio in affari non sono stati accorti: l’odore di erba pare fosse così forte che si sentiva dalla strada. E lo stesso odore gli inquirenti lo avevano avvertito pure nella macchina dell’ex calciatore, durante un controllo stradale ad hoc. L’ex difensore di Inter, Roma e Parma è finito agli arresti domiciliari, il suo pollice verde non è stato apprezzato. Non è la prima volta che Sartor fa la conoscenza della giustizia italiana: nel 2011 era stato coinvolto nell’inchiesta sul calcioscommesse. Era stato anche in carcere, prima che il reato fosse dichiarato prescritto.

 

Alaska Incubo sul gabinetto: donna aggredita da un orso mentre è in bagno. Se la cava con solo qualche graffio
Ci sono poche cose che possono andare storte quando si è in bagno, meritatamente in pace sul proprio gabinetto, la peggiore delle quali è accorgersi di aver finito la carta igienica. A una turista in Alaska è andata un po’ peggio di così: è stata aggredita da un orso. Ce lo racconta il mitico sito La Zampa (spin off animalesco della Stampa): “Una donna in Alaska è stata ferita da un orso mentre si trovava in un bagno fuori dalla sua iurta a Chilkat Lake, dove stava trascorrendo il weekend. Il fratello della donna l’ha sentita urlare ed è corso fuori ad aiutarla. Quando è arrivato ha visto la testa dell’orso spuntare da dietro la toilette”. Un vero incubo. “‘Mi sono seduta e ho subito sentito qualcosa mordermi’, ha raccontato all’Associated Press la donna che, fortunatamente, ha solo riportato una ferita leggera probabilmente causata dal morso o dal graffio dell’animale. Lei e il fratello sono scappati dentro la tenda e hanno aspettato che facesse giorno”.

 

Lucca Un paese ostaggio delle gazze: i cittadini di Maggiano escono di casa con l’ombrello per difendersi dagli uccelli
In provincia di Lucca c’è un paese ostaggio delle gazze. A Maggiano i simpatici uccellini, furibondi e violenti come in una visione hitchcockiana, hanno preso l’abitudine di aggredire in massa chiunque abbia la sconsiderata idea di provare a uscire di casa. Succede in via Marzanese, una strada con sei villini monofamiliari. Per questi fortunati cittadini è come un prolungamento naturale del lockdown. I coraggiosi che osano tentare la fortuna, devono armarsi di ombrello anche nelle giornate di sole, per provare a ripararsi dagli assalti dal cielo. La straziante testimonianza arriva dalle colonne del sito locale Lucca in diretta: “Da due settimane, anche solo andare sul balcone può essere un’esperienza da dimenticare. Appena i volatili si rendono conto che c’è qualcuno fuori, volteggiano sulla sua testa e col grande becco nero si avventano sulla testa e sul collo. In cerca di cibo, forse, ma con metodi decisamente poco urbani”. Solidarietà.

 

California Tra poco prenderemo l’aereo per andare in aeroporto: a Palo Alto si producono i “taxi volanti”
Finalmente il futuro: negli Stati Uniti ci si attrezza per la mobilità urbana aerea. Potremmo chiamarli “taxi volanti”: aeromobili elettrici di dimensioni contenute, adatti al decollo (e all’atterraggio) verticale. Insomma, piccoli velivoli pensati per il trasporto cittadino. La compagnia aerea United Airlines ci sta investendo seriamente: ha firmato la parnership con la start-up Archer, che ha raccolto oltre un miliardo di finanziamenti per realizzare i primi modelli. Dovrebbero vedere la luce già nel 2024. La notizia è sul sito dell’emittente Cnbc: “Archer, una compagnia con sede a Palo Alto, in California, è pronta a svelare il primo modello di velivolo elettrico già nei prossimi mesi. La compagnia sta anche iniziando a produrre le batterie che alimentano questi aeromobili. Archer fa sapere che i velivoli potranno portare fino a 4 persone e muoversi a una velocità tra le 60 e le 150 miglia orarie”. Finalmente possiamo vedere il futuro: un meraviglioso ingorgo, migliaia di clacson strombazzanti, striduli come gabbiani, nel cielo di Roma.

 

Ucraina Confessa un omicidio immaginario per far venire la polizia a spazzare la neve dal vialetto di casa
Come fare se lo Stato non risponde? Se l’amministrazione pubblica ti lascia da solo? Se abiti in un villaggio ucraino, la neve e il ghiaccio hanno bloccato l’ingresso di casa e malgrado i ripetuti solleciti nessuno è venuto a spalare il vialetto? Un fantasioso abitante dello sperduto villaggio di Grybova Rudnya (a nord di Kiev) ha deciso di confessare un omicidio inesistente. L’ha fatto solo per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine e far venire qualcuno a liberarlo dalla neve. Come racconta il New York Post, sabato scorso il simpaticone ha telefonato alla polizia dicendo di aver accoltellato la madre del suo fidanzato e si è raccomandato con gli agenti di presentarsi con uno spazzaneve, altrimenti sarebbe stato impossibile raggiungere casa sua, dove si era consumato l’omicidio. Per sua sfortuna però i poliziotti sono riusciti ad arrivare sul luogo del delitto immaginario con un semplice Suv, non hanno spazzato un bel niente e hanno multato il furbone per falso allarme.

