AstraZeneca, altro taglio: è impunita per contratto. L’Italia non ha fatto causa

Le minacce di azioni legali della Commissione europea e dell’Italia contro AstraZeneca per il ritardo nella consegna delle dosi di vaccino Covid si rivelano un castello di carta. A sconfessarle sono le clausole che il Fatto ha individuato nella versione integrale del contratto di fornitura, di cui abbiamo dato notizia due giorni fa. La disposizione più cruciale, coperta da omissis nel documento desecretato a fine gennaio, recita testualmente: “La Commissione europea e gli Stati membri rinunciano a qualsiasi rivendicazione verso AstraZeneca per i ritardi nelle consegne”. Secondo Colin McCall, partner dello studio legale internazionale Taylor Wessing, ciò non lascia più dubbi sull’infondatezza dei reclami per l’annunciata riduzione delle dosi previste per il primo trimestre 2021.

Il taglio del 60% (per l’Italia 3,4 anziché 8 milioni di dosi) è poi stato contenuto, ma ieri l’azienda anglo-svedese ha comunicato alle Regioni un’ulteriore decurtazione tra il 10 e il 15% delle forniture: invece di 566 mila fiale questa settimana ne arriveranno 506 mila. Il produttore assicura di consegnare all’Italia 4,2 milioni di dosi entro fine marzo. Vedremo. I presidenti delle Regioni protestano, si ripropone la situazione di gennaio quando prima Pfizer/Biontech ha rallentato unilateralmente le consegne concordate e poi proprio AstraZeneca ha comunicato ritardi. Il commissario Domenico Arcuri aveva annunciato azioni legali contro Pfizer/Biontech, si era parlato perfino di una denuncia penale e la questione è stata affidata da Palazzo Chigi all’Avvocatura dello Stato. Così è partita una diffida, a cui l’azienda ha risposto confermando le difficoltà nello stabilimento di Puurs (Belgio), ma anche l’impegno a recuperare entro marzo le mancate consegne di febbraio. Azioni giudiziarie sono state escluse, fonti della Presidenza del Consiglio assicurano che il contratto concluso da Pfizer/Biontech con la Commissione Ue – tuttora segreto – non offre margini. Peraltro “l’eventuale inadempimento potrebbe essere contestato solo al termine del trimestre, davanti al Tribunale di Bruxelles. E la Commissione sarebbe tenuta ad avviare prima una procedura di conciliazione”.

Lo stesso vale per AstraZeneca. “Ricorreremo a tutti gli strumenti e a tutte le iniziative legali, come già stiamo facendo con Pfizer-Biontech, per rivendicare il rispetto degli impegni contrattuali e per proteggere in ogni forma la nostra comunità nazionale”, aveva avvertito l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il 23 gennaio, dopo che AstraZeneca aveva comunicato il ritardo. Bene, poi hanno capito che gli strumenti non c’erano. Nei confronti di AstraZeneca, per quanto Conte e lo stesso Arcuri fossero determinati, non è stata avviata neppure la diffida ad adempiere inviata a Pfizer/Biontech. L’Avvocatura di Stato non è stata coinvolta. Ora il contratto senza omissis ci dice perché e gli accordi nazionali sulle consegne non prevedono ulteriori obblighi sui tempi.

“Non sarei sorpreso se la stessa clausola fosse presente anche nei contratti firmati con le altre aziende – continua McCall –. Data la natura sperimentale dei vaccini, è improbabile che i produttori abbiano accettato scadenze vincolanti”. Concorda Clive Douglas, avvocato e mediatore commerciale di Nexa Law. L’art. 5.1 afferma solo che AstraZeneca farà il “massimo sforzo ragionevole” per consegnare tra 80 e 100 milioni di dosi da gennaio e marzo. È solo un impegno ad agire in buona fede. Ma a questa clausola si aggrappa la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per far valere l’inadempimento della società anglo-svedese. “L’inclusione della parola ‘approssimativamente’ implica che le date di consegna non sono precise”, puntualizza l’esperto di Nexa Law, riferendosi al calendario (incluso nell’accordo) che “neppure ribadisce – spiega – l’obbligo del ‘massimo sforzo ragionevole’”. Anche qui il foro competente è Bruxelles. “I governi hanno il diritto di interrompere i pagamenti solo per la tardiva ricezione delle dosi man mano notificate dal fornitore, ma non per la mancata spedizione dell’integralità delle dosi concordate per un dato mese”, conclude Douglas.

