Torino, la nomina cara al sindaco proprio nel giorno di San Valentino

Nomine e curiose coincidenze a Torino. Proprio ieri ha preso servizio da capo di gabinetto del sindaco Stefano Lo Russo, la sua fedelissima Valentina Campana. Una coppia inossidabile sotto il profilo politico ed elettorale, che si riunisce al vertice della città nel giorno di San Valentino, festa degli innamorati (come fa notare con inevitabile malizia Lo Spiffero, testata online molto ben informata sui fatti torinesi).

Campana è stata inseparabile da Lo Russo, in veste di coordinatrice della sua campagna elettorale, prima, durante e dopo il voto che gli ha spalancato le porte di Palazzo civico lo scorso ottobre. La sua nomina tuttavia è chiacchierata e contestata dalle opposizioni, che ieri hanno guastato il San Valentino di Campana con la discussione (a porte chiuse) dell’interpellanza presentata dal capogruppo dei 5Stelle, Andrea Russi: il fatto è che Campana è stata assunta con una selezione pubblica in cui l’unico altro contendente ammesso alla prova orale ha deciso di abbandonare l’esame appena dopo la prima domanda. Nell’interpellanza, inoltre, il grillino Russi domanda “come mai non sia stato assegnato alla Dott.ssa Campana il ruolo di Capo di Gabinetto, come avvenuto in passato, come collaboratore di staff (ex art. 90 del TUEL)”.

Un ruolo che avrebbe potuto ottenere anche per chiamata diretta, senza il bisogno di indire un bando, ma che avrebbe significato uno stipendio minore (rispetto alla retribuzione di 45.260,77 euro e all’indennità di 54mila euro lordi all’anno che le spettano ora). Non è il primo inciampo per Campana, che è finita sotto indagine ad aprile 2019 dopo la sua conferma a direttore dell’Urban Center metropolitano: la Procura sospetta che quel bando fosse ritagliato su misura sulle sue caratteristiche e che fosse il risultato di un accordo per farle mantenere quella carica (che già occupava dall’inizio del 2017). Sospetti, magari soltanto invidie, di chi non celebra la festa degli innamorati.

Conte, Di Battista, Bersani e Fratoianni: gli unici a salvarsi?

L’identikit di oggi vorrei dedicarlo a voi: lettori del Fatto, abbonati a TvLoft, appassionati di Paper First, spettatori degli spettacoli di Marco Travaglio e miei. Immagino che molti di voi siano appassionati di politica (di sicuro più di me). A fine settembre 2009, quando il Fatto Quotidiano nasce, copre un vuoto editoriale ma pure ideologico. Con Berlusconi tiranneggiante e il centrosinistra quasi sempre pavido e deludente, molti italiani avvertivano il bisogno – l’urgenza? – di una realtà giornalistica nuova che facesse informazione e generasse appartenenza. Lo stesso meccanismo, di lì a poche settimane, scattò per molti di voi quando nell’ottobre 2009 nacque il Movimento 5 Stelle. Non è difficile credere che quella passione politica, in molti di voi, fosse ancora viva alle elezioni del 2013 e ancor più a quelle del 2018, quando il centrodestra faceva schifo come quasi sempre e il centrosinistra era praticamente da vomito per colpa di Renzi e renzismo. E adesso? Adesso la politica è oltre ogni delusione. Vado sempre a intuito e magari sbaglio, ma credo che – se si votasse domani – tanti tra voi non saprebbero cosa fare. Qualcuno si asterrebbe, come dimostrano i livelli mestissimi di affluenza alle ultime elezioni comunali e regionali. E qualcun altro voterebbe di nuovo per il “meno peggio”, turandosi il naso nella speranza residua che – se non altro – non vadano al governo i Meloni, Salvini, Renzi, Calenda e Berlusconi (chiedo scusa per avere fatto di fila cinque nomi così politicamente terrificanti). L’interesse per la politica è rasoterra e il livello del Parlamento italiano, come ribadito dal romanzo Quirinale di poche settimane fa, è sconfortante. Data per scontata l’irricevibilità di quasi tutto il centrodestra, dove il livello è così basso che la meno peggio sembra la Meloni (ed è pure vero, se la si paragona ai due Matteo), anche il centrosinistra torna (ma ha poi mai smesso?) a deludere. Il comportamento di Letta su Belloni è stato un mix insopportabile tra pavidità e mancata parola data. Pure il M5S appare moscio e spento, senza slancio e noiosamente balcanizzato. E la sinistra “vera” o è marginale (tipo Mdp e SI) o pallosamente ridicola (tipo i Raimo e cascami analoghi da operetta bolsa e massimalista). Come se ne esce? Male. La realtà politica è semplicemente post-atomica. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, o anche solo non del tutto vuoto, scorgo un poker apparente: dico “apparente” perché quello che per alcuni può sembrare un poker non lo è per molti altri, e perché quei quattro politici non fanno – né mai faranno – parte della stessa forza. Al massimo, e sarebbe già tanto, della stessa alleanza. Non sto parlando degli unici politici da stimare: ce ne sono tanti (da Provenzano a Elly Schlein, da Patuanelli a Boccia, eccetera). Sto parlando degli unici quattro leader, o simil-leader, che a oggi sono verosimilmente in grado di accendere qualcosa nel “lettore tipo del Fatto”. Alludo a Giuseppe Conte, Pier Luigi Bersani, Nicola Fratoianni e Alessandro Di Battista. Ognuno, come tutti, ha pregi e difetti. Chi troppo moderato, chi troppo talebano. Chi troppo inesperto, chi troppo politico. Chi con Draghi, chi contro Draghi.

