Ambiente, i parolai nella catastrofe

Ci sono voluti circa trent’anni, da quando se ne iniziò a parlare, per arrivare ad aggiornare con la tutela dell’ambiente la nostra Costituzione. Sono molti anni, soprattutto se pensiamo a ciò che avrebbe dovuto indurci a una maggiore celerità: da una parte i numerosi disastri ambientali del Belpaese e dall’altra la presenza con visibilità costante del nostro ecologismo.

È ovvio che alla fine degli anni 40 i costituenti non potessero impiegare la parola ambiente, poiché una cultura ecologista ancora non esisteva. Era presente però una cultura conservazionista, antesignana dell’ambientalismo, che indusse uno specifico sentire dei costituenti i quali in un primo momento formularono per l’art. 9 la dizione “i monumenti artistici, storici e naturali”, divenuta poi nel testo finale “il paesaggio e il patrimonio storico e artistico”. Lasciarono quindi cadere l’idea della natura e della sua conservazione a favore della salvaguardia del paesaggio, che è però cosa diversa, ossia il territorio e la natura modificati dalla comunità umana che vi vive. Fu la 1ª Sottocommissione a discuterne, presieduta dal democristiano Tupini e di cui facevano parte tra gli altri i democristiani Dossetti, La Pira e Moro, i comunisti Iotti, Marchesi e Togliatti, e il socialista Basso.

Dal punto di vista storico la discussione che si svolse tra i costituenti sulle formule più appropriate fu densa di implicazioni culturali. Il primo enunciato avanzato da Marchesi impiegava la parola “monumento” non casualmente, poiché proveniva dalle normative americana e della Repubblica di Weimar. Gli Stati Uniti non avevano un passato di monumenti culturali che potesse costruire un’identità nazionale, così a cavallo del 900 trovarono nella natura una componente centrale della loro identità, e denominarono 18 “National Monuments” tra i primi parchi. In Germania alcuni movimenti della fine del secolo che s’incentravano sulla protezione della natura e dei monumenti artistici crearono un’unitarietà di storia, arte e natura, che ispirò più tardi l’articolo in merito della Costituzione di Weimar del 1919. Marchesi si preoccupò anche di dare status costituzionale all’argomento in vista dell’autonomia regionale che si prospettava, ritenendo che il patrimonio artistico e naturale dovesse ricadere sotto la protezione dello Stato a chiunque esso appartenesse e in qualsiasi parte del suolo fosse; il più forte oppositore a quest’idea fu il democristiano Clerici, non perché in disaccordo con il principio della tutela, ma perché lo riteneva ovvio e dunque superfluo nella Costituzione.

Alla fine non ci fu la natura tutelata, ma comunque l’art. 9 rappresentò quanto di più moderno allora si potesse formulare: fu la prima volta nella storia che uno Stato collocava tra i suoi principi fondanti il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.

La definizione di “beni culturali ambientali” emerse molto dopo, negli atti dei lavori della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico artistico e del paesaggio (Commissione Franceschini) pubblicati nel 1967. Fu poi alla fine degli anni ‘80 con una cultura ecologista ormai diffusa che si iniziò a ragionare in termini di diritto all’ambiente dei cittadini da inserire nella Costituzione, e nel 1990 fu esaminato al Senato in prima lettura un disegno di legge in materia. Ma la riflessione più approfondita si svolse al convegno del 1992 Il diritto umano all’ambiente. Ipotesi di modifiche costituzionali, promosso a Erice da Italia Nostra, dal Centro francescano di studi ambientali e dalla Corte di cassazione dove si discusse se fosse più appropriato l’uso del diritto soggettivo o della categoria degli interessi diffusi oppure di quella di dovere.

L’odierno inserimento dell’ambiente in Costituzione ha dunque una duplice rilevanza: conferma della consapevolezza dell’importanza della natura ed evoluzione degli ordinamenti normativi italiani. Tuttavia sebbene il passaggio avvenuto sia ragguardevole perché sancisce un elemento di garanzia in più, esso non rappresenta una cesura tra un prima e un dopo che possa divenire migliore, poiché se non vi sarà una cornice di comportamenti delle istituzioni e dei poteri che contano continueremo verso la catastrofe. Con le declamazioni tutti sono a favore dell’ambiente, ma nella concretezza è l’inazione a dominare. Mancano quei cambiamenti macro-sociali necessari a far virare l’economia di mercato verso l’economia circolare, e dunque non siamo ancora diretti verso la transizione ecologica.