Gelmini sulla linea Speranza: si aspetta la parola di Draghi

Le Regioni vanno in ordine sparso. Il governo, aspettando Mario Draghi, meno. Tanto che Mariastella Gelmini, la neo ministra forzista degli Affari regionali, sembra Roberto Speranza: “Bisogna far capire che rischiamo la terza ondata, che dove ci sono le varianti mietono vittime, serve una comunicazione durissima”. A lei potrebbe andar bene anche la proposta di due o tre settimane di zona arancione in tutta Italia, avanzata da Stefano Bonaccini, il governatore dell’Emilia-Romagna che guida la Conferenza delle Regioni: “Ho grande stima di lui, è molto equilibrato, purtroppo però non c’è l’accordo delle Regioni”, dice Gelmini. No, non c’è. Sarebbe invece d’accordo Speranza, al quale i tecnici del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità ripetono da fine gennaio che bisogna stringere perché la variante inglese si avvia a divenire prevalente e genera il 39% di infezioni in più: Speranza però attende che a pronunciarsi sia Draghi. Ma il senso di responsabilità di Bonaccini non è condiviso da tutti i suoi colleghi presidenti di Regione: ieri il loro incontro in conference call si è concluso con la richiesta al governo di fare il possibile per migliorare l’approvvigionamento dei vaccini, la richiesta di “revisione dell’attuale sistema di regole che definisce l’entrata e l’uscita dalle diverse zone, una semplificazione – si legge nel comunicato finale di Bonaccini – con la contestuale revisione dei criteri e dei parametri di classificazione. Serve un respiro più lungo e un’analisi approfondita dei luoghi e delle attività, anche in base ai dati di rischio già accertati”, il che va bene anche al ligure Giovanni Toti, capofila degli aperturisti. È la vecchia questione dei parametri: meno spazio a Rt e più all’incidenza (che però dipende dai tamponi) e ai dati ospedalieri. Chiedono poi “che le misure siano conosciute con congruo anticipo e tempestività dai cittadini e dalle imprese”, cioè il venerdì è troppo tardi. E ovviamente, che alle restrizioni si accompagnino “contestualmente gli indennizzi per le categorie coinvolte”.

L’idea di maggiori restrizioni generalizzate, però, convinceva solo i presidenti che si sentono più a rischio contagi, indipendentemente dai colori politici: il leghista lombardo Attilio Fontana a un passo dall’arancione, i dem Eugenio Giani e Vincenzo De Luca che guidano Toscana e Campania già arancioni (come del resto da oggi anche l’Emilia-Romagna), ma sono contrari Massimiliano Fedriga (Friuli-Venezia Giulia), Alberto Cirio (Piemonte), diversi presidenti del Sud. Toti, che spera di lasciare l’arancione nel fine settimana, colorerebbe l’Italia “tutta gialla” anzi con “bar e ristoranti aperti” per “far ripartire il Paese”. Come se gli altri non volessero ripartire. È la posizione di Matteo Salvini: “Basta con gli annunci, gli allarmi e le paure preventive che hanno caratterizzato gli ultimi mesi, se ci sono zone più a rischio si intervenga in modo rapido e circoscritto, si acceleri sul piano vaccinale, ma non si getti nel panico l’intero Paese”, ha scritto ieri mattina su Facebook.

Le prime decisioni del governo sono attese per martedì 23, il Consiglio dei ministri è già convocato e dovrebbe intanto prorogare fino al 5 marzo il decreto legge in scadenza giovedì 25 sullo stop ai movimenti interregionali (salvo le consuete deroghe per lavoro, salute, necessità e rientro a casa, comprese le seconde case). Le varianti corrono, si attendono i nuovi dati dell’Iss su inglese, brasiliana e sudafricana: tutte sono più contagiose, quella inglese in misura del 39% secondo la prima stima dell’Istituto; potrebbe già rappresentare un terzo dei contagi. Nuove zone rosse sono state disposte anche nel Lazio a Colleferro e Carpineto (Roma) dopo Umbria, Abruzzo, Marche, Molise, Lombardia e Piemonte.

Vaccini, gli intermediari con la licenza ministeriale

Decine di broker di medicinali autorizzati dal ministero della Salute a trattare la vendita di farmaci con le istituzioni. Compresi, secondo l’interpretazione degli intermediari stessi, anche i vaccini anti-Covid, al momento – teoricamente – “vincolati” alla trattativa diretta fra Stato e case farmaceutiche. Un mercato di intermediari che si rifornisce da grossisti esteri. Ed è proprio su questo aspetto che si stanno concentrando gli accertamenti dei Nas, che in tutta Italia stanno raccogliendo le segnalazioni delle Regioni su proposte di mediatori “in grado”, secondo loro, di procurare “milioni di dosi” di Pfizer, Astrazeneca e Sputnik V, sia agli Enti locali, sia alla Struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri. Il tutto a un prezzo di poco superiore a quello assicurato dai contratti Ue. I broker sono dunque in grado di fornire realmente i vaccini? È la domanda che si pongono gli investigatori che hanno anche acquisito documentazione per capire se le autorizzazioni siano valide anche per i vaccini.

