Il Cts: “Serve fare come la Merkel, ma i partiti non hanno il coraggio”

Dicono che la scelta ormai sia solo tra intervenire con il bisturi o con l’accetta. Ovvero rendere l’Italia zona rossa solo nei giorni di festa oppure seguire il modello Merkel, quello che chiude tutte le attività non essenziali da domani fino al 10 gennaio. Eppure la politica ancora battibecca e in Senato litiga sulla norma che dovrebbe consentire lo spostamento tra piccoli Comuni: di fronte ai dubbi di chi ritiene che, prima di prevedere deroghe, sia il caso di attendere l’orientamento del Cts sulle chiusure nazionali, il capogruppo di Italia Viva a Palazzo Madama, Davide Faraone, se ne esce così: “Ma che dobbiamo aspettare? Speranza e Franceschini sono ipocondriaci”.

Siamo arrivati a questo punto: da chiamarli “rigoristi” sono finiti a bollarli come malati immaginari. Tanto che il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà è dovuto intervenire per difendere l’operato dei suoi colleghi di governo preoccupati per la tenuta del sistema sanitario nelle prossime settimane.

Perché, per dirla con il ministro Francesco Boccia, “la terza ondata ormai è sicura” e il rischio è che mandi all’aria la campagna vaccinale che dovrebbe partire proprio dopo la Befana. Ieri il premier Giuseppe Conte ha incontrato il Cts insieme ai capidelegazione, al sottosegretario Fraccaro e ai ministri D’Incà e Lamorgese. E di fronte alle indecisioni della maggioranza si è di nuovo chiesto agli scienziati di sbrogliare la matassa: si attende una nota, insomma, che dia al governo il coraggio che gli manca. Quale sarà l’orientamento del Comitato è piuttosto chiaro, così come è evidente l’irritazione degli scienziati nei confronti della politica che non vuole decidere e ha ributtato a loro la patata bollente. La maggior parte degli studiosi, con qualche timido distinguo, propende per la linea tedesca: “A questo punto, con i numeri attuali e viste le scene del weekend bisognerebbe fare come la Germania, un lockdown generalizzato da subito o almeno dal 24 dicembre al 7 gennaio”. Un rinvio necessario, soprattutto perché, va detto, sarebbe ormai impossibile arginare la surreale corsa agli spostamenti innescata dal divieto che scatta domenica e che consente invece fino al 20 di muoversi tra le regioni, ormai quasi tutte gialle. Eppure i numeri, è ancora l’analisi degli scienziati, consiglierebbero restringimenti immediati.

Ieri, infatti, ci sono stati altri 491 morti (484 domenica). I nuovi casi registrati sono stati 12.030 (domenica 17.938), ma a fronte di soli 103.000 tamponi, in netto calo rispetto ai 152.967 del giorno precedente. E se c’è qualche segnale positivo dalle terapie intensive che con una variazione di -63 (domenica -41) scendono a 3.095 pazienti, tornano, invece, seppur di poco a salire i ricoveri nei reparti ordinari Covid: +30 (domenica -333) per un totale di 27.765. Anche l’indice Rt riprende a crescere: da 0,82 aumenta a 0,89.

Che i numeri non siano belli lo ammettono anche quelli che al governo sono dell’idea che vada evitata la linea drastica. Non tanto per ragioni sanitarie, quanto per fronteggiare l’emergenza economica: bloccare negozi, bar e ristoranti in un periodo in cui le persone “hanno voglia” di spendere, sarebbe suicida (tanto più che è un messaggio in controtendenza con l’introduzione del cashback che Palazzo Chigi ha voluto con forza per incentivare gli acquisti “non telematici”).

Sempre per tentare di evitare il lockdown indiscriminato e procedere “col bisturi”, ieri si è anche chiesto al Viminale di produrre un report che trasformi in un monitoraggio quanto più scientifico lo “spettacolo immondo” (Luca Zaia dixit) dei luoghi dello shopping stracolmi nel weekend: per capire, insomma, quali e quante città sono a rischio e in quali zone gli assembramenti sono stati più consistenti.

Un disperato tentativo di ridurre la portata dei restringimenti, nonostante – oltre alla Germania – anche altri esempi stranieri seguano una direzione chiara: cinque settimane di lockdown in Olanda, rinvio delle riaperture previste per oggi in Francia, nuove strette imminenti a Londra, quattro giorni di chiusura totale anche in Turchia da Capodanno.

Recovery tedesco, risorse Ue per risparmiare sul suo piano

La Germania è pronta a presentare il suo Recovery plan, ma nemmeno nel Paese governato da una cancelliera del calibro di Angela Merkel è tutto oro quello che luccica. Da quanto emerge dalla bozza del piano tedesco o Darp, secondo l’acronimo tedesco, la Germania non spenderà un euro in più di quanto aveva previsto nel mega pacchetto di stimolo congiunturale varato a giugno da 180 miliardi e i soldi targati Ue del Recovery plan andranno a finanziare i provvedimenti già previsti. “Le misure ancorate nel Darp riflettono sistematicamente gli sforzi nazionali del piano di stimolo congiunturale”, si legge nel documento che sarà presentato nel Consiglio dei ministri a Berlino domani. Il documento parla di “un’ampia sovrapposizione tra gli obiettivi del programma congiunturale e il Recovery plan europeo” che giustificherebbe di usare le risorse non in aggiunta, ma per finanziare il piano esistente.

Nella quarantina di pagine di bozze si elencano progetti per un totale di 29,8 miliardi di euro, ma la Commissione Ue stima che le sovvenzioni, cioè i grants, a cui avrà diritto la Germania si aggireranno intorno a 23,6 miliardi. Si saprà con certezza in aprile, quando la commissione approverà i piani dei singoli Stati membri.

