Gelmini sulla linea Speranza: si aspetta la parola di Draghi

Le Regioni vanno in ordine sparso. Il governo, aspettando Mario Draghi, meno. Tanto che Mariastella Gelmini, la neo ministra forzista degli Affari regionali, sembra Roberto Speranza: “Bisogna far capire che rischiamo la terza ondata, che dove ci sono le varianti mietono vittime, serve una comunicazione durissima”. A lei potrebbe andar bene anche la proposta di due o tre settimane di zona arancione in tutta Italia, avanzata da Stefano Bonaccini, il governatore dell’Emilia-Romagna che guida la Conferenza delle Regioni: “Ho grande stima di lui, è molto equilibrato, purtroppo però non c’è l’accordo delle Regioni”, dice Gelmini. No, non c’è. Sarebbe invece d’accordo Speranza, al quale i tecnici del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità ripetono da fine gennaio che bisogna stringere perché la variante inglese si avvia a divenire prevalente e genera il 39% di infezioni in più: Speranza però attende che a pronunciarsi sia Draghi. Ma il senso di responsabilità di Bonaccini non è condiviso da tutti i suoi colleghi presidenti di Regione: ieri il loro incontro in conference call si è concluso con la richiesta al governo di fare il possibile per migliorare l’approvvigionamento dei vaccini, la richiesta di “revisione dell’attuale sistema di regole che definisce l’entrata e l’uscita dalle diverse zone, una semplificazione – si legge nel comunicato finale di Bonaccini – con la contestuale revisione dei criteri e dei parametri di classificazione. Serve un respiro più lungo e un’analisi approfondita dei luoghi e delle attività, anche in base ai dati di rischio già accertati”, il che va bene anche al ligure Giovanni Toti, capofila degli aperturisti. È la vecchia questione dei parametri: meno spazio a Rt e più all’incidenza (che però dipende dai tamponi) e ai dati ospedalieri. Chiedono poi “che le misure siano conosciute con congruo anticipo e tempestività dai cittadini e dalle imprese”, cioè il venerdì è troppo tardi. E ovviamente, che alle restrizioni si accompagnino “contestualmente gli indennizzi per le categorie coinvolte”.

L’idea di maggiori restrizioni generalizzate, però, convinceva solo i presidenti che si sentono più a rischio contagi, indipendentemente dai colori politici: il leghista lombardo Attilio Fontana a un passo dall’arancione, i dem Eugenio Giani e Vincenzo De Luca che guidano Toscana e Campania già arancioni (come del resto da oggi anche l’Emilia-Romagna), ma sono contrari Massimiliano Fedriga (Friuli-Venezia Giulia), Alberto Cirio (Piemonte), diversi presidenti del Sud. Toti, che spera di lasciare l’arancione nel fine settimana, colorerebbe l’Italia “tutta gialla” anzi con “bar e ristoranti aperti” per “far ripartire il Paese”. Come se gli altri non volessero ripartire. È la posizione di Matteo Salvini: “Basta con gli annunci, gli allarmi e le paure preventive che hanno caratterizzato gli ultimi mesi, se ci sono zone più a rischio si intervenga in modo rapido e circoscritto, si acceleri sul piano vaccinale, ma non si getti nel panico l’intero Paese”, ha scritto ieri mattina su Facebook.

Le prime decisioni del governo sono attese per martedì 23, il Consiglio dei ministri è già convocato e dovrebbe intanto prorogare fino al 5 marzo il decreto legge in scadenza giovedì 25 sullo stop ai movimenti interregionali (salvo le consuete deroghe per lavoro, salute, necessità e rientro a casa, comprese le seconde case). Le varianti corrono, si attendono i nuovi dati dell’Iss su inglese, brasiliana e sudafricana: tutte sono più contagiose, quella inglese in misura del 39% secondo la prima stima dell’Istituto; potrebbe già rappresentare un terzo dei contagi. Nuove zone rosse sono state disposte anche nel Lazio a Colleferro e Carpineto (Roma) dopo Umbria, Abruzzo, Marche, Molise, Lombardia e Piemonte.