Eppure, dentro quel “campo progressista” che a oggi è poco più che un’ipotesi di scuola, quattro come loro non potranno mancare. Anzi: o quella parte politica alternativa (sul serio) al centrodestra riuscirà a proporre molti profili analoghi, o al prossimo giro saranno in tanti a votare controvoglia. O addirittura a stare direttamente a casa. Anzitutto tra voi lettori del Fatto.

 

La Repubblica non può restare appesa a Draghi e Mattarella

“Un lavoro so trovarmelo da solo”. Questa secca frase pronunciata con irritazione da Mario Draghi contiene molti elementi che non debbono essere sottaciuti. Certo c’è anche una sottile e assolutamente comprensibile critica nei confronti di coloro che non hanno voluto o saputo favorirne l’elezione al Quirinale. Soprattutto, però, è un messaggio ai dirigenti dei partiti per quello che fanno e non fanno. Troppo affannati a rincorrere l’ultima dichiarazione di un qualsiasi parlamentare e a soffermarsi su polemichette di corto respiro e poco interesse, troppi commentatori perdono di vista gli elementi strutturali della politica italiana.

Alla nascita del governo Draghi, che riduceva notevolmente potere e presenza dei partiti, molti sostennero che all’ombra del governo, i partiti avrebbero avuto modo e tempo per cercare di ridisegnare le loro strategie, ma soprattutto di riorganizzarsi e rimettersi in sintonia con gli italiani. Non è avvenuto nulla di tutto questo. Al contrario, l’elezione presidenziale ha dimostrato l’impreparazione di tutti i protagonisti e l’inadeguatezza delle loro visioni politiche. Per evitare la cosiddetta “crisi di sistema” il Parlamento ha richiamato il non troppo reticente presidente uscente facendone quasi un uomo della Provvidenza. L’altro uomo della Provvidenza, ovvero Draghi, insostituibile, ha potuto così continuare alla guida del governo per proseguire e portare ad augurabile compimento l’opera di ripresa e resilienza consentita all’Italia dagli ingenti fondi europei.

Personalmente, non credo alla crisi di sistema, ma appendere le sorti della Repubblica alla longevità di Mattarella e al prolungamento di un ruolo politico per Draghi significherebbe rimanere sostanzialmente nella crisi politica che ha caratterizzato tutta la legislatura in corso. La controprova viene dai partitini, un tempo sarebbero stati definiti “cespugli”, assembrati intorno al centro geopolitico, che la loro convergenza vorrebbero effettuarla sotto la guida di Draghi contando su voti aggiuntivi che, discutibilmente, il nome del presidente del Consiglio apporterebbe loro. Di idee ricostruttive che scaturiscano da quei cespugli – la “moderazione”? La “fine del bipolarismo feroce”? – proprio non se ne vedono. Nel frattempo, nel centrodestra, che alcuni di loro propagandisticamente definiscono “compatto”, permane una lotta dura per la leadership e soprattutto appare enorme la distanza nelle posizioni relativamente all’Unione europea. Il campo nel quale si è insediato il Pd è largo nelle intenzioni, ma non demograficamente in crescita, in attesa di elettori le cui aspettative non vengono soddisfatte da messaggi politici rilevanti e innovativi. Troppo facile parlare di lotta alle diseguaglianze senza indicare con precisione gli obiettivi da perseguire e le relative modalità. Eppure, è proprio dalla ripresa dell’economia che bisogna sapere trarre stimoli per procedere verso la riduzione delle diseguaglianze e l’ampliamento delle opportunità.

La cosiddetta “agenda Mattarella” contiene una indicazione molto significativa concernente il ruolo del Parlamento che non va compresso e schiacciato dal governo, meno che mai a colpi di decreti e voti di fiducia. Quel ruolo potrà migliorare, ma di poco, grazie alla riforma dei regolamenti parlamentari, ma riuscirà ad affermarsi soltanto se i parlamentari saranno eletti con modalità che li liberino dalla sudditanza ai capipartito e capicorrente che li hanno nominati e li obblighino sia a trarre consenso dai loro elettori sia a essere responsabili nei loro confronti. Il cattivo funzionamento del Parlamento è la condizione prima e fondamentale che incide sulla qualità di una democrazia parlamentare e che rischia di aprire una crisi di sistema senza prospettive.

 

Giustizia, i veri problemi: lentezza e Prescrizione

Il cronista del Giornale Stefano Zurlo ha intervistato Giuliano Pisapia, figlio di Gian Domenico Pisapia, che era un giurista di grande valore, con cui mi onoro di essermi laureato a pieni voti, ma peraltro autore, con le migliori intenzioni, della disastrosa riforma del codice di procedura penale del 1989 (un incrocio fra sistema accusatorio e inquisitorio). Lì Pisapia jr. ha affermato che bisogna andare oltre “la solita litania sulla lentezza dei dibattimenti”. Peccato che questa litania sia “solita” per la semplice ragione che la lentezza dei processi va a incidere pesantemente su alcune questioni fondamentali: la custodia cautelare, la “presunzione di non colpevolezza”, la certezza della pena, la libertà di stampa.

