Il Pd fa la corte alla Lega: “Scegli il proporzionale”

Dario Franceschini chiama la “Lega moderata”. Lo fa in un’intervista a Repubblica in cui si pone l’altisonante obiettivo di “cambiare il sistema politico”. Un programma tanto vasto, quanto vago. Che però in realtà si traduce – almeno – in un primo step da raggiungere: il cambiamento della legge elettorale. Franceschini punta – come praticamente tutto il Pd – ad arrivare a un sistema proporzionale. Quello che Fratelli d’Italia non vuole e ufficialmente neanche Matteo Salvini.

Ma ora Franceschini è convinto che al leader del Carroccio, viceversa, converrebbe. Per staccarsi da Giorgia Meloni, per collocare la Lega nell’ambito europeista. E dunque, ha iniziato a parlarci. Anche pubblicamente. Così come parla con Giancarlo Giorgetti.

Gli abboccamenti dei dem con i leghisti a livello parlamentare sul tema sono continui, per quanto ancora informali. Ci parlano in molti, gli “esperti” di sistemi elettorali, prima di tutto, come Stefano Ceccanti e Dario Parrini. Ma anche parlamentari con compiti di coordinamento, come Alessandro Alfieri, vicinissimo a Lorenzo Guerini. Le posizioni registrate sono molteplici, da chi è per mantenere il Rosatellum, a chi vuole il proporzionale e chi invece vuole una legge con base proporzionale, ma con premio di maggioranza alle coalizioni. Il dialogo è interrotto, in attesa che Salvini prenda una posizione e si metta a lavorare sul dossier.

La dinamica assomiglia a quella dell’elezione del capo dello Stato: tutti cercano di capire che vuol fare il “Capitano” e nello stesso tempo di influenzarlo. Nessuno sa davvero come intende muoversi e per arrivare dove.

Ma chi tra i dem sul proporzionale ci sta lavorando davvero – magari sotto traccia – cerca di tenere basso l’argomento. Perché un dato è certo: fino alle Amministrative è complicato affrontare il tema. Perché si vota con il maggioritario. E il centrodestra – per quanto ammaccato, diviso, con i leader in lotta tra loro – dovrà presentarsi insieme.

Lo stesso Franceschini, che di questo è consapevole, intravede la possibilità di arrivare a un traguardo poco prima della fine della legislatura. Intanto, per inciso, la coalizione giallorossa, che pure s’era inventato lui, sembra ora ai margini anche del suo ragionamento.

Se il ministro cerca di “avvicinare” Salvini, ieri Enrico Letta ha incontrato Mario Draghi. Un’ora: il sostegno all’azione di governo e temi legati alla crisi Ucraina e al rincaro dei prezzi dell’energia. Per la prima volta dopo l’elezione del presidente della Repubblica, un incontro tra i due è stato reso noto ufficialmente. Il Colle è entrato nella conversazione. D’altra parte, Letta è stato l’unico che ha sostenuto la candidatura dell’ex Bce. E ieri a Draghi ha chiarito che il Pd è e resta dalla sua parte. “Più ci sono fibrillazioni maggiore sarà il nostro impegno nel sostegno all’azione dell’esecutivo. È il momento della serietà, basta ambiguità”, gli avrebbe detto. Strategia opposta a quella della Lega. Al Nazareno sono convinti che questo paghi anche nei sondaggi.

Il patto poco “green” con i colossi: più gas in cambio di sconti

C’è un piano vero, la crisi energetica che fa esplodere le bollette. Ma c’è anche un piano su cui si scarica la pressione politica per cancellare in parte la stretta alle trivellazioni messa in piedi negli ultimi anni, e che sfrutta la crisi energetica. Il piano del governo inizia a prendere forma.

Andiamo con ordine. Nonostante i 10,2 miliardi messi in campo nel 2021, nel primo trimestre del 2022 si è registrato un aumento del 131% delle bollette rispetto al primo trimestre dello scorso anno per l’energia elettrica, passando quindi da 20,06 centesimi di euro/kWh a 46,03. Il conto del gas naturale è aumentato del 94%, dunque da 70,66 a 137,32 euro per metro cubo. I numeri sono di Arera e sono stati presentati ieri in audizione al Senato: ieri l’Autorità per l’energia ha spiegato che l’impennata dei prezzi all’ingrosso nel 2021 è stata tra gennaio e dicembre 2021 del 500% per il gas e del 400% per l’energia elettrica. E, ovviamente, si è riflesso sulle bollette a partire dal secondo semestre 2021.