AstraZeneca, altro taglio: è impunita per contratto. L’Italia non ha fatto causa

Le minacce di azioni legali della Commissione europea e dell’Italia contro AstraZeneca per il ritardo nella consegna delle dosi di vaccino Covid si rivelano un castello di carta. A sconfessarle sono le clausole che il Fatto ha individuato nella versione integrale del contratto di fornitura, di cui abbiamo dato notizia due giorni fa. La disposizione più cruciale, coperta da omissis nel documento desecretato a fine gennaio, recita testualmente: “La Commissione europea e gli Stati membri rinunciano a qualsiasi rivendicazione verso AstraZeneca per i ritardi nelle consegne”. Secondo Colin McCall, partner dello studio legale internazionale Taylor Wessing, ciò non lascia più dubbi sull’infondatezza dei reclami per l’annunciata riduzione delle dosi previste per il primo trimestre 2021.

Il taglio del 60% (per l’Italia 3,4 anziché 8 milioni di dosi) è poi stato contenuto, ma ieri l’azienda anglo-svedese ha comunicato alle Regioni un’ulteriore decurtazione tra il 10 e il 15% delle forniture: invece di 566 mila fiale questa settimana ne arriveranno 506 mila. Il produttore assicura di consegnare all’Italia 4,2 milioni di dosi entro fine marzo. Vedremo. I presidenti delle Regioni protestano, si ripropone la situazione di gennaio quando prima Pfizer/Biontech ha rallentato unilateralmente le consegne concordate e poi proprio AstraZeneca ha comunicato ritardi. Il commissario Domenico Arcuri aveva annunciato azioni legali contro Pfizer/Biontech, si era parlato perfino di una denuncia penale e la questione è stata affidata da Palazzo Chigi all’Avvocatura dello Stato. Così è partita una diffida, a cui l’azienda ha risposto confermando le difficoltà nello stabilimento di Puurs (Belgio), ma anche l’impegno a recuperare entro marzo le mancate consegne di febbraio. Azioni giudiziarie sono state escluse, fonti della Presidenza del Consiglio assicurano che il contratto concluso da Pfizer/Biontech con la Commissione Ue – tuttora segreto – non offre margini. Peraltro “l’eventuale inadempimento potrebbe essere contestato solo al termine del trimestre, davanti al Tribunale di Bruxelles. E la Commissione sarebbe tenuta ad avviare prima una procedura di conciliazione”.

Lo stesso vale per AstraZeneca. “Ricorreremo a tutti gli strumenti e a tutte le iniziative legali, come già stiamo facendo con Pfizer-Biontech, per rivendicare il rispetto degli impegni contrattuali e per proteggere in ogni forma la nostra comunità nazionale”, aveva avvertito l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il 23 gennaio, dopo che AstraZeneca aveva comunicato il ritardo. Bene, poi hanno capito che gli strumenti non c’erano. Nei confronti di AstraZeneca, per quanto Conte e lo stesso Arcuri fossero determinati, non è stata avviata neppure la diffida ad adempiere inviata a Pfizer/Biontech. L’Avvocatura di Stato non è stata coinvolta. Ora il contratto senza omissis ci dice perché e gli accordi nazionali sulle consegne non prevedono ulteriori obblighi sui tempi.

“Non sarei sorpreso se la stessa clausola fosse presente anche nei contratti firmati con le altre aziende – continua McCall –. Data la natura sperimentale dei vaccini, è improbabile che i produttori abbiano accettato scadenze vincolanti”. Concorda Clive Douglas, avvocato e mediatore commerciale di Nexa Law. L’art. 5.1 afferma solo che AstraZeneca farà il “massimo sforzo ragionevole” per consegnare tra 80 e 100 milioni di dosi da gennaio e marzo. È solo un impegno ad agire in buona fede. Ma a questa clausola si aggrappa la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per far valere l’inadempimento della società anglo-svedese. “L’inclusione della parola ‘approssimativamente’ implica che le date di consegna non sono precise”, puntualizza l’esperto di Nexa Law, riferendosi al calendario (incluso nell’accordo) che “neppure ribadisce – spiega – l’obbligo del ‘massimo sforzo ragionevole’”. Anche qui il foro competente è Bruxelles. “I governi hanno il diritto di interrompere i pagamenti solo per la tardiva ricezione delle dosi man mano notificate dal fornitore, ma non per la mancata spedizione dell’integralità delle dosi concordate per un dato mese”, conclude Douglas.

