I Giovani del Pd imparano dagli adulti: congresso pari, il partito è paralizzato

Dei Giovani democratici, l’organizzazione giovanile del Pd, si può dire tutto, ma non certo che non abbiano già imparato come si sta al mondo. O meglio, come si sta nel centrosinistra italiano, fulgido esempio di autolesionismo e da tempo manuale vivente di come ci si può complicare la vita da soli, passando poi mesi a discutere della soluzione (una scissione, un nuovo congresso o entrambe).

Ma torniamo ai Gd. I fatti: da più di quattro mesi sono del tutto immobili, non hanno organizzato eventi, non hanno una segreteria, non aggiornano i canali social, non rilasciano comunicati. Funzionano solo, non senza eroismo, le sezioni locali.

L’implosione dei Giovani democratici è iniziata ad agosto, quando il congresso avrebbe dovuto decretare il nuovo segretario nazionale. A sfidarsi c’erano due mozioni, ovvero quella di Caterina Cerroni – già candidata del Pd alle Europee e sostenitrice di Andrea Orlando nella corsa alle primarie – e lo zingarettiano Raffaele Marras. In un’epifania di surrealismo, alla chiusura delle urne entrambi si sono dichiarati vincitori. La Cerroni, forse in virtù di un comunicato stampa più convincente, ha subito ricevuto i complimenti da mezzo partito (quello dei non giovani, si intende) e ha cominciato a presenziare a conferenze e dibattiti facendosi presentare come “segretaria”. Nel frattempo, Marras faceva notare che i conti non tornavano e che in certe sezioni i risultati erano diversi da quelli proclamati dalla rivale. Il tutto mentre l’uno accusava l’altro di brogli e favoritismi da parte dei big del Pd.

Morale: del caso si è occupata la Commissione nazionale di garanzia, che però ha alzato le mani. Pareggio. E qui, dove si ferma la matematica, sarebbe dovuta iniziare la politica. Ma è forse per ispirazione del Pd che i Giovani hanno iniziato un travagliato percorso interiore che, quattro mesi dopo, li vede ancora al punto di partenza. Ora però Cerroni e Marras hanno almeno preso atto che è inutile continuare a rivendicare una vittoria che non potrà mai essere riconosciuta, condividendo l’idea di una segreteria unitaria. Marras lo sostiene da un po’, la Cerroni lo ha ammesso su Facebook pochi giorni fa: “Una gestione davvero unitaria può iniziare subito. Una soluzione semplice, nel segno delle regole e dei precedenti della giovanile”. Talmente semplice che i Gd sono ferma da agosto.

Morto in caserma dopo l’arresto, ma telecamere ko

La Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo per capire come è morto Emanuel Scalabrin, 33 anni, trovato senza vita nella caserma dei carabinieri di Albenga il 5 dicembre. I primi accertamenti del medico legale Francesca Fragiolini sembrano ricondurre il decesso a un problema cardiaco. Ma il caso secondo la famiglia, assistita dall’avvocato Gabriella Branca, presenta troppe stranezze: il tempo passato tra l’ora della morte, intorno alle 8, e il ritrovamento del corpo, alle 11; le telecamere di videosorveglianza delle celle che non funzionavano; tracce di ferite ed ecchimosi su un labbro e su un braccio, forse conseguenza dell’arresto per droga, avvenuto il giorno prima. Secondo il rapporto consegnato al pm una volta in cella Scalabrin è andato in crisi d’astinenza. È stata chiamata la guardia medica e gli era stato dato del metadone. “Non ci sono al momento motivi che spingano a ritenere che si tratti di una morte per cause violente – spiega il procuratore di Savona Ubaldo Pelosi – faremo tutti gli accertamenti”.

Travaglio assolto: non diffamò Minzo e Graziadei

Marco Travaglio non ha diffamato l’ex direttore del Tg1 Augusto Minzolini e la giornalista Grazia Graziadei e non dovrà risarcire quest’ultima versandole 40mila euro, tra danni e spese legali, come aveva stabilito nel 2018 il Tribunale di Roma. Lo ha deciso la Corte di Appello della Capitale, rovesciando la condanna di primo grado.