È ovvio che più lunga è la durata dei processi, più lunga può diventare la carcerazione preventiva. Senza arrivare ai casi clamorosi di Giuliano Naria, il presunto terrorista rosso che fece nove anni di carcerazione preventiva per essere poi riconosciuto innocente, oggi le nostre carceri sono zeppe di persone in attesa di giudizio. Questo per gli stracci, gli altri vanno agli “arresti domiciliari”, anche questa una discriminazione sociale inaccettabile motivata dalla considerazione che i “colletti bianchi” soffrirebbero di più il carcere perché non ci sono abituati. La “presunzione di non colpevolezza” fino a condanna definitiva è un principio fondamentale del diritto. Ma se i processi si allungano all’infinito diventa di fatto una presunzione di impunità perché i processi finiscono inevitabilmente sotto la mannaia della prescrizione o della “improcedibilità” con cui la ministra della Giustizia Marta Cartabia, con un gioco direi quasi di parole, ha cercato di mascherare la prescrizione. Teniamo presente che se un imputato è sempre, e giustamente, un presunto innocente, la vittima del reato è però certa e ha quindi più diritto degli altri di avere una giustizia che invece, prescrizione operans, non avrà mai. La prescrizione poi annulla la certezza della pena che è un altro dei cardini di un buon funzionamento della giustizia e della società stessa. Le pene non devono essere troppo dure né tantomeno “esemplari”, come s’è detto e fatto troppe volte sotto spinte emozionali, ma devono essere certe. L’abnorme durata dei nostri procedimenti impedisce di tutelare la loro segretezza. Nel codice di Alfredo Rocco (ministro della Giustizia durante l’era fascista) le cui norme hanno avuto valore fino al 1988, l’istruttoria era segreta, il dibattimento ovviamente pubblico (nei sistemi totalitari è segreto anche il dibattimento). Ciò a tutela delle persone che durante la fase, per forza di cose incerta e a tentoni delle indagini preliminari, possono essere impigliate in un’inchiesta alla quale sono estranee. Cioè in un sistema ben regolato la polizia giudiziaria e il pubblico ministero portano alla valutazione del Gip il materiale che hanno raccolto. Il Gip scarta i fatti irrilevanti e porta al dibattimento solo quelli che sono utili al processo e così, a parer mio, dovrebbe essere. Ma così non è stato. Perché in questi anni i media hanno potuto violare un segreto istruttorio che di fatto non esiste più. Con conseguenze devastanti. Oggi basta che un personaggio pubblico sia raggiunto da un “avviso di garanzia”, che in teoria dovrebbe essere a sua tutela, perché si scateni il “tritacarne massmediatico” da parte di questa o quella formazione politica e dei media a essa aggiogati. Ma, d’altro canto, se le istruttorie durano anni, impedire ai media di raccontarle finisce per essere un’inaccettabile mordacchia alla libertà di stampa.

Ritorniamo quindi e sempre al problema dell’abnorme lunghezza delle nostre procedure. In Gran Bretagna durante le istruttorie i media forniscono solo le iniziali dell’indagato indicato come “persona informata dei fatti” e non possono fare nemmeno il nome del giudice inquirente a evitare che costui voglia farsi pubblicità evitando così la canzoncina che da anni è il leitmotiv delle destre italiane per squalificare le indagini. Ma in Gran Bretagna se c’è un imputato detenuto le istruttorie durano dai 28 ai 32 giorni a seconda della diversa composizione del Giurì cioè della diversa gravità del reato. Ma questo da noi è impensabile. In attesa che si metta mano seriamente a una riforma del codice di procedura penale che lo ripulisca degli infiniti ricorsi e controricorsi, esami e controesami e delle leggi cosiddette garantiste con cui è stato inzeppato il codice durante l’era Berlusconi, che in realtà si risolvono in un danno per l’innocente, il cui interesse è essere giudicato il prima possibile, e in un vantaggio per il colpevole il cui interesse è esattamente l’opposto, troviamo ragionevole la mediazione proposta dal procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi che ha inviato una circolare a tutti gli uffici giudiziari raccomandando di limitare al massimo le conferenze stampa e di non indicare come “colpevole” l’indagato. È già qualcosa. Anche se in passato, un passato ormai lontano, era una norma di civiltà che il magistrato si esprimesse solo “per atti e documenti”. Ma quelli erano altri tempi, altri uomini, altro tutto.

 

Il papa in tv da Fazio: alla fine è diventata un’occasione persa

Non ci rendiamo conto quanto sia triste, imbarazzante, stupido dedicarsi all’orologio del Papa, e perdersi tutto il resto. (A. Padellaro, Fq, 13 feb)