Di fronte alle nostre molteplici mancanze e ai nostri numerosi ritardi è proprio il caso di prendere in prestito da Enzo Tiezzi, tra i fondatori dell’ambientalismo italiano, le parole Tempi storici tempi biologici (titolo di un suo noto libro) per sottolineare ancora una volta che la storia degli uomini sa essere velocissima nel creare distruzioni ambientali e lentissima quando si tratta di ripararle o di modificare i comportamenti predatori di una società verso la natura.

Oggi in epoca di cambiamento climatico e di pandemia è divenuto evidente che le classi sociali più fragili, già segnate dalla diminuzione delle politiche di welfare e di tutela del lavoro, sono le prime a essere colpite dai danni ambientali. Dunque più che in passato emergenza ambientale ed emergenza sociale devono essere affrontate contestualmente. Anche perché, non dimentichiamolo, come stabilisce la Costituzione, l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro.

 

 

Dalla rivolta di Maidan agli “accordi di Minsk”

Alla fine del 2013, l’allora presidente filo-russo Viktor Yanukovich aveva deciso all’ultimo momento di non aderire più all’accordo di associazione con l’Unione europea preferendo un prestito russo: l’acquisto di titoli di Stato per circa 15 miliardi di dollari, concesso dal presidente Putin, legando così ancora di più il paese alla Russia. La retromarcia scatenò le proteste dei giovani ucraini che guardavano all’Europa come scudo contro la storica ingerenza del regime russo. Pochi giorni dopo la decisione di Yanukovich di mandare la polizia ad attaccare gli studenti impegnati in un sit-in in piazza (Maidan, in lingua ucraina) dell’Indipendenza a Kiev spinse migliaia di ucraini a prendere parte alla protesta che venne soprannominata “EuroMaidan” o “Sollevazione per la Dignità”.

Gli scontri del febbraio 2014

Il giorno 20 la situazione precipita definitivamente. Dai tetti e dal ponte che conduce in piazza dell’Indipendenza, cecchini e uomini in passamontagna sparano sull’enorme accampamento estesosi con il passare dei giorni anche lungo via Kreschiatik uccidendo ben 100 dimostranti. Dopo qualche ora il presidente fugge prima a Donetsk, nel Donbass, e il 22 febbraio nella città russa di Rostov. Il 24 febbraio, il neo ministro dell’Interno, Arsen Avakov, annuncia che Yanukovich è ricercato. Intanto nelle zone russofone, Donbass e Crimea, la situazione si complica poiché nella penisola il parlamento regionale viene preso d’assalto con le armi e occupato. La Russia inizia ad effettuare delle imponenti esercitazioni militari terrestri sul confine e muove la flotta nel Mar Nero.

Marzo 2014: l’ annessione

Il giorno 16 in Crimea, alla presenza di soldati russi in mimetica senza mostrine, e carri armati schierati nelle strade principali, si tiene il referendum sull’autodeterminazione della penisola, mai riconosciuto da gran parte della comunità internazionale, segnato dalla vittoria del “Sì” alla riunificazione con Mosca con il 95,32% dei voti. Il 18 venne firmata l’adesione formale alla Russia.

Donetsk e Luhansk

Dopo l’arrivo delle armi e degli uomini del servizio di intelligence militare russo (GRU) negli oblast di Donetsk e Luhansk, i separatisti filo russi iniziano a occupare con le armi molti municipi. Il 12 maggio, i miliziani dichiarano unilateralmente di avere liberato le due regioni al confine con la Russia e con il pretesto di un nuovo referendum, mai riconosciuto né dalla comunità internazionale né da Kiev, dichiarano la nascita delle repubbliche di Donetsk e Luhansk. Da allora gli abitanti del Donbass vivono l’incubo di una guerra che pur essendo da qualche anno a bassa intensità ha fatto migliaia di morti e distrutto l’economia della zona.