Il processo penale per diffamazione a mezzo stampa nacque nel 2010 da una querela di Minzolini per un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 4 luglio 2010 in cui si criticava apertamente la mancanza di terzietà in un servizio del Tg1 sulla controriforma delle intercettazioni voluta dall’allora governo Berlusconi. Nel servizio si faceva credere che milioni di italiani fossero spiati dalle Procure italiane, quando invece, secondo Travaglio, ma anche secondo l’Anm, in Italia le persone intercettate non superavano le 30mila unità.

Per vedere riconosciuta la sua correttezza da una sentenza, Marco Travaglio, difeso dall’avvocato Andrea Di Pietro, ha rinunciato alla prescrizione che era già maturata.

Vitalizi, Casellati si batte per Del Turco (e Dell’Utri)

E ora scende in campo anche Sua presidenza, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che si dice pronta “a tutelare le ragioni dell’ex senatore Ottaviano Del Turco”, a cui il Consiglio di Presidenza del Senato ha congelato qualche giorno fa il vitalizio. Sebbene a distanza di due anni dalla sentenza con cui è diventata definitiva la condanna a 3 anni e 11 mesi per le mazzette ricevute quando era presidente della regione Abruzzo.

Una decisione che ha mandato in tilt il Palazzo, che medita un intervento riparatorio in favore di Del Turco, gravemente malato, che fa ben sperare anche altri. Quei pochi a cui il Senato ha chiuso i rubinetti per via delle gravissime condanne, come ad esempio Vittorio Cecchi Gori, Roberto Formigoni o Marcello Dell’Utri, cardiopatico e in cura oncologica.

Insomma, l’affare Del Turco, la possibile norma ad personam o l’ammorbidimento generalizzato delle regole che si è dato il Senato nel 2015 sui vitalizi ai condannati, rischia di innescare altre polemiche a Roma. Mentre l’Abruzzo, in grandissime difficoltà per il Covid dopo anni di mala gestio della sanità, mastica amaro: dei danni che l’ex governatore è chiamato a risarcire, la regione non ha visto il becco di un quattrino. E forse non incasserà mai nulla, nonostante l’immagine rovinata per le ruberie e le tangenti incassate dai suoi massimi vertici istituzionali: a partire dal- l’allora presidente Del Turco, uso addirittura farsi portare le mazzette direttamente a casa dal titolare della clinica Villa Pini di Chieti, Vincenzo Angelini, diventato poi suo grande accusatore. Del Turco e i suoi sodali sono stati condannati a rifondere la Regione per 700 mila euro. “Non abbiamo recuperato nulla. Ed è davvero poco probabile che possa succedere in futuro” conferma al Fatto Daniele Benedini, l’avvocato incaricato del recupero delle somme che per conto dell’Abruzzo si è anche costituito di fronte alla Corte di Appello di Firenze, dove gli avvocati di Del Turco hanno fatto istanza di revisione del processo: istanza rigettata in pieno il 2 marzo scorso e su cui è stato proposto appello in Cassazione (se ne parla il 30 aprile).

L’unica certezza è che nulla è stato ancora saldato da Del Turco & C., come scrive anche la Corte dei Conti: “A oggi non risulta che le persone intimate abbiano versato alla regione Abruzzo nessuno degli importi indicati con le statuizioni definitive del giudice ordinario” si legge nell’atto di citazione della magistratura contabile, che ha promosso nei confronti dei protagonisti di Sanitopoli un’altra azione di risarcimento dopo che le condanne a loro carico sono diventate definitive in sede penale. Una richiesta di oltre 1,6 milioni di euro, a cui aggiungere un ulteriore 2 per cento a titolo di danno da disservizio. La cifra – a quanto si apprende – è oggetto di un giudizio ancora pendente, ed è stata commisurata in ragione dei ruoli e della misura delle induzioni illecite ottenute: la richiesta all’ex leader socialista è di 1,2 milioni.

Voti dei morti per il consigliere Pd

“Soggetti ultraottantenni, a volte centenari, anche allettati e, in alcuni casi, addirittura deceduti”. Sono gli elettori del consigliere comunale di Reggio Calabria, Antonino Castorina, del Partito democratico, arrestato ieri mattina dalla Digos per falso in atto pubblico e reati elettorali. Coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Gerardo Dominijanni e dal pm Paolo Petrolo, l’inchiesta riguarda le elezioni comunali del 20 e 21 settembre scorso quando Castorina, componente della Direzione nazionale del Pd, è stato il candidato consigliere più votato del centrosinistra con 1.510 preferenze. Qualche centinaio di voti, però, si riferiscono ad anziani, dagli 80 ai 101 anni di età, che non si sono mai mossi di casa. Castorina ha fatto votare tutti: non solo persone decedute, ma anche vecchietti con l’Alzheimer. Stando ai registri delle otto sezioni elettorali su cui ha indagato la Digos, infatti, sarebbero andati al seggio pure persone ricoverate e anziani che non camminano più da molto tempo come una signora di 98 anni allettata da 15, invalida al 100% e non più capace di “intendere e di volere”.

