L’elemosiniere al Viminale. Lontano dal ministro

L’occasione c’era. Con l’Avvenire che scaglia fendenti contro la feroce politica anti-immigrati di Matteo Salvini, Civiltà Cattolica e Famiglia cristiana che lo accusano di strumentalizzare il rosario e il Vangelo come se fossero oggetti di marketing, cosa c’era di meglio di una bella visita al Viminale del cardinale elemosiniere Konrad Krajewski, uomo di fiducia di papa Bergoglio, per dare l’idea di una riconciliazione con il mondo cattolico?

Sì, proprio lui, il cardinale che la scorsa settimana aveva irritato Salvini con l’improvvisa decisione di andare a riaccendere la luce, staccata dal gestore per morosità, in un palazzo occupato nel centrale rione romano dell’Esquilino, Spin Time Lab, dove vivono 450 persone di varie nazionalità tra cui cento minori assieme a uno dei gruppi di lotta per la casa che fanno riferimento alla sinistra antagonista.

Così ieri mattina, con grande discrezione, dal ministero dell’Interno hanno fatto sapere a qualche fotografo romano che il cardinale sarebbe andato lì. E il cardinale in effetti ci è andato: accompagnato dalla professoressa Daniela Pompei della comunità di Sant’Egidio, vestito da semplice prete di periferia, Krajewski è arrivato al Viminale attorno alle 16,30 su un piccolo van Skoda. Come al solito guidava lui. Non ha gradito la presenza dei fotografi e non aveva voglia di parlare.

Dal Vaticano rispondono che il cardinale elemosiniere non ha incontrato il ministro dell’Interno. Salvini è arrivato al Viminale poco dopo. L’alto prelato che ama esser chiamato “padre Corrado”, comunque, non era lì per Matteo. A quanto si apprende era lì con Pompei per incontrare il capo di gabinetto del ministero dell’Interno, il prefetto Matteo Piantedosi. I tre hanno parlato, tra l’altro, degli interventi umanitari in corso da parte della Santa Sede e di Sant’Egidio nell’isola greca di Lesbo, dove si concentrano migliaia di profughi – attualmente circa settemila, tra loro duemila minori – che sono rimasti intrappolati lungo il cosiddetto corridoio balcanico. È una delle situazioni più drammatiche nell’Europa delle grandi migrazioni.

Il prefetto Piantedosi ha assicurato la sua disponibilità a soddisfare le richieste di aiuto avanzate da Krajevski e dalla professoressa Pompei. Ma il disgelo tra il capo della Lega e il mondo cattolico e bergogliano della solidarietà sembra ancora lontano.

A Salvini non resta che insistere sulla “fede” nei tweet, come ha fatto ieri mattina in risposta alle polemiche sulla “strumentalizzazione” del rosario.

Toh, per sgonfiare il pallone gonfiato basta la democrazia

Domenica sera, lo show del Matteo Salvini smentito in diretta tv a Non è l’Arena, ci ha detto alcune cose sugli strumenti che ha la democrazia per far ritornare sulla terra i palloni gonfiati.

Primo: l’informazione. In passato, spesso intervistatore compiaciuto e ammiccante del vicepremier leghista, questa volta Massimo Giletti si è calato nei panni del giornalista che becca la notizia, la tiene in pugno e non la molla cascasse il cielo.

La sequenza alternata del ministro degli Interni categorico (“dalla Sea Watch non sbarca nessuno”) e del conduttore incalzante che gli legge in diretta le agenzie che danno conto dello sbarco in corso, resta televisivamente imperdibile. E rappresenta un esempio di come i media possano svolgere un importante servizio pubblico semplicemente ponendo all’autorità di turno una, due, tre, quattro, cinque volte la stessa domanda. Senza accontentarsi della stessa risposta.

Secondo: la magistratura. Il Procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio ha disposto lo sbarco dei 47 migranti a bordo, non in preda a una crisi acuta di buonismo o perché foraggiato da Soros ma in conseguenza del sequestro probatorio della Sea Watch 3 per violazione dell’articolo 12 del testo unico sull’immigrazione che contrasta gli ingressi illegali. Anche in questo caso il ministro si mostra all’oscuro di tutto. Sembra ignorare norme e procedure che gli dovrebbero essere familiari (alcune portano la sua firma). Come se considerasse il potere giudiziario, un fastidioso ingombro se non addirittura un ostacolo all’esercizio di un potere (il suo) che egli considera evidentemente illimitato e inappellabile.