 

Grandi quesiti “Cosa fare se i gabbiani si accoppiano sul tuo terrazzo?” Ci aiuta il decalogo della Lega Uccelli
La domanda, pregnante, è il titolo di un articolo su Repubblica Roma: “Cosa fare se i gabbiani si accoppiano sul tuo terrazzo?”. Il tema scuote i balconi della Capitale. Con l’arrivo del periodo di accoppiamento degli uccelli – spiega il quotidiano – si rischiano “due mesi di stress per noi e per gli animali, ognuno convinto di essere a casa sua”. È difficile pensare che questi grossi volatili cittadini, sempre più incazzosi, abbiano diritto di considerare casa propria i nostri terrazzi, pagati con i nostri mutui. Ma serve uno sforzo di identificazione, e pure di civiltà. “Il problema principale è che una volta stabiliti sulla nostra proprietà ne prendono il possesso e arrivano ad essere molto aggressivi precludendoci la possibilità, nel momento della schiusa delle uova, di stendere i panni o mangiare all’’aria aperta”. Sono volatili amari, come si dice. Cosa fare? Ci viene in aiuto la Lipu (Lega per la protezione uccelli): “Sarà sufficiente uscire e spaventarli, in maniera incruenta, per più giorni fino a che non si saranno allontanati”. Basta poco, che ce vo’?

Energia, il trattato Ect ingabbia gli Stati: guai a fermare i progetti

C’ è un nemico invisibile nelle politiche climatiche che si aggira nelle segrete stanze del Consiglio a Bruxelles e che sarà presente come una spada di Damocle nelle riunioni dei ministeri per il Recovery plan: il Trattato sulla Carta dell’energia. Retaggio dell’epoca post sovietica, l’Energy charter treaty (Ect) è entrato in vigore nel 1998 per permettere l’espansione delle imprese dell’energia nell’Est Europa. Prevede che in caso di conflitto commerciale, un investitore straniero possa fare ricorso a un arbitrato privato internazionale, così da non dover sottostare ai giudici, forse non sempre imparziali, dei Paesi dell’ex blocco comunista. Ma dopo l’ingresso nell’Ue dei Paesi dell’Est, ci si chiede che senso abbia tenere in piedi un trattato obsoleto, che non distingue tra energie fossili inquinanti e energie pulite e che, oltre a compensare le perdite di un’eventuale cambio di politica nazionale, può risarcire gli investitori stranieri anche per i mancati guadagni futuri. Si tratta di cause miliardarie che pesano sulle casse dello Stato arricchendo pochi studi di avvocati specializzati e qualche fondo d’investimento. Ora, con il Green deal e la legge sul clima (riduzione delle emissioni CO2 del 55% entro il 2030 e zero emissioni nocive nel 2050), il mondo delle Ong teme la minaccia dell’Ect sulle scelte dei governi, mettendo a rischio gli obiettivi clima.

Lo scorso 22 ottobre un folto gruppo di eurodeputati ha scritto alla Commissione Von der Leyen chiedendo di rendere il Trattato sull’energia compatibile con l’Accordo di Parigi sul clima o di uscirne al più presto. Intanto il bazooka Ect è già in azione: nel 2017 l’allora ministro dell’Ambiente francese Nicolas Hulot aveva proposto una legge per il divieto di estrazione di petrolio dal 2040, ma la società canadese Vermillon ha minacciato di aprire un arbitrato miliardario. La legge è stata cambiata: niente più scadenze per le energie fossili. Hulot si è poi dimesso gridando al complotto delle lobby dell’energia. In Italia, quando il Movimento 5 Stelle è andato al governo nel 2018, ha provato a sospendere il progetto Tap, come promesso in campagna elettorale. Ma, una volta scoperta l’esistenza dell’Ect, l’allora ministro dello Sviluppo Luigi Di Maio ha dimenticato la promessa.

La lezione Rockhopper. L’Italia aveva appena subito la beffa, nel marzo 2017, con l’affaire Ombrina Mare, la piattaforma petrolifera di proprietà della Rockhopper a meno di 6 miglia dalla costa abruzzese dei Trabocchi. La compagnia titolare dell’impianto ha aperto un arbitrato contro l’Italia per avere fermato il progetto nel 2016 che prevede la costruzione di 6 pozzi alti come un palazzo di 10 piani e una nave galleggiante per la trasformazione del greggio. A insorgere contro il progetto sono i movimenti popolari, tra cui i No Triv, che hanno spinto 10 consigli regionali a ottenere il referendum contro le trivelle nel 2016, che l’allora premier Matteo Renzi ha svuotato di contenuto, dopo aver dato lo stop al progetto con modifiche inserite in extremis nella legge di Stabilità. Anche se Ombrina Mare è stata bloccata, si continua a permettere ai giacimenti esistenti al 31 dicembre 2015 – quindi alle italiane Eni ed Edison (poi sostituita da Energean) – di estrarre fino alla fine del giacimento. Rockhopper ha chiesto, con un arbitrato a Washington, un risarcimento di 275 milioni di dollari, di cui solo 29 spesi, il resto sarebbero i mancati guadagni. “La sconfitta in questo arbitrato – spiega l’Avvocato di Stato Giacomo Aiello – sarebbe estremamente grave: darebbe ad altre società, i cui progetti di estrazione entro le 12 miglia sono stati bloccati, la voglia di emulare Rockhopper”. Il lodo arriverà tra qualche settimana, il dietrofront sulle politiche fossili rischia di costare molto caro ai contribuenti italiani. Dice Monica di Sisto di FairWatch: “Agli interessi degli investitori viene garantito uno spazio di difesa privilegiata, che prevale sulle ragioni della protezione del territorio, la volontà delle comunità locali, la protezione ambientale”. Utilizzando la banca dati di Global Energy Monitor e di Price of Oil, il consorzio Investigate-Europe ha calcolato che il valore delle infrastrutture fossili in mano a investitori stranieri in Europa (i 27 più Regno Unito e Svizzera), protette dal Trattato Ect, ammonta a 345 miliardi di euro (20 miliardi solo in Italia), il doppio del bilancio annuale europeo.