Le inchieste note al momento sono tre. La Procura di Perugia indaga su un broker messinese che il 28 gennaio ha inviato inviato un’email all’assessore umbro Luca Coletto, con la disponibilità a procurare dosi Astrazeneca. Si tratterebbe di un agente di commercio regolarmente autorizzato, ma la multinazionale anglo-tedesca ha già negato qualsiasi delega a privati. Perugia, in collaborazione con i Nas di Treviso, indaga anche sul caso del Veneto, dove il governatore Zaia è stato contattato da 20 intermediari e con sei di questi aveva iniziato un’interlocuzione di cui ha informato Palazzo Chigi. L’altro fascicolo è aperto a Roma, dove i pm – che indagano per ricettazione – hanno raccolto l’esposto di Arcuri su tre mediatori che si sono offerti di procurare Astrazeneca e Sputnik. Infine, la Procura di Milano, che ha recepito un esposto contro ignoti presentato da Astrazeneca.

Ieri mattina, nella sede dei Nas a Roma, si è tenuto un vertice fra i comandanti del reparto operativo nazionale, della sezione Nas dell’Aifa e i Nas di Perugia. L’obiettivo: lo studio di una strategia comune alla luce di una normativa che, sostiene chi indaga, sembra non poter impedire ai broker di fare il proprio mestiere, ossia proporre e vendere farmaci. E quindi, in teoria, anche i vaccini.

“Io lavoro con grossisti che si trovano in Belgio, Svizzera e Dubai. Loro hanno le dosi che hanno comprato da Pfizer sul mercato internazionale, e io ne propongo l’acquisto alle istituzioni”, racconta al Fatto uno degli intermediari inseriti nella lista acquisita dai pm di Perugia, dei 20 agenti che hanno contattato la Regione Veneto. L’uomo domani sarà ascoltato dagli inquirenti umbri come persona informata sui fatti. Anche lui ha la licenza rilasciata dal ministero della Salute il 22 novembre scorso. Il documento, verificato con fonti dell’autorità giudiziaria, risulta autentico. “È lo stesso sistema che hanno utilizzato la Germania e Israele per acquistare dosi fuori sacco”, assicura l’agente. il 18 febbraio, al Corriere Veneto, Pfizer aveva dichiarato di non fornire il “vaccino al mercato privato in questo momento”.

Per Astrazeneca, replica Piero Di Lorenzo, direttore della Irbm di Pomezia, lo stabilimento inserito nella filiera produttiva del siero di Oxford: “Per quanto riguarda il nostro farmaco, non esistono grossisti o intermediari, la trattativa è solo con i governi”, assicura. Intanto, l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, lancia l’allarme: “Ci è stata comunicata una riduzione di 9 mila dosi del vaccino Astrazeneca per le prossime consegne. Mi domando come possano conciliare le presunte offerte di mediatori proposte ad alcune Regioni con l’acclarata riduzione”. Proprio su questo stanno lavorando gli investigatori.

Mafia e ’ndrangheta, il patto per comandare in Piemonte

Un patto segreto fra ’ndrangheta e Cosa Nostra “per evitare di farsi la guerra” e “sviare le forze dell’ordine”. Non una semplice “coabitazione”, formula già vista in passato, soprattutto al Nord. Il meccanismo descritto dal collaboratore di giustizia siciliano, Ignazio Zito, affiliato alle cosche, è una vera e propria “alleanza”, un sodalizio deciso a “livelli altissimi in Calabria”. E sperimentato poi sul campo in Piemonte, in particolare nel triangolo fra Alba, Asti, Moncalieri e soprattutto Carmagnola, feudo del clan Bonavota, originario di Sant’Onofrio, Vibo Valentia.

Un territorio conquistato con il terrore, uno scenario da profondo Sud: estorsioni, pizzo, pestaggi, attentati. E poi incendi ad auto e negozi, spari ai commercianti che non pagano, auto incendiate a politici locali che si oppongono al gioco d’azzardo o non danno appalti alle ditte gradite. Una “pervasività” che arriva fino a business apparentemente minori: truffe, furti e ricettazioni di motozappe, la produzione di soldi e documenti falsi (“portammo un milione di banconote dalla Calabria in una roulotte”), fino ai matrimoni finti per regolarizzare stranieri. Per questo c’era anche un prezzario: 7mila euro per gli uomini, 6mila per le donne. Davanti al sindaco Ivana Gaveglio (non è indagata), si presentava sempre lo stesso testimone, Zito: “So che un gruppo di amici – dice – ha sostenuto anche la sua lista”.