Terzo: il ministro. Rubizzo e con gli occhi lucidi sembra febbricitante (in questo caso auguri di pronta guarigione) ma non rinuncia ad ergersi come un misirizzi in delirio di onnipotenza.

Senza rendersi conto che più rivendica sconfinate potestà (“io governo il paese”) e più si sta ficcando in una trappola micidiale. Quando se ne accorge simula risate di cuore e forse si appresta a mandare i consueti bacioni, senonché viene impallato dalle implacabili immagini di una motovedetta della GdF con a bordo i migranti sani e salvi. Di nuovo s’incupisce e minaccia (“finché il ministro sono io”), poi comincia a menare colpi al buio. Prima contro l’incolpevole collega Danilo Toninelli (“lo spieghi agli italiani”) ma quando Rocco Casalino portavoce di palazzo Chigi (dove qualcuno si gode la scena) smentisce interventi di ministri 5 Stelle, si avventa deciso sul pm. Ignaro della dinamica degli eventi, compulsa nervosamente il cellulare che immaginiamo sordo (il numero da lei selezionato…), e infine si rifugia sul classico (“ se intende fare il ministro si candidi alle elezioni”). Salvo che all’indomani, forse rinfrancato dalla tachipirina, rivendica come una sua vittoria personale l’intervento della magistratura. Uno spettacolo.

Il pubblico. Ma chi governa sto’ paese? Lo avranno pensato in molti osservando il ministro preposto alla sicurezza dei cittadini scavalcato dagli accadimenti proprio sul terreno (anzi sulle acque) di cui si proclama demiurgo supremo. Seguono le seguenti riflessioni. Allora è vero che al Viminale non ci sta mai. Allora non è vero che ha chiuso e sigillato i porti. Vuoi vedere che è finto anche il rosario?

La nave a Licata (sotto sequestro) accanto alla Mare Jonio

Il pm di Agrigento Cecilia Baravelli ha convalidato il sequestro della nave Sea Watch 3 eseguito della Guardia di finanza di Palermo. Il provvedimento è stato notificato all’unico indagato, il comandante Arturo Centore che è stato convocato oggi alle 12, in Procura ad Agrigento per essere interrogato dal procuratore aggiunto Salvatore Vella che, insieme al capo dell’ ufficio Luigi Patronaggio e al pm Alessandra Russo, sta coordinando l’indagine. Centore è accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La nave, intanto, è attraccata ieri al porto di Licata, accolta da un gruppetto di persone che ha applaudito al suo approdo. Nel porto di Licata ci sono adesso due imbarcazioni, di altrettante Organizzazioni non governative, sotto sequestro. Ormeggiata nel porto agrigentino infatti c’è anche la nave Mare Jonio: “L’equipaggio della Mare Jonio dà il benvenuto nel porto di Licata alla Sea Watch 3. Entrambe le navi sono sotto ‘sequestro probatorio’”. Lo scrive su Twitter la Ong Mediterranea Saving Humans riguardo alle navi Sea Watch 3 e Mare Jonio. “Certi di aver agito nel rispetto del diritto per salvare vite umane, vogliamo tornare in mare là dove è necessario”, conclude il post.

Patronaggio, il pm antimafia nel mirino del Capitano verde

Tre donne tunisine vendute per quattro milioni di lire a tre anziani agricoltori siciliani. È la primavera del 1991, Luigi Patronaggio ha 33 anni, è uno dei sostituti procuratori di Termini Imerese e questa, a giudicare dagli archivi, sembra la prima inchiesta in cui si trova a indagare su donne immigrate vittime di stupri e trattamenti da schiave.

