Danni d’immagine, la causa a Belsito

Adesso che il suo nome è associato solo a processi giudiziari, la Lega gli chiede i danni: “Si è indotto i lettori ad applicare un frame mentale, secondo cui se Belsito ha agito così, allora la Lega ne è corresponsabile”. Lo scrivono gli avvocati del Carroccio, che argomentano ai giudici come l’associazione del nome del partito al suo ex tesoriere Francesco Belsito è costata voti e reputazione. Sarebbe lui la causa del crollo di popolarità, arrivata al 4% nel 2013, a partire dall’inizio delle prime inchieste. C’è anche una quantificazione del risarcimento: mezzo milione di euro. Tanto varrebbe la popolarità infangata dall’ormai innominabile gestore dei conti. Eppure, gli anni successivi al suo mandato, quelli in cui si sarebbe concretizzata la lesione alla reputazione, sono gli stessi che attraversano il sistema del 15%, come mostra l’inchiesta del Fatto, e pure le indagini sul presunto riciclaggio degli ormai noti 49 milioni di euro.

La controversia è pendente a Genova (la sentenza è prevista per gennaio), dove peraltro è ancora in corso l’ultimo procedimento contro Belsito. Sotto accusa ci sono anche l’imprenditore Stefano Bonet e il faccendiere Romolo Girardelli, imputati per aver messo in piedi un’associazione a delinquere che aveva come obiettivo truffe fiscali. La lobby, sfruttando l’influenza dell’allora cassiere della Lega, si proponeva per consulenze farlocche a grandi società (tra queste Siram e Fincantieri), che in cambio lucravano sul meccanismo del credito d’imposta. In primo grado gli imputati sono stati tutti assolti. Il fatto singolare è che si tratta dell’unico procedimento in cui la Lega si è costituita parte civile contro il suo ex tesoriere. Non lo aveva fatto, ad esempio, nell’inchiesta milanese sulle spese della “Family” di Umberto Bossi, da cui emergeva che una parte consistente dei soldi pubblici andava a finanziare le più svariate necessità familiari del Senatur, circondato in quel momento dal “cerchio magico”. E non lo ha fatto nemmeno nel processo genovese sulla maxi-truffa ai danni dello Stato, costato al partito un sequestro da 49 milioni di euro. Eppure, nonostante la prescrizione abbia cancellato le condanne, è stato riconosciuto che Belsito operò una falsificazione sistematica dei bilanci, grazie alla quale fece incassare al partito 49 milioni di rimborsi. Salvini aveva prima annunciato la costituzione di parte civile, ma la verità è che, a conti fatti, la Lega non ha chiesto i danni in nessun processo in cui era coinvolto anche Bossi. Dopo sono arrivate le altre inchieste, sul presunto riciclaggio dei fondi del partito. E quelle, di sicuro, non riguardano più Belsito.

La testimone: “Bonomi disse ‘Pagavo Salvini sempre cash’”

“Il nero che gli imprenditori versavano veniva utilizzato a volte per la campagna elettorale degli esponenti politici e veniva gestito senza passare dalle casse del partito. Ad esempio ricordo che Bonomi, in quota Lega per la Sea, diede 20.000 euro in contanti a Salvini, circostanza che mi venne riferita dalla Dagrada”. Era il 29 maggio 2013 quando Francesco Belsito pronunciava queste parole nel carcere milanese di San Vittore, interrogato dai magistrati della Procura di Milano che all’epoca lo indagavano per appropriazione indebita, per lo scandalo dei soldi del partito usati per le spese personali sue e di Umberto Bossi. L’accusa rivolta quel giorno da Belsito a Salvini – aver ricevuto 20 mila euro cash dal manager Giuseppe Bonomi, o almeno questo gli avrebbe riferito la storica segretaria del Carroccio, Nadia Dagrada – cadde nel vuoto, e non risulta mai essere stata riscontrata dagli investigatori in tutti questi anni. Ora però c’è un’altra testimonianza, questa volta diretta, che sostiene la stessa cosa. E anzi aggiunge che quello scambio di contanti tra i due non sarebbe stato l’unico.

A raccontarlo al Fatto è un’ex dipendente della Lega Nord, che ha lavorato per quasi tutta la vita in via Bellerio prima di finire tra i 71 lavoratori lasciati a casa nel 2017 da Matteo Salvini in nome dell’austerità. La testimone, che ci ha chiesto l’anonimato, spiega di aver saputo direttamente da Bonomi dei contanti che il manager avrebbe dato al leader della Lega. “Era il 2013: Salvini era segretario della Lega Lombarda, poco dopo sarebbe stato eletto nuovo segretario federale sostituendo Roberto Maroni”, racconta.