Guerra tra Paesi Ue. Il paradosso di questo Trattato è che riguarda ormai quasi solo casi intra-europei: il 74% del totale. Il caso più emblematico è quello della svedese Vattenfall, di proprietà pubblica, che dal 2012 attacca la Germania per aver deciso di chiudere le centrali nucleari, chiedendo 6 miliardi di danni. Uno Stato che attacca un altro Stato in un mercato unico. Il ricercatore all’Università tedesca di Erlangen-Nuremberg, Markus Krajewski, ha definito il trattato Ect “un errore storico”. Intanto i casi legati al clima aumentano: qualche settimana fa il gigante tedesco Rwe ha aperto un arbitrato contro l’Olanda, rea di aver annunciato la chiusura nel 2030 della centrale di carbone di Eemshaven. Certo la maggioranza dei casi finora riguarda imprese di energia rinnovabile cui sono stati tagliati fondi o incentivi. Negli ultimi 10 anni sono stati aperti 107 casi Ect, contro solo 19 nel suo primo decennio di esistenza. Ma i critici dell’Ect temono un’impennata delle cause legate alle fonti fossili, visti gli obblighi di riduzione previsti dal Green deal. “Prevedo un buon futuro per l’Ect”, dice l’arbitro francese Pierre-Marie Dupuy.

Come uscirne. L’Ue sta provando a modernizzare il Trattato. Dei round negoziali vanno avanti da maggio con i 53 membri nel mondo. A inizio marzo se ne terrà uno nuovo: la Commissione, negoziatore unico a nome dei 27, metterà sul tavolo un piano di phasing out graduale dalle energie fossili: petrolio e carbone fuori dal Trattato da subito e gas ammesso fino al 2040 se a basso contenuto di CO2. Ma il tentativo, seppur considerato modesto da alcuni paesi Ue, rischia di non passare: il Giappone – che ha appena investito in nuove centrali a carbone in India, Vietnam e Indonesia – ha già detto che non intende uscire dalle energie fossili. Se la modernizzazione del trattato in chiave climatica fallisse, “sarebbe il momento per gli Stati europei di ritirarsi”, ha detto il ministro dell’Ambiente lussemburghese Claude Turmes. La prossima riunione clima del COP26, prevista a Glasgow in novembre, potrebbe spingere i Paesi Ue a prendere una decisione. Intanto le speranze sono riposte sulla Corte di Giustizia europea, da cui si attende nei prossimi mesi una sentenza di interpretazione sull’Ect dentro l’Ue: dal Lussemburgo potrebbe arrivare il divieto degli arbitrati privati Ect per i casi intra-europei.

 

Arbitrati: la roulette russa che ha privatizzato il diritto

Un arbitrato privato “è una roulette russa”, dice l’Avvocato di Stato Giacomo Aiello che difende l’Italia contro la società britannica Rockhopper per il progetto di estrazione di petrolio Ombrina Mare, interrotto dal governo Renzi nel 2016. “Con gli arbitrati non c’è l’obbligo di seguire la giurisprudenza, non c’è una gerarchia delle fonti, ogni caso può essere diverso da quello precedente e una compagnia può sempre trovare un giudice favorevole, chessò nel Burkina Faso”. In effetti, affinché un lodo arbitrale diventi esecutivo, occorre una sentenza di omologazione emessa da un giudice ordinario. Se tra qualche mese la Corte di giustizia europea vieterà i lodi Ect all’interno dei Paesi Ue, perché non compatibili col diritto europeo (che ha già i suoi tribunali), ci troveremo con arbitrati su investimenti in Europa che vengono gestiti da tribunali lontanissimi. “La Spagna è andata in Australia per un caso legato alle rinnovabili”, ricorda Aiello.