Cittadini ai quali è stato di fatto rubato il voto. Castorina e la “sua squadra di soggetti fidati”, secondo le accuse, sono riusciti a procurarsi i duplicati delle tessere elettorali poi utilizzati ai seggi dove, presidenti e scrutatori compiacenti, hanno identificato gli anziani senza il documento di identità, ma semplicemente per “conoscenza personale”.

Castorina e il presidente di seggio, Carmelo Giustra, sono finiti ai domiciliari. Per il giudice, c’è stato un “vero e proprio sistema diffuso di alterazione dell’espressione di voto”. Il consigliere comunale, in sostanza, ha “dimostrato di muoversi all’interno del contesto delle istituzioni pubbliche con disinvoltura e spregiudicatezza”. Ma anche “con la totale indifferenza verso i procedimenti democratici di formazione della volontà popolare”.

Per il gip Stefania Rachele “è stato in grado di surrogarsi al sindaco nella nomina dei presidenti di seggio in maniera del tutto indebita, ma è stato altresì in grado di orientare la scelta di quest’ultimo che, quando veniva posta alla sua attenzione l’irregolarità dell’azione di Castorina, richiamava a sé il potere di nomina, ma sostanzialmente reiterava le scelte operate dall’indagato”.

Il primo cittadino Giuseppe Falcomatà (Pd) non è indagato, ma ha “ratificato” le nomine dei presidenti di seggio fatte da Castorina. “È una giornata triste per la città – ha commentato il sindaco –, spero che le persone coinvolte, a cominciare da Castorina, siano in grado di dimostrare la propria estraneità rispetto alle accuse contestate, ma intanto è chiaro sarà sospeso dal Consiglio”.

Raggi, sabato si va a sentenza “Decisi io la nomina di Marra”

“Secondo la Procura di Roma io avrei dichiarato il falso per coprire Raffaele Marra con il quale non avevo rapporti da tempo. Gli facevo fare ore di anticamera senza neanche riceverlo”. Virginia Raggi, ieri in aula per il processo che la vede imputata per falso, inizia le spontanee dichiarazioni parlando del rapporto con Raffaele Marra, ex capo del Personale del Campidoglio. Per la nomina al Dipartimento Turismo (poi revocata) del fratello di Raffaele Marra, Renato, la sindaca di Roma si ritrova a dover affrontare un processo. Assolta in primo grado perché il fatto non costituisce reato, la Procura ha fatto ricorso. I pm sono convinti che la Raggi abbia dichiarato il falso al responsabile anticorruzione del Campidoglio – che doveva rispondere all’Anac – quando ha affermato che nella nomina di Renato Marra, il fratello Raffaele aveva avuto un ruolo di “mera e pedissequa esecuzione delle determinazioni da lei assunte, senza alcuna partecipazione alle fasi istruttorie, di valutazione e decisionali”. La sentenza d’Appello è prevista per sabato. Intanto ieri la Raggi ha parlato in aula. “Io ho risposto all’Anac – ha detto la sindaca – per ciò che è avvenuto sotto i miei occhi: Raffaele Marra per me ha svolto un ruolo meramente compilativo nella procedura che portò alla nomina del fratello. Non ci fu alcun tipo di valutazione, perché la valutazione l’ho fatta io”. La sindaca ha così ripercorso l’iter dell’interpello (la rotazione di un gran numero di dirigenti comunali), parlando anche di una riunione del 26 ottobre 2016, durante la quale secondo le accuse, sarebbe maturata la domanda di Renato Marra. “Non ero a conoscenza di quella riunione – ha spiegato la Raggi –, cosa peraltro confermata da chi vi aveva partecipato. Oggettivamente non avevo elementi per immaginare che le cose fossero andate diversamente da come ho scritto”.