L’indicazione su come e dove destinare le risorse è stata presa, si legge nella bozza ma vale per tutti i Paesi, tenendo conto delle raccomandazioni semestrali specifiche per ciascun membro Ue e in base alle linee guida del Next Generation Eu, che pongono al centro la sostenibilità ambientale e la digitalizzazione.

Tra le raccomandazioni della Commissione per la Germania c’è la richiesta di potenziare gli investimenti, da sempre tasto dolente dell’orientamento macroeconomico tedesco. Lo scorso giugno, con un’inversione di tendenza senza precedenti e la complicità della crisi del coronavirus, Berlino ha varato un pacchetto di misure a sostegno dell’economia e del consumo di portata storica: 180 miliardi di euro, “il più grande pacchetto congiunturale della storia tedesca”, lo ha definito il ministro dell’Economia, Peter Altmaier. Si trattava di una serie di misure ad ampio spettro a sostegno di imprese, lavoratori dipendenti e autonomi, famiglie, ma anche di investimenti per mobilità sostenibile e transizione energetica. A questo mega-pacchetto si è aggiunto il 21 luglio l’accordo di massima su Next Generation Eu, che assegna alla Germania 23,6 miliardi di grants.

La domanda che si pone ora è: questi soldi targati Ue andranno ad aggiungersi alla cifra stanziata da Berlino a giugno oppure andranno a finanziare, almeno in parte, il pacchetto “di portata storica”? La questione non è di dettaglio e l’impatto macroeconomico decisamente diverso. Nel secondo caso infatti la Germania andrebbe a usare le risorse europee per “risparmiare” sul suo piano nazionale, venendo incontro più timidamente di quello che potrebbe alle raccomandazioni della Commissione.

Dalla lettura della bozza del Recovery plan tedesco sembrerebbe che sia proprio questa la strada intrapresa da Berlino, selezionando i progetti del mega-pacchetto di stimolo già in linea con i desiderata di Next Generation Eu, orientati da green economy e digitalizzazione. Se si scorre la bozza del Recovery plan tedesco si trovano infatti progetti che riguardano la transizione energetica, i progetti sull’energia a idrogeno, le infrastrutture per l’elettromobilità, gli incentivi per l’auto elettrica, l’efficientamento energetico degli edifici, la modernizzazione delle ferrovie e molti altri capitoli di spesa che trovavano posto anche nel mega pacchetto di giugno.

Raccogliere i soldi, come sa bene anche l’Italia, non è l’unico dei problemi. Poi bisogna saperli spendere presto e bene. E in Germania è più facile raccoglierli che spenderli. Il punto 6 della bozza tedesca si chiama proprio “Smantellamento degli ostacoli agli investimenti” e rientra nel macro-capitolo “modernizzare”. Si chiedono risorse per mettere in pratica il programma di semplificazione dei processi amministrativi “ad esempio nell’attuazione dei programmi di aiuto” e il “reclutamento e assunzione mirata di personale”. Al livello di comuni, per esempio, manca il personale competente per realizzare i progetti sulla carta, in grado di interagire tra pubblico e privato, e districarsi tra questioni giuridiche e piano economico.

Il dibattito italiano sulla governance invece non sfiora la Germania: sarà in capo al ministero delle Finanze “che coordina le richieste e l’utilizzo dei fondi e, in qualità di autorità responsabile dell’intero processo, è il punto di contatto con le istituzioni Ue”. Il ministero poi a sua volta si coordina con la cancelleria, con i ministeri competenti e svolge poi la funzione di coordinamento con i länder e con il Bundestag.

Matteo pensa al blitz Usa e si “gioca” la carta Biden

“Ho dormito poco. All’inizio ho visto che Hillary era in vantaggio. Ho fatto tardi per seguire e mi sono svegliato rimbambito. Lo sono ancora”. Il giorno dopo l’elezione di Donald Trump, nel novembre del 2016, l’allora premier Matteo Renzi si aggirava per il Transatlantico come un pugile suonato. Viso scuro, umore nero, parlantina annebbiata. Lui, che solo qualche settimana prima era stato negli States per partecipare all’ultima cena di Stato di Obama, lo vedeva come un oscuro presagio sul “suo” referendum (in effetti poi realizzatosi). Ma anche come una complicazione dei suoi rapporti con la Casa Bianca, visto quanto si era esposto con la Clinton.

Quattro anni dopo, con la vittoria di Joe Biden, all’epoca vicepresidente di Obama, “Matteo” intravede una luce in fondo a un tunnel dal quale non riesce a uscire. E così immagina di sfruttare al meglio gli antichi rapporti. Tanto da aver progettato persino una missione dal neopresidente, direttamente a Washington. L’obiettivo sarebbe quello di utilizzare il proprio ascendente per incrinare i rapporti di Giuseppe Conte con Biden e attraverso questo indebolire ancora un po’ il premier.

Che sia perlomeno un po’ megalomane come progetto lo dice il fatto che l’Italia di default mantiene buoni rapporti con la Casa Bianca. Anche se Conte aveva un’ottima relazione personale con Trump (fu lui a chiamarlo “Giuseppi” durante il G7 di Biarritz dell’agosto 2019, augurandosi che restasse premier; endorsement che contano) il dialogo con Biden è più che avviato.

Della missione si parla già da un po’. Tanto che lo stesso Renzi la aveva smentita nella chat dei parlamentari di Iv. E le smentite, com’è noto, a volte sono doppie conferme. Fatto sta che insistentemente la voce ritorna. Addirittura si è sparsa in questi giorni la notizia che l’ex premier fosse pronto a partire tra ieri e oggi. Cosa che non sarà, visto che stamattina andrà a Palazzo Chigi per la verifica di governo. Però chi lo conosce bene è pronto a scommettere che è solo congelata. In fondo, salvo sorprese, è congelata pure la crisi di governo, ma parrebbe solo per qualche giorno.