Sottosegretari: Annibali di Iv punta alla Giustizia

Raccontano che Roberto Garofoli, neo sottosegretario a Palazzo Chigi, abbia la scrivania sommersa di carte: sono le richieste dei partiti per i posti di sottogoverno. A lui, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha affidato il primo dossier che scotta ed è lui che in queste ore, tabelle (e calcolatrice) alla mano, fa i conti, smista le deleghe e riempie le caselle. Con una scadenza precisa: non andare oltre lunedì quando si terrà il primo vero consiglio dei ministri dell’èra Draghi. Il premier ha chiesto al suo braccio destro di avere il governo al completo per inizio settimana.

Restano quindi poco più di 24 ore e il compito di Garofoli non è semplice: oltre a dover accontentare tutti, nelle ultime ore si è aggiunta la questione del M5S che, avendo perso 50 parlamentari, dovrà cedere qualche posto al centrodestra, ma anche il problema dei veti e controveti dei partiti. Soprattutto quelli del Pd che non vede di buon occhio le “candidature” di sottosegretari leghisti in dicasteri chiave come l’Interno, Nicola Molteni, e il Lavoro, Claudio Durigon, a cui il ministro Andrea Orlando ha detto “no”.

Alla fine, secondo le tabelle che girano a Chigi in base alla proporzione “gruppo parlamentare-ministri con portafogli”, lo schema dovrebbe essere questo: su 40 sottosegretari da assegnare, 11 andranno al M5S, 8 alla Lega, 7 a Forza Italia e Pd, 2 a Italia Viva e centristi e uno a testa ai partitini (Cambiamo!, Più Europa, LeU). Inoltre, non ci dovrebbero essere viceministri (“Contano le deleghe, non il biglietto da visita” dice chi ha parlato col premier) ed è quasi sicuro che Draghi terrà per sé la delega agli Affari europei.

Nel M5S, dopo la retromarcia di Vito Crimi, quasi certi sono Laura Castelli al Mef, Pierpaolo Sileri alla Sanità, Francesca Businarolo alla Giustizia, Emanuela Del Re agli Esteri e Carlo Sibilia all’Interno. Chi scalpita per entrare è il siciliano Giancarlo Cancelleri, in competizione con l’ex sindaco di Livorno Filippo Nogarin che ha un rapporto consolidato con Beppe Grillo per finire al Mit o al Sud, ma anche Stefano Buffagni che potrebbe andare alla Transizione Ecologica. Gli altri grillini in pole position sono Angelo Tofalo (Difesa), Mirella Liuzzi (Mise) e Luca Carabetta al Digitale.

Matteo Salvini punta a piazzare suoi uomini nei ministeri più autonomi: “Torneremo al Viminale” ha detto venerdì. E infatti il primo obiettivo è provare a “controllare” Luciana Lamorgese sui migranti con Stefano Candiani, ma anche Roberto Speranza con Luca Coletto. Edoardo Rixi invece andrà alle Infrastrutture. Obiettivo: far ripartire le grandi opere, dal ponte sullo Stretto al Tav. Se sono quasi certi Massimo Bitonci al Tesoro e Massimo Volpi alla Difesa, il leader della Lega sogna anche Giulia Bongiorno alla Giustizia e Massimiliano Romeo all’Agricoltura.

Nel Pd, dopo la polemica sulle “quote rosa” mancate, Nicola Zingaretti ha indicato quasi tutte donne: oltre a Matteo Mauri (Viminale) e Antonio Misiani (Mef), si punta alla riconferma di Anna Ascani, Sandra Zampa, Simona Malpezzi e Alessia Morani, mentre al Digitale dovrebbe andare Marianna Madia. Silvio Berlusconi invece ha mandato a Chigi una lista di oltre 20 nomi rispetto ai 7 necessari, dentro la quale ci sono soprattutto senatori (da Pichetto Fratin a Battistoni e Giammanco) mentre tra i deputati sono in pole Valentino Valentini (Esteri) Francesco Paolo Sisto (Giustizia). Tra i renziani dovrebbero essere premiati Lucia Annibali (Giustizia) e Davide Faraone (Mit) mentre Benedetto Della Vedova dovrebbe approdare alla Farnesina.