Oggi che guida la Procura di Agrigento, le inchieste sull’immigrazione sono diventate ordinaria amministrazione. Quel che nel 1991 Patronaggio non immaginava, forse, è che le inchieste sull’immigrazione avrebbero potuto mettere in crisi un Governo. Com’è accaduto con il caso Diciotti e l’accusa di sequestro di persona mossa al ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Il ministro, com’è noto, s’è salvato dal processo solo grazie ai voti del M5S. Ma non è finita. C’è ancora da sviscerare l’inchiesta sulla Mare Jonio, la nave della Ong Mediterranea, che vede indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina il comandante Pietro Marrone e il team leader Luca Casarini. E se l’inchiesta dovesse stabilire che la Libia non è in condizioni di offrire porti sicuri, sarà difficile contestare a chiunque, di qui a poco, che portare in Italia gente soccorsa in acque libiche sia favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. L’intera retorica di Salvini sui “porti chiusi” ne risulterebbe scardinata. Il nesso tra immigrazione, magistratura e potere, è però una scoperta piuttosto recente.

La carriera di Patronaggio inizia indagando altri fenomeni. La massoneria a Trapani, negli Anni Ottanta, quando da giudice istruttore scopre una loggia coperta che si chiama “scontrino”. E soprattutto: la mafia. Prima quella delle Madonie, poi quella che fa saltare in aria Falcone, Borsellino e loro scorte. Patronaggio si trasferisce a Palermo dove lavora con Gian Carlo Caselli: “È il miglior procuratore della Repubblica che Palermo abbia avuto”, dice di lui Patronaggio nel 1996. Con Caselli alla guida della procura di Palermo, Patronaggio indaga sul clan Graviano di Brancaccio, sull’omicidio di padre Puglisi, raccoglie – con un altro pm, oggi a Roma, Gaspare Sturzo – le confessioni di Angelo Siino: il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, quella guidata da Totò Riina, rivela gli accordi sugli appalti pubblici siciliani degli Anni Ottanta. E proprio a Totò Riina è legato uno dei passaggi più significativi della biografia di Patronaggio.

È il 15 gennaio 1993 quando Totò Riina viene arrestato dai carabinieri del Ros. Finisce così la sua latitanza di 20 anni: gli investigatori hanno scoperto il suo covo in via Bernini. E dopo l’arresto è prevista la perquisizione della casa in cui si nascondeva. Una perquisizione che potrebbe portare alla scoperta di materiale investigativo di importanza cruciale per la storia del nostro paese. Tutto è pronto e Patronaggio è tra i pm che devono dirigere le operazioni. Poi arriva il contrordine. Patronaggio spiega ai giudici nel 2005: “Intorno alle 14 del 15 gennaio 1993, i carabinieri del reparto territoriale di Palermo erano già pronti per effettuare la perquisizione al residence di via Bernini. Non conoscevamo la villa dalla quale era uscito Riina e per questo ci accingevamo a perquisirle tutte. Ma quando eravamo nel cortile della caserma, con le auto già incolonnate e pronte a uscire, e gli elicotteri pronti per decollare, Caselli mi bloccò dicendomi che la perquisizione non si poteva effettuare, facendomi intendere che la villa era ancora sotto controllo e quindi non era opportuno”. Un suggerimento che, secondo le ricostruzioni, partì dal capitano Ultimo dei carabinieri del Ros e fu accolto dalla Procura di Palermo. La perquisizione, totalmente inutile perché il covo fu ripulito, avvenne due settimane dopo.

Da sostituto procuratore generale di Palermo, Patronaggio è tornato a occuparsi di Cosa Nostra nel 2013, chiedendo la condanna di Marcello Dell’Utri a 7 anni di carcere per concorso in associazione mafiosa. Poi il passaggio alla procura di Agrigento (che comprende Lampedusa), dove nel 2017 chiude le indagini sul naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013, nel quale morirono 366 persone, di fronte alla spiaggia dei Conigli di Lampedusa: 7 indagati per mancato soccorso. Sul fronte pubblica amministrazione, con il procuratore aggiunto Salvatore Vella, scoperchia il sistema della società Girgenti Acque dove, in cambio di posti di lavoro, la politica offriva i suoi favori. Tra gli indagati, anche il papà di Angelino Alfano, l’ex ministro dell’Interno.