Siciliani e calabresi, racconta il pentito, hanno messo in comune tutto, come due società dopo una fusione: “Uomini, armi, droga, cassa e guadagni”. Arrivando a infrangere un tabù: “riunioni” e “affiliazioni” congiunte, nonostante usi e tradizioni diverse. Una pax mafiosa siglata con la garanzia dei capiclan della zona: da un lato il capomandamento Antonino Buono, che “riferisce a Matteo Messina Denaro”, e il suo capodecina Franco Messina; dall’altro, i boss calabresi, Rocco Zangrà e i suoi feroci luogotenenti, i fratelli Franco e Salvatore Arone. “Un giorno chiesi a Rocco come mai Cosa Nostra e ’ndrangheta lavorassero insieme – ricorda Zito – lui mi spiegò che sia i capi delle cosche siciliane sia i calabresi si erano messi d’accordo durante una riunione in Calabria, per sviare le forze dell’ordine. Un giorno lo chiesi a Tonino Buono: mi disse che in quel modo non ci sarebbe più stato attrito tra noi e la ’ndrangheta”.

Nel 2018, nel corso di quasi un anno, Zito, assistito dall’avvocato Guglielmo Busatto, affida la sua lunga confessione ai pm della Dda di Torino, Monica Abbatecola e Paolo Toso. Un resoconto raccolto in numerose audizioni, diventate la base dell’inchiesta antimafia Carminius, che nel 2019 ha portato allo smantellamento dell’organizzazione, oltre 40 membri attivi tra Piemonte e Liguria. In quello stesso blitz viene arrestato anche l’ex parlamentare Roberto Rosso, FdI, indagato per voto di scambio. Per entrare in consiglio comunale a Torino, secondo i pm, ha pagato pacchetti di voti a emissari del boss Onofrio Garcea, referente delle famiglie di Sant’Onofrio a Genova. Garcea, già in carcere per una condanna per associazione mafiosa, ha patteggiato per quei fatti altri 4 anni e 8 mesi.

L’operazione della Dda di Torino, condotta dal Gico della Guardia di Finanza e dai carabinieri del Ros, è andata in parallelo all’operazione Rinascita Scott del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

In queste settimane si sta discutendo il dibattimento nell’aula bunker del carcere Le Vallette di Torino. Il clima di paura e il tono spesso intimidito dei testimoni, descrivono bene l’incubo in cui è sprofondata questa fetta di Nord. Lo racconta, per i magistrati, anche la vicenda dell’estorsione all’ex calciatore di Milan e Torino, Gigi Lentini, oggi imprenditore (non indagato): “Pagava 1.000 euro al mese”, dice Zito. Anche se l’episodio più sospetto è un versamento da 100mila euro finito a un soldato degli Arone. Lentini ha minimizzato: “Era un prestito, sono generoso. Mi chiedete se è normale? Certo se uno è coglione come me”. È una versione che non convince la Procura. “Se non pagava, se diceva che era un’estorsione, finiva che lo ammazzavano e gli prendevano l’azienda”, dicono alcuni uomini intercettati.

Il potere criminale di questo super clan nel tempo è diventato enorme: “Dopo l’alleanza – secondo Zito – prima di fare qualsiasi cosa, calabresi e siciliani parlano tra di loro”. Due realtà insomma indistinguibili: “Avendoli visti lavorare assieme, non so dire se uno sia uomo di Arone o di Buono, poi ognuno riferisce ai propri vertici”. La decisione di collaborare con la giustizia di Zito nasce dopo un salto di qualità che lo spaventa. Un giorno Zangrà gli mostra un sacchetto con sei bombe a mano: “Le aveva fatte arrivare dalla Calabria per usarle contro una persona importante, che dava fastidio all’organizzazione e camminava con la scorta. Io non volevo un altro Falcone”. Chi fosse l’obiettivo resta un mistero.

Carmagnola: un far west tra pizzo, incendi e zero multe per gli affiliati

Racconta il pentito Ignazio Zito: “Il pizzo lo pagavano tutti”. “Il benzinaio, la cartoleria, la concessionaria Renault, il ferramenta, la ditta edile, il negozio di animali. Anche l’ex calciatore Lentini”. Chi rifiutava finiva male. A un gioielliere e a una ditta di serramenti sparano alle vetrine. Un proprietario di casa si trova a pagare un inquilino moroso, che scopre essere legato ai clan. Un barista compra l’attività sbagliata, gliela vendono i calabresi, che dopo aver incassato i soldi della vendita gli impongono il pagamento di 500 euro al mese. In un’altra compravendita si presentano (senza titolo) i fratelli Arone, che mettono sul tavolo una pistola: “Adesso questo debito lo devi chiedere a noi”, dicono al malcapitato creditore. E Zito aggiunge un altro dettaglio: “Mi dissero che anche Juventus e Torino pagavano 5mila euro al mese alla ’ndrangheta. Non so se sia vero”.