Ridurre la tassazione: così Draghi ha copiato l’economista Giavazzi

Anche quelli bravi a volte copiano. In questo caso, nella parte sul Fisco del discorso programmatico di Mario Draghi, la copiatura è più precisamente un copia-incolla di un articolo di Francesco Giavazzi, bandiera della Bocconi, editorialista del Corriere della Sera, liberal-liberista che da anni sostiene che l’economia si fa ripartire riducendo le tasse. A scoprire la coincidenza tra i due testi è stato Carlo Clericetti, competente giornalista economico, che oggi cura il blog Soldi e Potere sul sito di Repubblica (che però non ci pare abbia dato risalto a questa notizia). L’articolo del professore bocconiano risale al 30 giugno 2020 ed è intitolato “I passaggi necessari sul fisco” con la prospettiva di una riforma del sistema.

Scriveva Giavazzi: “Questa osservazione ha due conseguenze. Innanzitutto non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta”.Dice Draghi: “Non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta”.

Scriveva Giavazzi: “La seconda lezione è che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, persone che conoscono bene che cosa può accadere se si cambia un’imposta”.

Dice Draghi: “Inoltre, le esperienze di altri Paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta”.

Scriveva Giavazzi: “La Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e dopo un anno presentò la sua relazione al Parlamento in una seduta trasmessa in diretta tv. Il progetto della Commissione prevedeva un taglio significativo della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta di 5,5 punti percentuali, mentre la soglia di esenzione veniva alzata”.

Dice Draghi: “Ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata”. Draghi omette l’importo della riduzione, in effetti molto alto.

Scriveva Giavazzi: “Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò a una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente. Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio”.

Dice Draghi: “Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò a una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente. Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio”.

La copiatura è eclatante e, anche se può essere comprensibile recuperare idee di studiosi di cui si ha grande stima, perché non dichiararlo pubblicamente? E soprattutto, perché incollare integralmente interi paragrafi? Draghi non aveva tempo per scrivere? Di suo pugno, Draghi scrive che “va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività. Funzionale al perseguimento di questi ambiziosi obiettivi sarà anche un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale”. Riferimento alla Costituzione e solite frasi di circostanza. Tranne la sostanza “danese”: ridurre le tasse alle aliquote più alte.

Trivelle, sfratti e bollette: l’ammucchiata rinvia tutto

È la prima prova della nuova maggioranza su un testo di legge: domani alla Camera si inizia a votare il decreto Milleproroghe, provvedimento omnibus che raccoglie norme e disposizioni su cui le forze politiche si sono sempre scontrate. Ma stavolta la discussione arriva nel delicato momento d’insediamento del governo Draghi e in commissione Affari costituzionali e Bilancio la linea seguita dai gruppi parlamentari è di non creare subito spaccature evitando quei temi considerati divisivi. Sulla stessa linea di quanto deciso negli scorsi giorni con il congelamento del “blocca prescrizione” di Alfonso Bonafede. Su molte norme, infatti, i vecchi ministri non hanno dato pareri e i nuovi non hanno ancora stabilito le linee programmatiche. Così, per chiudere il provvedimento il primo di marzo – poi dovrà passare in Senato – gli emendamenti sono stati prima ridotti a 200 “supersegnalati” e poi scremati ancora.

Trivelle. Era uno degli emendamenti più delicati visto che il 13 febbraio è scaduto il tempo per la redazione del Pitesai, il piano delle aree che dovrebbe indicare dove si può trivellare e dove no e ad agosto scade la moratoria che ha sospeso, in attesa del piano, gli iter dei nuovi permessi. Erano stati segnalati come prioritari 4 emendamenti, di cui due opposti: da un lato la Lega che chiedeva altri 12 mesi per l’adozione del piano ma anche che ripartissero i “procedimenti amministrativi” per gli idrocarburi, dall’altro il M5s, la cui lotta alle trivelle è quanto mai identitaria, che chiedeva la proroga anche della moratoria. In mezzo Fioramonti (Gruppo Misto) e Muroni (Leu) che ponevano settembre come data ultima per poi riparlarne. La sintesi, coadiuvata anche dal neo ministro per la Transizione ecologica Cingolani prevede che lo stop agli iter legati alle trivelle scadranno il 30 settembre.