In aula “volevo revocare subito, ma non si poteva”

Quando Renato Marra viene nominato al Dipartimento del Turismo “dalla stampa – ha continuato la sindaca – scopro che guadagnava di più. Mi infurio con De Santis (suo delegato per l’istruttoria, ndr) e Meloni (ex assessore, ndr). Così chiesi la revoca e la Turchi (ex responsabile della prevenzione della corruzione, ndr) disse che non si poteva fare, bisognava motivarla. Per cui ho preso questa nomina così com’era. L’ho dovuta ingoiare”. Finché arriva la lettera dell’Anac. “Il 30 novembre 2016, la Turchi – ha continuato ieri la sindaca – mi scrive una lettera riservata in cui mi informa che l’Anac aveva aperto un procedimento. Mi dice che lei risponderà per la sua parte. Così io parlo della parte che è a mia conoscenza”. Tra i quesiti dell’Anac, c’è quello – costato l’imputazione alla Raggi – sul “ruolo in concreto svolto” da Raffaele Marra. “Ha svolto ruoli compilativi”, ha ribadito la sindaca. Versione che ha reso anche durante il processo di primo grado convincendo il giudice Roberto Ranazzi che l’ha assolta. Per Ranazzi, come si spiega nelle motivazioni della sentenza, la sindaca è stata “vittima di un raggiro ordito dai fratelli Marra”. Tuttavia anche per il giudice di primo grado un errore la Raggi lo ha commesso: “L’affermazione che il Marra – è scritto nelle motivazioni – non ha partecipato alla fase istruttoria dell’interpello per le nomine da dirigente amministrativo non corrisponde alla realtà”. La sindaca, già durante il processo di primo grado, ha spiegato che si trattava di una deformazione professione. Concetto ribadito anche ieri: “Sono un avvocato civilista – ha detto in aula –. Ho scoperto con questa storia che l’istruttoria è dalla culla alla tomba. Io uso istruttoria per il significato che in quel momento aveva per me”.

Il procuratore generale: pena mite rispetto al danno

Ieri la sindaca ha risposto anche alle domande dell’accusa, nel frattempo cambiata: la pg Emma D’Ortona per motivi di salute non era presente, sostituita da Mario Ardigò. Il procuratore generale ha ereditato il fascicolo del processo venerdì scorso. Ed è a sua firma la memoria depositata ieri. Richiamando le motivazioni dell’Appello proposto dalla Procura, il pm scrive che “l’esito del giudizio di primo grado è palesemente frutto di un potente bias (inganno) cognitivo da immedesimazione. L’imputata è infatti una di noi, pratici del diritto, una avvocata, per di più di elevata qualificazione giuridica”. “L’inaffidabilità della comunicazione della sindaca – è scritto nella memoria – in merito alla richiesta di Anac di informazioni su elementi critici nella nomina dirigenziale di Renato Marra” “è stata accertata in maniera incontrovertibile”. Il pg chiede quindi di riformare la sentenza di assoluzione, con una condanna dell’imputata, “come chiesto nell’atto di appello della Procura (…) alla pena di 10 mesi”. “Una pena – aggiunge – certo mite rispetto al grave danno arrecato al sistema di prevenzione della corruzione e trasparenza da parte della sindaca (…), ma che tiene conto (…) del fatto di una persona di elevata qualificazione giuridica travolta dall’arbitrio di una macchina amministrativa della quale all’epoca era inesperta”.

Anche manager di Eni e di Intesa tra i “pagatori”

Non solo ospedali. Ci sono anche manager di importanti aziende dal calibro di Eni e Intesa Sanpaolo che freschi di nomina hanno versato un “contributo” nelle casse della Lega. Finora ci siamo concentrati sui soldi pagati alla Lega da dirigenti delle aziende sanitarie pubbliche della Lombardia, la regione d’Italia più colpita dalla pandemia. Lo abbiamo fatto perché i documenti interni al partito ottenuti da Il Fatto dimostrano che ai vertici della sanità lombarda ci sono tuttora professionisti che per anni si sono sentiti in dovere di regalare una parte del proprio stipendio al partito, lo stesso che da oltre 20 anni domina la politica locale. Donazioni da parte di direttori generali, direttori amministrativi, direttori sanitari, direttori socio-sanitari, e poi revisori contabili e consiglieri d’amministrazione dei più importanti ospedali lombardi, dal Sacco di Milano al Sant’Anna di Como, dal San Gerardo di Monza agli Ospedali di Brescia.