Mentre Arera presentava i suoi numeri, a Palazzo Chigi i ministri dell’economia Daniele Franco e della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, con i tecnici di Mef e Mite e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, discutevano su come modellare il decreto che venerdì dovrebbe arrivare in Cdm. Oltre alle misure dirette per calmierare le bollette, conterrà anche il piano per aumentare l’estrazione di gas italiano destinato, a quanto sostiene il governo, a tamponare i rincari per l’industria, specie le cosiddette aziende “energivore”. E indipendentemente da come la si pensi, potrebbe non far felici ambientalisti e parte dei politici.

Dato per assodato che l’intento è sfruttare il più possibile i giacimenti nazionali, il piano, a grandi linee, è il seguente: proporre ai produttori di gas (Eni in testa) di aumentare l’estrazione anche se si dovesse superare il mix di approvvigionamento che di solito si basa su consumo nazionale e, in cambio, riservare quote di gas a prezzo più basso alle aziende energivore. In sintesi: il governo concederebbe una “estrazione potenziata” e semplificata, magari riducendo parallelamente le quote di importazione, e in cambio otterrebbe forniture a un prezzo calmierato per le aziende in difficoltà, da attuare attraverso contratti a lungo termine, superando quindi il prezzo spot del mercato soggetto ai rialzi stellari di questi mesi. Bisognerà però vedere cosa pretenderanno i produttori.

Questo “potenziamento” potrebbe passare, ad esempio, attraverso l’allargamento dei tetti previsti nelle concessioni già rilasciate o attraverso semplificazioni per nuovi pozzi in giacimenti attivi. C’è chi ha già lanciato l’allarme sulla possibilità che molti di questi ricadano anche nelle concessioni attive nelle 12 miglia dalla costa ma dal Mite riferiscono che non sarà autorizzato nulla di nuovo. È pur vero, però, che le autorizzazioni già rilasciate all’interno delle 12 miglia valgono fino a esaurimento del giacimento e potrebbero essere potenziate. In generale, comunque, secondo gli esperti, si potrebbe intervenire sulle procedure e sfruttare il concetto di “arricchimento” o “miglioramento” della produzione già in atto, semplificando o bypassando così le autorizzazioni ambientali (una cosa che in parte si può già fare con leggi esistenti) e favorendo così chi più velocemente potrà veicolare gas nella rete. Questo potrebbe venire incontro al problema delle tempistiche. Prima di un anno, almeno, i produttori di idrocarburi non sarebbero stati in grado di raddoppiare da zero come auspica il governo. Il Piano delle aree idonee per la ricerca e la prospezione (Pitsai) pubblicato nei giorni scorsi ha poi segnato la strada: basta che il giacimento superi 150 milioni di metri cubi di gas per trasformare un’area potenzialmente non idonea alle perforazioni in una che potrebbe essere idonea.

La misura, ad ogni modo, deve anche riuscire a evitare di essere bollata come un aiuto di Stato da Bruxelles: un rischio che potrebbe essere sventato con il ricorso ad “aste” per assegnare i benefici o assicurandosi che i prezzi calmierati interessino larga parte delle imprese di settore, sia italiane che estere, senza violare la concorrenza del mercato Ue. Un’altra parte del piano riguarderà invece il potenziamento del ricorso alle energie rinnovabili installando pannelli solari sulle superfici disponibili nella Pubblica Amministrazione, a partire dalle scuole.

Spiagge, riforma all’italiana: sì alle gare, tutele ai balneari

All’impossibile è stata data soluzione con la solita trovata all’italiana: accontentare un po’ tutti, anche chi ora si definisce sconfitto. La riforma delle spiagge in concessione, unico punto all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri ieri, ha infatti sì messo a gara le concessioni balneari, ma tutelerà nello stesso tempo le storiche famiglie del settore.

Così il governo, arrivato spaccato al Cdm sotto le pressioni di Lega e Forza Italia che puntavano a rinviare ancora una volta la norma, ha ottenuto l’unanimità al provvedimento che viaggerà lungo due direttrici per spingere gli investimenti, tutelare i piccoli concessionari e i lavoratori, aumentare la qualità del servizio. La prima è un emendamento al ddl sulla Concorrenza, già all’esame del Senato (il premier Mario Draghi lo vorrebbe chiudere entro marzo), con cui si prevede che le concessioni attuali, comprese quelle in proroga, continuino a essere efficaci fino al 31 dicembre 2023. Nel frattempo, si inizierà con le procedure per l’affidamento che verranno stabilite con un disegno di legge che il governo dovrà adottare entro sei mesi per semplificare la messa gara. Un punto è chiaro: le concessioni in essere decadranno in ogni caso dal primo gennaio 2024 anche perché a imporlo è stato il Consiglio di Stato lo scorso novembre, quando ha sancito che non si possano più prorogare le licenze e che, appunto, vanno messe a gara entro la fine del 2023. Come farlo, in base a quali criteri, tutelando quali interessi è una dannazione che la politica si rimpalla dal 2006, quando la Ue ha introdotto la direttiva Bolkestein tanto detestata dai concessionari di stabilimenti balneari e di fatto, da allora, disapplicata da una sfilza di leggi e proroghe.