Era un mondo al contrario quello di Carmagnola. Un paese dove le leggi erano piegate alla prepotenza di poche famiglie. Un po’ come nella “Ranirate” immaginata da Piero Colaprico ne La Strategia del gambero. Non siamo in Lombardia, ma in Piemonte. E questo non è un romanzo. Per il resto la realtà di questo “profondo Nord” sembra uguale. Alessandro Cammarata, Forza Italia, era assessore ai lavori pubblici: “In giunta ci siamo occupati di slot – racconta ai magistrati – vietando che venissero installate a meno di 500 metri dalle scuole”. Non è l’unico provvedimento sgradito ai clan. Cammarata esclude da alcune gare ditte controllate sotto falso nome dal boss Tonino Buono. Gli bruciano due macchine. Oggi l’assessore vive sotto scorta. E settimana prossima testimonierà davanti ai giudici.

Davanti alla corte è atteso anche Vincenzo Inglese, vicesindaco e militare in pensione. Anche la sua macchina è andata a fuoco, il 28 agosto 2016: “Dopo altri qualche giorno la fioraia che abita di fronte a me mi disse che nel suo negozio si stava parlando dell’incendio. Una persona le riferì che era un fatto doloso. Il motivo era l’ordinanza contro il gioco d’azzardo”. Le azioni mafiose, a Carmagnola, erano sulla bocca di tutti. E non era strano che fosse un quisque de populo a spiegare al vicesindaco come stavano davvero le cose. Bastavano anche sgarri minimi. Buono fa bruciare l’auto di un funzionario comunale perché alla Sagra del peperone non ha assegnato un premio sportivo alla figlia Ramona, campioncina di karate. “Un maresciallo – ricorda Inglese – mi disse che chi bruciava auto a Carmagnola era lui”. La giunta guidata da Ivana Gaveglio a un certo punto si rende conto che la polizia municipale evita accuratamente controlli e multe alle attività degli affiliati. Così, sostituisce il comandante. D’emblée, 14 vigili, tra loro il vicecomandante Marcello Tedesco, chiedono il trasferimento: “Ci sembrò una provocazione – ricorda la sindaca – accettammo tutte le domande”.

I potentissimi e sfrontati clan di Carmagnola si sono infilati anche nei fondi erogati alle imprese genovesi messe in ginocchio dal crollo del Ponte Morandi. Tra i soggetti destinatari degli sgravi fiscali della Zona franca urbana c’è infatti la Progetto service srl. Quando ha ottenuto gli incentivi, 124mila euro, era già sotto sequestro antimafia e il caso è uno di quelli al vaglio della Finanza, che indaga sui mancati controlli. La società è intestata a Vincenzo Multari. Per gli inquirenti è un prestanome di Francesco Pugliese, amministratore di un numero importante di concessionari e officine Fiat in Piemonte e Liguria, accusato di associazione mafiosa.

Crolla il sipario: 1 miliardo e mezzo bruciato nel 2020

Fermi tutti, e da un anno, a parte timide e sporadiche riprese estive: è dal 23 febbraio 2020 che le sale di cinema, musica e teatro sono chiuse a causa della pandemia. Un bilancio impietoso: un miliardo e mezzo di euro in fumo, di cui quasi uno per palco e maxischermo.

Piange il botteghino. Gli ultimi dati Siae certificano che il settore (tutto: dal cinema al circo, dallo sport alle mostre) è in crisi nera: nel 2020 sono stati bruciati 4,1 miliardi. Gli ingressi degli spettacoli di lirica e prosa sono stati appena 6,8 milioni, il 70 per cento in meno del 2019 (23,3 milioni). Calano un po’ meno gli eventi, 46 mila, ovvero -65 per cento rispetto all’anno precedente Covid-free. La spesa al botteghino è crollata a 92 milioni: persi 334 milioni, -78,45 per cento (erano 426 milioni e passa nel 2019). L’Agis, conteggiando anche gli eventi di musica leggera e danza, stima che gli incassi sono stati solo 177 milioni di euro, mentre le perdite si aggirano sui 582 milioni.

Questi fantasmi. Sempre secondo l’Agis, la platea dei lavoratori dello spettacolo è di circa 140 mila persone, la cui retribuzione mediana annua è di circa 4.328 euro per i dipendenti e 194 giorni di lavoro, benché il 77 per cento della categoria non arrivi a 90 giornate (dati Istat). La platea, tuttavia, è vastissima: se si considerano – come fa l’Inps – tutti i lavoratori con almeno una giornata pagata all’anno si arriva a 330 mila persone, con una retribuzione media di 10.664 euro.