Una lista lunghissima, in cui spesso a fianco al nome della persona “nominata” i contabili del partito hanno segnato particolari interessanti, come lo stipendio previsto, i premi di produzione, il compenso per i gettoni di presenza durante i cda o i collegi sindacali. Nelle carte c’è però molto altro, oltre alla sanità. Ci sono decine di nomi, tutti da analizzare con cura prima di pubblicarli. Da una prima lettura emerge però chiaramente un dato: il sistema del 15% non valeva solo per la sanità. La lista di persone elencate sotto il titolo “nominati” riguarda decine di altri settori e aziende. Società a partecipazione pubblica, ma anche imprese totalmente private, che in teoria con la politica non dovrebbero avere nulla a che fare. Un caso su tutti è quello di Intesa Sanpaolo, la banca più grande d’Italia, a controllo totalmente privato. I documenti dicono che la Lega aveva un suo uomo nel consiglio d’amministrazione della banca: Marcello Sala, oggi consulente del fondo di private equity Apis Partners. Fin qui niente di particolarmente nuovo, visto che da sempre Sala è descritto dai giornali come un manager vicino al partito, in particolare al vice segretario federale, Giancarlo Giorgetti, tanto da essere stato scelto nel 2006 come liquidatore di Credieuronord, la ex banca della Lega. Ora si scopre però che Sala per anni ha rispettato alla lettera il “dovere morale” imposto dal consiglio federale leghista, quello su cui dovrebbe “sovrintendere” proprio Giorgetti. Membro del cda di Intesa dal 2007 al 2016, vice presidente della banca per sei anni, per qualche tempo considerato in lizza addirittura per il posto da amministratore delegato, Sala ha versato al partito 51 mila euro tra il 2006 e il 2011: questo dicono alcuni rendiconti contabili interni.

Nella lista dei giganti dell’economia italiana in cui il Carroccio ha piazzato suoi uomini ci sono poi moltissime altre aziende. Da Terna a Enel, dalla Rai alla Fondazione Cariplo, dalla Brebemi a Mps, la banca storicamente controllata dalla sinistra. Tra i tanti nomi spicca, per potenza finanziaria e presenza internazionale, il colosso petrolifero Eni. Nel cda del Cane a sei zampe, in cui da sempre il governo italiano ha diritto di nominare suoi rappresentanti visto che il gruppo è controllato dallo Stato, ha avuto un posto per anni Paolo Marchioni. L’avvocato piemontese ha fatto parte del board di Eni, come “consigliere indipendente non esecutivo”, dal 2008 al 2014. Il suo nome compare in un documento interno alla Lega dove vengono elencati tutti i nominati del partito in aziende nazionali. E compare anche negli elenchi pubblici di chi ha donato soldi ai partiti politici. Nel 2006, quando era nel cda di Eni, Marchioni ha regalato infatti 6mila euro alla Lega, e ancora oggi i versamenti continuano. Nel 2019 ha dato 300 euro al mese alla Lega Nord Piemonte, mentre quest’anno ha preferito donare alla nuova creatura, la Lega Salvini Premier. Anche l’obbligo morale, evidentemente, è stato trasferito dal vecchio al nuovo partito.

Lega, soldi & poltrone: l’assalto alla sanità

I versamenti sono continuati almeno fino al 2019. E la lista dei nominati non riguarda solo la sanità lombarda, ma un pezzo enorme dell’economia italiana: partecipate di Stato, banche, società finanziarie, fondazioni, multinazionali dell’energia, società aeroportuali, aziende di trasporti. Il “sistema del 15%” è pervasivo, capillare e non è una abitudine che la Lega di Matteo Salvini ha abbandonato. È stato il commercialista Michele Scillieri a rivelarne l’esistenza ai pm di Milano nell’ambito dell’inchiesta sulla Lombardia Film Commission.

Ma grazie a documenti finora inediti e a diverse testimonianze raccolte, Il Fatto però è in grado di provare come quel meccanismo sia in realtà strutturato e ben collaudato all’interno del partito di Salvini ancora oggi. Sul giornale di domenica abbiamo svelato il meccanismo usato dal Carroccio per finanziarsi attraverso le nomine di manager e dirigenti sanitari in Lombardia tra il 2008 e il 2010. La regola è chiara, come scritto in una delibera del consiglio federale del 2001: “È dovere morale di quanti saranno nominati, di contribuire economicamente alle attività del movimento con importi che equivalgano, mediamente, al 15 per cento di quanto introitato”.