Diffido istintivamente dei cattolici che parlano del papa: sono monarchici che parlano del re. Il papa da Fabiofazio: una notizia, ma anche un’occasione persa, poiché non era una diretta, come millantato, e non era condotta da un giornalista (meglio straniero, nel caso: troppi papisti fra quelli italiani). Il Concilio Lateranense del 1215 suggeriva ai confessori di considerare, oltre al peccato, le sue circostanze, e 50 anni dopo, nella Summa, San Tommaso riassumeva quelle circostanze con 8 domande: chi, che cosa, quando, dove, perché, quanto, in che modo, e con quali mezzi. Nelle prime 5 riconosciamo le famose 5 W del giornalismo anglosassone; dal punto di vista narrativo (e da quello morale che premeva ai Padri della Chiesa) la questione cruciale è il perché. Dopo anni di scandali immondi, la reputazione della Chiesa cattolica è ai minimi storici (negli ultimi nove anni, in Italia, tre milioni e mezzo di persone hanno girato allo Stato l’8 per mille che davano alla Chiesa cattolica) (che però non ne risente: continua a incassare un miliardo di euro all’anno in quanto per legge si becca anche buona parte dell’8 per mille che il 55% dei contribuenti non destina a nessuno, una sconcezza già denunciata inutilmente dalla Corte dei Conti), le messe si desertificano, i seminari si svuotano. Bergoglio sta cercando di rifondare il brand, come Zuckerberg con Meta, ma il mese trascorso è stato micidiale (scandalo pedofilia del clero francese, prese di posizione quasi scismatiche della Chiesa tedesca, e un rapporto su 500 casi di pedofilia nell’arcidiocesi di Monaco che tira in ballo le omissioni di Ratzinger). Contromossa: il marchettone da Fabiofazio, che, va detto, ha fatto del suo meglio per imitare Minoli con Craxi nei famigerati spot elettorali PSI del 1987. Guardateli su YouTube: si può dissentire da quegli slogan? No, perché a questo serve la pubblicità: a persuadere più gente possibile. Basta ribadire l’ovvio (chi non è contro la guerra, contro le ingiustizie, contro la povertà, contro l’inquinamento?), ma in modo efficace, ovvero, insegnano i pubblicitari, coinvolgendo emotivamente l’uditorio affinché associ al prodotto una sensazione gratificante. Questa associazione motiverà all’acquisto. Ecco perché la birra Corona non ha sofferto della pandemia da Coronavirus, nonostante l’assonanza negativa: quel brand è associato a un’idea di socialità allegra di cui i lockdown hanno fatto sentire ancor più il bisogno, e così le vendite di birra Corona sono addirittura aumentate. Giusto qualche mese fa Bergoglio spiegava ai preti di Bratislava (il padrone della ditta alla forza vendite) che “un’omelia, per non essere noiosa, deve avere coerenza interna: un’idea, un’immagine e un affetto, in modo che la gente se ne vada con un’idea, un’immagine e qualcosa che si è mosso nel cuore. Così predicava Gesù, che prendeva il grano, gli uccelli, i campi, le cose concrete che la gente capiva”. Ed ecco allora da Fabiofazio il fiume che non canta più, la nipotina del fisico che se non cambiano le cose vivrà in un mondo inabitabile, i genitori coi figli e le chiavi dell’auto. Il colpo da maestro è stato evocare il senso del tatto. 60 anni fa, il sociologo cattolico McLuhan spiegava che i media elettronici sono estensioni dei nostri sensi, e che la tv estende non la nostra vista, come si potrebbe pensare, ma il senso del tatto: la comunicazione tv funziona se esalta valori tattili. “Quando tu dai l’elemosina, tocchi la mano della persona?” La gaffe dell’orologio ha spezzato l’incantesimo. “Perché soffrono i bambini? Non so darmi risposta”, ha detto infine il papa. Chiediamo a Ratzinger?

 

Altro che “Il fatto”: se ora lo dice pure lui…

Davanti al passaggio della lettera di Tiziano Renzi al figlio Matteo che definisce “Boschi, Bonifazi e Bianchi la Banda Bassotti che ha lucrato su di te senza ritegno” (per non parlare di Marco Carrai, “un uomo falso”) il primo, immediato pensiero è che se un giudizio del genere fosse stato pubblicato sul Fatto Quotidiano, lo statista di Rignano avrebbe preteso, a dir poco, il sequestro della testata, oltre al pignoramento del mobilio di casa. L’altra, inevitabile, riflessione è: se lo dice lui… Perché babbo Renzi, oltre ad aver conosciuto, e molto da vicino, le “cattive” compagnie del su figliolo non ignora certo le bassezze della politica, avendola a lungo frequentata sia pure in ambiti periferici. E, tuttavia, essere arrivato al punto di marchiare come “Banda Bassotti” il Giglio Tragico, significa che deve avere osservato, e molto da vicino, cose che noi umani neppure immaginiamo. Poiché la lettera (depositata dalla Procura di Firenze al processo per bancarotta) risale al 2017, proviamo a immaginare l’esistenza di altre missive riguardanti le successive tappe della, per così dire, mutazione renziana. Scritte con il medesimo linguaggio esplicito di un padre piuttosto preoccupato dalle frequentazioni del figlio. Dalla creazione di un partito finto come Italia Viva (dopo averne distrutto uno esistente). Fino agli stretti rapporti intrattenuti con l’autocrate saudita Mohammad bin Salman (accusato di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Khashoggi). E alle ricche consulenze percepite da uno dei regimi più oscurantisti del pianeta, definito con entusiasmo dal percettore come la patria di un “nuovo Rinascimento”. Purtroppo stiamo galoppando troppo con la fantasia a giudicare dal passaggio della lettera dove Tiziano, nell’elogiare l’erede, considera “geniale” la “mossa di rimandare le dimissioni” da segretario del Pd. E qui ci soccorre il latinorum: qualis pater, talis filius. O no?

Dal sorteggio Csm alle “porte girevoli”: il governo rischia

È ancora il momento dei messaggi in bottiglia, ma il Pd è pronto a fare le barricate: se alla Camera si creeranno inedite alleanze volte a introdurre il sorteggio per l’elezione del Csm (sorteggio che piace tanto per esempio a Forza Italia ma pure al M5S), il governo potrebbe rischiare. Molto più di turbolenze. “Se si dovesse arrivare a ribaltare l’accordo votato all’unanimità l’altro giorno in Consiglio dei ministri si innescherebbe inevitabilmente un effetto politico non tranquillizzante, con ripercussioni molto forti sull’esecutivo” spiega Alfredo Bazoli altro pezzo da novanta della pattuglia dem in commissione Giustizia a Montecitorio.