Rappresenta, insomma, l’arte del compresso l’emendamento approvato dal Cdm, sospeso anche mezz’ora su richiesta di M5S per leggere con attenzione la proposta, su cui i ministri leghisti Giancarlo Giorgetti (Sviluppo economico) e Massimo Garavaglia (Turismo) hanno continuato a chiedere modifiche a tutela dei balneari. Novità che ora, di fatto, aprono delle corsie preferenziale agli attuali concessionari. Nelle gare saranno, infatti, tenuti in considerazione gli investimenti realizzati, il valore dell’azienda, la professionalità acquisita da chi già detiene una concessione, con particolare riguardo per le famiglie che hanno investito in quella struttura che rappresenta la loro fonte di reddito. I lotti potranno poi essere frazionati per favorire l’accesso delle micro e piccole imprese.

C’è poi una clausola sociale, che comunque vale per tutte le concessioni messe a gara, per garantire la stabilità occupazionale dei lavoratori degli stabilimenti. Ancora, maggior peso sarà dato anche a chi farà degli investimenti e migliorerà i servizi. In pratica abbasserà i prezzi di lettini e ombrelloni. Non si fa, invece, cenno all’aumento delle spiagge libere, oggi ormai al lumicino, visto che, ad esempio, in Liguria, Emilia-Romagna e Campania quasi il 70% dei lidi è occupato da stabilimenti balneari. Quanto pagheranno i balneari? Il valore dei canoni va ancora deciso.

Intanto gli stabilimenti balneari assestano un altro colpo alla maggioranza di Draghi. I ministri leghisti, dopo aver approvato il testo, lo hanno già messo in discussione con Gian Marco Centinaio che promette di modificarlo. Oggi il leader Matteo Salvini incontrerà i balneari. Il Pd bolla “inammissibile la doppiezza della Lega”, mentre per Francesco Berti (M5s) “si decreta la fine alle dinastie balneari con molti parlamentari, sia di destra che di sinistra, in palese conflitto di interesse perché sono essi stessi concessionari o subconcessionari”. Giorgia Meloni (FdI): “Si è consumato il primo atto di un esproprio ai danni di 30mila imprese balneari che avrà durissime conseguenze economiche e sociali”.

Salvini preme su Amato: “Sulla Giustizia dica sì”. Ma Meloni e FI si sfilano

Matteo Salvini ci spera. Per rinascere dopo il fallimento sul Quirinale e il tonfo nei sondaggi –­lunedì ha toccato il minimo storico in quattro anni crollando al 17% – il leader della Lega sa che deve intestarsi (e vincere) i referendum sulla giustizia. Ormai è questo il suo unico assillo tant’è che sta già studiando la campagna referendaria di primavera che coinciderà con quella per le amministrative: un tour , che inizierà a metà marzo, per “far decidere ai cittadini la vera riforma della giustizia dopo trent’anni”. E la strategia di Salvini è quella di presentare il suo caso, il processo in cui è imputato a Palermo per sequestro di persona per non aver fatto sbarcare la Open Arms, come modello della “malagiustizia” italiana. Mostrarsi come un perseguitato, insomma.

Ma prima di fare ogni piano, i sei quesiti radical-leghisti sulla giustizia oggi dovranno passare dalle forche caudine della Consulta che ieri ha già considerato inammissibile quello sull’eutanasia. “Una brutta notizia” ha commentato Salvini a cui in realtà farebbe comodo che i giudici bocciassero anche il quesito sulla cannabis per non oscurare i suoi: “Sono contro le droghe” ha detto ieri rispondendo irritato a una giornalista (“lei è libera di farsi le canne, io dico no”). E però resta l’incertezza sull’ammissibilità dei quesiti leghisti – separazione delle carriere e limitazione della custodia cautelare, su tutti– anche se da via Bellerio ieri sera filtrava “fiducia”. Ieri Salvini ci ha messo del suo organizzando un punto stampa, irrituale, con Giulia Bongiorno davanti alla Consulta in cui ha chiesto al presidente Giuliano Amato di ammettere i quesiti leghisti: “Contiamo arrivino sì”. Ma intanto ha difficoltà con gli alleati che si stanno sfilando: FdI ha firmato solo 4 dei 6 quesiti (no a meno custodia cautelare e abolizione della legge Severino) e boicotterà la campagna referendaria, da FI fanno sapere che le riforme “vanno fatte in Parlamento”. Un modo per non dare alcun vantaggio politico a Salvini. I rapporti tra i leader del centrodestra ormai sono ridotti al lumicino. E ieri se n’è avuta un’altra dimostrazione. Meloni ha chiesto “un chiarimento politico” a Salvini, ma lui l’ha snobbata: “Non perdo tempo su queste polemiche, mi occupo degli italiani”.