La smania americana di Renzi si deve pure a un altro sogno nel cassetto. L’ex premier vorrebbe diventare Segretario generale della Nato. Una exit strategy che gli permetterebbe di chiudere – almeno per un po’ – con le amarezze della politica italiana. I tempi però per il suo carattere sono un po’ lunghi: Stoltenberg, che ora occupa quel posto, scade nel 2022. Comunque sia, anche per questo l’appoggio di Biden (che da quest’estate Renzi racconta di avere già in tasca) sarebbe fondamentale. L’ipotesi val bene la traversata transoceanica.

Inciucio destra-Renzi: Meloni stoppa Salvini B. dice sì alla manovra

Forse qualche preavviso lei lo aveva avuto già da tempo, forse conosceva bene i due “fratelli” di coalizione che, periodicamente, ammiccano alle forze di maggioranza ipotizzando le larghe intese. Prima Silvio Berlusconi sulla norma salva-Mediaset, adesso Matteo Salvini che nel bel mezzo della “verifica” di governo chiede un esecutivo che traghetti il Paese alle elezioni, per poi specificare che dovrebbe essere di centrodestra con “i delusi” di Conte. Insomma, Italia Viva e un pacchetto di ex grillini che mal sopportano l’alleanza col Pd. Così ancora una volta è dovuta intervenire Giorgia Meloni a stoppare le velleità del segretario della Lega ricordandogli un impegno preciso firmato da tutti i leader del centrodestra il 18 agosto scorso: il cosiddetto patto anti-inciucio.

Un accordo voluto proprio dalla leader di FdI che temeva accordi sottobanco tra Forza Italia e i giallorosa, tornato di attualità adesso che Salvini lancia l’idea di un nuovo governo con pezzi della maggioranza. Il patto anti-inciucio nel suo passaggio principale recita così: “I responsabili nazionali di Lega, FI e FdI si impegnano a non dare corso, in questa e nella futura legislatura, a qualsiasi accordo di governo, con partecipazione diretta o esterna, insieme ad altre forze politiche, fatto salvo una formale unanime e diversa intesa tra le forze politiche che sottoscrivono il documento”. Un impegno che sarebbe violato in caso in cui si venissero a creare le condizioni auspicate da Salvini: un governo di centrodestra a cui si aggiungerebbe il sostegno di IV ma soprattutto di alcuni grillini. E così, dopo l’intervista al Corriere in cui si era detta “stupita” dalle uscite di Salvini chiedendogli se non volesse tornare al governo “con il M5S o con il Pd”, ieri Meloni è tornata all’attacco chiedendo un chiarimento al leghista. Durante la conferenza stampa del centrodestra sulle proposte comuni in vista della manovra, Salvini ha ribadito che “senza chiedere niente a Di Maio, Zingaretti e Renzi” in Parlamento ci potrebbe essere “qualcuno d’accordo con le nostre proposte”. Ma a margine è stata Meloni a bloccarlo ribadendo il concetto del patto estivo: “Non esiste lo scenario in cui governiamo con altri – ha detto – ci confronteremo tra poco”. E così è stato. Fonti leghiste parlano di “clima sereno e cordiale” ma Meloni è stata ferma con Salvini ribadendogli il suo niet a qualunque nuova maggioranza in Parlamento “tantomeno con Renzi e Di Maio”. La tensione resta alta. “Noi siamo coerenti contro ogni inciucio – spiega il capogruppo di FdI alla Camera, Francesco Lollobrigida – chi dice cose diverse deve spiegarcelo…”. Dall’altra parte non prendono bene la rigidità di Meloni: “È inutile che Giorgia ora faccia la verginella – fanno sapere dai piani alti della Lega – ce lo ricordiamo tutti quando nel 2018 sarebbe voluta entrare al governo con il M5S se gli avessimo dato il ministero della Difesa. Poi Di Maio si oppose e lei uscì sbattendo la porta. Ma non ci venga a fare la morale adesso”. Una tensione che si è riproposta nel pomeriggio con Salvini che ha riunito la segreteria politica dove Giancarlo Giorgetti ha elogiato “la svolta responsabile” del segretario e Meloni nell’assemblea nazionale di FdI ribadendo la linea della “fermezza”.

Nel mezzo resta Silvio Berlusconi che, fa sapere un big di FI, sarebbe favorevole alle larghe intese (ieri al Corriere ha parlato di “convergenze” per il Paese) ma ora resta in attesa di capire gli sviluppi nella maggioranza, mantenendo ottimi rapporti con il governo. Oltre a ottenere risultati nella manovra con il viceministro all’Economia Antonio Misiani che ha annunciato una norma per introdurre ammortizzatori sociali per gli autonomi e Di Maio che ha proposto un “anno bianco” per le partite Iva, B continua a collaborare anche in funzione di Mediaset. Pienamente ricambiato: come ha rivelato Repubblica, venerdì sera la Commissione Ue ha inviato una lettera al ministero dello Sviluppo per bloccare la norma “salva-Mediaset”, ma il governo non ha alcuna intenzione di fare un passo indietro.

Tempo di verifica. Crimi: “No rimpasto per noi. Gli altri? Cambino i propri”

Seduto a un lungo tavolo dentro Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio chiede, sonda, soprattutto ascolta. E prende appunti, tanti. A un soffio da un Natale di chiusure e brutti pensieri, Giuseppe Conte deve capire se ha ancora una vera maggioranza attorno a sé, e allora eccolo, il vecchio ma spesso indispensabile rito chiamato “verifica di governo”. Con i 5Stelle, quelli che lo hanno tramutato da avvocato in premier, che gli giurano fedeltà e bollano come eresia il rimpasto. Per arrivare infine al punto: “Non esistono maggioranze alternative a questa, se così non si regge non resta che il voto”. Ed è la stessa posizione annunciata prima del fischio di inizio da Goffredo Bettini che, in un’intervista all’Huffington Post, chiarisce: “Renzi ora sa con certezza che il Pd, se cade questo governo, spingerà per il voto anticipato”. Ufficialmente, i vertici del Nazareno sono compatti. Ma le variabili sono ancora molte.