Settembre 2014: Minsk 1

Dopo cinque mesi di conflitto, Ucraina, Russia e i separatisti filo-russi (il cosiddetto Gruppo di contatto trilaterale) concordano un cessate il fuoco, che prevede anche la decentralizzazione del potere con una maggiore autonomia per le regioni del Donbass. L’intesa tuttavia fallisce rapidamente, a causa di ripetute violazioni da entrambe le parti.

Febbraio 2015: Minsk 2

Si muovono i leader di Francia, Germania, Russia e Ucraina, il cosiddetto quartetto Normandia, per arrivare alla firma di una nuova intesa in 13 punti. C’è una parte militare con il cessate il fuoco monitorato dall’Osce e c’è una parte politica basata sull’avvio del dialogo sull’autogoverno provvisorio, il riconoscimento dello status speciale con una risoluzione del Parlamento e una riforma costituzionale in Ucraina che menzioni Donetsk e Luhansk nella parte riguardante il decentramento. Anche Minsk II però è rimasto in parte non attuato. Uno degli ostacoli è che la Russia formalmente non è parte in conflitto (non viene mai nominata nel testo), quindi non si sente vincolata.

L’Italia resta marginale. Draghi delega Di Maio

Oggi Luigi Di Maio sarà a Kiev per parlare con il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. Possibile anche un incontro con il presidente, Volodymyr Zelenski. Fonti diplomatiche poi confermano quanto reso noto dall’omologo russo, Sergej Lavrov: Di Maio giovedì sarà a Mosca.

Così, alla fine, anche l’Italia si mobilita per la crisi russo-ucraina. Ma lo fa per ultima ed esponendosi non con il premier, ma con il titolare della Farnesina. L’iniziativa di cercare una mediazione a livello europeo è stata presa prima dal presidente francese, Emmanuel Macron, poi dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz. Di Maio è in coordinamento costante con Palazzo Chigi, ma la scelta di Draghi di non muoversi in prima persona è un fatto. In ambienti diplomatici si sottolinea come il premier, per quel che riguarda la scena internazionale, sia molto interessato alla politica economica, meno alla politica estera. Senza contare che fino a due settimane fa, tutto era congelato in attesa dell’elezione del capo dello Stato, con lo stesso Draghi candidato in prima persona.

L’iniziativa è stata comunque inevitabilmente di Macron, visto che è della Francia la presidenza del semestre europeo. Per il premier italiano, arrivare in un secondo momento avrebbe anche rischiato di certificare l’inutilità delle visite di Macron. Come di Scholz. Cosa di cui più fonti di governo si dicono comunque convinte. Centrale la questione dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato, che Vladimir Putin vorrebbe fosse esclusa per sempre. Macron, nella visita a Mosca della settimana scorsa, ha di fatto ventilato a Putin la possibilità di spingere l’Ucraina verso la neutralità. E Scholz ieri ha chiarito che per ora “l’adesione alla Nato dell’Ucraina non è in agenda”. A Putin sul tema avrebbe fornito anche qualche rassicurazione. L’Italia si muove in questo solco. Ma la nostra posizione è più sfumata, l’atlantismo più spiccato.

Oggi Di Maio ribadirà che l’Italia sostiene la “sovranità e l’integrità dell’Ucraina”, rispetto ad un’eventuale aggressione russa. Mentre a Lavrov porterà “messaggi chiari, unitari, fermi, in stretto coordinamento con i nostri partner e alleati europei, Nato e Osce, che scoraggino qualsiasi aggressione o escalation”. Nella logica di una “ferma postura di deterrenza” condivisa dal premier Draghi con i leader occidentali nella videoconferenza di venerdì scorso. E che si traduce anche nella disponibilità espressa dal ministro delle Difesa Lorenzo Guerini a rafforzare il contingente italiano in Europa orientale nell’ambito della Nato.

Fonti della Difesa fanno sapere che la disponibilità italiana si attesta intorno ai 200-300 soldati, subordinata chiaramente alle decisioni della Nato, alla disponibilità di Bulgaria, Ungheria, Slovacchia, Romania (dove i militari dovrebbero essere dislocati) all’eventuale decisione parlamentare.