Grillo blinda Conte: “Sui due mandati nessuna modifica”

Il garante non vuole cedere sull’ultima regola rimasta, l’ultimo pilastro. E può essere la carta che spegne e risolve la guerra a 5Stelle. Quindi il migliore dei favori per il leader, Giuseppe Conte. Perché il vincolo dei due mandati non si tocca, fa trapelare ieri pomeriggio Beppe Grillo. “È una regola identitaria” ribadisce a vari 5Stelle. E qualche ora dopo, arrivando alla Camera per l’assemblea congiunta con i parlamentari sui referendum, Conte sottoscrive e certifica: “Per Grillo la regola dei due mandati è fondativa, nessuna novità, lo ha detto più volte. Anche su questo ci confronteremo, la nostra è una comunità di teste pensanti. Ma ovviamente la posizione del garante avrà un grande rilievo”. Peserà eccome, quella porta sprangata – ancora, da parte del fondatore – al terzo mandato dei parlamentari. A cui viene anche offerto un punto di caduta, perché i reduci da due legislature potranno correre per l’Europarlamento o per un posto in una Regione: cioè cercarsi i voti per garantirsi un futuro politico.

Così almeno filtra sull’AdnKronos, a ridosso dell’assemblea: la prima da quando un’ordinanza del tribunale civile di Napoli ha congelato lo Statuto del M5S e quindi il suo presidente, Conte. Ma a pesare sono quelle indiscrezioni. “Una bomba” riassume un contiano, non certo scontento. Perché il primo a risentire delle schegge potrebbe essere Luigi Di Maio: l’avversario dell’avvocato, anche lui al secondo mandato, che da giorni auspica un incontro e quindi una tregua con Conte. Però con la stretta sui due mandati il pallino rimarrebbe nelle mani dell’ex premier. Libero di costruire le liste per le Politiche del 2023 senza dover tenere conto più di tanto di correnti, gruppi o maggiorenti. A Otto e mezzo, la settimana scorsa, Conte aveva lasciato aperto uno spiraglio a “qualche deroga”, precisando: “Ne dovrò parlare con Grillo”. E anche se il fondatore alla fine concedesse qualcosa, sarebbero sempre lui e Conte a decidere. E Di Maio avrebbe poco margine per salvare i suoi fedelissimi dopo il secondo giro. D’altronde un paio di contiani insistono: “Beppe quella regola non la vuole toccare, e poi così ci sarebbe anche una via d’uscita per i big”. Compresi quelli vicini al leader: dalla vicepresidente vicaria del M5S, Paola Taverna, al presidente della Camera, Roberto Fico, per arrivare all’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede (in ottimi rapporti anche con Di Maio). Mentre un senatore si chiede: “La possibilità di candidarsi in Europa o in Regione varrebbe senza limiti, anche dopo tre mandati?”. Domanda opportuna. “Di certo la politica non può essere un mestiere” teorizza Conte, mentre il ministro degli Esteri Di Maio è altrove, a Kiev, a parlare dei rischi di una guerra vera. L’avvocato invece riunisce i suoi parlamentari per fissare una linea condivisa sui quesiti referendari, potenziali mine per il M5S che fatica a marciare unito. Così Conte, dopo un lunedì in cui aveva tenuto una cabina di regia con ministri e capigruppo di varie commissioni, raduna gli eletti. Vuole mostrare che il M5S funziona, anche se bloccato sul piano formale dai giudici. E che lui sa condividere. “Sui referendum mi piacerebbe coinvolgere anche gli iscritti” butta lì.