Scorie. A spuntarla sono i sindaci che avranno più tempo per fare le loro osservazioni sulla mappa delle aree utilizzabili per il deposito delle scorie nucleari. L’emendamento Fornaro (Leu) dà 180 giorni, anziché 60 per la consultazione della nuova mappa delle aree che hanno le carte in regola per il deposito di stoccaggio: 67, dal Piemonte alla Sicilia dalla Toscana alla Puglia. Nessun partito ha deciso di mettersi contro gli amministratori locali.

Sfratti. È la più grande spaccatura della nuova maggioranza. Le commissioni non hanno trovato un’intesa sul blocco degli sfratti preferendo rinviare il tema e affrontarlo “con più tempo a disposizione con un ordine del giorno da costruire insieme”. L’altro ieri, in extremis, era stata condivisa una soluzione che avrebbe consentito da aprile il rilascio degli immobili per le morosità degli inquilini certificate prima della pandemia. A non aver avallato l’accordo, accusa Confedilizia, è la ministra della Giustizia Cartabia.

Bollette. Sulla fine del mercato tutelato dell’energia che riguarda le bollette di luce e gas di 16 milioni di famiglie si è trovato un compromesso: l’ennesima proroga richiesta dal capogruppo 5S alla Camera, Davide Crippa, si ferma al 2023 invece che al 2024. Contrari leghisti e Italia Viva.

Cashback. Nessun accordo politico o forse colpa dei tempi troppo stretti, fatto sta che la “creatura” dell’ex premier Conte è salva. L’emendamento voluto dalla Lega per affossare il meccanismo di rimborso di Stato del 10% sulle spese con carte, bancomat e app, è stato ritirato.

Bonus Vacanze. Arrivano sei mesi in più per spendere fino a 500 euro. La misura, figlia del ministro della Cultura Franceschini, ora scadrà a fine 2021. Il bonus è bollato come flop: a richiederlo meno del 40% della platea prevista dal governo. Ancora meno sono le famiglie che poi l’hanno effettivamente speso.

Renzi e l’Arabia: “Parlerò dopo la crisi”. Ma sono passati 9 giorni

“Io prendo l’impegno, sono pronto a discutere con i giornalisti in conferenza stampa dei miei incarichi internazionali e delle mie idee sulla Arabia Saudita. Ma lo facciamo la settimana dopo la crisi di governo”. Era il 29 gennaio e, nel pieno delle consultazioni che avrebbero portato all’incarico esplorativo (poi fallito) di Roberto Fico per il Conte ter, Matteo Renzi replicava così alle accuse sulla sua conferenza a Riyad con il principe saudita Mohammed bin Salman, accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. Renzi esaltava il regime parlando di “nuovo rinascimento” e si diceva geloso del “costo del lavoro” di un Paese dove non esistono i sindacati. L’ex premier, che per sedere nel board della fondazione saudita Future Investment Initiative incassa fino a 80mila euro l’anno, era volato a Riyad prima di tornare di corsa a Roma dopo le dimissioni di Conte. Ma l’inopportunità della visita, delle sue parole e il potenziale conflitto d’interessi (Renzi è membro della commissione Difesa del Senato) avevano suscitato molte polemiche. Così il leader di Iv aveva promesso: “Parlerò dopo la crisi”. Mario Draghi però ha giurato al Quirinale 9 giorni fa e il suo governo ha ottenuto la fiducia da 4 giorni. La crisi è alle spalle da un pezzo, ma Renzi non ha ancora chiarito.

“Il M5S non è più affar mio, ma ho consigliato ai cacciati di ricorrere”

Ci sono i cuori, i pollici alzati e una media di 7 mila persone a seguire per cinquanta minuti la diretta Instagram di Alessandro Di Battista. Lo chiamano “guerriero” e lo implorano: “Prendi in mano tu la nostra vita”, “non mollare, siamo in tanti”, “dicci cosa farai”, “devi scendere in campo”, “lasciamoli soli in poltrona”. Lui però li lascia appesi: “Non sto capitanando correnti, scissioni, partiti. Non mi candido all’organo collegiale: mi sto dedicando, come persona che ha lasciato il Movimento 5 Stelle, a portare avanti battaglie che altrimenti non avranno voce”. È convinto che in Parlamento l’opposizione non la farà nessuno, nemmeno Giorgia Meloni. E allora si è messo in testa di cannoneggiare da fuori, contro tutti quelli che “hanno disatteso quello che avevano detto nelle ultime settimane”. E i primi sono loro, i suoi vecchi compagni di avventura, che non sono “andati dritti” come gli avevano promesso e hanno deciso di fidarsi di quel Mario Draghi contro cui, un paio d’anni fa, giravano l’Italia in tour per denunciare la “bancocrazia” che ha distrutto il Paese.