Sea Watch, l’Anm attacca: “Rispetto per i magistrati”

L’escalation di Matteo Salvini contro i magistrati si spinge fino alla minaccia di denunciarli, in questo caso i pm di Agrigento, colpevoli di aver fatto sbarcare i 47 migranti a bordo della Sea Watch 3. Ma le toghe reagiscono. Questa volta forte e chiaro contro il ministro. A partire dall’Anm che parla di “delegittimazione” e “intimidazione” ed esprime “solidale vicinanza ai colleghi, certi che nulla condizionerà il loro lavoro”. Protesta anche Area, la corrente progressista, la segretaria Cristina Ornano dice no “a un’invasione di campo della politica”; il pm di Roma ed ex presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte definisce l’attacco di Salvini “inaccettabile”; l’ex procuratore di Torino Armando Spataro “si inchina” ai pm agrigentini e invita alla mobilitazione.

L’ultimo scontro Salvini-magistrati è cominciato dopo che, domenica sera, su richiesta della procura di Agrigento, è stato disposto il cosiddetto sequestro probatorio della nave con conseguente sbarco dei migranti a bordo. Ma Salvini, ignorando la legge, ha addirittura ipotizzato “un possibile reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e ha parlato di decisione politica: “Se la nave sarà messa fuori uso e ci saranno arresti, bene. Altrimenti ho il dubbio che qualcuno abbia voluto compiere un atto politico: se qualche procuratore vuole sostituirsi al governo o al Parlamento si candidi”.

La Giunta dell’Anm, dopo una concitata riunione, ieri sera ha chiamato in causa direttamente Salvini, mentre in precedenza il presidente Pasquale Grasso, di Mi, la corrente conservatrice, aveva emesso un comunicato ritenuto troppo asettico da parecchi magistrati del sindacato delle toghe. “Le recenti dichiarazioni del Ministro dell’interno Matteo Salvini, si legge nel comunicato, delegittimano la magistratura, alludendo a decisioni assunte in base a orientamenti politici. Hanno, inoltre, innegabile carattere intimidatorio, rischiando di suscitare un clima di avversione nei confronti dei singoli magistrati e della Istituzione tutta”. L’Anm, inoltre, ricorda a Salvini le basi del nostro sistema: “La legittimazione della magistratura è nella Costituzione. I magistrati hanno l’obbligo di accertare i fatti applicando le leggi uguali per tutti, in nome del Popolo Italiano”.

Armando Spataro, scrive direttamente ai suoi ex colleghi siciliani: “Mi sono emozionato in maniera forte: il procuratore Patronaggio e i suoi magistrati fedeli alla legge, indagano, ma tutelano le persone. Dovrebbe essere la normalità ma non sempre è così, indipendentemente dai deliri che ci circondano, ignorando le disposizione di legge e la dovuta tutela dei diritti umani”. Conclude con un invito a manifestare: “Senza retorica, mi inchino di fronte ai colleghi di Agrigento. Stringiamoci attorno a loro, se necessario scendiamo in piazza in loro onore, parliamo e informiamo”.

L’amico Strache e il taglio di Matteo

Curiosi tagli e ritagli nei giornali radio Rai. Se n’è accorta Lia Quartapelle, capogruppo del Pd in commissione Esteri alla Camera. Tra un’edizione e l’altra, dalla stessa intervista vengono eliminati i riferimenti a Matteo Salvini, e in particolare alla sua amicizia con il vicecancelliere austriaco Strache, costretto alle dimissioni dopo lo scandalo dei favori alla Russia. “Nell’edizione delle 8.45 del Gr3 di ieri (domenica, ndr) veniva trasmessa un’intervista a Nicoletta Pirozzi dell’Istituto Affari internazionali – nota la Quartapelle – durante la quale veniva fatto esplicito riferimento agli stretti rapporti tra la Lega di Salvini e la Fpoe di Strache. Al Gr1 delle ore 9, però, è stata mandata in onda la stessa intervista senza più alcun riferimento a Salvini. Alle 9 sono rimasti i legami con la Le Pen ma non con Salvini, sebbene è evidente che i telespettatori italiani siano molto più interessati a un partito italiano che francese”. Del nuovo corso “sovranista” di tanti notiziari pubblici si è detto e scritto molto. Ognuno de quali – è proprio il caso di dirlo – ha il suo “taglio”, a seconda del grado di vicinanza del direttore di turno al vicepremier leghista. “È opportuno che l’azienda chiarisca”, conclude Quartapelle. Lo sarebbe davvero, in bocca al lupo.