Lo aveva già ventilato per il Quirinale, e non se n’era fatto nulla. “Certo, ci porterebbe via un po’ di tempo” ammette. E il deputato Vittorio Ferraresi avverte: “Potrebbe sembrare una fuga dalle responsabilità”. Ma l’obiettivo di Conte è ricompattare i suoi. Per questo scandisce: “Abbracciamo convintamente il quesito referendario sulla cannabis”. Proprio lui, che nelle settimane scorse si era mostrato freddo sul tema, irritando molti eletti grillini. Mentre l’avvocato e tanti parlamentari sono sollevati per l’inammissibilità del quesito sull’eutanasia: “Era troppo dritto”, a detta dei 5Stelle. “Bisogna correre con una legge sull’argomento” sostiene Conte. “Noi ci siamo” conferma Stefano Buffagni. Certo, poi ci sono i referendum sulla Giustizia. E su quelli la discussione è accesa. Ma l’ex premier ora non ha totem da difendere. “L’importante è che l’ordinanza di Napoli venga sospesa, perché se a forza di ricorsi si tornasse a una guida collegiale allora anche sui due mandati ci sarebbe scontro”, ricorda un veterano. Perché ogni giorno è un film diverso, per il M5S.

La Consulta boccia il quesito sulla fine vita: “Inammissibile”

Inammissibile il referendum sull’eutanasia. La sentenza verrà depositata nei prossimi giorni, ma già da ieri sera si sa che la Corte costituzionale ha preso questa decisione poiché “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

La Corte anche oggi tornerà in camera di consiglio per decidere sull’ammissibilità degli altri 7 referendum, sulla giustizia e sulla liberalizzazione della cannabis. Tornando al quesito sull’eutanasia, i promotori avevano come obiettivo la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, punito dall’articolo 579 del codice penale con la reclusione da 6 a 15 anni. Era prevista l’esclusione dei minori. Dal comunicato della Corte sembra che la decisione di ritenere il referendum inammissibile accolga la tesi degli avvocati della onlus “Pro vita e famiglia” che ieri avevano detto: “La vittoria del Sì sconvolgerebbe l’intero ordinamento italiano a tutela del bene vita, e in particolare delle vite più fragili ed esposte a ogni sorta di condizionamento”. Ammettere il quesito, avevano concluso, “significherebbe rendere l’ordinamento italiano indifferente alle difficoltà esistenziali dei cittadini, ben al di là dell’eutanasia”. Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, in prima linea da anni sul fronte dell’eutanasia e per questo pure processato, accusa il colpo: “Questa per noi è una brutta notizia. È una brutta notizia per coloro che subiscono e dovranno subire ancora più a lungo. Una brutta notizia per la democrazia. Sull’eutanasia proseguiremo con altri strumenti. Come con Piergiorgio Welby e Dj Fabio. Andremo avanti con disobbedienza civile, faremo ricorsi. Eutanasia legale contro eutanasia clandestina”. La stessa associazione fa sapere che inizia anche una battaglia europea: l’11 e 12 marzo a Varsavia ci sarà il Congresso del “Movimento paneuropeo Eumans” per la libertà di scelta “di fine vita” e per l’abrogazione delle “norme proibizioniste”.

Proprio per aver accompagnato a morire dj Fabo, nel 2017, in una clinica Svizzera che pratica il suicidio assistito, Cappato era finito sotto processo a Milano dopo essersi autodenunciato. Il processo si è concluso a fine 2019 con la sua assoluzione a seguito di una pronuncia della Consulta che prima, nel 2018, aveva chiesto al Parlamento, rimasto sordo, di legiferare in materia, e poi, dato il vuoto politico è intervenuta, un anno dopo, direttamente: “In attesa di un indispensabile intervento del legislatore”, la Corte ha ritenuto “non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile”. Ieri, però, la Corte sembra aver ritenuto che una materia così delicata e complessa non possa essere liquidata con un sì o con un no referendario e che “l’omicidio del consenziente” vada oltre l’apertura che la stessa Corte aveva fatto. Ieri mattina sono stati discussi anche i quesiti su depenalizzazione della cannabis e abolizione della legge Severino, nel pomeriggio gli altri cinque in tema di giustizia, promossi da Radicali e Lega. Tra i presenti l’ex ministro del Carroccio, Roberto Calderoli. Il governo non ha depositato alcuna memoria: “Sembra un segno di neutralità rispetto al merito, evidentemente – ha osservato il professor Giovanni Guzzetta, che ha sostenuto i quesiti – il governo non li considera in contrasto con le politiche in materia di giustizia che sta mettendo in campo”. Tra i quesiti ci sono quello sulla separazione delle carriere dei magistrati e sulla responsabilità civile diretta. Adesso è lo Stato che risarcisce il cittadino che abbia subìto un ingiusto danno, per poi rivalersi sul magistrato. Ovvio il motivo della legge attuale: se ci fosse la responsabilità diretta, ogni indagato-imputato, potente, potrebbe intimidire così il magistrato.