Il manager sempreverde

Giuseppe Bonomi, varesino classe ’58, è da sempre un manager in quota Lega. Negli anni è passato per i cda di tutte le partecipate lombarde più importanti, da Sea a Expo, ma anche di carrozzoni nazionali come Alitalia e Anas. È ancora oggi lui il boiardo di punta del partito (basta guardare la gallery di foto che in tutti questi anni lo vedono immortalato con Bobo Maroni e con Attilio Fontana). Siede nel cda di Ferrovie Nord Milano e in quello di Dufry Italia, filiale del gruppo svizzero che controlla 2.400 duty-free negli aeroporti di mezzo mondo, tra cui quelli di Linate e Malpensa. Il suo incarico principale al momento è però quello di Ad di Milanosesto Spa: la società incaricata di gestire la ricostruzione dell’area delle ex acciaierie Falck di Sesto San Giovanni, il progetto immobiliare più grande d’Italia al momento.

Come tutti i manager in quota Lega – lo abbiamo raccontato nei giorni scorsi – Bonomi sarebbe tenuto a versare al partito il 15% di quanto incassa grazie alle nomine del Carroccio. Un bonifico regolare, detraibile dalle tasse. La fonte dice però di non aver mai visto in contabilità bonifici di Bonomi. “Ufficialmente lui non versava mai niente. I suoi versamenti a me risultavano zero”. Una versione congruente con quella offerta sette anni fa da Belsito ai magistrati di Milano, Alfredo Robledo, Roberto Pellicano e Paolo Filippini. Belsito mise infatti a verbale che Salvini non versò mai i 20mila euro ricevuti in contanti da Bonomi. Dai rendiconti finanziari interni e dai bilanci pubblici del partito risulta in effetti che Bonomi, pur essendo presente nelle liste dei “nominati” della Lega, non ha mai versato un euro di donazione.

L’incontro in via Bellerio

“Quando Salvini è diventato segretario della Lega Lombarda – continua la fonte – mandò da me Bonomi per fare un versamento. A quel punto mi stupii: non ha mai versato niente e adesso viene a versare? Io gli dissi: ‘Guardi, questo è l’Iban, faccia il contributo volontario’. Lui mi chiese quanto, e io come sempre dissi che doveva decidere lui, che era contributo volontario, e che se voleva chiedere consiglio poteva andare da altri, da Giampaolo Pradella, dallo stesso Salvini… Io stavo molto attenta a dire queste cose, perché altrimenti il contributo non era più volontario”. Ma il racconto dell’ex segretaria va avanti: “Allora gli dico: ‘Questo è l’Iban, ci faccia il bonifico, in modo che poi lo detrae anche dalle tasse’. E lui mi è saltato su: ‘Ah no, ma io a Salvini li ho sempre dati in contanti’. Al che a me è saltata la mosca al naso, e mi sono detta: ecco perché non risulta mai tra quelli che hanno versato…”. A questo punto chiediamo: erano soldi che Bonomi avrebbe donato in contanti a Salvini, e poi quest’ultimo avrebbe girato sul conto della Lega? “No, ma quali contanti alla Lega!”, risponde al Fatto l’ex dipendente. “Io non so dove li versasse quei soldi Salvini, a me Bonomi disse solo: ‘Io ho sempre dato i contanti a Salvini e vorrei andare avanti così’”. Tanto che l’allora segretaria si sarebbe infastidita: “Mi spiace – riprende lei a raccontare – qui in segreteria non funziona così, io contanti non ne prendo, non ne voglio, faccia il bonifico, arrivederci e ciao”. Contattati per un chiarimento, Salvini non ha risposto, mentre Bonomi ha smentito categoricamente la ricostruzione di Belsito e dell’ex segretaria.

“Vaccino day” entro fine anno. Poi la campagna

È tutto pronto per partire ai primi di gennaio con la campagna vaccinale più imponente della storia. Anche prima della fine dell’anno se l’Ema, l’agenzia europea del farmaco, darà il via libera fin dal 21 dicembre al vaccino dell’americana Pfizer e della tedesca Biontech. Il “V day” europeo, coordinato dai ministri della Sanità di Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda, Spagna e Svizzera, è dunque dietro l’angolo. Ieri ne ha parlato anche la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ma sarà una giornata simbolica con le dosi che i produttori potranno consegnare. L’ha annunciato ieri il commissario straordinario all’emergenza Coronavirus, Domenico Arcuri, dopo aver incassato l’ok delle Regioni al piano già illustrato dal ministro Roberto Speranza, le cui scadenze sono dunque anticipate. Si comincia con il personale dei presidi sanitari e i dipendenti e gli ospiti delle Residenze sanitarie assistenziali, che sono circa due milioni di persone. Ciascuna Regione avrà il suo quantitativo del primo stock di 1,833 milioni di dosi: 305 mila alla Lombardia, 183 mila all’Emilia-Romagna, 180 mila al Lazio e via via fino alle 3.300 della Valle d’Aosta. La Campania, che ne avrà 135.890, protesta perché voleva che fossero distribuite in funzione della popolazione. Anche la Sicilia si lamenta. Ma c’è poco da lamentarsi: le Regioni hanno indicato il numero delle persone da vaccinare, il primo stock non bastava per tutti, quindi è stato tagliato l’11 per cento delle richieste. Ma altri 2,5 milioni di dosi, spiegano dall’ufficio del commissario, arriveranno a breve, quindi serviranno per il secondo richiamo dei primi vaccinati e si potrà cominciare anche con gli over 80, la categoria indicata subito dopo. L’ufficio di Arcuri farà arrivare il “manuale” per le vaccinazioni alle Regioni. I centri di stoccaggio (servono frigoriferi a meno 80 grado) e quelli per le vaccinazioni sono stati definiti con l’impegno e il controllo centralizzato del commissario, se fosse stato fatto lo stesso nelle altre fasi della gestione della pandemia oggi il Paese starebbe meglio. È già iniziata la campagna di adesioni anche se la prima fase sarà abbastanza semplice: vaccinazioni negli ospedali destinate soprattutto a chi ci lavora. Ma ci sarà anche chi non intende immunizzarsi: il presidente della Federazione degli Ordini dei medici, Filippo Anelli, ha fatto appello ai suoi colleghi.