Per lui, invece, l’ex presidente della Bce è ancora “l’antitesi di tutto quello in cui credo. Se si converte bene, ma non mi fido”. Ripete che se fosse stato in Parlamento avrebbe votato no e dunque sarebbe stato espulso come i 40 appena cacciati. E avrebbe impugnato la decisione: “A chi me lo ha chiesto ho consigliato di fare ricorso”, dice, dando anche il suo sostegno a chi, ieri, ha ipotizzato di far votare gli iscritti sui provvedimenti avviati dai probiviri: “Magari con un quesito chiaro – aggiunge –. Ma questo è un problema del Movimento 5 Stelle”. Non è più affar suo, insomma.

Giura di essersene andato “senza sbattere la porta”, anzi avendo “chiarito questioni personali con Stefano, Luigi, Paola” (Patuanelli, Di Maio, Taverna, ndr). Eppure non nasconde i rancori: “Se al comitato delle vittime del Morandi non diamo voci noi, chi lo fa? Io trovo indecoroso che a tre anni di distanza dalla strage di Genova non siano state revocate le concessioni”. O ancora: “Io, da non candidato, nel 2018 sono andato sotto casa di Berlusconi a leggere la sentenza di condanna di Dell’Utri. Quando facevo questa roba qui ero utile a M5S? Andavo bene? Come è possibile che adesso potessi pensare di appoggiare un governo con lui?”. Ci tiene a raccontare come sono andate le cose, anche per respingere le accuse di chi – anche durante la diretta – gli ricorda che è troppo facile parlare quando non si hanno responsabilità di governo: “Non è vero che me ne sono lavato le mani. Quando è nato il Conte-2, nonostante fossi perplesso sul Pd, diedi la mia disponibilità: mi dissero che se fossi entrato io sarebbe entrata anche la Boschi. Ho detto: meglio fuori tutti e due”. Arriva fino ai giorni nostri: “La mia disponibilità a entrare nel Conte ter senza Renzi l’ho data, nonostante sapessi che l’operazione Responsabili non fosse il massimo dal punto di vista dell’etica politica, ma ci avrebbe permesso di sbarazzarci dei renziani”. Non è andata a finire così, come noto. Ma non solo per la “congiura” contro Conte. “Quando mi hanno chiesto una mano perché Renzi aveva aperto la crisi, ho chiesto: qual è la linea? Mi hanno risposto: sì Conte, no Renzi. Allora ho insistito: sicuri? non si cambia? fino alla fine? Vai, m’hanno detto. Ero contentissimo. Poi hanno deciso di tornare con Renzi e io ho detto: io resto là dove ci eravamo lasciati”. Così arriva alla conclusione che manda in tripudio i follower: “Non è Di Battista che non la pensa più come il Movimento, è il Movimento che non la pensa più come me”.

E quindi cosa farà, Di Battista? I seguaci glielo chiedono, insistono. Lui continua a parlare al passato: “Sappiate che mi sarebbe bastato fare un paio di interviste apparecchiate e mi sarei giocato la mia partita anche stavolta: ma sono uscito con un post contro Draghi cinque minuti prima che parlasse Mattarella”. Poi pesca dal mazzo qualche ultima domanda. Ne sceglie una sulla Libia, una su Trump e un’altra ancora: “Quali sono i tuoi punti in comune con Conte?”. L’ex premier in panchina, che ha voglia di tornare.

“Non potevo restare in maggioranza con B.”

