Virus, stiamo attenti alle sue mutazioni

Qualche settimana fa, ci siamo interessati della preoccupante notizia di 12 operatori che in Danimarca si erano infettati attraverso il contatto con visoni portatori di un virus SarSCoV2 mutato. Ci ha fatto tremare i polsi. Peraltro, molte unità di questi animali erano state spedite in giro per il mondo. Un quadro perfetto per una vera catastrofe. Un pericolo dalle dimensioni imprevedibili che si innescava su una situazione già grave. Ebbene, fortunatamente, è stato dichiarato che questa variante virale è scomparsa. È un fenomeno che accade con una frequenza (per fortuna!) maggiore di quella che dà mutazioni durature. È un tentativo dei virus di conquistare nuovi ospiti (quello è lo scopo della sua esistenza), in questo caso, abortito in poco tempo. In natura questi tentativi sono numerosi. Il continuo mancato successo che quindi non riesce nemmeno a dare conseguenze, non ci dà modo di rendercene conto. L’osservazione sulle possibili mutazioni del virus SarsCoV2 continua giornalmente. Molti centri di ricerca (anche il nostro), sequenziano i virus isolati dai pazienti e ne pubblica i risultati in una banca dati comune al mondo scientifico. A oggi le mutazioni del virus sono state molto poche. Ciò perché ha un sistema di “correzione degli errori” che quasi sempre ne impedisce la presenza nella progenie. Tuttavia, almeno cinque mutazioni sono avvenute con successo e continuano a circolare. Il nostro obiettivo è comprendere quali sono le conseguenze “comportamentali” indotte nel virus. La nostra speranza è che ne avvengano alcune che ne moderino la patogenicità. In realtà, come dimostrato da uno studio effettuato presso l’Università del Wisconsin-Madison, una sola mutazione ha determinato una maggiore capacità di diffusione del virus, le altre (circa quattro), non sembrano importanti. È la vita di un virus e la scommessa dell’uomo che, prima o poi, si riesca a eliminarlo o si arrivi a una sopportabile convivenza. Le mutazioni pertanto non sono solamente fenomeni temibili, ma alcune, auspicabili. In vista dell’arrivo di vaccini che, ovviamente, sono studiati ad hoc, il timore è che, mentre questi si sperimentano, il virus da combattere possa diventare diverso. È per questo che vengono utilizzate tecniche che si fondano su parti meno mutevoli possibili del microrganismo. Comunque, almeno fino a oggi, nessuna delle mutazioni avvenute potrebbe avere la potenziale attività contro l’efficacia dei vaccini in studio. Almeno questa è una notizia positiva.

 

Bellanova, l’orgoglio bracciante a sproposito

Mamma mia: per Italia Viva guai a toccare Teresa Bellanova. Appena letto l’editoriale del Fatto, Gennaro Migliore ricorda al mondo “quanta tenacia, dedizione e passione” metta la ministra “in tutto ciò che fa”.
Il sempre ringhiante Luciano Nobili parla di attacco “più disgustoso del solito” perché Travaglio “non sa nulla della passione e della dedizione che Teresa mette nel lavoro” (e due). Il “vigilante” Michele Anzaldi ricorda “il suo passato di bracciante agricola” e addirittura chiede a Conte di prendere “le distanze dal suo direttore”. Maria Elena Boschi se la prende con il direttore del Fatto che “ironizza sul suo passato di bracciante”. In realtà nell’editoriale si parlava di “braccia rubate all’agricoltura”, quindi quel passato veniva onorato. Stavolta nessuna accusa di sessimo. Forse perché brucia ancora quella frase trascritta dal presidente della fondazione Open, Alberto Bianchi, sulla Boschi “donna-quindi troia”? Ah, la trave e la pagliuzza…

Tav: soldi tutti italiani, lavoratori francesi

I costi per il Tav, il treno ad alta velocità/alta capacità per collegare Torino con Lione, sono stati per ora sostenuti quasi tutti (l’82 per cento) dallo Stato italiano, con pochi contributi europei. Ma dei benefici godrà soprattutto la Francia, che avrà i due terzi dei lavoratori occupati nei cantieri.