Mentre la Simg, la società scientifica dei medici di famiglia, ha chiesto che i suoi iscritti rientrino nel primo round. È stato pubblicato anche il bando per reclutare i vaccinatori, 3 mila medici e 12mila infermieri, cui dovrebbero aggiungersi qualche migliaio di laureati in Medicina iscritti alle Scuole di specializzazione, che però protestano: “La partecipazione alla campagna vaccinale non può essere barattata con la formazione, in quanto è una banale prestazione assistenziale che va retribuita. I giovani non devono essere sfruttati e discriminati”, sostiene Anelli.

Questo è solo l’inizio di una campagna. “I primi significativi effetti della vaccinazione li avremo in primavera – ha sottolineato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte –. Già a gennaio avremo le prime dosi e gli esperti indicano tra i 10 e i 15 milioni di abitanti vaccinati per ottenere questo effetto in primavera inoltrata, prima dell’estate”.

Sulla base dei contratti sottoscritti dall’Unione europea e destinati per il 13,46 per cento all’Italia secondo il suo peso demografico, Pfizer e Biontech nel primo trimestre dell’anno forniranno al nostro Paese 8,749 milioni di dosi (in totale saranno 26,92 milioni) e 1,346 milioni di dosi arriveranno da Moderna, l’altro colosso farmaceutico Usa che dovrebbe incassare la seconda autorizzazione (in totale dovrebbe fornirne all’Italia 10,768 milioni). L’Ema se ne occuperà il 12 gennaio. Al nostro Paese giungeranno in tutto 202 milioni di dosi ma i tempi non sono prevedibili. “Abbiamo 4 vaccini anti-Covid in valutazione all’Ema, Pfizer e Moderna a Rna messaggero e quelli a vettore virale di AstraZeneca e Janssen – ha spiegato Marco Cavalieri, a capo della task force dell’Ema –, per i quali ci vorrà un po’ più di tempo”.

Il salvavita “italiano” che noi non usiamo

Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump. Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali, quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. Da uno stabilimento di Latina escono furgoni carichi di questi farmaci, destinati però a salvare pazienti americani, non gli italiani. È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici. “Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle. Non si spiega”, ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano. Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso: “Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti”. Il tutto a 1.000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero.

Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950mila dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania. Non l’Italia, dove si producono. Il nostro Paese ha investito su un monoclonale made in Italy promettente, ma disponibile solo fra 4-6 mesi. Scienziati molto pragmatici si chiedono perché, nel frattempo, non si usino i farmaci che già si dimostrano efficaci altrove: fin da ottobre – si scopre ora – era stata data all’Italia la possibilità di usare questi anticorpi attraverso un cosiddetto “trial clinico”, nel quale 10 mila dosi del farmaco sarebbero state proposte a titolo gratuito. Una mano dal cielo misteriosamente respinta mentre il Paese precipitava nella seconda ondata.

Il farmaco – bamlanivimab o Cov555 – è stato sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly. La sua efficacia nel ridurre carica virale, sintomi e rischio di ricovero è dimostrata da uno studio di Fase 2 randomizzato (la fase 3 è in corso) condotto negli Usa. I risultati sono stati illustrati sul prestigioso New England Journal of Medicine. Dall’headquarter di Sesto Fiorentino spiegano che l’anticorpo è stato messo in produzione prima ancora che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile.

Dal 9 novembre, quando l’Fda (l’Agenzia Usa del farmaco) ne ha autorizzato l’uso di emergenza, gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi. In Europa si aspetta il via libera dell’Ema (l’Agenzia europea) che non autorizza medicinali in fase di sviluppo. Una direttiva europea del 2001 consente, però, ai singoli Paesi Ue di procedere all’acquisto e la Germania ieri ha completato la procedura per autorizzarlo. A breve toccherà all’Ungheria. E l’Italia? Aspetta. Avendo il suo cuore europeo alle porte di Firenze, finito lo studio, la società di Indianapolis ha preso contatto con le autorità sanitarie e politiche nazionali, anche italiane.