Bce, Tria: “Affrontare tabù finanziamento del debito pubblico”

A pochi giorni dalle elezioni europee, il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha ribadito che l’Italia è impegnata al rispetto delle regole Ue, che il debito è sostenibile e che passato il clima da campagna elettorale “lo spread non potrà non tenerne conto”. Poi, più che come un’autentica richiesta all’Europa, Tria – intervenendo al Global Sustainability Forum della Luiss – si è anche augurato un auspicio: “Credo che sia venuto il momento di affrontare il tabù della monetizzazione”. Vale a dire la possibilità di un “finanziamento in moneta del deficit”, che prevede l’intervento diretto della Banca centrale europa nelle emissioni. “Non dobbiamo dimenticare – ha detto il ministro dell’Economia – che esiste un secondo modo di finanziare un deficit, che è il finanziamento monetario. Questo non è più a disposizione di un singolo Paese, ma almeno sul piano teorico lo è per l’Europa, anche se ciò richiederebbe una non prevedibile revisione dello statuto della Bce”. Tria ha poi aggiunto: “A causa del sovranismo nordico si sta solamente misurando la strutturale paralisi decisionale europea. Parliamo di 17 miliardi di euro per 7 anni per 28 paesi, quindi di nulla”.

Guerra rinviata, il leghista preoccupato dai sondaggi

“Discussioni animate”, riferiscono da Palazzo Chigi. Litigano, come al solito, Lega e Cinque Stelle. Ma la guerra non scoppierà nemmeno stavolta. A differenza di Game of Thrones la faida fantasy tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini non è ancora all’ultimo episodio. Anche se tra i due “continua il gelo”, come si dice nel paludato linguaggio del giornalismo politico.

Il consiglio dei ministri di ieri notte era l’ultimo metro di campagna elettorale. I confini dell’ennesimo terreno di scontro erano noti in partenza: il vicepremier verde voleva giocarsi la carta del decreto sicurezza bis, il vicepremier giallo quella del decreto famiglia. La partita era soprattutto sulla nuova legge bandiera della Lega. Le parti non si sono risparmiate. Giuseppe Conte si è messo di traverso, e l’ha fatto spendendo il nome di Sergio Mattarella: sul testo che intensifica le norme di contrasto all’immigrazione ci sarebbero le perplessità degli uffici del Quirinale. Una posizione che ha fatto infuriare Salvini e i suoi: se ci sono delle “criticità” – ha attaccato il vicepremier del Carroccio – “ci facciate sapere quali siano”.

Anche stavolta per uscire dall’impasse serviva una soluzione creativa. Il consiglio dei ministri è ancora in corso mentre il giornale va in stampa, ma il decreto sicurezza bis dovrebbe passare l’esame con una formula bizantina. Una sorta di “approvazione preliminare”, fanno sapere fonti di Palazzo Chigi. Ovvero: tutti d’accordo sul merito del provvedimento, ma in concreto il discorso sarà affrontato dopo il voto. Sarebbe un pareggio: un punto alla Lega, un punto per il Movimento. Rinviando tutto al “mondo nuovo” che uscirà dal voto europeo. Per la logica della desistenza tra gli alleati litigiosi, lo stesso principio potrebbe essere applicato alla bandiera grillina: anche il decreto famiglia dovrebbe essere tenuto fermo in attesa di tempi migliori. Risultato finale: zero a zero. Nessuno esulta ma nulla è perduto. Tutti hanno parecchio da perdere.