È quanto è emerso dalle audizioni di ieri alla Camera dei deputati sul contratto di programma per la Torino-Lione che dovrà essere firmato tra ministero delle Infrastrutture, Fs e Telt (la società che lavora alla realizzazione del tunnel). All’audizione hanno partecipato l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Gianfranco Battisti, il presidente dell’Osservatorio per la realizzazione dell’asse ferroviario Torino-Lione, Claudio Palomba, il direttore generale di Telt, Mario Virano, e Alberto Poggio della Commissione tecnica Torino-Lione. Battisti ha allineato le cifre dell’opera. “La stima del costo complessivo è di 6,4 miliardi di euro. Le risorse a oggi stanziate ammontano a 3,6 miliardi, l’82 per cento delle quali è stato messo a disposizione dal governo italiano”, ha comunicato Fs, mentre soltanto “il restante 18 per cento deriva da risorse comunitarie”. Mancano ancora 2,7 miliardi per il tratto di competenza italiana. “La sottoscrizione del contratto di programma”, ha ribadito Battisti, “è il presupposto per l’attivazione delle risorse di co-finanziamento da parte dell’Unione europea” che potrebbe coprire — ma per ora è solo un annuncio — il 50 per cento dei costi. “Degli effetti della Torino-Lione”, ha concluso Battisti, “beneficerà tutto il sistema del trasporto italiano”.

Il presidente dell’Osservatorio, il prefetto Palomba, non ha potuto negare l’opposizione all’opera nei territori dove dovrebbe essere realizzata. “Mi sono insediato da pochissimo. È un’opera piuttosto contrastata. Continuano alcuni disagi e il territorio è abbastanza presidiato, ma come sapete a ogni ricorrenza ci sono degli incidenti e noi abbiamo fatto il massimo sforzo, parlo anche come prefetto, per avviare i tavoli di compensazione per coinvolgere il territorio”. Il riferimento è ai soldi offerti ai Comuni per cercare di superare l’opposizione.

Lo stato dei lavori è stato ricapitolato da Virano: “Sono 12 i cantieri operativi tra Italia e Francia, per un costo certificato di 8,6 miliardi ai prezzi del 2012. Vi lavorano circa 4 mila lavoratori diretti e altri 4 mila indiretti tra Francia e Italia. La fine dei lavori è prevista per il 2030. Sono 23 le gare d’appalto in corso, per un valore di 3,2 miliardi di euro”. Sono stati realizzati finora, comunica Virano, 68 chilometri di sondaggi esplorativi e 30 chilometri di gallerie. “Nei prossimi mesi del 2021 si concluderanno le gare per i 3,2 miliardi del tunnel di base. Saremo così in grado di passare dalle previsioni alle certezze contrattuali”.

L’ingegner Poggio, per la Commissione tecnica Torino-Lione, ha obiettato che restano aperti troppi punti incerti per poter firmare il contratto di programma. Intanto il movimento No-Tav risponde che continuerà la sua mobilitazione e annuncia un’asta per raccogliere fondi, che avverrà domenica 20 dicembre sul profilo Instagram “Asta La Libertà”: saranno offerte al miglior offerente opere, tavole, disegni, dipinti e serigrafie donati da artisti di tutta Italia, tra cui Vauro, Zerocalcare, la Zecca Tigre, Prenzy, Fumetti Brutti.

Barzelletta “PedeFontana”: utili garantiti senza traffico

Oltre un miliardo di euro in sei mesi per un’infrastruttura talmente attesa nell’operosa e ricca Lombardia che nessuno vuole farsene carico. È il miracolo realizzato da Attilio Fontana per la Pedemontana lombarda, ormai “Pede-Fontana” visto che è verde Lega un po’ ovunque: lo sforzo immane del governatore ormai veleggia però verso la barzelletta visto che ora si stanziano 10 milioni l’anno dal 2031 al 2060 per garantire il gestore nel caso non ci sia abbastanza traffico…

Per capire serve un riassunto. Di che parliamo? Un bellissimo progetto di autostrada degli anni 50, dal suggestivo tracciato a zig zag, che dovrebbe connettere l’area subalpina, culla del leghismo, all’asse Milano-Bergamo. Gli 87 chilometri di corsie furono autorizzati a Palazzo Chigi nel lontano 2009 col metodo del project financing: lo Stato concede, il privato costruisce e gestisce l’infrastruttura fino a guadagnarci. Bell’idea, ma non funziona mai: in genere lo Stato paga tutto e, se del caso, copre le perdite (ricordate “Bre-Be-Mi”?).