Resta comunque un difficile gioco di equilibri, quello italiano, che meno di altri paesi può mettersi contro la Russia. A Bruxelles si sta decidendo un pacchetto sanzionatorio. Dovrebbe essere formalizzato entro venerdì. E scattare comunque solo in caso di invasione russa. L’Europa è orientata a misure che vadano da quelle che riguardano il controllo delle esportazioni ad altre che mirino a colpire le transazioni finanziarie e il settore dell’energia. Ma il tentativo è quello di tenere aperta la linea del dialogo fino all’ultimo momento utile. Perché la Ue deve fare i conti con la dipendenza energetica dai russi. Proprio l’Italia è tra i Paesi più esposti. Da Mosca nel 2020 è arrivato oltre il 40% dell’import di gas).

Mosca, primo round: Kiev non si fida più di Zelenski

Nella crisi ucraina, che se sfugge di mano a Putin il provocatore o a Biden l’isterico può innescare una deflagrazione in Europa, c’è chi, comunque vada, ha già perso e chi ha forse già vinto. Sconfitto a priori è il presidente ucraino Volodymyr Zelenski, mentre il russo Vladimir Putin può avere un asso nella manica. Il tasso di approvazione di Zelenski, in carica dal 2019, giunto a metà circa del suo mandato, è drammaticamente sceso: solo tre ucraini su dieci auspicano che si ricandidi nel 2024 e meno di uno su quattro, il 23%, rivoterebbe oggi per lui. Se uno degli obiettivi della pressione esercitata dalla Russia sulle frontiere ucraine è di sbarazzarsi del presidente anti-russo, Putin potrebbe non fare altro che attendere le prossime elezioni, senza bisogno d’imbarcarsi in avventure militari. Anche se è vero che, nei loro trent’anni d’indipendenza e di approssimativa democrazia, gli ucraini si sono dimostrati piuttosto volatili alle urne, avvicendando sette presidenti – uno solo confermato per un secondo mandato – e rendendosi protagonisti di due sommosse popolari. In un reportage da Kiev, l’Ap ricorda che Zelenski, un attore che faceva in tv la parte del presidente e che fu eletto da un’ondata populista, aveva promesso di dialogare coi ribelli russofoni, appoggiati dai russi, nell’Est del Paese, il Donbass, e di trovare una soluzione al conflitto; e, sul fronte interno, di sconfiggere la corruzione.

Nessuna delle sue promesse è stata mantenuta, magari anche perché Mosca non fa nulla perché Zelenski abbia successo. Anzi, l’Ucraina si ritrova sull’orlo di una potenziale invasione che potrebbe non investire solo il Donbass russofono, ma tutto il Paese. Nella crisi ucraina, spesso si cercano ragioni all’escalation nelle politiche interne della Russia, dove, però, Putin non pare avere bisogno di consolidare la sua popolarità con fiammate di nazionalismo, e degli Usa, dove, invece, Biden mira a riconquistare credibilità, dopo la rotta afghana l’estate scorsa, che s’è tradotta in un tracollo della sua popolarità. L’Ap suggerisce una chiave di lettura di politica interna ucraina, con il Cremlino che punta su esponenti politici ucraini filo-russi, anche se, dopo l’annessione della Crimea nel 2014, non c’è più una potenziale maggioranza russofona ucraina. A gennaio, i servizi segreti britannici avevano sostenuto che Putin intendeva rovesciare il governo di Zelenski e insediare al suo posto un leader filo-russo, contrario all’ingresso dell’Ucraina nell’Ue e nella Nato. Nell’incertezza del momento, Zelenski e i suoi ministri provano a stemperare le tensioni, si dicono scettici sull’imminenza di un’invasione e critici delle decisioni di diversi Paesi occidentali di ridurre il personale diplomatico e di invitare i connazionali a lasciare l’Ucraina. Ma la popolazione non ha fiducia nella capacità di Zelenski di gestire la situazione, nonostante l’andirivieni di leader a Kiev – negli ultimi giorni, ci sono stati il turco Erdogan, il francese Macron e il tedesco Scholz –. Zelenski ha pure invitato Biden a fargli visita. Il nunzio apostolico in Ucraina dice che “la gente ha paura”, perché “si sente l’odore della guerra”. Nella giornata di ieri, la diplomazia ha prodotto nuovi incontri: Scholz dice a Kiev che “l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è in agenda”. Il ministro degli Esteri russo Lavrov, in conferenza con il presidente Putin, fa sapere che “c’è ancora spazio per il dialogo, anche se i negoziati non possono protrarsi all’infinito”. Insomma, il Cremlino si mostra possibilista e annuncia che ha elaborato un nuovo documento con le controproposte a quelle presentate dagli Stati Uniti. Il nodo è sempre quello della sicurezza: Mosca vuole assicurazioni sul fatto che la Nato non si piazzi dietro la porta di casa facendo entrare nell’alleanza l’Ucraina e poi la Georgia. In ogni caso, a dispetto delle notizie fornite dal Pentagono sull’aumento delle truppe ai confini – 147 mila uomini –, il Cremlino al contrario ha sostenuto che le esercitazioni militari rallenteranno nelle prossime ore. Infine, i leader dei 27 faranno una riunione straordinaria sulla crisi ucraina giovedì mattina, prima di un vertice Ue-Africa.