Salvini negli ultimi giorni si è fatto più prudente. I sondaggi riservati che circolano oggi sono assai meno lusinghieri di quanto nonfossero fino a poche settimane fa: la distanza tra i due partiti si sarebbe ridotta. Ne è un indizio che per la prima volta Salvini dà i numeri, e gioca al ribasso, fissando un’asticella non ambiziosa. Lo fa prima in un videoforum all’Ansa: “Nel 2014 eravamo al 6%, l’anno scorso al 17%. Avremo vinto se prenderemo dal 20% in su”. Lo ripete più tardi nella solita diretta Facebook: “L’anno scorso eravamo al 17%, vi sarò grato per ogni punto che prenderemo in più”. Gli ultimi numeri pubblicati prima dell’embargo elettorale davano la Lega oltre il 30%. Qualcosa è cambiato, almeno negli umori: la prudenza di Salvini fa il paio con il crescente ottimismo dei rivali.

Se il governo ha evitato l’ultima mina prima del voto senza eccessivi strattoni, non sono mancate le consuete provocazioni verbali. Che possono essere catalogate alla voce “scaramucce elettorali”, o per alcuni “gioco delle parti”. La giornata era iniziata con il botto: il siluro lanciato da Giancarlo Giorgetti, numero 2 della Lega, con l’intervista alla Stampa: “Giuseppe Conte non è una persona di garanzia. È espressione dei Cinque Stelle ed è chiamato alla coerenza di appartenenza”. Parole che il premier – è comprensibile – non ha preso bene, invitando il sottosegretario a ripeterle in consiglio dei ministri. Giorgetti, per tutta risposta, a Palazzo Chigi non c’era.

Poi, da mattina a pomeriggio, le solite carezze. Di Maio a Salvini: “La Lega ha perso la testa, e sui migranti Matteo è nel pallone, ha finito gli argomenti”. Salvini a Di Maio: “Sembra Renzi, in questi giorni dicono le stesse cose. Io nel pallone? Mi occupo di vita vera, lavoro, tasse, immigrazione. Le parole le lascio agli altri”.

La sfida del premier a Giorgetti, ma lui diserta il consiglio

L’accusatore che non si aspettavano di mattina lancia il sasso e di sera marca visita. Ed è guerriglia, in giacca e cravatta. Perché il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti nero su bianco rimprovera al premier di non essere imparziale, di non avere “sensibilità politica”, insomma di essere un presidente a cui tirano i fili. Ma ieri sera a Palazzo Chigi non si fa vedere. Quindi non lo ripete in Consiglio dei ministri, come lo aveva esortato a fare l’accusato, il premier Giuseppe Conte: così irritato da sfidare Giorgetti e la Lega tutta a “metterlo in discussione”e in Parlamento, cioè a sfiduciarlo. Ma Giorgetti, veterano, schiva l’impatto e resta a Milano. E ovviamente la spiegazione ufficiale del Carroccio è che il sottosegretario “era l’ospite d’onore a una cena di aziende italiane negli Stati Uniti, con gli ambasciatori dei rispettivi Paesi”.

Però dietro c’è anche altro, c’è un atto ostile che vale per l’immediato, ma forse non solo. Certo, “ora siamo in campagna elettorale” come ricorda una fonte di governo del M5S. Però quello del sottosegretario non è un petardo come gli altri. Perché Giorgetti non è Matteo Salvini. E perché Conte è sempre lui, il presidente del Consiglio: troppo popolare nei sondaggi e troppo avvocato rispetto ai gialloverdi. Insomma troppo, anche per il sottosegretario leghista, quello che parlava di rado e che invece ieri mattina quasi urla su La Stampa, per sporcare di fango di trincea anche il premier. “Conte non ha sensibilità politica, quando lo scontro si fa duro fa riferimento alla posizione politica di chi lo ha espresso” punta il dito il numero due del Carroccio. Quindi il presidente “non è una persona di garanzia”, non è un arbitro. È un altro dei 5Stelle, nel governo “dove non riusciamo a fare più un ordine del giorno” sibila Giorgetti, e pare una resa ostentata che invoca il tutti a casa.