Motivando il suo “no” al governo Draghi, la senatrice grillina, Bianca Laura Granato, ha citato l’Adelchi di Manzoni: “Dividon i servi, dividon gli armenti, si posano insieme sui campi cruenti di un volgo disperso che nome non ha”. Come Franchi e Longobardi nella tragedia di Manzoni – spiega la senatrice – oggi destra e sinistra si “spartiscono tutto attorno a Draghi, a spese del popolo italiano”. Granato, attivista calabrese, era entrata nel Movimento per le sue battaglie civiche: “Ho partecipato alle campagne contro le trivelle e contro la riforma costituzionale di Renzi. I miei valori e i miei principi erano gli stessi dei Cinque Stelle. Una forza vicina ai cittadini e lontana dai palazzi. Pensavo fosse la riscossa degli ultimi, un’opportunità per far saltare un sistema consolidato. Ora mi rendo conto che non è più così”.

Per Granato, l’ammucchiata a sostegno di Draghi è stata il punto di non ritorno: “Questa coalizione extralarge mi fa spavento. I partiti al governo non hanno nulla in comune, se non l’interesse per i fondi europei. Governano insieme per soldi e potere. Per mettere le mani su qualche voce di spesa. E il Movimento si è consegnato a questa logica e a questo sistema”.

L’aspetto più imbarazzante, secondo la senatrice, è condividere le responsabilità di governo con un partito come Forza Italia: “Noi siamo nati per opporci al sistema di potere incarnato da Silvio Berlusconi. Dovevamo essere quelli che liberavano l’Italia da questi personaggi. E invece siamo stati proprio noi a permettere che tornassero al governo Berlusconi e i suoi. Brunetta, la Gelmini, la Carfagna. L’opposto dei nostri valori”.

I senatori espulsi ora sono condannati all’irrilevanza: “Non ne sono convinta – replica la Granato –, penso che l’unica possibilità invece sia stare all’opposizione e denunciare gli errori di questa maggioranza. Si rischia di essere più irrilevanti restando dentro”.

“La fiducia in bianco è stata un errore folle”

Michele Sodano è uno dei parlamentari espulsi dai 5Stelle per non aver detto “sì” al governo Draghi. Il deputato siciliano si è astenuto. Una decisione che definisce lacerante. “La militanza nel Movimento è stata una scelta di vita folle, irrazionale: dopo la laurea in Bocconi ero stato assunto da un’agenzia pubblicitaria in Danimarca. Avevo posto fisso e garanzie impensabili per un giovane italiano. Ma intanto in Italia stava succedendo una rivoluzione. Era il 2013. Sono tornato perché volevo dare il mio contributo al cambiamento”. Sodano nel 2018 è candidato nel collegio uninominale di Agrigento, viene eletto alla Camera a mani basse, in Sicilia è un trionfo grillino (“in certe zone della provincia abbiamo preso l’80%”).

Una storia che si ferma qui. Dopo l’astensione su Draghi arriva la lettera di espulsione. Dice di non averla nemmeno aperta. “Non parlerò mai male del Movimento. Penso che abbia fatto cose straordinarie: abbiamo ricominciato a parlare di giustizia sociale, di anticorruzione, di rigore e sobrietà nei costumi politici”. Ma l’adesione al governo Draghi per Sodano è un errore clamoroso: “Una scelta incomprensibile. La fiducia non andava data in bianco. Non abbiamo nessuna garanzia: ci siamo messi insieme a partiti che prendono la linea da Confindustria. Le nostre conquiste, come la legge sulla prescrizione, saranno aggredite”.

Per Sodano i 5Stelle saranno spinti fuori dal governo: “Entro qualche mese le altre forze politiche si coalizzeranno per mettere il M5S in una posizione minoritaria. Resteremo col cerino in mano, saremo costretti a ritirare i nostri ministri, ci troveremo in una posizione ancora più debole”. Astenendosi, sapeva che sarebbe stato espulso: “Ho scelto secondo coscienza, speravo che si riconoscesse il valore del pluralismo. Con queste espulsioni il Movimento perde risorse e competenze fondamentali. Persone che sono state un presidio di legalità in tanti territori”.