Londra, polizia contro Khan: “Non abbiamo più fiducia in lui”

È scontrofra la maggiore organizzazione di categoria della polizia britannica – la Met Police Federation, che conta circa 31mila iscritti – e il sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan, per le modalità con cui il primo cittadino della capitale ha obbligato alle dimissioni Cressida Dick. La prima comandante donna e gay dichiarata di Scotland Yard era finita nel mirino con l’accusa di non aver saputo rimettere ordine in un corpo investito da scandali recenti di sessismo, discriminazione razziale e molestie. “Non abbiamo più fiducia in lui”, hanno dichiarato i vertici del sindacato.

“Io, guarita con due vaccini, ma fatta scendere dal treno”

L’hanno fatta scendere dal treno, lasciandola alla stazione di Pavia alle 22 di sabato scorso. Il treno successivo, sempre che riuscisse a prenderlo senza problemi, sarebbe passato la mattina dopo. Il Green pass dava luce rossa, niente da fare. “I controllori sono stati anche gentili, mi hanno solo detto che dovevo scendere altrimenti avrebbero chiamato la polizia. E io non avevo voglia di discutere anche con la polizia”, racconta Anna Fossi, 21 anni, studentessa genovese di Economia internazionale. “È rimasta due ore alla stazione, di notte, mentre andavamo a prenderla in macchina”, protesta sua madre, che l’ha presa anche peggio di lei.

Il bello è che la ragazza, nella sostanza, era in regola. Aveva fatto due dosi di vaccino anti-Covid, la seconda ad agosto, poi è andata nel Nord della Francia per l’Erasmus e lì a fine gennaio si è presa il Covid. Due dosi più infezione, per la legge italiana, è come tre dosi: si ha diritto al pass rafforzato senza limiti di durata, così prescrive l’articolo 1 del decreto legge 5 del 4 febbraio, l’ultimo di una sequela indigesta di provvedimenti incomprensibili a chi non li legga tutti insieme. Nel frattempo, però, il pass italiano è scaduto, almeno risultava per quanto la seconda dose risalisse al 12 agosto e quindi sabato 12 febbraio era proprio il centottantesimo giorno. “In Francia è sempre stato valido, lo usavo per muovermi, ma mi hanno detto che per avere il nuovo certificato dopo la guarigione dovevo andare dal mio medico in Italia – racconta ancora Anna Fossi –. Così ho preso il treno per Bruxelles e poi da lì l’aereo per Malpensa, tutto con un tampone antigenico negativo, gratuito perché ho la tessera sanitaria francese”. Il certificato Covid Ue, che serve per viaggiare all’interno dell’Unione, dura 9 mesi e basta il test negativo. Quello italiano è più stretto, ma solo per gli italiani. Tra i non vaccinati c’è chi vola da Trieste a Cagliari via Parigi mentre gli stranieri vanno al ristorante a Roma con il tampone negativo con cui hanno passato la frontiera.