Dove domani verrà incardinato il testo su cui Mario Draghi ha promesso che non verrà messa la fiducia. A significare che il monito di Sergio Mattarella nel senso di recuperare il Parlamento alla sua funzione legislativa è stato recepito: ora però va capito quali maggioranze verranno fuori da questa discontinuità e quali alleanze salteranno per aria sul tema dei temi, la riforma della giustizia. E se il sistema elettorale per la componente togata del Csm è un punto su cui potrebbe saltare il banco, fili ad altissima tensione si registrano anche sul blocco delle cosiddette “porte girevoli” altra questione attorno al quale si agitano mondi e ambienti per tradizione vicini ai dem e per niente soddisfatti: né sul divieto assoluto di tornare nelle aule di giustizia per magistrati al termine di un mandato elettivo in politica o dopo un’esperienza di governo o di sottogoverno. Né sul periodo di decantazione imposto alle toghe subito dopo aver terminato un incarico fuori ruolo magari da capo di gabinetto al ministero.

Spiega un alto magistrato con la promessa dell’anonimato: “Impedire a una sola categoria, 10-15 mila persone tra magistrati ordinari e non, di partecipare alla vita democratica del Paese è un vulnus che ha evidenti profili di costituzionalità. Quanto alle norme sui capo di gabinetto la volontà chiara è quella di penalizzare le toghe al rientro da questi incarichi. E poi dove dovrebbero finire queste persone e a far cosa per tre anni? Rischiamo nel migliore dei casi di creare una riserva indiana. Ma la verità è che si punta a una sostituzione etnica: fuori i magistrati dentro gli avvocati”.

Il sottotesto è il seguente: il Pd da che parte sta? Il Pd in effetti è in imbarazzo e promette correttivi. Li ha promessi Andrea Orlando che è stato anche Guardasigilli: “Penso sia ragionevole distinguere tra chi ha fatto una campagna elettorale e chi viene chiamato a svolgere una funzione tecnica in un governo” ha detto pur sapendo di camminare sulle uova.

Perché ha fatto riferimento anche a magistrati come Roberto Garofoli finito nei giorni scorsi nel tritacarne inseguito dal sospetto del conflitto di interesse. In sede di limatura del testo con la ministra Cartabia, a un certo punto era venuta fuori una prima versione della norma che eliminava il rischio delle porte girevoli per i magistrati che fossero ministri o sottosegretari. Come è lui stesso, magistrato di gran carriera a Palazzo Spada. Anche lì, si guarda con fiducia a un allentamento della tagliola prevista dal Riforma.

Quale? Il Pd punta almeno a ridurre la decantazione triennale prevista dopo gli incarichi ministeriali. Ma è un obiettivo minimo: c’è anche chi spera che quando verranno scritti i decreti di attuazione al ministero si trovi un modo per allentare lo stop alle porte girevoli al punto da renderlo inapplicabile alla maggior parte degli incarichi.

La lettera di papà Renzi a Matteo: “Boschi e Bianchi banda bassotti”

Per Tiziano Renzi, Maria Elena Boschi, Alberto Bianchi e Francesco Bonifazi sarebbero la “Banda Bassotti”. E Marco Carrai deve sparire. La lettera porta la data del “cinque marzo”. Dal contesto si evince che si tratta probabilmente del 5 marzo 2018 anche se qualcuno l’ha datata ieri nel 2017. Tiziano Renzi scrive a Matteo e si sfoga contro i suoi amici insultandoli ma gli svela anche gli ‘interna corporis’ dell’azienda di famiglia, la Eventi6.

Il padre nella lettera offre (saggi) consigli politici al figlio tipo: “Non serve un nuovo partito alla Macron, occorre depurare il Pd (…) Il partito di Macron c’è già”. Poi si complimenta per la scelta di non dimettersi subito da segretario del Pd: “La mossa di rimandare le dimissioni è geniale”. Spiega perché ha fatto mutui per comprare immobili come la villa a Rignano sull’Arno (“Torri può diventare un affittacamere”) e respinge l’invito del figlio a lasciare il lavoro: “In pensione (..) mi ci manda il buon Dio e non te”. Però la parte più interessante è certamente quella nella quale Tiziano si lamenta duramente con il figlio del trattamento ricevuto e si confronta con altri: “A fronte dell’ectoplasma e della banda bassotti (Bianchi, Bonifazi, Boschi) che hanno davvero lucrato senza ritegno dalla posizione di accoliti tuoi – scrive Tiziano – io sono stato quello che è passato per ladro prendendolo nel culo”.

Perché ritiene che Boschi, Bonifazi e Bianchi “abbiano lucrato senza ritegno” Tiziano però non lo spiega. Spiega invece perché è arrabbiato con l’imprenditore Marco Carrai: non lo avrebbe aiutato con l’amministratore di Poste nominato nel marzo 2017, Matteo del Fante.