Il Trattato Ect è pieno di buchi neri. È unilaterale, solo gli investitori possono attaccare uno Stato, non il contrario. Il testo rimane vago, non vengono definiti i criteri per valutare il danno, spesso le imprese chiedono e ottengono anche un risarcimento sui mancati guadagni futuri, cifre colossali (gli azionisti stranieri di Yukos hanno vinto un lodo da 50 miliardi di dollari contro lo Stato russo). Le parti possono scegliere il luogo dell’arbitrato, Washington e Stoccolma sono i più quotati. Le riunioni del collegio – tre arbitri, uno scelto da ogni parte, più un presidente – si svolgono a porte chiuse, tutto è segreto: date, documenti, ammontare del litigio, persino l’esistenza stessa dell’arbitrato sono difficili da scoprire. E gli arbitri, che dovrebbero garantire quell’imparzialità che i governi temono in Paesi poco democratici, fanno parte di un piccolo gruppo di avvocati super specializzati che si scambiano ruoli e consigli. Spesso gli arbitri si ritrovano giudici in un caso e consulenti d’impresa in un altro. Così è stato per Kaj Hober, arbitro del caso Vattenfall contro Germania e legale di NorthStream2 nel lodo contro l’Ue. Oppure la francese Brigitte Stern, arbitro nella causa Electrabel contro l’Ungheria e, allo stesso tempo, arbitro scelto da Budapest contro Aes (Usa).

Il ricercatore dell’Università di Oslo Malcolm Langford ha scandagliato i legami di questo piccolo mondo di fortunati giuristi, trovando almeno 25 casi di doppio ruolo. “È il sistema stesso degli arbitrati a creare conflitti d’interesse – spiega Pia Eberhardt, di Corporate Europe Observatory –. Un arbitro ha interesse a far durare un lodo, non è come un giudice che ha uno stipendio fisso”. Secondo uno degli arbitri del caso Rockhopper-Italia, il francese Pierre-Marie Dupuy, “gli investitori stranieri temono che i tribunali ordinari siano parziali, l’Ect offre maggiori garanzie d’imparzialità”. Dupuy critica la possibilità di doppio ruolo: “Se si sta diventando un grande arbitro, si dovrebbe smettere di essere un avvocato allo stesso tempo”.

E poi c’è il giro di denaro. “Ogni caso costa allo Stato italiano tra 1 e 1,5 milioni”, dice l’Avvocato di Stato Aiello. Secondo i documenti del lodo Yukos, il presidente del collegio arbitrale Yves Fortier ha fatturato 1,7 milioni di euro e l’arbitro scelto dalla compagnia petrolifera 1,5 milioni. Ma perché gli Stati continuano a firmare accordi per risolvere con la giustizia privata le dispute commerciali? L’Italia ha all’attivo 67 accordi con Paesi terzi per arbitraggi internazionali, la Francia 98, la Germania addirittura 129. “In parte per ignoranza. Finché un Paese non viene citato in giudizio, tutto va bene”, spiega Eberhardt. “Se poi viene citato, il governo pensa che non perderà. E poi gli Stati proteggono anche gli interessi dei propri investitori all’estero. La Germania teme il caso Vattefall, ma ha interesse a proteggere l’industria tedesca all’estero”. Da un po’ si negozia all’Onu per la creazione di un tribunale internazionale multilaterale (Mic), una specie di L’Aia del commercio, con giudici ordinari, stipendi trasparenti e giurisprudenza mondiale. Ma bisogna mettere d’accordo 193 Stati. Il presidente Usa Biden ha detto di essere contrario agli arbitrati privati e preferire un approccio multilaterale. Forse darà una spinta al superamento dei tribunali segreti.

Alberi, grande affare. I colossi li comprano per poter inquinare

Giovedì 11 febbraio i futures dei crediti di carbonio sul mercato europeo hanno superato i 40 euro per tonnellata, il doppio rispetto a un anno fa. Il prezzo di questi particolari titoli finanziari non era mai stato così alto. Secondo gli esperti, il motivo principale riguarda la politica europea: la Commissione dovrà infatti presentare entro giugno le proposte legislative per raggiungere i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra. Per questo crescono i prezzi dei crediti di carbonio, in Europa come nel resto del mondo. Un incentivo in più per lo sviluppo di quello che sta diventando un nuovo affare: quello degli alberi. Perché chi li possiede può emettere crediti. E più il valore di questi ultimi sale, più aumentano i potenziali ricavi per chi ne è in possesso.

Il mercato dei crediti di carbonio si divide in due categorie: quello regolamentato e quello volontario. Il principale mercato regolamentato è quello dell’Ue, chiamato Ets, a cui partecipano oltre 11 mila aziende. Funziona così. L’impresa deve rispettare un limite alle emissioni prodotte: se lo supera è tenuta a pagare, e questo dovrebbe spingerla a inquinare meno. Nella pratica ogni anno l’azienda riceve (in parte gratis, in parte pagando) una quantità di crediti di carbonio: ogni titolo corrisponde alla possibilità di emettere una tonnellata equivalente di anidride carbonica. Se non vuole essere multata, alla fine di ogni anno l’impresa deve restituire un numero di crediti sufficienti a coprire le emissioni oltre il limite. Se però l’azienda ha inquinato più del previsto, può comprare i crediti mancanti da chi ne ha in eccesso. Attualmente gli alberi non fanno parte del mercato europeo, ma presto le cose potrebbero cambiare. Lo ha detto Artur Runge-Metzger, capo del dipartimento della Commissione europea per le questioni climatiche: il primo passo da fare, ha spiegato nell’ottobre scorso a Euroactiv.com, è garantire che ogni tonnellata di Co2 nella foresta venga contata: “Se lo standard è abbastanza buono e si può essere certi che una tonnellata è una tonnellata, allora potremmo essere in grado di riconoscerli come quote di emissioni ai sensi dell’Ets”.