Via libera alle espulsioni. I “ribelli” adesso vogliono che le ratifichi Rousseau

L’unanimità non c’è. Ma “a maggioranza” il collegio dei Probiviri dei Movimento 5 Stelle ha deciso di avviare l’iter dei procedimenti disciplinari contro tutti quei parlamentari che non hanno votato la fiducia al governo Draghi e, già che c’erano, anche contro quelli che non sono in regola con le restituzioni. Sul secondo caso, c’è poco da contrattaccare. Ma sul primo la battaglia è appena cominciata. E non si annuncia di facile risoluzione, se perfino per una dei tre componenti del collegio, ci sono “possibili rilievi di illegittimità”. Durante la riunione di ieri, Raffaella Andreola ha infatti confermato tutte le sue perplessità sul caso dei 40 cacciati “su indicazione dell’ex capo politico senatore Crimi, attualmente a mio avviso non titolato a tali indicazioni”. Una valutazione che, dopo il voto su Rousseau per il nuovo organo collegiale, era stata condivisa anche da Davide Casaleggio, seppur smentito dal garante Beppe Grillo: anche per il manager milanese, Crimi non ha più alcun titolo. E sempre a Rousseau si potrebbe tornare se passasse la proposta della stessa Andreola: rimettere agli iscritti la decisione. Ovvero chiedere alla base: chi ha detto no a Draghi va cacciato davvero?

Sono tutti convinti, a cominciare da quell’Alessandro Di Battista che ha lanciato la sua “opposizione” da fuori, che gli iscritti 5S starebbero con i ribelli. Da Statuto, sarebbe il Garante, ovvero quel Beppe Grillo che per il sì al governo si è speso in prima persona, a dover indire la consultazione. Ma almeno nel Regolamento del gruppo M5S del Senato c’è un appiglio che rende assai più percorribile la via del ricorso.

La senatrice Barbara Lezzi, per dire, lo ha già scritto. E mette in fila tutti i motivi per cui ritiene che la cacciata non stia in piedi. A cominciare dal merito, visto che la mandano via perché non ha rispettato la decisione di Rousseau (finita, ricordiamo 60 a 40 per il sì a Draghi). Il “coinvolgimento degli iscritti”, infatti, si è “sostanziato attraverso la formulazione di un quesito ben poco dettagliato e ha riguardato una fase del tutto preliminare rispetto alla puntuale definizione della squadra governativa”. Né tantomeno si può richiamare l’obbligo a votare la fiducia previsto dal Codice etico, visto che quello fa esplicito riferimento a governi guidati da premier “espressione del M5S”, non quindi dall’ex presidente della Bce. E poi c’è la questione di metodo, che a questo punto rischia di essere quella decisiva. Perché, dicevamo, il Regolamento del gruppo M5S al Senato prevede che le espulsioni arrivino dopo tre passaggi: “l’iniziativa del presidente del gruppo, il parere del Consiglio direttivo e la ratifica degli iscritti”. Esistono deroghe ma, secondo il ricorso di Lezzi, non è il caso di cui stiamo parlando: non è esplicitamente richiamata, né può rientrare nei “casi eccezionali” previsti dal capo politico, visto che dal 18 febbraio – giorno in cui è stato istituito l’organo collegiale – il capo politico non esiste più.

Se da una parte Lezzi e altri “big” come Nicola Morra provano a trovare il modo di “prendersi” il Movimento dall’interno, c’è poi chi ragiona di altri piani. Resta in piedi la ricerca del simbolo, che al Senato serve per dar vita ad un nuovo gruppo parlamentare. I senatori Lannutti, Crucioli, Cabras stanno insistendo su questa via e hanno già contattato anche ex vertici della comunicazione pentastellata come Debora Billi, ora in forze al blog Byoblu di Claudio Messora, un altro ex M5S. Si tiene il filo anche con gli europarlamentari che a dicembre hanno lasciato i 5Stelle. Ma in molti consigliano ai “ribelli” di prendere tempo, di “elaborare il lutto” e di non avere fretta di strutturarsi.

Meglio aspettare di vedere che succede: il paradosso, notano, è che le espulsioni hanno rivitalizzato la corsa per la guida del Movimento. Finora nessuno si voleva candidare, anche perché non è certo un momento di popolarità per il partito. Ma se Lezzi e Morra vincessero la battaglia legale e Virginia Raggi confermasse la sua voglia di partecipare alla sfida, anche le noiose sorti dell’organo collegiale potrebbero cambiare.