Di certo la verifica inizia a metà pomeriggio con il M5S, guidato dal reggente Vito Crimi e dal capodelegazione Alfonso Bonafede. Assieme a loro i capigruppo, il ministro allo Sviluppo economico Stefano Patuanelli e soprattutto Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di fatto. È lui, che da giorni risponde con smentite di fuoco alle accuse di remare contro Conte, il più atteso da tutti al tavolo. Ma a parlare sono innanzitutto Crimi e Bonafede. Sono loro a rispondere al premier, che pone quasi subito il nodo centrale: “Voi volete cambiare qualcosa di questo esecutivo? E Bonafede è secco: “Per noi il rimpasto sarebbe un’offesa ai cittadini che stanno facendo sacrifici”. Un’idea “surreale” come ribadirà poi Crimi a telecamere e microfoni fuori Palazzo Chigi. Certo, il Pd e soprattutto Iv a una revisione dell’assetto di governo sembrano tenere, eccome. “Se loro vogliono cambiare i loro ministri facciano pure, noi siamo contenti dei nostri” assicurano i sei del M5S. Piuttosto, ripetono più volte, “dagli alleati pretendiamo lealtà e rispetto”. E da qui si arriva ai temi. “Ho deciso questo passaggio con i partiti per ragionare di cosa c’è da fare” assicura Conte. E i 5Stelle si precipitano a elencare punti di programma su cui pretendono che si proceda, “perché erano stati assunti precisi impegni”, e il riferimento è innanzitutto al Pd. Quindi tirano fuori lo stop alle trivellazioni e la legge sul conflitto d’interessi. Ma soprattutto insistono sul superbonus , l’agevolazione fiscale per chi spende in interventi antisismici o per l’efficienza energetica. “Va prorogato fino al 2023” rilanciano. E in questa fase è forse il maggior punto di attrito sul merito dei provvedimenti con dem e Iv.

La delegazione dem invece varca la soglia di Palazzo Chigi alle 19.30. Ci sono il segretario, Nicola Zingaretti e il capo delegazione Dario Franceschini, deciso a fermare fughe in avanti e a difendere questo assetto per evitare salti nel buio. Ma anche i più critici: il vice segretario, Andrea Orlando e i capigruppo, Graziano Delrio e Andrea Marcucci. Oltre alla portavoce delle donne, Cecilia D’Elia. Il Pd porta a Conte una lunga lista di dossier fermi, di cose sulle quali non si è deciso. Spinge sul fatto che il governo deve fare un salto di qualità. Chiede la parlamentarizzazione del Recovery Fund, soprattutto il coinvolgimento sulla definizione della struttura di governance. E poi, il Mes, la legge elettorale, le riforme. Sul potere e i soldi che passano per i fondi europei potrebbe spostarsi la partita. Prima dell’incontro, c’è stato il richiamo alla responsabilità di Franceschini. Molti dicono su input diretto di Mattarella. Ma intanto continuano a girare vorticosamente i nomi dei ministri considerati inadeguati. Da Luciana Lamorgese a Paola De Micheli, passando per Nunzia Catalfo, per cominciare. Mentre tutti aspettano Renzi, che oggi parteciperà alla delegazione di Iv. “Non c’è niente di deciso. Vediamo se Conte ritira la cabina di regia. Ma se non ci ascolta, dopo la legge di bilancio, noi usciamo dal governo”, continua a dire agli amici alla vigilia.

Nel frattempo si diffondono voci sul suo desiderio di andare alla Farnesina. Il che automaticamente porterebbe un cambiamento dell’assetto del governo. Avrà la forza per andare fino in fondo? Anche il Pd aspetta le risposte di Conte. Per capire se il quadro può reggere.

Verificami questo

Al governo manca l’“anima”, l’“identità”, la “visione”, l’“ubi consistam” (Repubblica). È un “governo senza nome” col “mistero del premier” e senza “una piattaforma culturale, una ragion d’essere autonoma in una nuova interpretazione cultural-politica del Paese e del suo sviluppo” (Ezio Mauro). Ci vuole un governissimo. Di larghe intese. “Dei migliori” (Calenda, e lui modestamente lo nacque). No, basta un rimpasto. O un mini-rimpasto. Un “Conte-ter” (Repubblica). O un “piano B” (Domani). Almeno “un riequilibrio” (Pd). “Un salto di qualità” (Renzi). Ma senza “salti nel buio” né “crisi al buio” (Zingaretti). Intanto si fa il “tagliando” (Pd). Per “un cambio di passo” (Marcucci e Serracchiani). “Una verifica chiara” perché “il problema è chiarire i temi su cui andare avanti” (Serracchiani). “Proporre un piano serio al Paese” (Boschi). Una “scossa” (Zinga). Una “svolta di concretezza” e un “colpo d’ala” (Pd). Un’“agenda nuova” (Faraone). Un “nuovo slancio” (Confcommercio). ”Un rilancio e una ripartenza” (Zinga). Ma basta pure “un riassetto” (Bettini). Una “riorganizzazione col coinvolgimento dei migliori di tutti i partiti” (Boschi). Un “chiarimento” senza “fare penultimatum” (Faraone). Un “rafforzamento della squadra” (Serracchiani). Un’“ampia compagine parlamentare” (Renzi). “Accogliere le energie migliori”, cioè di FI (Bettini). A partire dai Responsabili.