Il 29 ottobre in riunione con l’Aifa: collegati, tra gli altri, Gianni Rezza per il ministero della Salute; Giuseppe Ippolito del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma; il professor Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta che aveva favorito il contatto con Eli Lilly. Sul tavolo, la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10 mila dosi gratuite del farmaco che negli Usa ha dimostrato di ridurre i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%. In quel contesto viene anche chiarito che non sarebbe stato un favore alla multinazionale, al contrario: una volta che l’Fda l’avesse autorizzato, sarebbero partite richieste da altri Paesi.

L’occasione, da cogliere al volo, cade nel vuoto, forse per una rigida adesione alle regole di Aifa ed Ema che non hanno però fermato la rigorosa Germania. Altra ipotesi: l’offerta è stata lasciata cadere per una scelta già fatta a monte. Sui monoclonali da marzo il governo ha investito 380 milioni per un progetto tutto italiano che fa capo alla fondazione Toscana Life Sciences (TLS), ente non profit di Siena, in collaborazione con lo Spallanzani e diretto dal luminare Rino Rappuoli. La sperimentazione clinica deve ancora partire e la produzione, salvo intoppi, inizierà solo nella primavera del 2021. A quanto risulta al Fatto, l’operazione con Eli Lilly, che già due mesi fa avrebbe permesso di salvare migliaia di persone, non sarebbe andata in porto per l’atteggiamento critico verso questi anticorpi del direttore dello Spallanzani che lavorerà al progetto senese. “Non so perché sia andata così, dovete chiedere ad Aifa”, taglia corto il direttore Giuseppe Ippolito, negando un possibile conflitto di interessi: “Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza”.

Quando Fda autorizza il farmaco, la multinazionale non può più proporre il trial gratuito, ma deve attenersi al prezzo della casa madre. Per assurdo, sfumata l’opzione a costo zero, l’Italia esprime una manifestazione ufficiale di interesse all’acquisto. Il negoziato va in scena il 16 novembre alla presenza di Arcuri, del Dg dell’Aifa Magrini e del ministro della Salute Speranza. Si parla di prezzo e di dosi, ma il negoziato si ferma.

L’Aifa e la struttura di Arcuri – sentite dal Fatto – ribadiscono: finché non c’è l’autorizzazione Ema non si va avanti. Di troppa prudenza si può anche morire, rispondono gli scienziati. “Io avrei accelerato”, dice chiaro e tondo il consulente del ministro Walter Ricciardi, presente alla riunione un mese fa: “Con tanti morti e ospedalizzati, valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale”.

Per il professor Clementi, siamo al paradosso. “È importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone. Una fiala costa poco più di un giorno di ricovero e ogni risorsa che risparmi la puoi usare per altro. Tenere nel fodero un’arma che si dimostra decisiva è incomprensibile. Da qui, la mia sollecitazione all’Aifa”.

Certo, una soluzione al 100% italiana garantirebbe autosufficienza e prelazione nell’approvvigionamento. Da Sesto Fiorentino, però, rispondono che il loro farmaco, oltre ai benefici in termini di salute e risparmio, avrebbe avuto anche ricadute economiche per l’Italia: nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina Bsp Pharmaceutical. “Se andrà bene potremmo distribuirlo non solo negli Usa, ma anche in Italia”, esultava a marzo il titolare dell’impresa pontina, Aldo Braca. Nove mesi dopo, invece, da Latina il farmaco va solo all’estero.

Caro-biglietti per chi viaggia sui treni a Natale

Meno posti, prezzi alle stelle. I passeggeri in partenza in questi giorni lo denunciano da settimane: i biglietti dei pochissimi treni che circoleranno durante il periodo natalizio, a cavallo del blocco degli spostamenti previsto dal Dpcm del 3 dicembre, sono stati venduti a carissimo prezzo. In alcuni casi, si tratta addirittura di aumenti del 50%. Prezzi alla mano, per andare da Milano a Salerno si arriva a spendere oltre 152 euro, 183,45 euro per raggiungere Bari partendo da Torino, 198,30 euro per andare da Milano a Reggio Calabria e – denuncia il Codacons – addirittura 211,50 euro da Torino a Reggio Calabria. Ed è inutile cercare i soliti sconti o le offerte speciali che normalmente propongono Trenitalia e Italo. “Significativi aumenti dei prezzi” registrati tra il 15 dicembre e il 15 gennaio 2021 che hanno spinto l’Autorità garante della concorrenza ad avviare una pre-istruttoria chiedendo alle due società di inviare le proprie motivazioni, entro tre giorni.