A causa di una serie di eventi che non sono accaduti, par di capire dalla lettera, Tiziano Renzi ha perso 3 milioni di euro di fatturato con la sua azienda di famiglia. Tiziano Renzi parte da Mariano Massone, l’imprenditore che ha patteggiato una condanna per bancarotta nel novembre del 2016 a Genova per la società Chil, la cui azienda era stata in passato della famiglia Renzi. Tiziano Renzi in quella vicenda fu prosciolto su richiesta dei pm. Nella lettera Tiziano spiega che ha un debito di riconoscenza con Massone e non si capisce perché subito dopo scrive che sarebbe tutto risolto se un tal “Din don avesse avuto tutto quel che gli spettava come direttore commerciale di PPTT”. Forse PPTT sta per Poste e Telecomunicazioni? Dovrebbe spiegarlo Tiziano Renzi. Leggiamo però la lettera di Tiziano a Matteo: “Mariano Massone. È una persona che a Genova ha accettato il patteggiamento senza lottare, rinviando e traccheggiando come la legge gli avrebbe consentito, magari coinvolgendomi, sapendo che non aveva la condizionale. Io ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti a prescindere. Sarebbe stato tutto risolto se din don avesse avuto quel che gli spettava come direttore commerciale di pptt perchè essendogli amico lo avrebbe fatto lavorare e quindi mantenere la famiglia in aziende a lui vicine. Probabilmente – prosegue Tiziano – sarei stato in condizioni di vendere l’azienda e comunque di provarci. Purtroppo la sfiducia nei miei confronti e la campagna dei giornali che ha convinto per primo te ed i tuoi accoliti mi ha reso incredibile e voi sospettosi”. Sembra di capire quindi che l’azienda a causa di scelte di “pptt” che sembra nel contesto la società Poste non sia più facilmente vendibile. A questo punto Tiziano inserisce l’intemerata contro Marco Carrai: “Carrai, coerentemente, non si deve mai più far vedere da me. Uomo falso che mi dice che del fante è amico suo e non fa niente di niente, e che mi dice che l’egiziano (seat) è pronto ad ascoltarlo e non solo non fa niente per poste, ma non mi difende contro un attacco oggettivamente non supportato da ragioni professionali (era dal 2010 che lavoravo per pagine gialle con capacità professionali indubitabili) levandomi un fatturato di 3 ml che ritenevo oggettivamente acquisito senza interferenze sindacali e non solo”.

Seat è la società che distribuisce gli elenchi telefonici, anche tramite Poste. Il settore è quello nel quale la società della famiglia Renzi in passato ha avuto appalti milionari. Renzi si lamenta che nessuno abbia parlato con un soggetto di Seat che denomina ‘l’egiziano’. Chissà chi è. Poi Tiziano prosegue e sembra avercela sempre con Carrai prima di citare gli altri tre amici di Matteo quando scrive: “A fronte dell’ectoplasma e della banda bassotti (Bianchi, Bonifazi, Boschi) che hanno davvero lucrato senza ritegno dalla posizione di accoliti tuoi io sono stato quello che è passato per ladro prendendolo nel culo”. E qui fa riferimento anche a un tal Virgilio (nome di un suo ex socio degli anni ‘90): “Virgilio lo hanno semplicemente ignorato eppure chiedeva solo occasioni di lavori a provvigione non favori”.

La lettera sembra scritta il 5 marzo 2018, giorno dopo la sconfitta elettorale di Matteo Renzi, che però sarà nominato senatore. E così si giustifica la frase di Tiziano: “Ora tu hai l’immunità, non esiste più il rischio che tramite me arrivino a te”. Tiziano però è anche arrabbiato perché “in questi anni – scrive – ho avuto la netta percezione anzi la certezza di essere considerato un ostacolo e comunque un fastidio”. Poi parte: “Voglio solo per tua informazione rendicontarti le mie azioni con completezza di motivazioni per comodità parlo di nomi”. Ed è lì che attacca con “Mariano Massone. È una persona che…”.

La lettera è stata depositata al processo in corso in primo grado a carico di Tiziano Renzi, la moglie Laura Bovoli e altri per la bancarotta, probabilmente perché Massone era indagati con i coniugi Renzi nel procedimento fiorentino. Fu arrestato ai domiciliari il 13 febbraio 2019 insieme a Tiziano e Laura, poi gli arresti furono annullati dal Tribunale del Riesame ma (cosa che Matteo Renzi non ricorda mai in tv) il Tribunale ribadiva che “il quadro degli indizi a carico degli indagati è, pertanto, da qualificare grave in relazione a tutti i reati a loro ascritti”.

Massone dopo aver patteggiato a Genova nel 2016 ha patteggiato di nuovo anche a Firenze nel 2021. Gli avvocati dei coniugi Renzi si sono opposti con la solita argomentazione dell’immunità parlamentare che il senatore Renzi ha già sollevato in tutte le sedi giudiziarie, mediatiche e politiche per il caso Open: “Non sono acquisibili – hanno scritto gli avvocati di Tiziano Renzi e Laura Bovoli – gli atti da pagina 164 a 169: parrebbe di capire che si tratti di una missiva del sig Tiziano Renzi al figlio senatore di cui non sono indicate né l’origine né la modalità di acquisizione anche per valutare il rispetto delle guarentigie parlamentari ex articolo 68 Costituzione e legge 120 del 2003”. Il Presidente del Tribunale Fabio Gugliotta il 18 gennaio scorso però ha risposto con la sua ordinanza: “Tali oggetti non costituiscono corrispondenza implicando tale nozione un’attività di spedizione in corso”. L’affermazione del Tribunale è importante perché il principio enunciato potrebbe valere anche per la questione sollevata da Matteo Renzi nell’inchiesta Open. Caso discusso dalla Giunta delle Immunità del Senato che ha chiesto di sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta (deve ancora votare l’aula).