Aprire “un tavolo” su cui mettere i problemi” (Zinga). “Ricomporre” e “condividere le scelte” per la “collegialità” (Bettini). Magari con “nuove figure di raccordo con i partiti”, con un “nuovo Gianni Letta” (Orlando). Guai se il premier “salta le mediazioni” e si chiude “nella piramide” (Espresso). Coi “super poteri” dell’“azzardo cesarista” (Stampa). Con lo “stato di emergenza senza più emergenza” e “soluzioni rococò” sul Recovery (Cassese). Con “indebiti tentativi accentratori, forzature, colpi di mano, personalismi” (Galli della Loggia). Ma “non è solo la governance del Recovery, è tutto il piano” (Renzi). Però, sia chiaro: “Siamo contrari all’immobilismo, alla chiusura in se stessi, a ogni forma di autocelebrazione” e “continueremo a svolgere una funzione unitaria, di collante, che non va confusa con un atteggiamento di subalternità”, ma solo con “un impegno costante per affrontare in modo adeguato i problemi” e voi non ci crederete, ma lo scopo è “risolverli insieme”, oltre a “praticare pienamente lo spazio del confronto produttivo e del rafforzamento collegiale della proposta”, sempre tesi al “massimo della corresponsabilizzazione e della collegialità”, cominciando a “implementare l’agenda green” (Zinga). Con scappellamento a destra.

L’oroscopo per il 2021? Pace, amore, ecologia

Non solo medici, insegnanti, infermieri: c’è un’altra categoria professionale messa a dura prova dalla pandemia. È quella degli astrologi, specie quelli che alla vigilia dell’anno passato si erano esercitati nella solita triade amore-lavoro-salute con un “andrà tutto bene, con qualche piccolo inciampo” e che oggi, alla vigilia del nuovo anno, si ritrovano accusati di aver fallito la previsione dell’arrivo della catastrofe. Loro, per la verità, si difendono con ardore. C’è chi, come Branko, piazza sul suo nuovo Calendario Astrologico 2021 la scritta “L’unico che aveva previsto tutto” (l’anno scorso aveva infatti annunciato una “nuova e mai provata agitazione il giorno di primavera” e un “un exploit di scienza e medicina”); e chi, come Simon & The Stars nel nuovo L’oroscopo 2021, ricorda di aver azzeccato la previsione dell’arrivo di “muri”, per quanto “simbolici”. “Dire che abbiamo fallito perché non abbiamo annunciato la pandemia è un po’ come dire che il nostro medico di base ha fallito perché non l’ha prevista”, spiega a sua volta Sonia di Astri e Psiche, quasi due lauree e un lavoro in Bocconi lasciato per l’astrologia, mentre Paolo Fox, nel suo nuovo libro per il 2021, liquida il problema così: “Io non dico mai quest’ anno è buono o cattivo, perché per ognuno dei dodici segni c’è sempre un destino diverso”.

Passi il passato. Ma come se la cavano i nostri aruspici per l’anno a venire? Le strategie divinatorie sono quanto mai diverse. C’è il cripto-cartomante che utilizza frasi sibilline e ragionamenti enigmatici: “È l’Anno del Maestrale!”, annuncia Branko nel suo nuovo calendario astrale. “Anche nel 1918 soffiava il Maestrale, ma quell’anno a Napoli ‘come pioveva’, avrebbe poi cantato Milly. Fu l’anno in cui Fiztgerald incontrò Zelda e iniziò l’era del jazz… Come una musica potente, appassionata, carnale, bisogna accogliere e vivere il folle 2020…”. Una categoria fortunatamente un po’ più in voga è invece quella dello psico-indovino: colui che, più che parlare del futuro, scruta il passato, attraverso il tema natale. E, infatti, secondo l’astrologa francese Marie Christine Dean, autrice di Astro-logique. Horoscope 2021, “l’astrologia è occuparsi di sé, conoscersi, eliminare le cattive credenze, gli automatismi sbagliati e le sofferenze inutili”. Praticamente psicoterapia, sebbene in compagnia degli astri.

Ma il modello che spopola maggiormente tra i nostri astrologi è un altro, quello del socio-mago, che si muove agilmente tra filosofia, sociologia e politica, trasformando spesso le previsioni in sermoni. Fulgido esempio è l’astro-blogger Simon &The Stars, che, oltre a definire il 2020 una “lezione alla nostra hybris”, ricorda come “il tema centrale della nuova Era è proprio un diverso senso di appartenenza alla grande famiglia allargata del genere umano, la consapevolezza che ‘nessuno si salva da solo’: sono i valori, talvolta scomodi, di Giordano Bruno, Copernico e Galileo”. Dal socio-mago al socio-mago-ambientalista il passo è breve. D’altronde, “il percorso ecologista dei pianeti in Acquario aumenta il desiderio di tenere pulito il mondo”, discetta Paolo Fox, annunciando che saranno molte le persone che “elimineranno i beni non di prima necessità”. Ma c’è anche chi si occupa di climate change: secondo Tatiana Borsch, astrologa russa, l’entrata di Saturno e Giove in Acquario provocherà “l’espansione della crisi climatica, con conseguenti inondazioni e incendi, accompagnati da disoccupazione, collasso sociale, bancarotta economica”. E pure conseguenze politiche, dall’abdicazione della Regina Elisabetta alla crisi di Putin e dell’eurozona.

Ma insomma chi sono questi astrologi: previsori o strizzacervelli? Conoscitori sociali stile Censis o climatologi? E soprattutto: razionali o mistici, concreti e di buon senso o autentici metafisici?

“La verità”, spiega Marco Pesatori, astrologo e raffinato scrittore, “è che l’astrologia vera non è roba per astrologi. Io sono stato cacciato dalla Rai, nonostante gli ascolti, perché il mio programma, Minima Astrologica, facevo cultura: ma l’astrologia è cultura! Si può fare astrologia banale alla ‘Fix-Fox’, ma non un’astrologia viva e profonda. Quella che è stata cacciata dalle università”. Gli fa eco Sonia di Astri e Psiche: “In passato l’astrologia era legata alle tradizioni pagane ed era tutt’uno con l’astronomia. Poi è stata marginalizzata dal cristianesimo e dall’illuminismo e oggi viene invitata come se fosse il giullare di corte”. Insomma il problema non sono le previsioni, azzeccate o no, ma la qualità di chi le pratica (o decide di non farlo, magari per scandagliare l’inconscio). “E comunque, detto tra noi”, conclude Sonia, “la pandemia noi l’avevamo prevista: la congiunzione di Plutone e Saturno in Capricorno è un evento epocale e da anni se ne parlava nei congressi di astrologia mondiale. Ma nei congressi, appunto, non negli stacchetti tv”.