In altre parole, Italo e Trenitalia dovranno spiegare quali criteri hanno utilizzato per determinare il numero di collegamenti e i posti disponibili per fronteggiare il prevedibile incremento della richiesta di biglietti sotto le festività natalizie. Da chiarire i criteri con cui vengono determinati i prezzi rispetto alla tariffa base normalmente applicata. Si sa, il Covid ha stravolto tutto. Anche gli spostamenti ferroviari condizionati dal limite di riempimento al 50% sui treni veloci.

Se Trenitalia ha preferito non commentare, Italo ha spiegato che “a causa della seconda ondata di contagi e dei conseguenti provvedimenti, si è vista costretta ancora una volta a ridurre la propria offerta commerciale a 8 servizi giornalieri da fine ottobre a fronte di un calo della domanda che ha raggiunto picchi di oltre il 90%”. Il che equivale a una Caporetto per le entrate di un’azienda privata come Italo (un po’ meno per l’ex monopolista Trenitalia). Così, anche se le tariffe non sono state ritoccate (“Il listino con i prezzi base è immutato da oltre un anno”, ha spiegato Fs a inizio dicembre) la massiccia richiesta di prenotazioni avrebbe comunque causato un effetto distorsivo sui prezzi: esauriti sconti e offerte base, sono rimasti solo i biglietti delle classi più elevate e, quindi, più cari.

Secondo Altroconsumo, se lo scorso 6 marzo 2020 i prezzi della tratta Milano-Roma sulla linea Frecciarossa di Trenitalia oscillavano tra i 95 euro della tariffa base standard e i 129 euro della business, per viaggiare il 22 dicembre con un biglietto a tariffa base standard si rischia di spendere anche 110 euro, praticamente il 10% in più rispetto a marzo. Ed ancora. Secondo Coldiretti, “l’aumento anomalo dei prezzi e i previsti limiti agli spostamenti costringeranno quasi un italiano su tre ad anticipare le partenze per le feste di Natale prima del blocco che scatterà il 20 dicembre”.

Il lockdown a metà. Verso la zona rossa per “soli” otto giorni

Quasi cinque ore di riunione e ancora un nulla di fatto. Se non una certezza: le scelte che dovevano servire a “salvare il Natale” non sono bastate. E oggi, a una settimana dalla vigilia, arriverà la nuova stretta che probabilmente farà “rossa” l’Italia nei giorni festivi e prefestivi. Siamo ancora alle ipotesi, va detto, perché ancora ieri sera tardi il premier Conte era riunito con i capidelegazione, nemmeno questa volta al completo, visto che la renziana Teresa Bellanova è stata assente sia al lunghissimo vertice del pomeriggio che a quello serale, nonostante il rientro dalla ormai nota trasferta a Bruxelles che aveva già fatto slittare a stamattina il faccia a faccia tra il premier e Italia Viva sulla verifica di governo. Anche a loro, Conte, illustrerà il compromesso che pare ormai siglato con l’ala più rigorista del governo, che voleva il lockdown nazionale già da questo weekend e fino alla Befana. Il compromesso dice che lockdown non sarà: troppo pesanti le ripercussioni economiche e sociali di una scelta così radicale.

Non se la sono sentita, insomma, di usare la mano dura, tanto meno contro chi, tra domani e domenica si muoverà per raggiungere amici e parenti in altre Regioni. Fuori, c’era Matteo Salvini che già tuonava: “Non facciano scherzi domani (oggi, ndr) per venerdì perché creano il caos sociale”. In coro, i suoi governatori suonavano la gran cassa contro il governo che scrive “provvedimenti improvvisi, punitivi e non organizzati che rischiano di danneggiare famiglie e imprese già fortemente colpite dalla crisi”. E pazienza se qualche ora prima, nella riunione delle Regioni con il ministro Boccia, era stato proprio il leghista Luca Zaia a intimare: “O le restrizioni le decide il Governo oppure le faccio io”. Lui, ma anche il lombardo Attilio Fontana e il campano Vincenzo De Luca, hanno sostenuto la necessità della zona rossa nazionale dal 24 dicembre al 7 gennaio. Più tiepida la Toscana che, per dirla con il presidente Eugenio Giani, “ha già dato” e quindi chiede di non tornare subito alla serrata totale. Vorrebbe misure differenziate a livello territoriale anche la Liguria guidata da Giovanni Toti, sulla base del sistema delle Regioni “colorate” che è stato usato finora. Mentre altri, come la Puglia di Michele Emiliano si domandano quale sia “la prospettiva”: “Che succede dopo il 7 gennaio? Facciamo i rigoristi a Natale – è il senso delle sue parole – e subito dopo riapriamo le scuole?”. Il pressing per mantenere la didattica a distanza, come prevedibile, è già cominciato, anche se Conte assicura che c’è un “grande lavoro” per far tornare i ragazzi in classe.