Per Anna anche da Malpensa a Milano è filato tutto liscio: “Nessun controllo”. Alla stazione centrale ha preso al volo l’Intercity per la Liguria, l’ultimo treno utile che parte poco dopo le 21 ed era in ritardo. “Non ho fatto in tempo a fare il biglietto, quindi appena salita ho cercato i controllori per farlo a bordo. Hanno controllato il Green pass e mi hanno fatto scendere alla prima fermata. Avevo i tamponi francesi, quello positivo e il successivo, negativo”. Forse non si sono fidati leggendo “Ministère de la Solidarité et de la Santé – Fiche de résultat de test virologique de la Covid-19” e poi “positif” e “négatif”? “No no, hanno detto che non volevano neanche vederli. Per loro contava solo il Qr code o al limite un certificato di guarigione”, racconta Anna. “Stanno diventando storie kafkiane anche per i vaccinati, non solo per quelli che chiamano no vax. Senza regoli comuni in Europa come si fa a tornare a casa?”, chiede sua madre.

È ancora più sconcertante, ma hanno tutti ragione, salvo chi scrive norme così astruse. I controllori facevano il loro lavoro. “Noi, per legge, dobbiamo controllare il Qr code. La certificazione cartacea vale solo per chi è esentato dal vaccino per motivi di salute. La ragazza aveva il pass scaduto, non era in regola”, spiegano da Trenitalia. Le macchine infernali quando le metti in moto ti portano ben al di là delle intenzioni dei singoli ingranaggi. “Aveva dei documenti, è inaccettabile che le dichiarazioni di un cittadino non valgano nulla”, dice la madre di Anna. C’è il rischio di frodi, spiega chi difende il Qr. Come se non ci fosse un mercato di Qr fasulli.

A volte prevale il buon senso: “Un mio amico, che era in treno per andare a fare la terza dose, non l’hanno fatto scendere perché ha fatto vedere l’appuntamento”, dice la studentessa ligure. Che ora, con quei referti dei tamponi in francese, ha un altro problema: “Il medico mi ha detto che forse non valgono per il Green pass. E poi ho fatto solo sei giorni di quarantena tra il test positivo e quello negativo”. Se così fosse si troverebbe come migliaia di guariti recenti, costretti a fare il booster subito dopo l’infezione, nel pieno dell’immunità naturale, con il rischio di farsi qualche altro giorno a letto se non peggio, solo perché non sono riusciti a fare un tampone, o il sistema Green pass non l’ha registrato, o i tamponi non si trovavano come è successo, sotto Natale, in Lombardia e non solo.

Dal Tar nuova picconata al Green pass per lavorare

Stavolta non c’è solo l’ordine di pagare gli stipendi non pagati. Il presidente della prima sezione bis del Tar del Lazio, Riccardo Savoia, ha sospeso provvisoriamente l’allontanamento dal servizio di 26 militari non vaccinati di vari reparti dell’Esercito, dell’Aeronautica e dei Carabinieri i cui comandanti, in alcuni casi, già ieri hanno ricominciato a richiamarli in servizio. Qualcuno, tra gli ufficiali, rumoreggia perché si sente abbandonato in prima linea. Il ricorso è stato presentato dall’avvocato Giulia Liliana Monte, in convenzione con il sindacato Itamil. La tensione sui vaccini, nelle forze armate e di polizia, è alta.

Un altro decreto monocratico d’urgenza ha sospeso t il blocco dello stipendio per un agente della polizia penitenziaria. Se il primo decreto si limita a riconoscere “sussistenti le ragioni di pregiudizio”, rinviando all’udienza collegiale del 16 marzo, il secondo è più articolato. Ricorda i “profili di illegittimità costituzionale” dell’obbligo vaccinale prospettati nel ricorso e argomenta che, “in relazione alla privazione della retribuzione e quindi della fonte di sostegno delle esigenze fondamentali di vita, sussistono profili di pregiudizio grave e irreparabile”. Sono le parole già utilizzate dal presidente della quinta sezione del Tar Lazio, Leonardo Spagnoletti, nel decreto emesso il 1° febbraio per altri tre agenti penitenziari. Le udienze per l’eventuale conferma si terranno il 25 febbraio e l’11 marzo, poi in caso toccherà al Consiglio di Stato, ma al Tar un orientamento sembra consolidarsi sul blocco degli stipendi, da ieri applicabile agli over 50 in tutti i settori. In caso di sospensione disciplinare, anche per fatti di rilievo penale, si ha diritto a metà della paga; chi non si vaccina no.