Fuori dal Giro: ecco perché l’Italia ha perso la maglia rosa

Quando lo scorso 25 ottobre si è chiusa la 103esima edizione del Giro d’Italia, stravolta dal Covid, sul podio non c’era nessun italiano. E nemmeno fra i primi cinque. Non era mai successo nella storia. Il migliore è stato il “vecchio” Vincenzo Nibali, appesantito dagli anni sul groppone (quasi 36), settimo in classifica. Col suo talento infinito e una passione d’altri tempi, Nibali è stato l’ultimo erede della scuola che parte da Coppi e Bartali, passa per Gimondi e Pantani e arriva appunto a lui, per 9 volte sul podio di un grande giro negli ultimi 10 anni. La sua classe aveva coperto un buco generazionale, che adesso pare una voragine. “Abbiamo vinto un mondiale e un europeo, nei ranking siamo ai vertici, non sono numeri di un movimento in crisi”, assicura il ct della nazionale, Davide Cassani. Talenti in effetti ce ne sono, uno su tutti: Filippo Ganna, 24 anni, già campione del mondo su pista e su strada a cronometro, quattro successi di tappa al Giro. Un predestinato.

Il nostro marchio di fabbrica però erano sempre state le corse a tappe, in virtù di una tradizione che affonda le sue radici proprio nel valore che la maglia rosa ha avuto nel tessuto sociale del Paese. Ed è qui che non produciamo più campioni, abbiamo saltato un’intera generazione dopo Nibali. C’era Fabio Aru, che però si è completamente perso. Alle sue spalle nulla, all’orizzonte nemmeno. Per capirne le cause, guardiamo all’ultimo decennio. Nel 2011 una riforma ha cambiato il circuito mondiale, dividendo le grandi squadre (World Tour) dalle piccole (Professional). Le prime hanno non solo il diritto, ma l’obbligo di partecipare a tutte le corse principali, le altre devono accontentarsi delle briciole e sperare in un invito. Da questa rivoluzione l’Italia è uscita con le ossa rotte.

I team minori, che per noi costituivano un’ossatura importante, sono stati stritolati. Quando poi nel 2017 l’Italia ha perso anche la sua unica licenza World Tour siamo spariti dal panorama. Colpa della crisi economica (che ha fatto crollare le sponsorizzazioni sportive) e degli scandali doping. Per allestire una World Tour servono minimo 15-20 milioni e nessuno, da noi, li mette. Risultato: non esiste più un team di bandiera che privilegia i ciclisti italiani, come succede all’estero. Nel 2011 avevamo 75 corridori d’elite, ora 55. E devono accasarsi all’estero: o sono dei fuoriclasse o finiscono in ruoli di rincalzo. È anche l’occasione che fa sbocciare il campione: si pensi all’ultimo vincitore del Giro, Geoghegan Hart, partito come gregario e bravissimo a sfruttare il ritiro del capitano Thomas; una chance così, difficilmente capiterà a un azzurro. Se da grandi gli italiani non emergono, è da piccoli che nasce il problema. Un tempo i nostri ragazzi crescevano a pane e salite, sognando il Giro e preparandosi in questo genere di gare. Negli anni ’90 esistevano 7-8 corse a tappe per dilettanti, ma sono venute a mancare quando, di recente, il calendario si è impoverito per colpa della crisi: era scomparso addirittura il Giro Under-23, che non si è disputato dal 2013 al 2016. È come se i nostri ragazzi avessero smesso di andare a scuola: chiusi nelle corse nazionali senza vera competizione e in una separazione troppo netta fra dilettantismo e professionismo, non sono cresciuti, al contrario dei pari età stranieri che oggi dominano.

L’approccio è ancorato al passato, come dimostra la mancanza di multidisciplinarietà, nuova frontiera del ciclismo moderno. Oggi è frequente vedere campioni passare da mountain bike e ciclocross alla strada. Lo stesso Ganna viene dalla pista. La Federazione, invece, su queste discipline ha investito poco e tardi. E ha fatto male, perché per i giovani sono più immediate e attraenti. Mentre il ciclismo da strada resta innanzitutto uno sport “di fatica”, verso cui gli adolescenti italiani di oggi sono refrattari, quasi spaventati. È anche una questione generazionale.

Il nostro è un movimento ancora appassionato, ma un po’ stanco, un po’ vecchio. Negli ultimi 5 anni abbiamo perso 5 mila tesserati, 300 società e 300 gare a stagione. È mancata una visione. Non l’ha avuto la Federazione, che si è adagiata sui contributi pubblici del Coni. Non a caso la lunga era del presidente Di Rocco, al comando dal 2005, potrebbe ora finire: lo sfiderà alle urne l’ex campione Silvio Martinello. Ma lo stesso discorso vale un po’ per tutto il sistema. Ad esempio Rcs, proprietaria del Giro d’Italia, ha pensato legittimamente ai propri interessi, ma non ha avuto lo stesso ruolo trainante che in Francia ha svolto Aso (l’organizzatore del Tour).

“Nel ciclismo non si inventa nulla. È un po’ come col Covid: i risultati di ciò che fai ora li vedi fra un po’. E oggi paghiamo gli errori di ieri”, conclude il ct Cassani. La mancanza di un calendario giovanile adeguato, l’assenza di un team di riferimento, l’approccio antiquato sono problemi che si ripercuotono soprattutto sui campioni da corse a tappe, perché questa è la tipologia di corridore più completa e più difficile da intercettare e formare. Solo un movimento in perfetta salute riesce a farlo e il nostro evidentemente non lo è. Così se nelle corse di un giorno l’Italia è ancora competitiva con i vari Ganna, Ulissi, Bettiol, Viviani, nei grandi giri è notte fonda: non ne vinciamo uno dal 2016, poche speranze nell’immediato. Poi conta pure la fortuna. Uno come Nibali nasce una volta ogni 20 anni. Il prossimo chissà quando.