Anche le vacanze, purtroppo, pare dovranno passarle quasi del tutto a casa: l’ipotesi al vaglio del governo, dicevamo, prevede la zona rossa nei festivi e prefestivi. Tradotto significa dal 24 al 27 dicembre compresi e dal 31 al 3 gennaio: otto giorni su 14 non si potrà di fatto uscire dalla propria abitazione se non per motivi urgenti da autocertificare. Ma anche per i giorni feriali resta l’ipotesi della zona arancione, ovvero bar e ristoranti chiusi e divieto di uscire dal proprio comune di residenza. Una misura intermedia, spiegano, che dovrebbe servire a evitare che nel periodo natalizio ci siano giorni di chiusura totale e giorni di fatto “normali” (sebbene con il coprifuoco e lo stop alle consumazioni dopo le 18). Una “fisarmonica” che da alcuni viene considerata rischiosa perché di fatto invita le persone a concentrare uscite e incontri nei giorni in cui il lockdown non c’è.

Ma allo stesso tempo, nota lo stesso Conte, ma pure la delegazione 5 Stelle, si darebbe un minimo di fiato alle attività che già pagano la crisi. Ieri è arrivato il via libera del Senato alla mozione di maggioranza che chiede nuovi ristori, oltre a immaginare libertà di spostamento tra piccoli comuni che ora rischia di essere superata dai fatti. Confesercenti intanto ha calcolato che la chiusura di negozi, bar e ristoranti nel periodo natalizio costerebbe una perdita di 10 miliardi di fatturato. Ieri il premier avrebbe dovuto partecipare alla loro assemblea, ma ha dato forfait perché la riunione sulla stretta è andata troppo per le lunghe. E nemmeno è bastata a decidere che fare.

Tasso di positività come a ottobre. Ma l’indice Rt di nuovo in risalita

“La curva rallenta, ma non con la velocità che era auspicabile”. In queste parole dell’infettivologo Massimo Galli, primario del reparto Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, ci sono tutti gli interrogativi di questi giorni. Perché se è vero che continua a scendere il tasso di positività (ed è una buona notizia), l’indice Rt è tornato lievemente a salire (e non lo è affatto).

Ma andiamo con ordine. Ieri sono stati registrati 17.572 nuovi casi di Covid-19 (quasi tremila in più di martedì), con 199.489 tamponi effettuati (36.609 in più rispetto alle 24 ore precedenti), per un tasso di positività dell’8,8% (in diminuzione rispetto al 9,1% di martedì). L’indice che indica la quantità percentuali di casi positivi sul totale dei test effettuati (che il 16 novembre era al 17,6%) scende per la prima volta sotto quota 9% da molte settimane (l’ultima volta fu il 21 ottobre, 8,5%). Una buona notizia, significa che la diffusione del virus, per il momento, diminuisce. Un dato ancor più positivo se si raffrontano i primi tre giorni di questa settimana con quella del 7-8-9 dicembre: i tamponi sono passati da 378.924 a 467.504, ma il rapporto tra contagi e tamponi effettuati migliora.

Ma c’è un altro indice, l’Rt che indica la “velocità” di trasmissione del virus che sta lentamente (di nuovo) cambiando rotta. Ed è preoccupante. Il dato emerge dall’analisi dei grafici della piattaforma CovidStat a cura dell’Istituto nazionale di Fisica nucleare condotta dal fisico Giorgio Sestili: “Rt a livello nazionale – scrive sul suo sito giorgiosestili.it – è al di sotto del valore critico 1 dal 22 novembre, ma da qualche giorno la decrescita è rallentata fino addirittura a terminare e quello a cui si assiste è un’inversione della curva che accenna a una risalita. Il valore Rt del 15 dicembre è infatti 0.80, il 14 era 0.79. I casi stanno rallentando – prosegue Sestili –, ma un Rt molto vicino a 1 significa che i casi restano costanti ai livelli a cui si trovano attualmente. Vale a dire che continueremo a viaggiare sui 12-13 mila casi giornalieri. Nella situazione in cui ci troviamo – conclude – ossia senza lockdown, basta un niente a far rialzare la curva”.

Ma a destare il maggior allarme è ancora il numero dei morti, 680, in calo rispetto agli 846 di martedì, ma comunque sempre molto alto. Da lunedì a ieri i decessi sono stati oltre 2.000 più della scorsa settimana. Da inizio pandemia le vittime ufficiali sono ormai 66.537. “La curva dei decessi – dichiara Massimo Galli – cala a seconda di quanto movimento siamo riusciti a limitare nel tempo. Ma il dato più robusto per capire l’andamento dell’epidemia è la pressione sul sistema ospedaliero”. E la pressione – seppur lentamente – continua a regredire. I ricoverati nei reparti Covid sono attualmente 26.897, 445 in meno rispetto alle 24 ore precedenti, mentre i malati più gravi in terapia intensiva sono 2.296, -77 rispetto a martedì, a fronte di 191 nuovi ingressi.

Secondo il monitoraggio dell’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) aggiornato al 15 dicembre, nell’ultima settimana ricoveri e rianimazioni sono diminuiti del 3%, rimanendo comunque sopra la soglia critica. È occupato il 35% dei posti in terapia intensiva contro il 38% di una settimana fa, ma la soglia è sempre del 30%. I reparti ordinari sono invece occupati al 42% (45% una settimana fa) con la soglia al 40%.

