Le Regioni vanno in ordine sparso. Il governo, aspettando Mario Draghi, meno. Tanto che Mariastella Gelmini, la neo ministra forzista degli Affari regionali, sembra Roberto Speranza: “Bisogna far capire che rischiamo la terza ondata, che dove ci sono le varianti mietono vittime, serve una comunicazione durissima”. A lei potrebbe andar bene anche la proposta di due o tre settimane di zona arancione in tutta Italia, avanzata da Stefano Bonaccini, il governatore dell’Emilia-Romagna che guida la Conferenza delle Regioni: “Ho grande stima di lui, è molto equilibrato, purtroppo però non c’è l’accordo delle Regioni”, dice Gelmini. No, non c’è. Sarebbe invece d’accordo Speranza, al quale i tecnici del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità ripetono da fine gennaio che bisogna stringere perché la variante inglese si avvia a divenire prevalente e genera il 39% di infezioni in più: Speranza però attende che a pronunciarsi sia Draghi. Ma il senso di responsabilità di Bonaccini non è condiviso da tutti i suoi colleghi presidenti di Regione: ieri il loro incontro in conference call si è concluso con la richiesta al governo di fare il possibile per migliorare l’approvvigionamento dei vaccini, la richiesta di “revisione dell’attuale sistema di regole che definisce l’entrata e l’uscita dalle diverse zone, una semplificazione – si legge nel comunicato finale di Bonaccini – con la contestuale revisione dei criteri e dei parametri di classificazione. Serve un respiro più lungo e un’analisi approfondita dei luoghi e delle attività, anche in base ai dati di rischio già accertati”, il che va bene anche al ligure Giovanni Toti, capofila degli aperturisti. È la vecchia questione dei parametri: meno spazio a Rt e più all’incidenza (che però dipende dai tamponi) e ai dati ospedalieri. Chiedono poi “che le misure siano conosciute con congruo anticipo e tempestività dai cittadini e dalle imprese”, cioè il venerdì è troppo tardi. E ovviamente, che alle restrizioni si accompagnino “contestualmente gli indennizzi per le categorie coinvolte”.
L’idea di maggiori restrizioni generalizzate, però, convinceva solo i presidenti che si sentono più a rischio contagi, indipendentemente dai colori politici: il leghista lombardo Attilio Fontana a un passo dall’arancione, i dem Eugenio Giani e Vincenzo De Luca che guidano Toscana e Campania già arancioni (come del resto da oggi anche l’Emilia-Romagna), ma sono contrari Massimiliano Fedriga (Friuli-Venezia Giulia), Alberto Cirio (Piemonte), diversi presidenti del Sud. Toti, che spera di lasciare l’arancione nel fine settimana, colorerebbe l’Italia “tutta gialla” anzi con “bar e ristoranti aperti” per “far ripartire il Paese”. Come se gli altri non volessero ripartire. È la posizione di Matteo Salvini: “Basta con gli annunci, gli allarmi e le paure preventive che hanno caratterizzato gli ultimi mesi, se ci sono zone più a rischio si intervenga in modo rapido e circoscritto, si acceleri sul piano vaccinale, ma non si getti nel panico l’intero Paese”, ha scritto ieri mattina su Facebook.
Le prime decisioni del governo sono attese per martedì 23, il Consiglio dei ministri è già convocato e dovrebbe intanto prorogare fino al 5 marzo il decreto legge in scadenza giovedì 25 sullo stop ai movimenti interregionali (salvo le consuete deroghe per lavoro, salute, necessità e rientro a casa, comprese le seconde case). Le varianti corrono, si attendono i nuovi dati dell’Iss su inglese, brasiliana e sudafricana: tutte sono più contagiose, quella inglese in misura del 39% secondo la prima stima dell’Istituto; potrebbe già rappresentare un terzo dei contagi. Nuove zone rosse sono state disposte anche nel Lazio a Colleferro e Carpineto (Roma) dopo Umbria, Abruzzo, Marche, Molise, Lombardia e Piemonte.