La certificazione della Co2 assorbita dalle foreste è alla base dei cosiddetti mercati volontari, quelli in cui gli alberi vengono già scambiati come crediti di carbonio. Ed è in questi mercati che il business degli alberi si sta sviluppando alla grande. Nel mondo sono ormai migliaia le aziende che promettono di ridurre le proprie emissioni. Nel solo 2020 si sono aggiunte alla lista Bp, Shell, Microsoft, Apple, Google, Facebook, Walmart. Di pari passo stanno aumentando i progetti di “riforestazione”. Perché ogni albero equivale a una quota di Co2 non emessa, e trasformabile in un credito di carbonio.

Lo dimostrano i casi di Blackrock, Jp Morgan e Disney. L’anno scorso i tre colossi hanno acquistato da The Nature Conservancy, la più grande associazione ecologista al mondo, crediti emessi sulla base di migliaia di alberi di cui l’ong è proprietaria. Il problema è che quelle piante “non sono mai state sotto minaccia: facevano già parte di foreste protette”, ha rivelato Bloomberg. L’operazione non ha insomma portato alla piantumazione di nuovi alberi, e questo è il punto più controverso della faccenda. La critica ha colpito anche Eni. Nel 2019, in anticipo rispetto a tanti concorrenti, l’azienda ha annunciato di voler “piantare” milioni di alberi in Africa salvo poi correggere il tiro per specificare che “conserverà foreste già esistenti”. Critiche a parte, resta il fatto che in questo modo la compagnia otterrà un sacco di crediti. L’obiettivo di Eni è avere, entro il 2050, titoli pari ad almeno 30 milioni di tonnellate di Co2 l’anno. Come detto, al momento i crediti da riforestazione possono essere scambiati solo sui mercati volontari, dove i prezzi vengono contrattati direttamente tra acquirente e venditore.

Per avere un’idea del potenziale valore finanziario dell’operazione di Eni si può considerare il prezzo attuale sul mercato europeo: 40 euro per tonnellata. Significa che entro il 2050 la società potrebbe avere ogni anno crediti di carbonio pari a 1,2 miliardi di euro. Al momento, dicono gli esperti, inquinare costa ancora meno che comprare un albero, ma la tendenza potrebbe presto invertirsi. Secondo Jonathan Baillie e Gregory Hess, manager di due delle più importanti società (Natural State e Tree Global) impegnate nella vendita di crediti da riforestazione, “i prezzi del carbonio aumenteranno in modo significativo e i crediti di carbonio forestale di alta qualità saranno presto molto più costosi”. Il fatto che molte compagnie petrolifere stiano facendo incetta di alberi in giro per il mondo fa pensare che la previsione potrebbe rivelarsi azzeccata.

La favola delle “politiche attive”. Il ventennio perduto del lavoro

Combattere la disoccupazione è il più importante degli obiettivi di politica economica. Nel tempo, gli strumenti sono mutati. L’intervento dello Stato – grandi imprese pubbliche, piani di investimento capaci di mobilitare masse di occupati, edificazione dei sistemi di welfare – è stata la cifra della vigorosa crescita nel dopoguerra occidentale fino ai 70. Anni in cui il pensiero economico riconosce pari dignità all’offerta e alla domanda. A quest’ultima, viene attribuito il compito chiave di correggere quel che il mercato è incapace di fare: garantire la completa utilizzazione delle risorse. Con gli anni 90, il contesto muta radicalmente, i fattori di offerta divengono preponderanti e lo Stato non deve più guidare i mercati e ridurre la disoccupazione. L’idea è semplice. Dotare i lavoratori delle competenze utili alle imprese lasciando queste ultime libere di operare riducendo i vincoli. L’Italia non fa eccezione.