Sul fronte delle Regioni, continua a preoccupare la situazione del Veneto, che da giorni fa segnare le performance peggiori: 3.817 nuovi casi (il maggior incremento relativo, superata la soglia dei 200 mila totali) con un indice di crescita nelle 24 ore del 1,9% (come Puglia e Friuli-Venezia Giulia). Seguono Lombardia (2.994 nuovi casi), Puglia (1.388), Emilia-Romagna (1.238), Lazio (1.220) e Piemonte (1.215).

Da Mannino a Open: le balle contro Davigo a “Dimartedì”

Èstrano che si chiami a parlare di giustizia il condirettore del Corriere dello Sport. Trattandosi però di Alessandro Barbano, giornalista arguto, a lungo direttore del Mattino, non dobbiamo meravigliarci che Floris lo abbia invitato a Dimartedì per fargli intervistare Piercamillo Davigo. Meraviglia, invece, che la vis polemica che ne ha animato l’intervista al magistrato “caricatura” (parole sue) si fondino su luoghi comuni triti e dal traballante fondamento: l’ex ministro Mannino “assolto tre volte dopo una vicenda giudiziaria lunga trent’anni che lo ha distrutto sul piano personale” (e poi si scopre che intendeva dire assolto in primo grado, appello e Cassazione) e l’indagine sulla fondazione Open di Renzi “su cui la Cassazione si è già pronunciata due volte sostenendo l’inesistenza di quella prova simbiotica per la quale la fondazione sia una struttura di finanziamento occulto”. Il che non è vero: la Cassazione non ha smentito i finanziamenti illeciti contestati dai pm. Ha solo accolto i ricorsi di tre renziani perquisiti, contro i decreti di sequestro firmati dal gip e confermati dal Riesame, perché ritenuti troppo vaghi, invitando i giudici a motivarli meglio, poiché il finanziamento illecito richiede che si provi che Open – usata per incassare da privati 7,2 milioni senza dichiararli nei registri parlamentari – agisse in “concreta simbiosi operativa” con la corrente renziana in “assenza di diversa concreta operatività”.

E poi – ma questa non è una critica a Barbano, che sul punto nulla ha detto – non si capisce perché la Cassazione in fase preliminare sia il Vangelo quando scagionerebbe i renziani e non lo sia quando scagionerebbe l’investigatore dell’inchiesta Consip, il maggiore Gianpaolo Scafarto. Rinviato a giudizio per gli errori scritti nell’informativa sebbene Riesame, Cassazione e un Gup gli avessero dato ragione su tutta la linea. Quanto a Mannino, lo ribadiamo: l’assoluzione si basa su una modifica della giurisprudenza sul concorso esterno, che richiede non solo la prova di un patto tra mafie e accusati, ma anche quella di una “utilità” del patto.

Renziano inguaiato da una cabina

Un nuovo guaio giudiziario si abbatte sul deputato regionale di Italia Viva, Luca Sammartino. Il nome del 35enne, fedelissimo di Matteo Renzi in Sicilia, compare in un avviso di conclusioni indagini firmato dai magistrati della Procura di Catania, Tiziana Laudani e Marco Bisogni.

Il reato ipotizzato è ancora una volta quello di corruzione elettorale e sotto la lente d’ingrandimento ritornano le Regionali del 2017. Elezione che incoronò l’odontoiatra come mister 32mila preferenze. Per i pm Sammartino avrebbe siglato un patto elettorale con il presunto boss del clan Laudani, Girolamo Brancato. “Nella qualità di candidato – si legge nei documenti – offriva un posto di lavoro per il nipote dello stesso Brancato nella società dei rifiuti Mosema e lo spostamento di una cabina telefonica nei pressi di una pizzeria gestita dalla moglie del Brancato”.

Il nome del politico, con un passato tra Pdl, Udc e Partito democratico, rientra tra i 38 indagati dell’inchiesta Report, che ieri ha portato a un blitz della Guardia di finanza nei confronti di alcuni esponenti del clan Laudani e della famiglia di Cosa Nostra dei Santapaola. Tra i personaggi di maggiore spessore, il boss Orazio Scuto e lo stesso Brancato. Quest’ultimo, con precedenti per mafia ed estorsione, avrebbe goduto “della forza di potere trattare affari particolarmente delicati per conto del clan”, scrivono i pm. In alcuni casi Brancato avrebbe anche fatto da “arbitro” quando c’era da stemperare le tensioni con le cosche rivali. Al deputato nel 2017 invece avrebbe promesso “il proprio voto e quello dei suoi familiari” per ottenere l’assunzione del parente nella ditta dei rifiuti attiva nel Comune di Mascalucia.