Qui non stiamo parlando di persone iscritte alla Lega, di parlamentari, consiglieri regionali o comunali. Si tratta di manager ufficialmente slegati dalla politica, scelti per guidare aziende pubbliche come quelle sanitarie.

Domenica abbiamo pubblicato un elenco interno al partito con 34 nomi di dirigenti sanitari lombardi che dal 2008 al 2010 hanno versato regolarmente soldi al Carroccio. Donazioni da 6-7 mila euro all’anno ciascuno, che messi insieme hanno permesso al partito di raccogliere circa 350mila euro nel triennio.

Le nuove carte analizzate permettono di raccontare che questi versamenti sono proseguiti fino a oggi. Lo dicono gli stessi bilanci della Lega. Prendiamo Mara Azzi, oggi direttore generale dell’Ats di Pavia. Tra il 2008-2010, quando era a capo della Azienda Ospedaliera di Desenzano del Garda, Azzi avrebbe versato 18 mila euro alla Lega, secondo un documento contabile del partito. Davvero Azzi ha donato soldi alla Lega? Alle nostre domande la dirigente pubblica non ha risposto. Impossibile trovare riscontri per quegli anni nei bilanci della Lega: il partito ha iniziato solo nel 2014 a pubblicare le liste dei suoi donatori a livello nazionale, e solo dal 2015 gli elenchi dei finanziatori delle varie sezioni regionali. Proprio dal bilancio della Lega Nord relativo al 2015 emerge però il nome della Azzi. In quell’anno, quando Salvini era già segretario federale, la dirigente sanitaria ha donato 12 mila euro al Carroccio.

Storia simile per Walter Locatelli, all’epoca direttore generale della Asl di Milano, oggi commissario straordinario di Alisa, l’Azienda Ligure Sanitaria della Regione Liguria, che gestisce tutte le cinque Asl liguri e l’ospedale San Martino. Locatelli ha sicuramente donato soldi alla Lega nel 2014: 6mila euro, dice il bilancio del Carroccio. Chi ha invece continuato a versare l’obolo senza soluzione di continuità è Mauro Borelli, da una vita dirigente sanitario in Lombardia, prima direttore generale dell’Asl di Lecco, poi di quella di Mantova, adesso dell’Asst Franciacorta. Secondo il documento contabile interno, Borelli avrebbe versato 18mila euro alla Lega tra il 2008 e il 2010. Contattato da Il Fatto per un commento, Borelli non ha risposto. Impossibile dunque sapere con certezza se il dirigente pubblico abbia versato soldi alla Lega in quegli anni. Di certo, però, lo ha fatto negli anni seguenti.

I rendiconti del partito dicono che in tutti questi anni Borrelli non si è mai scordato della sua donazione. Con una precisione svizzera, ha versato 6 mila euro all’anno, ogni anno, dal 2014 al 2019. Sempre la stessa cifra, la stessa versata al partito da molti suoi colleghi. Come Alessandro Visconti, tra il 2008 e il 2010 direttore amministrativo dell’Asl Milano, oggi salito di grado e diventato direttore generale dell’Asst Fatebenefratelli Sacco: nel 2015 e nel 2016 ha donato in tutto 12mila ero alla Lega, dicono i bilanci, mentre negli ultimi tre anni non c’è più traccia di suoi contributi. Chi non ha invece mai saltato un giro è Fulvio Edoardo Odinolfi, fino al 2011 direttore sanitario della Asl di Lecco, oggi direttore generale dell’Asst Ovest Milano. I bilanci pubblici della Lega dicono che Odinolfi dal 2015 al 2019 ha donato in tutto 33mila euro al partito. Come abbiamo raccontato domenica, né i vertici della Lega (Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti) né i cinque dirigenti sanitari citati hanno risposto alle nostre domande sul meccanismo del 15%.

