Ci sono voluti circa trent’anni, da quando se ne iniziò a parlare, per arrivare ad aggiornare con la tutela dell’ambiente la nostra Costituzione. Sono molti anni, soprattutto se pensiamo a ciò che avrebbe dovuto indurci a una maggiore celerità: da una parte i numerosi disastri ambientali del Belpaese e dall’altra la presenza con visibilità costante del nostro ecologismo.
È ovvio che alla fine degli anni 40 i costituenti non potessero impiegare la parola ambiente, poiché una cultura ecologista ancora non esisteva. Era presente però una cultura conservazionista, antesignana dell’ambientalismo, che indusse uno specifico sentire dei costituenti i quali in un primo momento formularono per l’art. 9 la dizione “i monumenti artistici, storici e naturali”, divenuta poi nel testo finale “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico”. Lasciarono quindi cadere l’idea della natura e della sua conservazione a favore della salvaguardia del paesaggio, che è però cosa diversa, ossia il territorio e la natura modificati dalla comunità umana che vi vive. Fu la 1ª Sottocommissione a discuterne, presieduta dal democristiano Tupini e di cui facevano parte tra gli altri i democristiani Dossetti, La Pira e Moro, i comunisti Iotti, Marchesi e Togliatti, e il socialista Basso.
Dal punto di vista storico la discussione che si svolse tra i costituenti sulle formule più appropriate fu densa di implicazioni culturali. Il primo enunciato avanzato da Marchesi impiegava la parola “monumento” non casualmente, poiché proveniva dalle normative americana e della Repubblica di Weimar. Gli Stati Uniti non avevano un passato di monumenti culturali che potesse costruire un’identità nazionale, così a cavallo del 900 trovarono nella natura una componente centrale della loro identità, e denominarono 18 “National Monuments” tra i primi parchi. In Germania alcuni movimenti della fine del secolo che s’incentravano sulla protezione della natura e dei monumenti artistici crearono un’unitarietà di storia, arte e natura, che ispirò più tardi l’articolo in merito della Costituzione di Weimar del 1919. Marchesi si preoccupò anche di dare status costituzionale all’argomento in vista dell’autonomia regionale che si prospettava, ritenendo che il patrimonio artistico e naturale dovesse ricadere sotto la protezione dello Stato a chiunque esso appartenesse e in qualsiasi parte del suolo fosse; il più forte oppositore a quest’idea fu il democristiano Clerici, non perché in disaccordo con il principio della tutela, ma perché lo riteneva ovvio e dunque superfluo nella Costituzione.
Alla fine non ci fu la natura tutelata, ma comunque l’art. 9 rappresentò quanto di più moderno allora si potesse formulare: fu la prima volta nella storia che uno Stato collocava tra i suoi principi fondanti il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.
La definizione di “beni culturali ambientali” emerse molto dopo, negli atti dei lavori della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico artistico e del paesaggio (Commissione Franceschini) pubblicati nel 1967. Fu poi alla fine degli anni ‘80 con una cultura ecologista ormai diffusa che si iniziò a ragionare in termini di diritto all’ambiente dei cittadini da inserire nella Costituzione, e nel 1990 fu esaminato al Senato in prima lettura un disegno di legge in materia. Ma la riflessione più approfondita si svolse al convegno del 1992 Il diritto umano all’ambiente. Ipotesi di modifiche costituzionali, promosso a Erice da Italia Nostra, dal Centro francescano di studi ambientali e dalla Corte di cassazione dove si discusse se fosse più appropriato l’uso del diritto soggettivo o della categoria degli interessi diffusi oppure di quella di dovere.
L’odierno inserimento dell’ambiente in Costituzione ha dunque una duplice rilevanza: conferma della consapevolezza dell’importanza della natura ed evoluzione degli ordinamenti normativi italiani. Tuttavia sebbene il passaggio avvenuto sia ragguardevole perché sancisce un elemento di garanzia in più, esso non rappresenta una cesura tra un prima e un dopo che possa divenire migliore, poiché se non vi sarà una cornice di comportamenti delle istituzioni e dei poteri che contano continueremo verso la catastrofe. Con le declamazioni tutti sono a favore dell’ambiente, ma nella concretezza è l’inazione a dominare. Mancano quei cambiamenti macro-sociali necessari a far virare l’economia di mercato verso l’economia circolare, e dunque non siamo ancora diretti verso la transizione ecologica.
Di fronte alle nostre molteplici mancanze e ai nostri numerosi ritardi è proprio il caso di prendere in prestito da Enzo Tiezzi, tra i fondatori dell’ambientalismo italiano, le parole Tempi storici tempi biologici (titolo di un suo noto libro) per sottolineare ancora una volta che la storia degli uomini sa essere velocissima nel creare distruzioni ambientali e lentissima quando si tratta di ripararle o di modificare i comportamenti predatori di una società verso la natura.
Oggi in epoca di cambiamento climatico e di pandemia è divenuto evidente che le classi sociali più fragili, già segnate dalla diminuzione delle politiche di welfare e di tutela del lavoro, sono le prime a essere colpite dai danni ambientali. Dunque più che in passato emergenza ambientale ed emergenza sociale devono essere affrontate contestualmente. Anche perché, non dimentichiamolo, come stabilisce la Costituzione, l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.