A questa richiesta ne avrebbe aggiunta un’altra abbastanza curiosa: intercedere per fare spostare una vecchia cabina telefonica ritenuta troppo ingombrante perché proprio davanti l’ingresso di un’attività che la famiglia Brancato aveva intenzione di avviare. “Ricordo quella cabina – confermano al Fatto Quotidiano dal comando dei vigili urbani di Mascalucia – Poi il rudere è sparito ed è stato aperto un bar”. Il taglio del nastro dell’“Amelié lounge bar”, riconducibile alla famiglia Brancato, è effettivamente avvenuto a novembre 2018, ma le circostanze che hanno portato alla rimozione della cabina non sono del tutto chiare. Per Sammartino, che si dice innocente, è l’ennesimo problema giudiziario. Un avviso di conclusione indagini, sempre per corruzione elettorale, gli era stato notificato a fine 2019. Quell’inchiesta adesso si trova in udienza preliminare e la Procura ha già chiesto il rinvio a giudizio. In un altro fascicolo riguardante il voto degli anziani in una casa di riposo, è stato invece archiviato.

Calabria: giallorosa alleati. L’idea di Morra candidato

I nomi fatti finora assomigliano più a ballon d’essai per tastarne il gradimento che a ipotesi concrete per la candidatura. Di certo c’è però che i giallorosa ci stanno provando: in vista delle elezioni regionali in Calabria, Pd, M5S,Italia Viva, LeU e altre forze di sinistra hanno avviato un tavolo per presentarsi compatti contro il centrodestra, che a gennaio trionfò con Jole Santelli e che ora governa con il leghista Nino Spirlì.

L’occasione, visti i 5 miliardi che arriveranno da queste parti con il Recovery Fund, è forse irripetibile, motivo per cui ciascun alleato ha già immaginato di coinvolgere i propri big, dal 5Stelle Nicola Morra al renziano Ernesto Magorno. I problemi, però, non mancano.

Il primo riguarda la data del voto, perché al momento appare assai complicato che il 14 febbraio si possa andare alle urne, a emergenza sanitaria in corso. Alla scomparsa della Santelli, il governo aveva indicato una finestra tra febbraio e aprile in cui la Regione avrebbe potuto fissare le elezioni. La destra ha scelto la prima domenica utile, ignorando ogni richiesta di rinvio. E così sarà, a meno di un’interlocuzione istituzionale tra governo e Regione.

Il tema sta particolarmente a cuore a Jasmine Cristallo, responsabile locale delle Sardine che ha partecipato al tavolo con M5S e sinistra e che ha evidenziato – di fronte a un Pd per la verità molto tiepido sul rinvio – come votare a febbraio provochi un “evidente problema di agibilità democratica”. Della stessa idea è il M5S, che attraverso il deputato Alessandro Melicchio spinge per un rinvio: “La data del 14 febbraio sarebbe l’ennesima scelta irresponsabile del centrodestra”. L’eventuale spostamento andrebbe però deciso prima delle convocazioni delle liste elettorali, dunque entro la fine dell’anno.

Nel dubbio allora è meglio farsi trovare pronti. All’incontro di oggi con gli alleati i 5Stelle porteranno due condizioni: che i candidati consiglieri non abbiano condanne o indagini per reati gravi e che non abbiano all’attivo più di due mandati. Quanto al candidato presidente, qualcuno nel M5S suggerisce il nome di Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia. Sentito dal Fatto, Morra preferisce sottolineare il suo impegno in Parlamento: “Sono all’oscuro di qualsiasi ipotesi che riguardi una mia candidatura. Ringrazio tutte le persone che manifestano stima nei miei confronti, ma nel mentre sono impegnato a fondo nel mio ruolo di presidente dell’Antimafia”. Morra, stando ai 5Stelle che lo conoscono meglio, accetterebbe però solo a precise condizioni, ovvero la possibilità di comporre liste totalmente pulite e gestire in prima persona una campagna elettorale invecchio stile grillino. Con un budget ridotto, innanzitutto. Ma soprattutto impostata su battaglie storiche del Movimento, dal taglio dei costi della macchina regionale alla trasparenza sulle nomine.

A complicare la sua candidatura ci sono però alcune divisioni interne sia nel Movimento che nel Pd calabrese. E lo stesso Melicchio, pur ribadendo “la stima” per Morra, sottolinea un aspetto non da poco: “Il nostro regolamento e lo Statuto non permettono di candidarsi ad altro incarico mentre si sta completando un mandato. Inoltre Morra è già alla seconda legislatura”. Più facile allora che si vada su un candidato diverso, magari un sindaco. Questo nonostante anche il Pd e Iv abbiano fatto più di un pensiero a veterani come il deputato dem AntonioViscomi, il re delle preferenze Pd Nicola Irto ed Ernesto Magorno, sindaco-senatore di Iv. L’obiettivo, in ogni caso, è evitare un Pippo Callipo bis: gradito ai 5Stelle, l’anno scorso fu sostenuto solo dal Pd quando l’alleanza saltò. Si è dimesso dopo una disfatta alle urne e un mese di Consiglio regionale.