Finora non è andata benissimo: per aprire 22 chilometri di Pedemontana lombarda sono serviti un decennio, un miliardo e mezzo, una sequela di viaggi in tribunale, contratti rescissi, progetti annullati, eccetera. In tutto questo, particolare non irrilevante, su quella strada non viaggia nessuno – un terzo delle auto attese in epoca pre-Covid – e quei pochi hanno spesso avuto il problema del Telepass: non una piccola cosa visto che è praticamente l’unico mezzo di pagamento. Nonostante i guai del passato, la missione della Regione è una e una sola: finire l’opera (se va bene ci vorranno 5anni e 3 miliardi).

E qui arrivano le grandi manovre targate Lega. Ad agosto, grazie a un vorticoso giro di partecipazioni societarie, la Regione ha ricominciato a pompare denaro nel pozzo senza fondo della Pedemontana. Di fatto Ferrovie Nord Milano, presieduta dall’ex deputato leghista Andrea Gibelli, si è presa (previa ricapitalizzazione) Serravalle dalla Regione del leghista Fontana, la quale ha destinato 350 milioni dei 519 incassati a un aumento di capitale nella società Pedemontana Lombarda Spa, il cui presidente è l’ex ministro leghista Roberto Castelli. Il socio privato, Gavio, ha salutato tutti e venduto la sua quota agli operosi leghisti.

Alla fine di questo giro, ancora in corso, la Regione dovrebbe possedere il 35-40% di Pedemontana, mentre Serravalle, che oggi la controlla col 79%, si vedrebbe diluita fino al 45%, essendo però nel frattempo finita in pancia a Ferrovie Nord-Milano. Il trittico leghista Gibelli-Castelli-Caparini (assessore al Bilancio) potrà così giocare con l’autostrada senza fastidi esterni, tanto più che FNM, il socio di maggioranza, pur essendo controllata dalla Regione è quotata in Borsa (il flottante è il 25%) ed è quindi largamente sottratta al controllo del consiglio regionale. Le prossime tappe, non scontate, sono: 1) rifare i progetti esecutivi perché quelli vecchi non andavano bene; 2) trovare un socio privato.

Ed è qui che, esauriti aumenti di capitale e incroci azionari, si passa ai soldi diretti: ad agosto la Regione ha autorizzato un prestito da 600 milioni a Pedemontana Spa a garanzia del debito; ora arriva un emendamento al bilancio regionale – presentato da Marco Alparone di Forza Italia in nome e per conto della Giunta Fontana – con altri 300 milioni dal 2031 al 2060 per “l’implementazione di una adeguata forma di garanzia del servizio di debito a parziale mitigazione del rischio traffico, finalizzata alla bancabilità dell’opera”. Tradotto: per convincere le banche a prestare i soldi a Pedemontana Spa per finire l’autostrada, la Regione garantisce profitti per 10 milioni l’anno in caso di traffico inferiore alle stime.

Una barzelletta che non tutti trovano divertente: “A me pare che questa continua ricerca di un modo per finanziare quest’opera – dice il consigliere grillino Marco Fumagalli – sia un sistema per mettere in cassaforte risorse da gestire in modo poco trasparente. È rimasta solo la Giunta a insistere con la costruzione di autostrade faraoniche in spregio alla sostenibilità ambientale e alle mutate esigenze economiche”.

Mps, svendita a Unicredit pagata con 6mila esuberi

Oggi l’ad del Monte dei Paschi, Guido Bastianini, in carica dal 18 maggio, presenterà al cda della banca senese controllata al 68,25% dal Tesoro un nuovo piano industriale, il terzo degli ultimi otto anni. I rumors parlano di nuovi esuberi, 3mila se la banca resterà da sola, ma destinati a crescere a 6mila se invece convolerà a nozze con UniCredit, e della chiusura di altre filiali, fino a 700. I sindacati hanno già fatto muro. Il segretario generale della Fabi, Lando Sileoni, ha affermato che “se il governo permette” la vendita di Mps a UniCredit con incentivi pubblici per miliardi “sarà complice di una macelleria sociale che contrasteremo. Il presidente della Toscana Eugenio Giani la pensa come noi”. La banca è ormai l’ombra del colosso che fu, ma al suo interno le logiche sono rimaste le stesse.