Ristori e ristorati. Dei 140 mila lavoratori “ufficiali”, l’Inps ne ha “aiutati” 48.705 con almeno un assegno, tra i vari bonus: quelli mensili da 600 euro, le indennità onnicomprensive di 1.000 euro e le ultime previste dai decreti Ristori. In totale sono stati erogati in sussidi 192 milioni di euro. Il Mibact (da poco tornato Mibac, senza Turismo, ndr) ha elargito 11 miliardi di euro a sostegno di cultura e turismo, da marzo a dicembre 2020, tra cui dieci milioni – con Cassa Depositi e Prestiti – per la discussa “Netflix della cultura”: ItsArt, una piattaforma digitale con contenuti teatrali e cinematografici. Aggiornando i dati ai primi due mesi del 2021, 318 milioni di euro sono andati ad assegni e iniziative per i lavoratori dello spettacolo e 571,7 milioni di euro per tutto il comparto dal vivo: di questi, 500 milioni sono destinati ai soggetti foraggiati dal Fus in deroga agli obblighi di produzione (!), mentre 14 milioni vanno ai teatri privati e alle piccole sale e appena 53,6 milioni alle tante piccole realtà “extra Fus”.

Gli invisibili. Li chiamano “extra Fus”: sono quel mondo di compagnie piccole e grandi, sale cinematografiche, associazioni, intermittenti, liberi professionisti, ovvero tutte quelle realtà che sono escluse, storicamente, dai contributi che il Ministero versa a Stabili, Tric e compagnie attraverso il Fondo unico dello spettacolo. È da un anno che questo piccolo, ma vasto, mondo lotta per farsi almeno notare, se non aiutare. Il ministero finora ha erogato per loro solo 53,6 milioni di euro, e quel mondo rischia di essere spazzato via. Lo racconta Filippo Tognazzo di Rete Spettacolo dal vivo, uno dei tantissimi gruppi nati nel periodo del lockdown: “Per noi è comunque qualcosa: è la prima volta che vengono stanziati fondi per le realtà come la nostra; prima per il Mibac non esistevamo”. Il paradosso è che i soggetti Fus, in molti casi, escono economicamente più forti di prima, ricevendo a porte chiuse le stesse risorse di quando erano in attività. “Ciò che manca è una strategia, non solo per noi ‘piccoli’”, prosegue Tognazzo. “In attesa di riaprire al pubblico, si potrebbero fare adeguamenti, lavori di restauro, progetti per ripensare il teatro…”. Il governo, in questo intricato mondo di lavoro povero e precario, quando non in nero, sta cercando di raggiungere una platea di oltre 80 mila soggetti, calcolata sulla base delle giornate “ex Enpals” (oggi Inps, ndr), ovvero i giorni di lavoro “direttamente connessi con la produzione e la realizzazione di spettacoli”. Eppure non mancano gli esclusi, come le migliaia di artisti che campano soprattutto di corsi e insegnamento, che non sono riconosciuti: questi ultimi hanno ricevuto solo i bonus generici per le partite Iva, o risibili assegni dalle Regioni.

Che Cinema. Anche il grande schermo è listato a lutto, al netto dei ristori: 1,1 miliardi dal Mibac tra fondi e contributi. A dar retta ai dati Siae, l’attività cinematografica nel 2020 ha registrato una diminuzione del 70,86 per cento degli ingressi e, parallelamente, un calo della spesa al botteghino del 71,55 per cento: il responsabile, ovviamente, è il Covid, che ha bruciato 74 milioni di spettatori e 478 milioni di euro. Differiscono di pochi decimali i computi del box office diffusi da Cinetel: 182,5 milioni di incassi per un numero di presenze in sala pari a 28 milioni, che segnano sul 2019 una diminuzione rispettivamente del 71,30 per cento e del 71,18. Decisiva la chiusura dei cinema per mesi a causa dell’emergenza sanitaria; prima del lockdown, i segnali erano invero lusinghieri: gennaio aveva registrato il terzo miglior incasso degli ultimi dieci anni e il quarto in assoluto, superiore ai 100 milioni di euro, dal 1995; a febbraio il mercato cresceva di oltre il 20 per cento rispetto al 2019, e tutto lasciava ben sperare per il prosieguo della stagione. Invece no, dall’8 marzo al 31 dicembre abbiamo contabilizzato un calo del 93,2 per cento degli incassi e del 92,96 per cento delle presenze. Tolo Tolo di Checco Zalone ha fatto il pieno con 46,2 milioni di euro, poi altri due titoli sempre italiani, Me contro Te – il film (9,5 milioni) e Odio l’estate (7,5 milioni), per una quota nazionale passata al 50,4 per cento dal 41,5 del 2019, ma sono magre, anzi, inesistenti consolazioni: oltre che sull’aspetto occupazionale, allo scadere del blocco dei licenziamenti, c’è da interrogarsi su quanti dei 1.309 cinema per 3.367 sale (ivi comprese le arene estive) censiti riapriranno. Se distribuzione theatrical ed esercizio riscrivono l’epitaffio di papà Lumière: “Il futuro è un’invenzione senza cinema”, l’ottimismo è della produzione, e con più di qualche buona ragione: un tot a uso piattaforme streaming, un po’ aspettando tempi migliori, film e serialità fanno dell’Italia un set a cielo aperto. Basterà?