Il mercato del lavoro comincia a trasformarsi all’insegna della flessibilità. Minori tutele, contratti temporanei e una protezione del lavoratore che si sposta: dal rapporto di lavoro al mercato. In questo modo, suggerisce il nuovo paradigma, le imprese dispiegano il potenziale produttivo, le competenze dei lavoratori vengono inserite proprio là dove serve. Nessuna necessità di agire sui vincoli di domanda attraverso l’intervento pubblico. In questo contesto, assumono un ruolo chiave le politiche attive del lavoro, per il reinserimento dei disoccupati con piani formativi in linea con le esigenze delle imprese. Mentre le tutele vengono ridotte e il ricorso al lavoro temporaneo e somministrato facilitato, le risorse pubbliche destinate alle politiche attive crescono, i Centri per l’impiego vengono riformati e nuove istituzioni costituite, tra le altre Italia Lavoro, oggi confluita nell’Anpal. Venti anni dopo può essere utile domandarsi se gli ingredienti della ricetta abbiano sortito gli effetti sperati. Soprattutto perché di fronte all’attesa abolizione del blocco dei licenziamenti, la strategia per contenere la disoccupazione diventa cruciale. Se si guarda ai dati e alle criticità storiche del mercato italiano – elevata disoccupazione giovanile e femminile, divari territoriali, disoccupati di lunga durata, precarietà – il connubio flessibilità-politiche attive va bocciato. Come ben documentato da Antonio di Stasi sul Menabò di Etica ed Economia, le politiche attive soffrono dell’eccesso di livelli istituzionali e attuativi. Attribuite in larga parte alla competenza regionale dalla riforma del Titolo V, sono prive delle coerenza sistemica necessaria per fornire un supporto omogeneo. In un simile quadro, l’Anpal non ha capacità di svolgere il ruolo di coordinamento. Nel 2019, l’Ocse ha dedicato all’Italia un rapporto dal titolo inequivocabile ‘Strengthening Active Labor Market Policies in Italy’: la farraginosità e la conflittualità del sistema, l’inadeguatezza dei Centri per l’impego, l’assenza di un sistema informativo centralizzato che renda possibile associare offerta e domanda di lavoro sono messi nero su bianco in modo impietoso.

Le politiche attive hanno dunque tradito le speranze di chi le immaginava strumento salvifico. La frammentarietà e i problemi di governance spiegano però solo parzialmente il fallimento. Le cause vanno cercate nello stesso paradigma di politica economica che le ha elette strumento principe. L’idea di fondo risale alla fine del 700 ed è di un economista francese, Jean Baptiste Say. “L’offerta crea da sè la propria domanda”, recita la legge che porta il suo nome. Applicata al mercato del lavoro, fornisce una spiegazione brutale: si è disoccupati perché le competenze che si hanno non sono appetibili o perché il salario che si pretende è troppo elevato. Le politiche attive dovrebbero curare il primo, la flessibilità contrattuale il secondo. La distanza tra la realtà e una simile rappresentazione dell’economia è chiara sia per l’uomo della strada sia per gli economisti che non credono alla legge di Say, non moltissimi. In un’economia come quella italiana – dove la domanda è strangolata dall’austerità fiscale, i salari non crescono e la struttura produttiva è indebolita dall’abbandono di politiche industriali – si è disoccupati perché il lavoro non viene sufficientemente domandato. Si possono avere le più raffinate politiche attive, se ciò non si accompagna a politiche fiscali espansive, a un incremento dei salari e a un vasto piano di investimenti pubblici, l’offerta di lavoro non potrà che rimanere frustrata. Perché insistere dunque con questa ricetta? Per interessi e ideologia. Gli interessi di un sistema popolato di soggetti, privati ma con forti interconnessioni con la Pa e le parti sociali, attivi nell’erogazione di servizi formativi a favore dei disoccupati, e l’ideologia del vecchio Say. Si vedrà se la pandemia produrrà qualche conversione sulla Via di Damasco.

Multi-utility. No alla fusione in Brianza: la sentenza che inguaia il risiko nel ricco Nord del colosso A2A

L’inizio di questa storia ve l’avevamo raccontato a giugno, la conclusione è dirompente: il Tar della Lombardia, che allora fermò tutto, la settimana scorsa ha accolto il ricorso di un consigliere comunale di Seregno e annullato la delibera con cui la Giunta aveva di fatto venduto l’azienda di servizi locale AEB (Ambiente Energia Brianza) al colosso A2A – 7,3 miliardi di fatturato nel 2019, oltre 300 milioni di utili – controllato col 50% più due azioni dai comuni di Milano e Brescia (il resto è in Borsa), ma gestito con forte impronta privatistica come accade un po’ con tutti i big del settore, da Hera ad Acea a Iren.

I giudici amministrativi hanno accolto la tesi del ricorrente: riassumendo all’osso, queste fusioni/integrazioni societarie di aziende pubbliche devono avvenire con una gara, non ci si può mettere d’accordo e basta, si deve dimostrare che quella è l’offerta migliore possibile. Scrive il Tar: “Accertato l’obbligo del ricorso alla procedura di evidenza pubblica, per l’attribuzione alla società conferente di una partecipazione societaria quale corrispettivo per il conferimento di beni in natura alla società conferitaria, il Collegio ritiene di non poter condividere l’argomento dell’infungibilità dell’operazione di integrazione societaria e industriale, utilizzato dal Comune di Seregno per giustificarne la deroga”. A2A non potrà dunque incamerare le preziose attività dell’azienda che gestisce i servizi pubblici in Brianza (rifiuti, energia, acqua, eccetera): una cosetta da oltre 220 milioni di ricavi all’ultimo dato disponibile (bilancio 2018).