Truppe speciali, altro che anonimato: è tutto on line

Dopo il lavoro, Alexandre (tutti i nomi sono di fantasia) rientra a casa in sella alla sua bici da corsa. Pedala per un’ora attraversando il centro di Bayonne e poi per altri venti chilometri fino al tranquillo paesino dei Paesi Baschi dove vive. Alexander è un soldato delle forze speciali francesi e lavora alla Cittadella di Bayonne, dove ha sede il primo reggimento di paracadutisti della fanteria di marina. Per questo motivo, per garantire la sua protezione, nessuna informazione sulla sua vita privata e sulle operazioni a cui partecipa dovrebbe essere pubblica. Eppure, tramite l’app di fitness Strava, che registra le performance ciclistiche di Alexandre, siamo riusciti a risalire al suo profilo e a tracciare i suoi spostamenti in Francia.

Nel novembre 2019, il militare è stato geolocalizzato anche durante una partita di calcio a Erbil, in Iraq. Il suo orologio connesso Garmin Fenix 3 ha registrato tutti i suoi movimenti. Nell’agosto 2018, è stato rintracciato anche mentre andava in bici in una base delle forze speciali francesi a nord di Ouagadougou, in Burkina Faso. Due mesi dopo, partecipava a delle esercitazioni vicino all’aeroporto di Timbuktu, in Mali. Tutti e tre i paesi sono teatro di alcune delle operazioni più rischiose a cui partecipa l’esercito francese. Il 30 novembre, tre basi francesi in Mali sono state attaccate da un gruppo terrorista vicino a al-Qaeda. Conoscendo i rischi, il ministero vieta ai suoi soldati dispiegati all’estero, e in particolare alle unità d’élite impegnate nel Sahel, di pubblicare dati personali online. Eppure, in poche ore, e solo incrociando dati pubblici, siamo riusciti a raccogliere un numero impressionante di informazioni su Alexandre: l’indirizzo di casa, i percorsi a piedi e in bici più frequenti, i luoghi in cui è stato inviato per lavoro negli ultimi due anni, ma anche il suo nome, quelli della compagna e del figlio, oltre che le loro foto. La cosa è sorprendente sapendo che da molti anni in Francia l’anonimato delle truppe d’élite è iscritto nel codice penale. La legge n.2016-483 del 20 aprile 2016 punisce con cinque anni di reclusione e una multa di 75.000 euro “la rivelazione o la diffusione, con qualsiasi mezzo, di tutte le informazione che potrebbero condurre all’identificazione di un membro di un’unità delle forze speciali”. Il legislatore probabilmente non aveva previsto che queste informazioni “sensibili” sarebbero state condivise proprio dai diretti interessati. Alexandre non fa eccezione. In tutto, Mediapart ha trovato più di mille profili Strava che sembrano appartenere a soldati francesi. Di questi, quasi 200 appartengono molto probabilmente a membri delle forze speciali, più di 800 a militari dispiegati in operazioni esterne, geolocalizzati all’interno delle basi dell’esercito francese in Mali, Niger, Burkina Faso, Siria e Kuwait. La maggior parte di questi soldati, come Alexandre, ha lasciato un certo numero di informazioni private sui social: nomi, foto, informazioni sulle persone che frequentano, persino l’indirizzo di casa. La lista degli account Strava identificati da Mediapart è stata inviata al ministero due settimane prima della pubblicazione di questo articolo, in modo da permettere ai soldati interessati di cancellare i loro dati. La “Guida al buon uso dei social network” che il ministero consegna in teoria a tutti i suoi dipendenti è chiara: “Ogni diffusione di contenuti relativi all’attività professionale e/o a quella dell’istituzione sui social network può rivelarsi una minaccia per la sicurezza del personale della difesa, delle operazioni e del loro successo”. Ai soldati in servizio è raccomandato di “disattivare la geolocalizzazione dello smartphone” e si ricorda che è vietato “diffondere foto e video sulla base e le missioni”.

Una ricerca su Instagram è bastata per trovare più di 1.500 foto e video realizzati da soldati impegnati nell’operazione Barkhane, che lotta contro i jihadisti nel Sahel, postate nel 2017-2020. Il profilo Instagram di Miguel è pieno di selfie ma, cercando bene, le centinaia di foto ci hanno permesso di risalire al suo cognome, al reggimento di appartenenza, al grado, ai luoghi e alle date di quasi tutte le sue vacanze dal 2017, oltre che di trovare foto della compagna e di colleghi. Il soldato ha anche diffuso un video girato all’interno di un aereo per il trasporto di truppe e materiale, uno di un Mirage dalla base militare di Niamey (Niger) e una foto della base di Gao, in Mali. In una foto pubblicata il 19 maggio 2020, sull’insegna di un negozio si legge il nome del paese in cui il soldato si trova, Tin-Akoff, nel Burkina Faso settentrionale. Lì, l’11 novembre, lo Stato islamico ha rivendicato l’attacco a 14 soldati burkinabé, alleati della Francia. “I francesi sono bersagli regolari dei gruppi jihadisti, che usano argomenti teologici per giustificare la loro violenza”, spiega Yvan Guichaoua, ricercatore alla Brussels School of International Studies della University of Kent. Più che ricorrere a scontri diretti preferiscono usare “tecniche di intimidazione, come nel caso dei razzi lanciati di recente a Gao, Kidal e Menaka, piazzano dispositivi esplosivi improvvisati lungo il passaggio dei convogli e adottano tattiche che permettano loro di colpire senza esporsi troppo”. “La maggior parte delle informazioni che raccolgono per colpire le pattuglie – aggiunge Yvan Guichaoua – proviene da informatori presenti sul posto. Sanno già dove si trovano le basi francesi. Ma non è escluso che recuperino online l’identità dei soldati”. Le competenze tecniche non mancano. Nel 2014, lo Stato islamico in Africa occidentale (EIAO) ha chiesto all’organizzazione Stato islamico consigli su come utilizzare delle attrezzature rubate all’esercito camerunese. L’Isis ha fornito un tutorial su come funziona un drone. Eppure il ministero francese della Difesa è stato allertato sin dal 2018 sul problema dei dati personali presenti online. In una mail del 3 dicembre, ci è stato riferito che “è stato dato ordine di vietare l’uso di certi dispositivi connessi, sia nelle basi militari che all’aperto”. Sulle eventuali sanzioni previste per i soldati non ci è stato risposto nulla. Il problema potrebbe essere legato al numero gigantesco di effettivi del Ministero della Difesa, che conta 268.000 dipendenti nel 2020. “Da tempo il ministero sa che che bisogna tenere una certa igiene digitale.