Nell’ordinanza del 18 gennaio però il presidente Gugliotta spiega sul punto: “Analoga conclusione deve ritenersi con riguardo ai messaggi telefonici o telematici che siano rinvenuti in un telefono o in un computer sottoposto a sequestro in quanto tali testi, non costituendo il diretto obiettivo del vincolo, non rientrano nel sopra menzionato concetto di ‘corrispondenza’ per le stesse ragioni sopra evidenziate (Cass. Sez. III n.928 del 25 .1.2015)”. Conclusione del presidente Gugliotta: “Non rientrando i documenti estratti nel concetto di corrispondenza oggetto della particolare normativa di garanzia di cui all’articolo 68 comma 3 della Costituzione, la relativa documentazione ben può essere acquisita al fascicolo del dibattimento”.

I “suoi” industriali lo amano poco, lui si butta in serie A

Se il tuo mito politico, Mario Draghi, è presidente del Consiglio tu puoi anche permetterti il lusso di dedicarti all’hobby del calcio. Del resto, Carlo Bonomi è interista “importante” per non dire sfegatato, che quando gioca la squadra del cuore per la quale ha un trasporto assoluto, chiude le comunicazioni e si incolla allo schermo. Ed è curioso che tra i massimi sostenitori della sua candidatura ci sia il presidente della squadra rivale nel derby, Paolo Scaroni, presidente del Milan.

L’amore per Draghi – “l’ho sempre considerato un patrimonio del nostro Paese”, diceva nel 2020 quando andò, solo, ad ascoltarlo al Meeting di Rimini – potrebbe averlo indotto a prendere alla lettera l’ultimo messaggio “mariano”: un lavoro me lo trovo da solo.

E così, come se non fosse il presidente dell’associazione degli industriali italiani, la seconda manifattura d’Europa, si cerca un lavoro in Serie A facendosi gettare tra le manovre, gli appetiti e le scorribande politiche dei presidenti dei club di calcio italiani.

Lo fa senza una dichiarazione ufficiale, anzi restando in vacanza dove è partito con la moglie per circa dieci giorni.

In Confindustria sembra non sia molto amato, nelle associazioni territoriali ha poca presa e questo potrebbe essere un modo per prendere atto che non ha conquistato autorità né spazio politico e che la mossa spiazzante sia un modo come un altro per ottenere nuova visibilità. L’incarico sarebbe positivo per lui che in fondo è giovane, non ha una grande impresa – e bisogna andare proprio tanto indietro negli anni, almeno a Guido Carli, 1976-1980, ma ben altra caratura intellettuale, per ritrovare un presidente leggero industrialmente – e che guarda anche al futuro. Ma il futuro di Confindustria può coincidere con quello della Lega calcio?

Lo statuto dice che non c’è incompatibilità e dal suo entourage assicurano che alla scadenza del mandato dei primi due anni, prevista a maggio, continuerà con l’incarico attuale.

L’immagine che viene restituita degli imprenditori italiani, però, segna un distacco con quella da patròn laborioso e immerso nel fatturato. Sembra quasi che si profili la fase discendente di una parabola ben rappresentata da quel grafico, contenuto nel bilancio dell’associazione, in cui si descrivono i proventi ricavati dagli iscritti.

Dopo il picco di 51,5 milioni toccato nel 2008, si è passati al picco negativo di 36,9 milioni del 2017 con una lieve risalita a 38 milioni nel 2020. L’associazione soffre la caduta lenta di iscrizioni, i crediti verso i soci superano i 4 milioni di euro, la vicenda disastrosa del Sole 24 Ore non è stata finora mai davvero recuperata. E mai come in questo momento Confindustria non brilla per visione sistemica.

Bonomi si ricorda soprattutto per il suo grido contro il “Sussidistan” rintracciato nei vari sostegni alle categorie colpite dalla doppia crisi, economica e pandemica. Da controbilanciare, poi, con la più classica ricetta confindustriale: rigore sui salari, riduzione del welfare e flusso di finanziamenti alle imprese, vero motore della crescita.

Da qui la battaglia contro la bolletta energetica o quella per riuscire a sfruttare al meglio i fondi del Pnrr. Tanto che nel bilancio dell’associazione è stato accantonato un fondo di 620 mila euro per studi e ricerche sui progetti del Next Generation Eu.

Difficile invece riscontrare iniziative e progetti per una visione di insieme e di sistema dell’industria italiana. I grandi tracolli come Ilva o Alitalia, o le grandi contese come Telecom, sono sempre rimasti fuori dalla portata, segno di un sistema industriale fortemente indebolito (questa non è colpa di Bonomi, che il sistema l’ha ereditato) ma che anche nell’imprenditoria, come nella politica, spinge a considerare incarichi redditizi, ma di complemento.

Si candida padrone del calcio malato: L’autogol di Bonomi

Il calcio non è un gioco, è un’industria. A furia di ripeterlo, i patron della Serie A se ne sono convinti al punto che qualcuno ha pensato di farsi rappresentare dal numero uno di Confindustria, Carlo Bonomi. Se ha elemosinato aiuti per le aziende potrà farlo pure per le squadre, devono essersi detti in Lega calcio, dove provano a prendere due piccioni con una fava: risolvere la grana del nuovo presidente e trovare qualcuno bravo a battere cassa col governo. Bonomi, difensore dei padroni di professione, sponsorizzato da Paolo Scaroni e iscritto da mesi al “partito” di Draghi, è sicuramente un nome forte sul tavolo. Chissà se sarà quello giusto per la Serie A spaccata in mille correnti, dove le candidature tramontano prima di sorgere, e la vera partita da giocare non è tanto quella per il presidente (un profilo buono prima o poi si troverà), ma la guerra ormai imminente alla FederCalcio di Gabriele Gravina.