In piazza ai no vax va meno bene. La “marcia” su Montecitorio, annunciata per ieri pomeriggio, si è fermata ai giardinetti di piazza San Marco, tra piazza Venezia e il Campidoglio. Erano pochi, hanno preso decine di denunce per mancato preavviso dato che l’unica piazza concordata era il Circo Massimo, sono rispuntati i militanti di Forza Nuova – i leader sono stati arrestati per l’assalto alla Cgil -–e l’ex generale Antonio Pappalardo. Oggi ci riprovano al Circo Massimo, alcuni leader annunciano che saranno ricevuti a Montecitorio.

E intanto i 28.630 contagi delle ultime 24 ore sono il dato più basso dall’inizio del 2022. Cala ancora, più lentamente, la pressione sugli ospedali. Ancora 281 morti ma cominciano a scendere. “Guardiamo alle prossime settimane con maggiore fiducia, perché abbiamo finalmente una percentuale molto alta di persone che hanno scelto la strada del vaccino”, ribadisce il ministro della Salute, Roberto Speranza. Buone notizie da uno studio pubblicato sulla rivista Cell da un team de La Jolla Institute for Immunology di San Diego, guidato da Alessandro Sette, dell’Università della California: le varianti non bucano i vaccini anche a sei mesi dalla somministrazione; la risposta reattiva è in media dell’87-90%, che scende all’84-85% per Omicron.

Roma, 47enne ucciso con tre colpi di pistola

Cinque colpia bruciapelo, 3 andati a segno. Così è morto Paolo Corelli, 48 anni, ucciso ad Acilia, alla periferia sud di Roma. Una azione messa in atto da “mani non esperte” secondo gli inquirenti, da un killer forse improvvisato e fuggito a piedi dopo il raid. Un agguato che sembra non rientrare nel perimetro della grande criminalità organizzata ma sul cui movente non si esclude alcuna ipotesi. Nel suo passato non ci sono vicende penali: Corelli, che nei week end lavorava come buttafuori, è incensurato ma la zona dove è avvenuto il fatto in passato è stata al centro di indagini su spaccio e racket e lì si rifugiarono gli aggressori di Manuel Bortuzzo, il nuotatore rimasto gravemente ferito all’Axa la notte del 2 febbraio 2019.

Omicidio Agito, 20 anni a ghanese reo confesso

Vent’annidi carcere: è la condanna che il gup di Trento Enrico Borrelli ha inflitto a Suleiman Adams, 31 anni, ghanese, reo confesso dell’omicidio e della violenza sessuale di Agitu Ideo Gudeta, l’allevatrice di capre fuggita dall’Etiopia per scampare alle persecuzioni e uccisa a Frassilongo, nella trentina Val dei Mocheni, il 28 dicembre 2020. Il pm Giovanni Benelli aveva chiesto 19 e 4 mesi. Adams è stato condannato anche a 50mila da versare alle parti civili, cioè i fratelli e le sorelle della vittima. “Siamo soddisfatti – hanno commentato i legali Andrea De Bertolini, Elena Biaggioni e Giovanni Guarini –. È una soddisfazione giuridica, nulla potrà ripagare la tragedia. Agitu è stata vero esempio di integrazione e riscatto personale”.

Saman, il cugino arrestato in Spagna

È stato arrestatoin un appartamento del centro di Barcellona Nomanhulaq Nonamhulaq, cugino di Saman Abbas, latitante e indagato per il sequestro, l’omicidio e l’occultamento del cadavere della 18enne scomparsa dal 30 aprile 2021 da Novellara. In precedenza erano stati arrestati in Francia un altro cugino, Ikram Ijaz, e lo zio Danish Hasnain, entrambi estradati in Italia. Sono ritenuti complici del delitto di Saman che si era ribellata a un matrimonio combinato. Restano, invece, latitanti in Pakistan i genitori della 18enne. L’uomo, 35 anni, fuggito il 10 maggio con Hasnain e Ijaz, è stato arrestato dalla polizia spagnola, grazie a informazioni condivise dal nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio Emilia.