Passato di Cassese

Appena digerito, ma non del tutto, il passato di verdure con vista Quirinale consumato con Salvini, l’emerito Sabino Cassese è passato all’acqua calda con un editoriale sul Corriere dal titolo: “La politica ha bisogno di regole”. Ma va? È dagli anni 40, cioè dalla Costituente e dal celebre appello di don Luigi Sturzo, che si discetta dell’urgenza di dare una veste giuridica ai partiti, attuando l’articolo 49 della Carta affinché rispettino almeno le regole che si danno. Cassese però ne approfitta per paragonare due “vicende giudiziarie che coinvolgono i 5Stelle e il Pd”. Cioè per sommare le mele con le pere. La mela è l’ordinanza cautelare del Tribunale di Napoli che ha sospeso le delibere dell’agosto scorso sulla modifica dello Statuto M5S e l’elezione di Conte a presidente perché votate “con l’esclusione degli iscritti da meno di 6 mesi… in assenza di un regolamento”: una storia di pure scartoffie, peraltro sbagliate perché quel regolamento non era assente, ma presentissimo dal 2018 (infatti il M5S ha chiesto la revoca del provvedimento). Quindi, contrariamente a quanto scrive Cassese a proposito della loro presunta “anomia”, i 5Stelle non hanno violato, ma osservato “le norme che essi stessi si sono dati”. La pera è invece una brutta storia di vile danaro: l’inchiesta sulla “fondazione” Open, che in realtà era un trucco per aggirare la legge sul finanziamento ai partiti, quella sì voluta dai partiti medesimi, che la votarono nel lontano 1974, non la abrogarono mai, ma la violarono spesso. Prevede che essi possano farsi finanziare da chi vogliono, purché il finanziatore iscriva i fondi a bilancio e il partito li registri nell’apposito elenco in Parlamento a disposizione degli elettori, che hanno il diritto di sapere.

La stessa trasparenza non è prevista per le fondazioni, che anzi schermano finanziatori e finanziamenti dietro il paravento della privacy. Poi ogni tanto arriva un magistrato e li smaschera. Come nel caso di Open, che non è un processo alle regole dei partiti e delle fondazioni, ma a un gruppo di politici (Renzi e i suoi cari, ora quasi tutti in Italia Viva) che prendevano soldi per fare politica nel Pd (avvantaggiandosi sulle altre correnti per mantenere il controllo del partito), ma anziché al Pd li facevano versare a Open. Di qui l’accusa di finanziamento illecito. Alcuni dei finanziatori, poi, ricevevano dai finanziati favori sotto forma di fondi pubblici e leggi su misura, il che trasforma i finanziamenti in possibili tangenti: di qui le accuse di corruzione e traffico di influenze. Naturalmente, per Cassese, i magistrati di Napoli hanno ragione anche se hanno torto e quelli di Firenze hanno torto anche se hanno ragione. Ma questo è tipico di chi vive nel Paese di Sottosopra.

“Casanova”, uno 007 fedele alla Serenissima. Altro che libertino impenitente: era poeta

Un sogno che si realizza: non si potrebbe altrimenti descrivere l’epitome di bellezza racchiusa nell’opera pop Casanova, prodotta da Red Canzian – da poco ristabilitosi dopo una infezione al cuore – con la moglie Beatrix Niederwieser e con la regia di Emanuele Gamba.

Dopo il sold out dell’esordio a Venezia, Bergamo e Udine lo show prosegue a Milano sino al 20 febbraio, a Treviso dal 22 al 25 e a Torino (8-13 marzo). Tratta dal romanzo La suonata dei cuori infranti di Matteo Strukul, Casanova ha una colonna sonora d’eccellenza, ben trentacinque brani inediti scritti dall’ex Pooh, disponibili anche in un doppio cd. “Il protagonista è una personalità molto più complessa di quella del seduttore libertino impenitente”, racconta Canzian. “È stato anche poeta, alchimista, libertario e diplomatico. Nella Venezia del Settecento è stato coinvolto in intrighi politici in qualità di agente segreto e nello show affronta pericoli e duelli oltre a innamorarsi”.

Milo Manara – per l’occasione – torna sul luogo del delitto dopo quarant’anni disegnando per il progetto, dopo la storica collaborazione con Federico Fellini proprio su Casanova. Sul palco l’energia dei ventuno protagonisti del cast con oltre centoventi costumi e una scenografia moderna e originale. L’ex Pooh ha preparato le musiche durante il lockdown: “Sono stati due anni difficili per il teatro; ho lottato con tutte le mie forze per portare in scena l’opera da subito. Siamo stati i primi a riaprire con la capienza totale, e il tutto esaurito per tre sere a Venezia testimonia la voglia e la mancanza del palco”.