È la terza mannaia in 8 anni. A luglio 2012 il piano presentato dall’allora ad Fabrizio Viola fece 8.500 esuberi tramite pensionamenti. L’accordo di solidarietà firmato il 19 dicembre 2012 per il triennio 2013-2015, poi prorogato, introdusse da tre a sei giorni l’anno di “solidarietà”, tagliò del 23,5% il Tfr dei dipendenti ed esternalizzò quasi 1.100 bancari del back office conferendone il ramo d’azienda alla newco Fruendo partecipata da Bassilichi, partner del Monte, e da Accenture Global Services. L’esternalizzazione finì in un diluvio di cause di lavoro e reintegri.

A fine ottobre 2016 altro giro di giostra: il nuovo ad Marco Morelli presentò il piano 2016-2019 con il taglio di 500 filiali e altri 1.400 esuberi oltre ai 1.200 da realizzare già stabiliti dal piano di Viola. Nonostante il salvataggio della banca con la nazionalizzazione del 2017, Mps è tracollata: dal 2012 al primo semestre 2020 i dipendenti sono calati di un quarto a poco più di 22mila, i dirigenti del 37% da 440 a 277 e i costi del personale del 28% a 1,43 miliardi di fine 2019, le filiali dimezzate da 2.671 a 1.421. Conseguenza del calo dei clienti, scesi da 6 a 4,4 milioni (-27%), e degli attivi, crollati del 35% a 142 miliardi.

Ma il “groviglio armonioso” in Mps e a Siena non cambia mai. Durante l’epoca Morelli, nonostante la crisi e il piano lacrime e sangue a Natale 2017, Mps sfornò 49 nuovi dirigenti e il 14 novembre dell’anno scorso ne promosse altri 34. Tra questi Diana Chiaraluce, oggi responsabile del servizio di valutazione del personale che nel 2013 era ancora un’impiegata. Chiaraluce è moglie di Paolo Calosi, numero 2 della direzione risorse umane del gruppo con delega ai dipendenti della rete. Dal 2002 al 2006 (epoca Mussari) Calosi è stato segretario del coordinamento Fisac Cgil. Nell’ultima infornata di dirigenti, due terzi provenivano proprio dalla rete. Il sindacato dei bancari della Cgil è la sigla più rappresentativa e potente nel gruppo e piazza i suoi uomini nelle posizioni chiave non solo nel Monte, ma anche in città: negli ultimi decenni buona parte dei sindaci Pci, Pds, Ds e Pd e molti consiglieri comunali lavoravano al Monte ed erano iscritti alla Fisac.

“Fava cercò di danneggiare Pignatone”

Dalla Procura di Perugia arriva una nuova accusa per Stefano Fava, ex pm di Roma oggi giudice a Latina, in un altro filone dell’inchiesta che riguarda Luca Palamara. L’inchiesta (conclusa e notificata ieri agli indagati) si concentra su un nuovo reato: l’accesso abusivo di Fava alla banca dati digitale della Procura avvenuto il 15 maggio 2019. Quel giorno Fava, attraverso due funzionari della Procura di Roma, acquisisce copia dei verbali di udienza e della sentenza di un processo in cui l’accusa era stata rappresentata dal procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo. Il processo si era concluso nel 2016 con l’assoluzione di Brunella Bruno con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio e calunnia. Ielo non impugnò l’assoluzione. Nel 2018 il fratello dell’imputata assolta, Giovanni Bruno, viene sorteggiato come commissario straordinario della società Condotte Spa dove il fratello di Ielo, Domenico, ottiene poi (del tutto legittimamente) un incarico. Fava trova la circostanza sospetta – va obiettato che la cronologia degli eventi (due anni di distanza tra l’assoluzione e l’incarico e, se non bastasse, il sorteggio di Bruno) rendono inverosimile qualsiasi dietrologia – e intende denunciare Ielo alla Procura di Perugia. Circostanza confermata dallo stesso Palamara intercettato a maggio.