E infatti a Palazzo Chigi s’infuriano. “Quando la dialettica trascende fino a coinvolgere il presidente del Consiglio fino a mettere in dubbio la mia imparzialità, diventa non grave ma gravissimo” risponde Conte. Furibondo tanto da invocare il faccia a faccia, da sfidare il sottosegretario e la Lega tutta a mettere in pratica minacce e cattivi pensieri: “Se si mette in dubbio l’operato del sottoscritto, si indebolisce l’azione del governo, allora bisogna farlo in base a percorsi chiari e trasparenti, nelle sedi opportune, le sedi ufficiali sono il Cdm e in prospettiva il Parlamento”. Tradotto, se volete sfiduciarmi fatevi avanti. Ma Salvini finge di cadere dal pero. “Conte è sempre super partes” giura già di prima mattina. Poi nel pomeriggio, mentre registra a Quarta Repubblica, pizzica senza affondare: “Che lui fosse un ministro indicato dal M5S non è un mistero, ma Conte ha la mia fiducia, l’Italia ha bisogno di un governo”. Ma non può bastare per fermare i sospetti dentro il Movimento. E un big li riassume così: “Le parole di Giorgetti sono la conferma che il Carroccio vuole indebolire il premier, perché adesso è troppo forte per loro. E questo può avere due scopi: cercare di metterlo sotto pressione nella trattativa per un eventuale rimpasto, oppure incolparlo per una crisi di governo anticipata”. Ossia mordere l’avversario in una nuova guerra elettorale.

Perché nel M5S lo dicono in parecchi, “se si torna al voto da qui a breve il nostro candidato premier non potrà che essere lui, Conte”. E qualche 5Stelle immagina anche una data per il voto anticipato, il 29 settembre. E magari sono solo schegge di ansia pre-urne, fantapolitica. Anche perché Luigi Di Maio da alcuni giorni lo ripete ai suoi: “Dopo il 26 maggio Salvini non avrà il consenso e la forza per rompere, dovremo solo rimettere a posto i cocci e ripartire con questo governo”.

Però Di Maio è anche un capo che deve tenere calmi i suoi, nell’ultimo miglio. E nell’attesa arriva il fuoco di copertura per Conte. Con il sottosegretario dimaiano Mattia Fantinati che azzanna: “Chi inzolfa magari pensa solo a regolamenti di conti interni e anela alla vecchia Lega padana alleata di Berlusconi”. Invece il capogruppo in Senato Stefano Patuanelli con il Fatto va nel dettaglio: “È grazie alla capacità politica di Conte che abbiamo ottenuto molto per la legge di bilancio e siamo riusciti a gestire gli sbarchi coinvolgendo partner europei. Forse la posizione di Giorgetti sottende un po’ di gelosia per un premier che riscuote molto gradimento”. In serata, Cdm. “Giorgetti e il presidente non si sono sentiti” assicurano da Chigi, da dove traspare sarcasmo per quella sedia vuota. Ma l’assente di ieri è il sottosegretario di oggi. E magari l’avversario di domani.

Decreto sicurezza bis, Conte e il Colle frenano Salvini

Doveva essere una sorta di bollettino di questa guerra a uso elettorale, e così è stato. L’ultimo Consiglio dei ministri prima delle urne dovrebbe partorire ben poco di concreto, se non “l’approvazione preliminare” – in sostanza un semplice passaggio senza efficacia – delle bandierine che ogni alleato piazza in vista delle europee, il decreto sicurezza vis e quello Famiglie. Questo alle 23.15 di ieri notte, orario di chiusura del giornale. È l’inevitabile epilogo di una giornata che inizia con la dichiarazione di guerra di Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario leghista a Palazzo Chigi, che accusa su La Stampa il premier di “non essere una persona di garanzia ma del M5S”. Palazzo Chigi la legge come un avviso di sfratto della Lega e Giuseppe Conte reagisce furente (“è gravissimo”). Con queste premesse, inizia la riunione a Palazzo Chigi con il solito spezzatino. Il Cdm si apre alle 16, poi si aggiorna alle 20.30, alla presenza di Conte, Salvini e Di Maio, mentre Giorgetti si dilegua. Un segnale di crisi senza precedenti. E così, di tangibile, il Cdm licenzia solo alcune nomine, dalla Guardia di Finanza alla Ragioneria, e la riforma dei magistrati ordinari. Sui due provvedimenti spot, il decreto sicurezza Bis di Salvini e quello Famiglie di Di Maio si dovrebbe chiudere con un neologismo (“esame preliminare”) perfino più evanescente del “salvo intese” finora usato per approvare testi in bianco che poi vengono riscritti per settimane. A bloccare tutto sono i dubbi dei giuristi, dell’Onu e pure del Quirinale sul decreto voluto da Salvini. Conte in riunione fa presente al leghista le “molte criticità” rilevate dal Colle e quindi l’impossibilità di dare un’ok formale. E così, a cascata, al decreto Famiglia.