“Non solo noi artisti: si sono dimenticati del pubblico pensante”

Massimo Popolizio, lei fa parte di Unita, l’associazione che chiede almeno di illuminare i teatri. Cosa sperate di ottenere?

Posso parlarle da un punto di vista personale. Vorrei spostare l’attenzione non più sugli addetti ai lavori, su quanto abbiamo perso, tra soldi, lavoro, recite: io ne ho bruciate 120. Dedichiamoci ora non a chi fa il teatro, ma a chi è destinato: è incredibile come la parte “migliore” del Paese – quella più aperta, progressista, creativa, che frequenta i musei, l’opera, i concerti, la danza, i teatri… – sia stata abbandonata. È stato detto: “Non rompeteci i coglioni. State a casa e guardate Netflix”. Che visione si ha del futuro? Nessuna.

I dati dicono però che il pubblico è diminuito…

Colpa del contingentamento, che obbligava a riaperture, quando consentito, al 50 per cento della sala. Noi artisti vogliamo riaprire, certo, ma in totale sicurezza: distanziamento, igiene, mascherine e chiusura entro le 22. Il teatro è iper-controllato, molto più della Rinascente o del bar sotto casa, e ha dimostrato di essere all’altezza delle restrizioni. E poi, a casa sulla poltrona, non comanda lo spettacolo, ma il telecomando. In sala perlomeno sviluppi capacità critiche.

Per paradosso, i soggetti già finanziati dal Fus reggono, ma tutti gli altri?

Non mi interessa l’assistenzialismo: non è che se dai 4-5 mila euro a una compagnia, vuol dire che questa esiste. O che se ricevi fondi per lo streaming, esisti come teatro. Lo streaming è la grande trappola e i clic farlocchi: la quantità di spettatori non è davvero calcolabile, figuriamoci la qualità dell’attenzione. Che succederà da qui a un anno? Intanto, possiamo fare un programma, organizzare il rientro, o no? Il teatro non è una pizzeria: non si può riaprire dall’oggi al domani, occorre almeno un mese e mezzo o due di programmazione. Diamoci tempi, scadenze, date: abbiamo bisogno di una visione. Non si può dire “Vedremo”. La famosa parola “cultura”, di cui tutti si riempiono la bocca come un toast, è inutile perché nessuno sta facendo uno sforzo, compreso il “mio” ministro (Franceschini, ndr), per riaprire. La Azzolina, al di là del giudizio politico, lavorava per aprirle, le scuole… Ci sarà un modo per riaprire anche le sale? Sì, i teatri si sono messi in regola. È servito a qualcosa? No.

A teatro vanno in pochi, però…

Sì, ma i numeri riguardano quella minoranza che è più importante della maggioranza: è la minoranza pensante del Paese…

Non sono d’accordo.

Chi va a teatro è molto diverso da chi va all’Ikea.

Ma non è detto che chi va all’Ikea non pensi…

Eh, vada all’Ikea e poi se ne accorge… Non è vero che siamo tutti uguali. Chi legge libri pensa meglio di chi non li legge, purtroppo. Se castri quel tipo di persone, dicendogli: “Devi guardare la televisione. Accontentati”, è un messaggio negativo. O vogliamo continuare così finché siamo tutti vaccinati? Chi vuole partecipare alla vita culturale è stato messo da parte: “Grazie, arrivederci”. Vogliamo programmare il futuro? Vogliamo affrontare il problema o ci rassegniamo tutti a guardare Rai1? Non è solo un problema economico: se fosse così, ci accontenteremmo degli 800 euro di sussidi… È un problema di visione della vita culturale di un Paese: chi la fa così come chi la fruisce.

Alcuni teatri non stanno facendo nulla, neanche lo streaming

È saggio; lo streaming è un alibi terrificante. Sappiamo tutti che gli spettacoli in video sono delle merde, però dobbiamo dire “meglio che niente”. Ok, ma ci sono testi e testi, che ricevono più o meno danni: penso ad esempio ai reading… Purtroppo la pandemia ha livellato i prodotti: non importa più se uno spettacolo è bello o brutto, l’importante è che si faccia. Come lo fai, non interessa. Il giudizio ultimo delle persone in sala non c’è più: niente applausi né gradimento del pubblico, la sua energia, il suo affetto.