Per la multinazionale lombarda si tratta di una brutta sconfitta tanto in sé, quanto per gli effetti che potrebbe avere una sentenza del genere su operazioni analoghe: nel settore delle multi-utility è in corso una sorta di risiko, specie nel ricco Nord, attraverso cui le grandi aziende integrano (cioè di fatto comprano) le più piccole. A2A, per dire, sta realizzando operazioni del tutto simili nelle modalità a quella brianzola in un altro paio di casi. C’è ad esempio la partnership operativa già in corso con LGH di Cremona, che opera però anche nelle province di Pavia, Lodi e Brescia, già parzialmente bocciata da Tar e Antitrust: il centrodestra locale (che è all’opposizione) dopo la sentenza è tornato all’attacco definendo quella fusione “illegittima”. L’integrazione tra A2A e le venete Agsm Verona e Aim Vicenza (che insieme valgono 320 milioni di ricavi) è ancora più direttamente coinvolta nella vicenda: non solo le modalità tecniche dell’operazione sono identiche a quelle censurate dalla sentenza del Tar lombardo, ma questo è così evidente che due ex presidenti della municipalizzata veronese (Michele Croce e Gian Paolo Sardos Albertini) – contrari alla fusione – hanno tentato senza successo di inserirsi nella causa su AEB per bloccare A2A anche in Veneto. Ora hanno una sentenza per provarci, ovviamente la prossima tappa è il Consiglio di Stato.

Teocon e clericali. I 90 anni di Camillo Ruini: il don Sturzo della destra di B. oggi salviniano

Il 19 febbraio scorso Sua Eminenza Camillo Ruini ha compiuto novanta anni e la celebrazione del suo venerando genetliaco è stata oltremodo festosa da parte di chi, ahilui, rimpiange ancora la sua Chiesa italiana, governata da presidente dei vescovi dal 1991 al 2007. Tuttavia questa nostalgia per il clericalismo ruiniano aiuta a comprendere una volta di più la svolta rivoluzionaria del pontificato di Francesco.

Tra i punti programmatici che portarono all’elezione del papa arrivato dalla “fine del mondo” (quelli delle congregazioni generali prima del Conclave) ci fu infatti una conditio sine qua non imprescindibile: la depoliticizzazione della Chiesa italiana, simboleggiata dalla sciagurata gestione del cardinale Tarcisio Bertone, propedeutica al Vatileaks1 e alla rinuncia di Benedetto XVI al trono di Pietro. E in effetti così fu: Francesco diede da subito un’impostazione esclusivamente sociale alla Cei, durata un lustro pieno (2013-2018) e oggi confermata dalla nomina di alcuni pastori nelle grandi città con “l’odore delle pecore” addosso.

Ma questo è un altro discorso. Torniamo alla Chiesa come campo di battaglia politica. Fu proprio Ruini ad avviare questa degenerazione clericale con il suo fatidico Progetto Culturale del 1994. Progetto che doveva riempire il vuoto lasciato dall’unità politica dei cattolici rappresentata dalla Dc, che in realtà fu un partito decisamente laico rispetto al pensiero di don Camillo. Nella prassi il Progetto Culturale si concretizzò in un appoggio al centrodestra di Silvio Berlusconi, rinforzato dal tentativo di infiltrare il centrosinistra coi teodem di Rutelli.

I punti più alti e bui di quell’infelice stagione furono la vittoria della Cei con il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita (2005) e soprattutto il divieto dei funerali religiosi a Piergiorgio Welby (2006), laddove la negazione della misericordia e dell’amore evangelico si coniugarono con una visione mondana del potere, da fazione partitica. Per questo, don Camillo viene rimpianto più come leader politico che come uomo di fede. Basta scorrere gli auguri che cattolici conservatori, antichi teocon e atei devoti gli hanno fatto pervenire tramite il quotidiano online l’Occidentale. A partire dall’ex ministro Gaetano Quagliariello. E poi: Eugenia Roccella, Roberto Formigoni, Maurizio Gasparri, Maurizio Sacconi, Carlo Giovanardi, persino Fabrizio Cicchitto. Nelle loro parole ci sono solo riferimenti al pensiero forte ruiniano, alla sua intelligenza, alla sua Cei. Dio viene dopo la Chiesa. Si ripete il fallace errore alla base della fascinazione della destra per Ruini e poi per Ratzinger: ridurre la Chiesa a una corrente culturale e teocratica, mettendo in secondo piano la misericordia cristiana e la grazia della conversione.

Non a caso, Gasparri, seppur scherzando, rivendica: “Gli dissi: ‘Eminenza, ma scenda in politica e diventi il segretario di un nostro partito basato sui veri valori della identità italiana cattolica, conservatrice!’”. Insomma un nuovo don Sturzo. Che nel frattempo è passato da B. a Salvini, come confidato in una lunga intervista ad Aldo Cazzullo sul Corsera: “(Salvini, ndr) è una risorsa importante, non solo per il suo partito”. Tutto torna. Auguri don Camillo.