Lo stesso 15 maggio, Fava porta con sé la sentenza nell’ufficio di Palamara con il quale discute non soltanto di questa vicenda, ma anche di chi potrebbe essere il futuro procuratore di Perugia e dell’esposto presentato, tre mesi prima, al Csm, sul suo capo Giuseppe Pignatone. Se l’accusa contesta a Fava l’accesso abusivo all’archivio digitale della procura, la sua difesa sostiene che l’accesso è avvenuto perché la denuncia da presentare a Perugia era un suo dovere d’ufficio. Da un lato bisogna segnalare che la denuncia non fu presentata ma, dall’altro, va ricordato che, appena due settimane dopo l’accesso, Fava si ritrova indagato nell’inchiesta Palamara che deflagra con le perquisizioni.

Secondo l’accusa, Fava aveva l’obiettivo di “avviare una campagna mediatica ai danni di Pignatone e Ielo” da “effettuarsi anche mediante l’ausilio di Palamara a cui consegnava tutto l’incartamento indebitamente acquisito”. Campagna che però non pare si sia realizzata perché, dell’esposto su Pignatone, la stampa pubblica notizie apprese dagli atti dell’inchiesta di Perugia. E della vicenda Condotte erano già stati pubblicati articoli prima che Fava accedesse agli atti. Secondo la Procura di Perugia, Fava e Palamara sarebbero colpevoli in concorso di rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio perché avrebbero riferito notizie riservate al Fatto e a La Verità. Ricostruzione sempre smentita dal Fatto. C’è poi un terzo capo d’imputazione: Fava è accusato di abuso d’ufficio perché, con lo scopo di “cagionare un danno ingiusto” a Pignatone e Ielo, attraverso l’avvio di un procedimento disciplinare su Pignatone e di un fascicolo a Perugia su Ielo, “svolgeva accertamenti investigativi” senza averne la competenza. E nel presentare l’esposto al Csm su Pignatone, il 27 marzo 2019, “riportava una versione volutamente incompleta” degli atti. Va precisato che due giorni prima inviava però una versione più esaustiva allo stesso Pignatone, chiedendogli di trasferirla al Csm al momento opportuno perché molti degli atti in questione erano ancora segreti e quindi non ostensibili.

Piacenza, i legali dello Stato: “L’Arma non sia parte civile”

Per l’Avvocatura dello Stato non è “strettamente indispensabile per la tutela degli interessi erariali” che l’Arma dei carabinieri si costituisca, tramite la Difesa, parte civile contro i militari finiti a processo per i fatti avvenuti, secondo le accuse, nella caserma Levante di Piacenza. Quel luogo dove vigeva un “generale atteggiamento di totale illiceità e disprezzo per i valori incarnati dalla divisa indossata”, per usare le parole del gip Luca Milan. L’Avvocatura lo scrive nero su bianco in un parere di due pagine, al quale ieri la Presidenza del Consiglio dei ministri sembra aver messo una pezza. La vicenda riguarda il processo nato dalla clamorosa inchiesta della Procura di Piacenza che durante la scorsa estate ha portato all’arresto di diversi carabinieri (tra carcere e domiciliari, poi revocati) per reati, contestati a vario titolo, come peculato, spaccio e tortura. Addirittura alla caserma vennero messi i sigilli: sequestrata a luglio scorso (ed è la prima volta nella storia) è stata riaperta quattro mesi dopo.

Intanto alcuni degli indagati sono andati a processo: c’è chi ha scelto il rito abbreviato, chi quello ordinario. Per i primi il processo è cominciato il 14 dicembre. Domani invece si terrà un’udienza a carico di altri. Siamo quindi già davanti a un giudice, ma l’Arma ancora non si è costituita parte civile. Ha ancora tempo, ma solo ieri è arrivata l’autorizzazione della Presidenza del Consiglio, che nei fatti sembra aver cercato di rimediare al parere espresso il 29 ottobre scorso dall’Avvocatura dello Stato. Che sottolinea come la partecipazione dell’Amministrazione della Difesa ai riti alternativi, come appunto l’abbreviato, “non appare consigliabile” per quanto riguarda la tutela degli interessi erariali e rimette la valutazione al ministero. In una lettera di due pagine dunque si ammette: sono contestati “fatti di estrema gravità che hanno suscitato notevole allarme sociale a seguito del clamore mediatico intenso e che hanno certamente pregiudicato l’immagine del ministero della Difesa e dell’Arma”.

Per l’Avvocatura, pur essendo la Difesa “certamente legittimata alla costituzione di parte civile nei confronti dei militari tratti a giudizio”, si tratta di “un’iniziativa possibile ma non strettamente indispensabile per la migliore tutela degli interessi erariali”.