Ci si immerge nelle fotografie dei palazzi nobili, delle calli, di piazza San Marco e dei boschi in cui Giacomo, all’età di trentacinque anni, rientra dall’esilio per lottare e difendere la città da chi vuole venderla allo straniero. Il ruolo di Casanova è affidato al talento di Gian Marco Schiaretti mentre la parte di Francesca Erizzo è rappresentata da Angelica Cinquantini. “Nello spettacolo il ruolo di Casanova non è solo quello del libertino esoterista” racconta Schiaretti, “ci sono tante altre sfumature, anche politiche, perché Giacomo è stato un personaggio molto moderno per la sua epoca e ne ha cantato tutte le gesta. Era un vero cittadino del mondo – nel 700 cosa tutt’altro che scontata –, e ha viaggiato in Europa. Al suo ritorno a Venezia ne è diventato spia per difenderla da piani politici che miravano a destabilizzare la Serenissima. Con lui nasce la figura dell’avventuriero prima inesistente”.

Addio a Reitman, il papà dei quattro “Ghostbusters”

Addio a Ivan Reitman. Il regista di Ghostbusters aveva 75 anni. Il figlio d’arte Jason con le sorelle Catherine e Caroline si consola pensando a quante “risate e felicità il suo lavoro abbia portato a tante persone”. Perché Ivan non ha solo trionfato con gli indimenticabili acchiappafantasmi, ma ha regalato al grande schermo campioni di commedia quali John Belushi, producendo Animal House (1978) di John Landis; Bill Murray, di cui esaltò l’indole anarcoide in Polpette (1979) e Stripes – Un plotone di svitati (1980); Arnold Schwarzenegger, che reinventò da manzo action (Conan) ed eroe sci-fi (Terminator, Predator) a simpatico guascone con I gemelli (1988), al fianco di Danny DeVito, Un poliziotto alle elementari (1990) e Junior (1994), ancora con DeVito. Natali il 27 ottobre del 1946 a Komarno nell’odierna Slovacchia, i genitori ebrei – il padre sì unì alla resistenza ceca, la madre sopravvisse a Auschwitz – si trasferirono nel 1950 in America per sfuggire al regime comunista. Ivan crebbe a Toronto, dove di ritorno dal college fece amicizia con Dan Aykroyd, ed esordì al cinema nel 1971 con Foxy Lady: da subito, si cimentò anche nella produzione, firmando gli horror di David Cronenberg Shivers (1975) e Rabid (1977). L’idea di Ghosbusters (1984) non è sua, ma di Aykroyd, che aveva scritto un trattamento pensando a Belushi, morto però nel 1982. Al centro “un gruppo di persone che assomiglia molto a una squadra di vigili del fuoco e svolge l’importante lavoro di acchiappafantasmi” e dunque la convinzione “che i fantasmi esistano e sia possibile catturarli”. Scritto da Aykroyd e Harold Ramis, anche interprete con Murray, Rick Moranis e Sigourney Weaver, diretto e prodotto da Reitman, incassò solo negli States 229 milioni di dollari, risultando una delle commedie più munifiche dell’epoca. Miscela di creatività, ironia, buoni sentimenti ed effetti speciali, Ghostbusters depositò nell’immaginario collettivo almeno il logo e il tema musicale di Ray Parker Jr. e avviò una saga di cui Ivan diresse il secondo capitolo (1989) e ha prodotto il quarto, Afterlife (da noi Legacy, 2021), con Jason dietro la macchina da presa. Nel carnet produttivo anche Beethoven (1992) e Space Jam (1996), ha siglato l’ultima regia nel 2014 con Draft Day. Marchio di fabbrica l’indole autoriale e la cura artigianale disciolte nella concezione e realizzazione industriale, Reitman ha saputo unire alla ferrea e meticolosa scrittura la libertà di improvvisazione degli interpreti. Già, un maestro di direzione d’attori. Ora deve confidare nella promessa del dottor Peter Venkman di Murray: “Ci vediamo dall’altra parte!”.

“Il libro è come Dio: risorge”