Ieri ci ha però inviato una email uno dei cinque dirigenti: Alberto Zoli, tra il 2008 e il 2010 direttore sanitario della Asl di Lecco, oggi direttore generale dell’Areu, l’Azienda Regionale Emergenza Urgenza, l’unità di crisi presieduta da Attilio Fontana che si sta occupando dell’emergenza covid-19. Oltre a farci sapere di non aver più dato contributi alla Lega dopo il 2010, Zoli ha tenuto a precisare che quei versamenti non erano frutto di “una vera a propria richiesta”: era “consuetudine che i manager che aderivano al progetto della Lega sostenessero con una quota volontaria il partito. Avevo saputo di questa possibilità dall’allora capogruppo della Lega in Consiglio Regionale, che però non mi ha parlato di cifre, solo di opportunità su base volontaria, non certo obbligatoria”. Che cosa poteva succedere in caso di mancato versamento? “Non succedeva nulla”, è stata la risposta di Zoli. Una versione che non combacia con quella fornitaci da una ex segretaria della Lega, nell’amministrazione in via Bellerio per quasi 30 anni. Chiedendoci l’anonimato, la donna ha spiegato che il sistema del 15% nella pratica non funzionava davvero su base volontaria. “Tutti quelli nominati”, dice la fonte, “avevano l’obbligo morale di dare un tot alla Lega ogni anno, almeno quelli che venivano remunerati per quell’incarico. Chi non lo faceva riceveva una telefonata da Giampaolo Pradella, che si occupava allora degli enti locali della Lega, che gli diceva: ‘Guarda, non è arrivato il contributo, ricordati eh’. Insomma, in modo velato gli diceva: ‘Dai il contributo, altrimenti la prossima volta non vieni più nominato’”.

2- Continua

Fontana fa il responsabile e Sala dà la colpa a Conte

Il governatore si definisce “un po’ preoccupato” e prega i cittadini di “non mettere in gioco i sacrifici” di questi mesi, mentre il sindaco scarica le colpe sul governo. Milano e la Lombardia ci mettono due giorni per trasformare la zona gialla in polemica politica, dopo gli assembramenti visti un po’ ovunque domenica.

Il risultato è che per i lombardi si aggiunge confusione a confusione, dato che nell’ultimo mese e mezzo da quegli stessi esponenti politici sono arrivati decine di messaggi contrastanti. Ieri, per esempio, il presidente Attilio Fontana ha di colpo scelto la via moderata: “Questi assembramenti rischiano di mettere in gioco la fatica fatta. Si rischia di rovinare tutto”. Legittimo, se non fosse che una settimana fa lo stesso Fontana esortava i cittadini a disobbedire al dpcm sugli spostamenti natalizi: “Sono provvedimenti folli, mi trovo d’accordo con chi violerà i divieti”.

La galleria delle incoerenze di Fontana è lunga. Il 27 novembre, quando il governo ipotizzava un po’ di prudenza in più nel trasformare la Lombardia da zona rossa a arancione, il leghista scalpitava: “Restare in zona rossa significa non fotografare la realtà”. Tre giorni prima, Fontana definiva invece la Lombardia “pronta” a riaprire le piste da sci: “Abbiamo predisposto le linee guida, siamo nelle stesse condizioni dell’Austria”. Tutt’altro che “preoccupato”, insomma. Per non parlare delle dichiarazioni di inizio novembre, prima che il governo decidesse severe restrizioni per la Regione. Nonostante i numeri della Lombardia siano rimasti tra i più gravi per settimane, Fontana contestava la classificazione in zona rossa: “Le valutazioni si basano su dati vecchi. È uno schiaffo in faccia a tutti i lombardi”.

Erano i giorni, quelli, in cui sindaci e governatori invocavano il lockdown, purché fosse deciso dal governo e non da loro, pretendendo misure nazionali piuttosto che diversificate. L’esatto contrario di quel che avevano chiesto fino ad allora, quando a Giuseppe Conte era stato rimproverato di non ascoltare abbastanza gli enti locali. Ieri Fontana è tornato sul tema con l’ennesima giravolta: “La pandemia ha dimostrato la fondamentale presenza della Regioni, che sono intervenute in maniera sostanziale. Anzi, credo ci sia necessità di una maggior autonomia delle Regioni. La centralizzazione ammazza ogni sviluppo”. Peccato che tra ottobre e novembre, quando appunto sindaci e Regioni non volevano assumersi la responsabilità del lockdown , Sala e Fontana escludevano zone rosse locali: “Ad oggi in Lombardia non si ipotizza nemmeno lontanamente di andare verso un lockdown stile marzo e aprile e io lo condivido”, diceva il sindaco; “Se i tecnici dicono che l’unica alternativa è il lockdown – seguiva a ruota Fontana – facciamolo a livello nazionale”.