Da un paio di settimane la Serie A sta cercando la sua nuova guida, da quando l’ex Paolo Dal Pino è scappato negli Stati Uniti, richiamato da impegni personali, logorato dagli attacchi di Lotito. Il profilo è tracciato: non un manager (per non pestarsi i piedi con l’amministratore delegato Luigi De Siervo) ma una figura di rappresentanza, con buoni contatti nei palazzi, in grado di parlare col governo e tutelare gli interessi del pallone. All’inizio è trapelato qualche inverosimile nome politico, da Veltroni a Alfano passando per Maroni. Così è nata pure la candidatura di Bonomi.

Il piatto Servono i “ristori”

Se il piano della Serie A è quello di scroccare soldi al governo per risolvere una crisi di sistema di cui il Covid non è la causa ma solo una contingenza, la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso stracolmo di debiti, in effetti la candidatura di Bonomi ha un senso. Lui lo fa praticamente di mestiere: in due anni alla guida di Confindustria ha lavorato per indirizzare ogni tornata di ristori verso le imprese (non sempre virtuose, non necessariamente colpite dalla pandemia), mentre condannava gli aiuti a lavoratori e precari. Esenzioni dai versamenti, prestiti garantiti, risorse a fondo perduto: i provvedimenti strappati in favore delle aziende fanno tutti parte del carnier di richieste della Serie A. Nonostante il calcio italiano pianga miseria, dall’inizio della pandemia ha ricevuto più di un aiuto, dalla possibilità di continuare a giocare praticamente sempre anche durante il lockdown, alla recente sospensione di tasse e contributi per i primi quattro mesi del 2022. Un salasso da 450 milioni per le casse dello Stato, che se fosse esteso a tutto l’anno varrebbe oltre un miliardo. Mancano giusto i famosi ristori. Una sorta di “Sussidistan del pallone”, su cui da settimane era in atto un battage mediatico sempre più insistente da parte dei giornali (Sole 24 Ore in testa). Bonomi potrebbe farsene paladino.

Scaroni & C. Chi lo spinge

Il diretto interessato è disponibile, a quanto risulta al Fatto, e si è speso personalmente, in un giro di telefonate ai presidenti nel corso del weekend, per spiegare la propria candidatura, assicurando che lui di tempo da dedicare al pallone ne ha molto, tanto l’operatività di Confindustria va avanti da sola – chissà se in Confederazione sono d’accordo. Lo sponsor principale è Paolo Scaroni, presidente del Milan, grand commis di Lega calcio, che negli ultimi due anni ha tenuto sotto la sua ala protettrice Dal Pino e ora vorrebbe dettare il successore, gradito alle società settentrionali e forse anche al numero uno della Figc Gravina.

Il problema di Bonomi è che la candidatura non è stata condivisa. Pone diverse questioni di opportunità, se non di incompatibilità. In tanti per impallinarlo hanno già tirato in ballo il codice etico di Confindustria, che vieta di assumere incarichi in associazioni esterne. Ma questo potrebbe non essere un ostacolo: il suo primo biennio scade a maggio, magari è disposto a lasciare Confindustria per la Confindustria del pallone, specie se gratificato con uno stipendio adeguato (per intenderci, più vicino a quello dell’ex numero uno Maurizio Beretta che a quello percepito da Dal Pino, inferiore ai 100mila euro l’anno). Il punto sono i voti: la Serie A è spaccata a metà e oggi in seconda votazione ne servono 14 per essere eletto. Dalla terza, la settimana prossima, scenderanno a 11, ma allora potrebbe essere bruciato se intanto non incontrasse favori a sufficienza. Le resistenze non mancano. Lotito per ora tace, ma non sembra ben disposto. L’asse delle proprietà americane chiedeva un altro tipo di profilo e di selezione, più trasparente. De Laurentiis ha lanciato come alternativa Lorenzo Casini, capo di gabinetto di Franceschini al ministero della Cultura. C’è chi assicura che il nome buono non sia ancora uscito.

L’obiettivo Fuga dalla Figc

Che Bonomi ce la faccia o meno, quella per la presidenza è solo una partita nella partita che sta giocando la Serie A. I patron sono convinti di essere la locomotiva del sistema calcio, con le risorse che versano all’Erario e ridistribuiscono al movimento. Per questo pretendono soldi e autonomia. I primi dal governo. La seconda dalla FederCalcio di Gabriele Gravina, che sta diventando il vero nemico da combattere. Sempre più intraprendente dopo aver perso Dal Pino (che era il suo principale alleato), terrorizzato dallo spareggio mondiale della nazionale da cui dipende la sua poltrona, le ultime mosse del presidente federale non sono state gradite: a partire dai nuovi principi informatori che impongono votazioni a maggioranza semplice per facilitare le riforme, ma che la Serie A non vuol recepire, con tanto di contenzioso legale (e lo spettro di commissariamento). Ma non si tratta solo di questo: la proposta di legare l’iscrizione al campionato all’indice di liquidità (su cui almeno sette-otto club non sono in regola) viene vista come un ricatto, i giudizi su calendari e diritti tv come una invasione di campo. Siamo alle porte di una vera e propria guerra, in cui non si escludono atti estremi: la minaccia di sospendere i pagamenti in favore delle leghe minori (dovuti per la legge Melandri, col rischio di far implodere il sistema), e addirittura una scissione della Serie A dalla FederCalcio, sul modello inglese della Premier. Perché loro sono un’industria.