Ma non bisogna dimenticare che l’esercito francese conta diverse centinaia di migliaia di persone – osserva il deputato Thomas Gassilloud, coautore di un rapporto sulla sfida del digitale negli eserciti pubblicato nel 2018 – lo sforzo educativo deve essere costante perché arrivano nuove reclute ogni anno”. Il ministero deve far fronte ad un’altra sfida: non far “fuggire” i nuovi arrivati e le potenziali reclute. Misure troppo drastiche, come un accesso a Internet ristretto, rischierebbero infatti di dissuadere dei giovani, proprio ora che l’esercito francese invece ha bisogno di reclutare (16.000 persone nel 2020 solo per l’esercito). Nel 2017, il ministro della Difesa, Florence Parly, ha ammesso a malincuore che la presenza del wi-fi negli alloggi militari è un fattore “attrattivo” per il mestiere. L’anno dopo, il “piano famiglia” del ministero ha fornito wi-fi gratuito a tutte le guarnigioni e migliorato l’accesso a Internet dei soldati dispiegati all’estero. Ma il problema non riguarda solo le giovani reclute. Tramite Strava, abbiamo ritrovato un centinaio di profili che sembrano appartenere a dei dipendenti del ministero della Difesa, a Parigi. Incrociando dei dati pubblici, abbiamo identificato ventitré ufficiali presenti su questo social con i loro veri nomi, tra cui due colonnelli, tre tenenti colonnello e sette comandanti. Abbiamo anche ritrovato il profilo Facebook pubblico del vice capo di gabinetto del ministro Parly, comprese delle foto di famiglia. La “Guida” del ministero raccomanda, invece, di usare sui social solo pseudonimi.

(Traduzione di Luana De Micco)

La riforma. Serve la Cig anche per gli autonomi senza lavoro: la (buona) proposta del ministero

La pandemia sta rivelando quanto i lavoratori autonomi siano abbandonati a se stessi e alle alterne vicende della vita. Per loro la crisi ha determinato un crollo dei redditi e in molti casi la chiusura della partita iva.

In questa drammatica situazione versano anche gli iscritti agli ordini professionali per i quali non esistono ammortizzatori sociali, con il solo welfare familiare, quando c’è, a proteggerli dalla povertà. Le casse di previdenza private non erogano nulla per casi del genere.

Di questa situazione stanno prendendo coscienza istituzioni fino a poco tempo fa impermeabili alle istanze del lavoro autonomo, e allo stato sono due le soluzioni che si fronteggiano: 1) il disegno di legge approvato dal Cnel (che alcuni emendamenti vorrebbero introdurre nella manovra con l’appoggio di alcune associazioni di categoria, fra cui Confprofessioni); 2) una proposta della Commissione di studio per la riforma degli ammortizzatori sociali istituita dal Ministero del Lavoro.

Il ddl Cnel prevede un’indennità legata al calo del reddito (Iscro) erogata dall’Inps solo ai professionisti iscritti alla sua Gestione Separata, con esclusione degli iscritti alle Casse di previdenza private. È un primo punto critico della proposta che la rende residuale: infatti gli iscritti alla Gestione Separata a fine 2018 erano solo 627.227, mentre nello stesso anno gli iscritti alle Casse dei professionisti erano più del doppio: 1.649.263 (fonte Adepp).

Il secondo punto dolente è che l’indennità sarebbe finanziata con un aumento fisso dei contributi a carico dei lavoratori: l’aliquota subirebbe un rialzo dello 0,28 per tutti gli iscritti, quale che sia il loro reddito, con ciò gravando più sui lavoratori con redditi bassi, senza meccanismi redistributivi a carico dei lavoratori più abbienti. Inoltre è troppo bassa la soglia di reddito di euro 8.145 prevista per accedere all’indennità, restringendone così a troppo pochi la concessione, che è peraltro limitata alla disponibilità del fondo: non diritto ma elemosina.

Una riforma degli ammortizzatori sociali è utile ed efficace solo se finanziata con redistribuzione della ricchezza, con contribuzioni che gravino di più sui redditi alti. La proposta proveniente dal Ministero del Lavoro è in questo senso molto più interessante: prevede un’indennità per tutti i lavoratori autonomi, compresi iscritti/e agli Ordini professionali, in caso di riduzione del fatturato o di cessazione dell’attività, alimentata con una contribuzione ad aliquote progressive (più alte per i più ricchi) in base al reddito professionale del triennio precedente; e sarebbero esonerati dalla contribuzione i professionisti in regime forfettario. Inoltre, al fine di riservare il beneficio ai più deboli, ne verrebbero esclusi i professionisti con reddito superiore a 35.000 euro, con l’applicazione altresì di un tetto legato all’Isee. La strada prescelta dalla Commissione governativa è quella giusta.

*Presidente MGA sindacato forense