Dopo gli assembramenti di domenica, Sala se l’è presa di nuovo con Palazzo Chigi: “Il governo lancia l’operazione cashback e poi se la prende coi cittadini che fanno acquisti. La cosa più detestabile è dare degli irresponsabili ai cittadini. Non è così, il fardello delle decisioni spetta ai politici”. Ai politici, tranne a se stessi.

Non solo Guerra, per Speranza c’è un’altra grana

C’è l’inviato speciale dell’Oms, Ranieri Guerra, in conflitto con la direzione europea della stessa Organizzazione mondiale della sanità, che lo allontanerebbe da Roma se non fosse che il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus lo difende. E il segretario generale, il numero uno della struttura amministrativa del ministero, Giuseppe Ruocco, ai ferri corti con il viceministro M5S Pierpaolo Sileri, che ne ha chiesto le dimissioni perché è “sempre assente” al Comitato tecnico scientifico e perché è uno dei dirigenti a cui si deve, insieme agli ex ministri, la mancata revisione del piano pandemico antinfluenzale che risale al 2006, per quanto il sito del ministero lo dia per “aggiornato il 15 dicembre 2016”.

Era a capo della Prevenzione nel 2013, quando il Parlamento europeo ha dato disposizioni vincolanti e l’Oms ha modificato le linee guida. Nel 2014 arrivò Guerra, che a settembre 2017 lasciò scritto alla ministra Beatrice Lorenzin di rifare il piano, secondo le linee guida ulteriormente modificate dell’Oms, prima di trasferirsi proprio all’Oms quale assistente del direttore generale. Toccò poi a Claudio D’Amario, che nel 2018 istituì il gruppo di lavoro d’intesa con la nuova ministra Giulia Grillo del M5S, ricevette nuovo impulso da Speranza nell’autunno 2019 e lasciò una bozza a maggio, quando è andato a dirigere la Sanità dell’Abruzzo. Anni e anni non sono bastati per rifare il piano, anni di tagli fino alla tragedia sanitaria nazionale che, secondo la Procura di Bergamo, potrebbe essere stata favorita dalla parziale applicazione del vecchio piano e dei piani regionali, in primis quello lombardo: ritardi nella sorveglianza epidemiologica, negli approvvigionamenti e nei controlli su ospedali e laboratori, previsti fin dalla fase d’allerta nel piano del 2006. Questa, secondo alcuni, sarebbe cominciata il 5 gennaio con l’annuncio Oms di polmoniti sconosciute in Cina, seguito però – ricordano al ministero – da comunicazioni rassicuranti della stessa Oms. La definizione di “caso sospetto”, pure prevista dal piano, è stata indicata dal ministero fin dal 22 gennaio. Secondo fonti della Salute solo la dichiarazione d’emergenza dell’Oms, il 30 gennaio, obbligava a misure preventive, come il blocco dei voli dalla Cina (deciso sempre il 30) e lo stato d’emergenza (il 31). Le verifiche sui posti letto però sono state avviate solo il 12 febbraio dal Cts e gli interventi sugli ospedali a fine mese, quando c’erano mille positivi e 29 morti. Speranza e altri saranno ascoltati dai pm, come testimoni, a gennaio.

Chi ha parlato con Ruocco assicura che “non pensa a dimettersi”, che la sua assenza al Cts è “concordata con il ministro” e non ha niente da dire sui piani pandemici. Anche Guerra resta in Italia dopo lo scandalo sul ritiro del dossier del centro Oms di Venezia che criticava moderatamente la prima risposta italiana al Covid-19, pubblicato a maggio per poche ore con prefazione del direttore dell’Oms Europa Hans Kluge, nel quale proprio Guerra pretendeva fosse indicato l’aggiornamento del piano pandemico antinfluenzale nel 2016: il testo dice solo “riconfermato”. Guerra ne ha attribuito la frettolosa approvazione “condizionata” alla centrale europea di Copenaghen. Le email rese note da Report e dal Fatto raccontano di tensioni con il governo italiano, che però secondo l’Oms Europa non ha avuto alcun ruolo nel ritiro. Copenaghen assicura che, su richiesta, trasmetterà il rapporto ai media: una ripubblicazione che non farà piacere né a Guerra né a Ginevra. Kluge è in buoni rapporti con Speranza, farebbe a meno di Guerra a Roma, ma la missione dipende da Ginevra, non da lui. Speranza farebbe a meno di queste grane.