Ed è questo uno degli aspetti sollevati. “Il danno patrimoniale correlato alle ipotesi di peculato – si spiega – risulta certo ma non suscettibile di azione recuperatoria dal momento che l’oggetto della appropriazione sarebbe consistito in partite di droga di cui i militari avevano la materiale disponibilità in quanto sequestrate, stupefacente di cui certamente il giudice avrebbe successivamente disposto la distruzione ove non fosse intervenuta l’azione appropriativa, trattandosi di beni intrinsecamente illeciti”.

C’è poi la questione del danno d’immagine. L’Avvocatura parla, per tutti gli altri reati contestati, di una “lesione complessiva, particolarmente intensa”, “inferta al prestigio, all’onore del corpo di appartenenza e all’immagine dello Stato”. Per questo, però, bisogna rivolgersi alla Corte dei conti. “Tale lesione – è scritto nel parere – può però essere ristorata mediante l’esercizio dell’azione di danno erariale che il pubblico ministero contabile valuterà se intraprendere a seguito della doverosa segnalazione che codesta amministrazione dovrà effettuare ove tale adempimento non già avvenuto”.

Sulla questione dell’allarme sociale “ingenerato dalle condotte descritte nell’editto penale” è sufficiente il lavoro dei magistrati: “Esso viene ristorato dall’esercizio, pronto e rigoroso, dell’azione penale da parte dell’ufficio del pubblico ministero”.

Così per l’Avvocatura la costituzione di parte civile “pur ammissibile, non risulta (…) strettamente indispensabile”. E rimette la valutazione nelle mani del ministero della Difesa. Che evidentemente non deve aver seguito alla lettera il parere perché ieri è arrivata l’autorizzazione della Presidenza del Consiglio. Una delle udienze è fissata per oggi. Vedremo se la Difesa riuscirà a costituirsi parte civile nel processo nato da una delle indagini che negli ultimi anni ha più colpito le divise.

Lucca, Marcucci sponsor della speculazione cara alla fondazione di cui è socia la sorella

Alla vigilia del voto sul Mes e dopo aver chiesto un rimpasto al premier, il capogruppo Pd in Senato, Andrea Marcucci, il 4 dicembre aveva deciso di tornare nella sua Lucca per perorare la causa della riqualificazione dell’ex Manifattura Tabacchi: “È una grande possibilità di sviluppo della città – aveva detto alla tv locale NoiTV – è opportuno che la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca intervenga”. Marcucci, lucchese doc con interessi nel mondo della multinazionale farmaceutica di famiglia (Kedrion) e dell’ospitalità sedendo nel cda della “Shaner Ciocco spa” (mega resort in Garfagnana), è uno dei maggiori sponsor del progetto per “riqualificare” l’ex manifattura Tabacchi, storica casa del sigaro toscano che sorge su fondamenta trecentesche. In tutta Italia le Manifatture Tabacchi, in quanto beni vincolati, sono state riqualificate con l’aiuto di Cdp (da Firenze a Napoli a Milano), qui è stata la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca a prendere l’iniziativa coinvolgendo Coima SGR, la società dell’enfant prodige del mattone milanese Manfredi Catella che ha firmato lo sviluppo di Porta Nuova. La Fondazione ha sottoscritto un fondo immobiliare da 25 milioni di euro (che a operazione conclusa diventeranno 60) e a febbraio Coima aveva presentato un project financing al Comune di Lucca per ristrutturare 425 parcheggi già esistenti, in cambio degli incassi per 50 anni e la gestione dei 18mila metri quadri abbandonati che l’amministrazione cede al privato. Una colata di cemento: il progetto prevede la costruzione di 90 appartamenti e 60 negozi. Il Comune di Lucca, guidato dal Pd Alessandro Tambellini, a novembre 2019 aveva approvato una variante urbanistica per allargare le maglie del vincolo architettonico per poi chiedere lo svincolo alla Soprintendenza regionale che a sua volta ha passato la palla al Mibact. Il senatore M5S Gianluca Ferrara ha presentato un’interrogazione al ministro Dario Franceschini per capire la decisione. Marcucci continua a perorare la causa dell’investimento anche per interesse personale: la sorella Marialina, già vicepresidente della Regione Toscana, è socio della Fondazione con Luciano Ragghianti e Remo Grassi, consulente e commercialista che sono nel cda di Kedrion. Ma l’investimento rimanda anche a legami col mondo renziano: il fondatore di Coima Catella è molto amico di Renzi e fu proprio lui ad organizzare la cena vip a Milano nell’autunno 2014 con l’allora premier e Maria Elena Boschi, con coperti fino a 1.000 euro.