Covid-19: addio Bellugi, bandiera dell’Inter. Aveva già avuto l’amputazione delle gambe

“Questo Covid, insieme a un’anemia, si è scatenato per bene e mi ha mandato le gambe in cancrena. O eliminavo loro o eliminavo me… Comunque, prenderò le protesi di Pistorius… ”. Ha provato a prenderla con ironia e coraggio fino alla fine Mauro Bellugi. A dicembre l’amputazione degli arti inferiori, poi la riabilitazione in ospedale. Sembrava ci fosse un miglioramento. Ieri invece la fine. L’ex difensore aveva giocato con Napoli, Pistoiese, Bologna e Inter. Ma soprattutto in nerazzurro aveva avuto la parte più importante della sua avventura calcistica: 137 presenze dal 1969 al 1974, la conquista dello Scudetto del 1970/71 e il suo unico e celebre gol contro il Borussia Mönchengladbach nel 1971 in Coppa dei Campioni, partita poi vinta 4-2. Era stato anche azzurro ai Mondiali argentini del 1978 e con la Nazionale collezionò 32 presenze. Il calcio lo ha commemorato già ieri con un minuto di raccoglimento sui campi. Il Bologna lo ha ricordato con il lutto al braccio. Lo stesso farà oggi la “sua” Inter nel derby contro il Milan.

Veneto Banca: l’ex ad Consoli rinviato a giudizio

Quando un processo nasce già morto, a causa della prescrizione. Decine di migliaia di piccoli risparmiatori di Veneto Banca attendevano dall’agosto 2016, quando venne arrestato, il rinvio a giudizio dell’ex ad Vincenzo Consoli. Quel giorno è arrivato ieri, mentre una piccola delegazione presidiava l’esterno del Tribunale di Treviso. Tardi, troppo tardi, perchè a fine novembre scadrà il tempo per perseguire i reati di truffa, aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Non si può dire che il pubblico ministero Massimo De Bortoli abbia battuto la fiacca, di fronte a un procedimento-monstre per complessità tecnica e numero di parti civili, anche perché lo ha ereditato – per decisione del gup di Roma sulla competenza territoriale – solo nel marzo 2018. Erano trascorsi quasi due anni dall’arresto del padre-padrone della banca e quattro anni dal manifestarsi della crisi finanziaria e gestionale che ha portato al crac e all’azzeramento del valore delle azioni, che per i clienti di Veneto Banca erano i risparmi di una vita. Anche il gup Gianluigi Zulian ha cercato di non perdere tempo, fissando al 10 aprile la prima udienza, con solo un imputato, che anche in caso di un’eventuale condanna di primo grado non rischia più il carcere. Davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario il pm Massimo De Bortoli, un mese fa, aveva detto con amarezza: “Lo sforzo dello Stato non c’è stato. Io mi sono sentito solo a portare avanti questa indagine. E’ stata dura. Al mio fianco ho avuto solo gli uomini della Guardia di Finanza”. I tempi della prescrizione sono implacabili e non tengono mai conto della carenza di organici o della complessità dei processi. Solo la contestazione di reati fallimentari, in un secondo filone, può riaprire la partita, ma pendono in Cassazione i ricorsi contro la dichiarazione dello stato di insolvenza, necessaria per formulare nuove accuse.

La Gdf: reddito a 145 “furbetti” accusati di mafia

Poveri in canna, tanto da rivolgersi allo Stato per chiedere un sussidio. Ma questa volta i “furbetti” del reddito di cittadinanza sono anche soggetti condannati per mafia. Una beffa scoperta grazie alle rete incrociata di controlli predisposta dalla guardia di finanza in collaborazione con l’Inps. Sono ben 145, tra condannati per mafia e loro familiari, che hanno deciso di presentare richiesta per ottenere il reddito di cittadinanza. Per 26 di loro sono già scattati i sequestri preventivi dei conti correnti. “Abbiamo ricostruito la lista di tutti i condannati per reati di mafia degli ultimi dieci anni – spiega Alessandro Coscarelli, comandante del Gruppo di Palermo della Finanza – l’abbiamo incrociata con quella dei percettori del reddito di cittadinanza. Un’analisi di 1.200 nomi”. Tra i beneficiari ci sono infatti nomi noti alle cronache come Antonino Lauricella, boss della Kalsa detto “U Scintilluni”, che ha ricevuto un sussidio di oltre 7 mila euro. Ma l’elenco dei 50 condannati per mafia, che hanno dichiarato con una autocertificazione di essere “indigenti”, è davvero lungo. C’è ad esempio Maria Vitale, figlia del capomafia di Partinico Leonardo, o Bartolo Genova, che è stato reggente del mandamento di Resuttana che gestiva la cassa dei clan. E ancora Alessandro Brigati, anche lui ritenuto vicino ai Vitale di Partinico. “La mafia non si è fatta scrupolo di sottrarre i sussidi destinati ai cittadini che sono in stato di bisogno in questo periodo di crisi pandemica”, spiega il generale Antonio Quintavalle Cecere, comandante provinciale della Gdf. Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso da Cosa nostra nel 1992, non riesce a nascondere la sua rabbia: “Leggere tra gli elenchi dei percettori del reddito di cittadinanza nomi di mafiosi che già mio fratello aveva indagato oltre 30 anni fa è avvilente. È evidente – sottolinea – che il meccanismo dell’autocertificazione produce storture gravissime”.