 

Il caso Michele Bravi. “Depressione, il ‘cancro’ che desta risatine. Serve l’educazione emotiva”

“Io, incinta, ho vinto un concorso ma non mi vogliono far lavorare”

Ciao Selvaggia, un anno fa, dopo un concorso, sono risultata idonea in una graduatoria come istruttore direttivo tecnico a tempo indeterminato (lavoro che già svolgevo in un comune sardo ma a tempo determinato). Vari enti mi chiamano per assumermi, tra cui il comune di Castelsardo, a cui dico sì. E faccio presente di essere al quinto mese di gravidanza… Nel 2020, nell’epoca dello smartworking, non avrebbe dovuto essere un problema. Invece una volta attivate le procedure per l’assunzione, dopo aver concordato la data per prendere servizio (il 1 settembre per dare 30 giorni di preavviso all’ente in cui lavoravo) iniziano i primi problemi: prima il nullaosta del comune dove avevo svolto il concorso, poi l’incidente terribile capitato a mia madre e mia sorella, per cui “dovresti stare vicino alla famiglia”, “ci sentiamo quando tua sorella si riprende”. Io intanto passo il primo mese senza lavorare, dico che per me non ci sono problemi, che voglio lavorare anche per “distrarmi” dalle tragedie famigliari, invece no…. ora la scusa è che non si trova il medico del lavoro che deve farmi la visita pre-assunzione: così passa il secondo mese senza lavorare. Alla fine, il 2 novembre, riescono a farmi visitare: in 6 minuti, solo misurandomi la pressione (in barba al D.lgs 81/2008) il medico mi dichiara inidonea alla mansione che ho sempre svolto. Il motivo? Sono incinta. Il mio ginecologo invece pensa che posso lavorare fino a data di parto e faccio ricorso allo SPRESAL, lo vinco e per il medico che aveva detto no solo una piccola tirata d’orecchie. Intanto passo il terzo mese senza lavorare, e addio alla maternità nonostante una bambina a casa e uno in arrivo. Con mio marito iniziamo a pregare che i Dpcm non chiudano i parrucchieri, che lui non prenda il Covid perché altrimenti i soldi a casa chi li porta?! E i debiti per aprire un salone in proprio chi li paga? Inizio a scrivere pec all’ente insieme al mio legale che vengono bellamente ignorate, solo il sindaco mi risponde al telefono e mi risponde “ma stai tranquilla, goditi i bambini e ci sentiamo a maggio così ti fai tutta la maternità completa!”. (senza stipendio, nè indennità nè contributi, nè maturazione di curriculum, nè un bel niente). Dimmi tu, è una cosa ammissibile una mancata o tardiva assunzione? È ancora lecito dover scegliere tra famiglia e carriera nel 2021? Io ho sudato e faticato per i miei titoli, nessuno mi ha mai regalato nulla, perché devo lasciar correre?

V.

 

Non devi lasciar correre nulla. E non devi farlo anche per tutte le donne meno tenaci, che rinunciano sfinite e finiscono per “godersi” non la maternità, ma il parcheggio in cui vengono confinate tra una nausea e una poppata.

 

“La malattia mentale può togliere la vita”

Cara Selvaggia, vorrei ringraziarti per la tua intervista a Michele Bravi, per la delicatezza con cui ha toccato il dolore, scavando nel profondo senza demonizzare manifestazioni come allucinazioni e dissociazioni. Non era scontato, anzi. Ho vissuto sulla mia pelle una malattia potente tanto quanto un cancro: la depressione maggiore a carattere dissociativo. Nel mio caso non derivava da un trauma ma da un contesto familiare difficilissimo. Mi ha rubato i migliori anni della vita, ha ostacolato i miei progetti di vita facendoli ritardare o naufragare, mi ha spinto a valutare il suicidio (più di una volta) e condotto verso relazioni tossiche al solo scopo di riempire i vuoti affettivi. Osservando le interviste televisive di Michele, ho notato gesti e movimenti per me, purtroppo, inconfondibili: occhi che si abbassano o si alzano di colpo, che non reggono lo sguardo dell’interlocutore; mani che si muovono quasi a sostenere parole incerte o per fare scudo. Come dice Michele, è il linguaggio universale del dolore. Grazie ad un lungo percorso piscologico, ora sto imparando a vivere (meglio, a rivivere e non a sopravvivere). Michele ha raccontato di aver trovato un “angelo” sulla sua strada, che lo ha aiutato ad armarsi per la sua battaglia. È un messaggio potente, ma non accade sempre, ahimè.

Io non ho incontrato nessuno: una famiglia affettivamente disastrata; amici che hanno temuto il diverso e (più o meno giustamente) hanno deciso di non farsi carico del sostegno. I momenti più bui e dolorosi li ho affrontati in solitaria. Mi auguro che in futuro si possa parlare in pubblico, liberamente, di malattie psichiatriche, difficoltà psicologiche o turbe emotive senza scadere nella risatina, nel pietismo o nella paura. Spero che – come accade per la prevenzione del cancro – si possa valutare l’idea di monitorare nel tempo la salute psichica ed emotiva, evitando di dover parlare con patetica ipocrisia di suicidi evitabili. Mi auguro che scuole e università introducano qualche ora di psicologia (o educazione emotiva) per far capire come i problemi mentali abbiano spesso un impatto peggiore delle patologie fisiche; e in cui si insegni a comprendere il linguaggio della mente e del corpo, per riconoscere i segnali d’allarme di chi non sta bene. Le uniche armi per questa battaglia di civilità sono conoscenza ed empatia.

Andrea

 

L’altro giorno ho scritto di depressione, molti commentatori adulti hanno scritto “È un problema di gente smidollata!” o “Che poca voglia di vivere che hanno alcuni…”. Ecco, l’ora di educazione emotiva servirebbe tanto, anche e soprattutto a chi la scuola l’ha finita da un bel po’.