Con la scusa delle “verifiche patrimoniali” Casellati restituisce il vitalizio a Del Turco

E adesso il caso di Ottaviano Del Turco imbarazza Palazzo Madama. Perché a un certo punto, di fronte a Maria Elisabetta Alberti Casellati che premeva per ridargli il vitalizio come gesto umanitario, a qualcuno, pure essendo impietosito dalla malattia dell’ex leader socialista, si è accesa la lampadina: “Ma davvero vogliamo ridare il vitalizio a un condannato per mazzette che tra l’altro ha pure una ricca pensione da sindacalista?”. Alla fine si è deciso che l’assegno appena congelato continuerà a essergli erogato. Almeno per un altro mese, il tempo che i questori della Casellati mettano insieme una istruttoria patrimoniale sull’ex senatore che per lo scandalo Sanitopoli ancora deve pagare la sua quota dei 700 mila euro dei danni all’immagine provocati alla Regione Abruzzo. A Palazzo dunque si cerca una soluzione dopo la fuga in avanti della presidente Casellati che, pressata dagli alti lai di Pd e compagnia, aveva promesso un intervento a sua tutela dopo che se ne erano scoperte le condizioni di salute. Anche se la delibera del 2015 con cui il Senato aveva stabilito lo stop dell’erogazione degli assegni mensili agli ex senatori condannati non prevede alcuna deroga: né in caso di indigenza, né per malattia invalidante, ritenute meritevoli di considerazione per altri senatori, ma con la fedina penale pulita, che versano in condizioni di difficoltà (per invalidità al 100 per cento e nel caso di redditi non superiori alla pensione minima sociale). Insomma l’istruttoria ordinata su Del Turco lascia intendere che potrebbe applicarsi anche a lui, per analogia, il trattamento di favore che finora era stato negato agli ex con una condanna sul groppone, come Roberto Formigoni e Marcello Dell’Utri che ora possono pure loro sperare. “La temporaneità della sospensione (della precedente delibera del consiglio di presidenza, ndr) è stata decisa per acquisire documentazione non disponibile per l’urgenza della trattazione” ha spiegato Casellati rassicurando che l’ex leader socialista continuerà a ricevere nel frattanto il vitalizio del Senato. Ma che tipo di documentazione verrà richiesta? La dichiarazione dei redditi che verrà esaminata assieme alla certificazione della clinica neurologica del presidio ospedaliero San Salvatore dell’Asl1 di Avezzano che i familiari di Del Turco si erano già premurati di inviare al Senato per perorare la causa della restituzione del vitalizio.

Di Maio su Regeni: “Ora sull’Egitto intervenga la Ue”

Regeni e Zaki. Alla vigilia del voto che si terrà oggi all’Europarlamento della mozione di protesta contro Il Cairo, ieri Di Maio durante una riunione con Conte, Guerini e Lamorgese ha chiesto di svolgere un’azione a livello europeo affinché l’Ue faccia pressione in tema di diritti umani sull’Egitto, a iniziare dall’elezione di domicilio dei funzionari del Cairo accusati dalla procura di Roma proprio per l’omicidio del giovane ricercatore. “I magistrati hanno rivelato un quadro agghiacciante con i particolari atroci delle torture su Regeni” ha detto il titolare della Farnesina. Proprio nei giorni scorsi i pm hanno chiuso l’inchiesta per il sequestro e la morte del ricercatore a carico di 4 appartenenti ai servizi di sicurezza del Cairo, con l’Egitto che continua a non rispondere alle rogatorie. Intanto sul tavolo per il governo ci sono anche altre opzioni. Quella di proporre lo stop a candidature egiziane per organismi internazionali e di calendarizzare in sede di prossimo Consiglio Affari esteri il caso Regeni e quello di Zaki. Anche la richiesta all’Europa di sanzioni all’Egitto non è un tabù.