“Ottobre 1979. Roma, quartiere Monte Sacro. Siamo in quattro a caricare i libri nel piccolo ascensore, schivando le grida rabbiose della portiera. Sono duemila copie. Il pavimento dell’appartamento reggerà tanto peso?”. Nascita di una vicenda culturale rara. Oggi quella “stanza editrice” è diventata la vasta abitazione letteraria dell’Editore presuntuoso, il memoir di Sandro Ferri, pubblicato dalla sua e/o, che gestisce con la moglie Sandra e la figlia Eva. Ferri, editore eclettico e garibaldino, si racconta senza minuetti striscianti, in linea con una personalità che ha fatto della lotta a ogni conformismo la sua bussola. E la sua storia si miscela col romanzo di trasformazione di una nazione e di un pianeta. La gioventù a Parigi. Gli anni della militanza. Gli inizi ardui. L’ottimismo della creatività. Il trionfo di Amabili resti di Alice Sebold. Il ménage con Massimo Carlotto e il noir mediterraneo. Il prodigio di Elena Ferrante. Il lancio di Europa Editions e L’eleganza del riccio di Muriel Barbery. A Sandro Ferri non piacciono: i salotti radical-chic, l’editore macchina-algoritmo, la restaurazione digitale, la sprezzatura degli intellettuali con la i maiuscola. E/o: una casa editrice rimasta idealista e indipendente nello spirito, nonostante i numeri. “Ricordatevi che nel vostro smartphone c’è tutto. Ma che fuori (e nei libri) c’è tutto il resto”.

Caro Ferri, si definisce un “editore-soggetto”.

Perché seleziono i libri da pubblicare in base al mio gusto e progetto, e solo in seconda battuta alla stregua di considerazioni commerciali.

Quali sono stati i suoi modelli?

Roberto Calasso per la libertà con cui sceglieva i libri in contrasto con i condizionamenti politici ed economici. E Feltrinelli, un editore radicale negli anni 50-60, poi capace di inventare un circuito di librerie che hanno cambiato il mondo della lettura, mantenendolo in vita.

E a livello internazionale?

Ammiro Gallimard, tuttora a conduzione familiare malgrado la crescita esponenziale. Un editore-soggetto nell’olimpo europeo.

Il marketing sta rivoluzionando la letteratura?

Tende all’appiattimento e all’omologazione: per vendere massicciamente un prodotto conviene accontentare il gusto di massa. A me piacciono tanti prodotti della cultura popolare, ma non mi interessa solleticare i gusti più banali del pubblico.

Ogni anno vengono pubblicati in Italia 70 mila libri. Si stava meglio quando si pubblicava meno?

La questione è complessa. Molti titoli significano anche un’offerta culturale più ampia. Il problema è che la platea dei lettori è piuttosto ristretta, e non riesce a crescere.

Più di quarant’anni di editoria alle spalle…

È una storia d’amore. Io e mia moglie Sandra stavamo insieme da poco e decidemmo di lanciarci in un progetto comune: una casa editrice specializzata nell’Europa orientale. Sandra aveva studiato lingue e letterature slave, io m’interessavo alla storia dei Paesi socialisti.

Molto difficili i primi anni.

Abbiamo attraversato periodi bui, pieni di debiti e insuccessi. Ci siamo rimboccati le maniche. Io ho dovuto imparare a fare i conti.

Nel 1984 il primo exploit: Cassandra di Christa Wolf.

Capimmo che potevamo crescere come editori e conservare il nostro stile.

Chi era Zio Casimiro?

Kazimierz Brandys è stato un grande scrittore polacco, autore di un capolavoro come Rondò. Ero molto affezionato a lui, un vecchio signore che dall’esilio parigino mi raccontava storie incredibili di guerre e persecuzioni. Mi ha insegnato che si può attraversare un secolo tragico preservando l’ironia.

Dopo il crollo del Muro di Berlino avete modificato giocoforza traiettoria, vi siete aperti all’Ovest.

È venuto giù tutto un mondo politico e culturale. Gli stessi autori dell’Est hanno smesso di essere quelli di prima, non per opportunismo ma perché la realtà intorno a loro era cambiata.

Nel 1992 il vostro primo libro di Elena Ferrante, L’amore molesto.

Ricordo ancora l’entusiasmo di Sandra quando lesse il manoscritto. “È un capolavoro”, diceva.

Ferrante, “autrice assente ma presentissima”. È cambiato parecchio per voi, dopo L’amica geniale.

Uno dei maggiori successi planetari degli ultimi decenni, tradotto in cinquanta Paesi. Tutto ciò ha modificato le dimensioni e la struttura della nostra casa editrice. Ma è stato un processo lungo: i grandi libri non nascono dalla mattina alla sera.

Che rapporto avete oggi?

Amicizia e una grande ammirazione e riconoscenza.

Come nasce l’oscuro oggetto del desiderio di voi editori, il best-seller?

La ricetta non ce l’ha nessuno. Si tratta di trovare un legame di profonda intesa tra un’autrice o un autore e milioni di lettori tutti diversi l’uno dall’altro. È pura magia.

L’editoria resta un gioco per lei?

Sì, il gioco più bello.

Post scriptum. “Credete in un unico, solo Dio: il libro. Ma non fidatevi di lui, rinnegatelo alla bisogna, mandatelo al macero. Occhio però alle resurrezioni” (Sandro Ferri).