In un clima tesissimo l’unico via libera arriva per sostituire il comandante della Guardia di Finanza Giorgio Toschi, voluto da Matteo Renzi. Lega e M5S sono convenuti sul generale Giuseppe Zafarana, comandante dell’interregionale dell’Italia centrale. I due alleati invece non sono neppure riusciti a giocare la partita per imporre discontinuità alla Ragioneria dello Stato, guardiana dei conti agli occhi di Bruxelles: a sostituire il ragioniere generale Daniele Franco sarà Biagio Mazzotta, finora vice di Franco, assai ben voluto al Quirinale, il terzo contraente del governo. L’asse tra M5S e Lega regge invece nel bloccare il tentativo del ministro dell’Economia Giovanni Tria di creare un nuovo dipartimento, il quinto del ministero, da affidare alla fidata Alessandra Dal Verme, cognata dell’ex premier Paolo Gentiloni, anche lei in Ragioneria. La nuova struttura, dedicata agli “investimenti”, avrebbe creato un contraltare di peso di organismi analoghi messi in piedi a Palazzo Chigi, come Investitalia e Strategia Italia che devono rilanciare gli investimenti pubblici. E così Tria si deve accontentare di relazionare in Cdm con una “informativa”.

Lo scontro si infiamma però sul decreto Sicurezza bis. Dopo le polemiche, gli uffici di Matteo Salvini hanno redatto una nuova bozza del testo studiato per reprimere immigrazione e conflitto sociale. Le modifiche però sono, se possibile, perfino peggiorative, tra norme confuse e altre a rischio incostituzionalità che difficilmente passerebbero il vaglio del Quirinale. Le multe da 3.500 a 5mila euro per ogni migrante salvato, anche in acque internazionali, per dire, vengono sostituite da una multa da 10 a 50 mila euro per il comandante, l’armatore e il proprietario della nave (ad applicare le sanzioni sarà il prefetto, quindi il Viminale). Una norma che confligge con la legge italiana, che non prevede sanzioni per chi presta soccorso per evitare gravi danni alle persone, e pure con fonti sovraordinate, come le convenzioni Onu. I timori sono tali che in giornata il consiglio degli esperti di diritti umani della sede di Ginevra delle Nazioni Unite chiede all’Italia di “bloccare il decreto”, mentre il segretario generale Antonio Guterres avvisa che “le norme internazionali a tutela dei rifugiati vanno rispettate”.

Salvini, però, prova a tirare dritto, anche perché non riesce neppure ad avere l’ok in Cdm alle autonomie per Veneto, Lombardia (ed Emilia). In riunione replica ai dubbi di Conte (“dimmi quali sono queste criticità”, sbotta). Il testo, peraltro prevede anche un’altra novità, suggerita dal ministero delle Infrastrutture: la possibilità di confiscare la nave che soccorre i migranti e il potere, trasferito dal Mit al ministero di Salvini, di limitare o bloccare il transito di imbarcazioni per motivi di sicurezza. Ci sono poi i dubbi sugli interventi in materia penale. Il decreto inasprisce ancora di più una serie di norme assai contestate in materia di ordine pubblico, con una legislazione speciale prevista solo per le manifestazioni per chi aggredisce o anche solo ostacola le forze dell’ordine.

La discussione si fa accesa. Mentre andiamo in stampa è ancora in corso. Ma il risultato sembra scritto. Il decreto sicurezza non può essere approvato così, ma M5S non vuole lasciare a Salvini un’arma da usare alle europee. E così gli alleati dovrebbero inventarsi l’approvazione “informale” per rinviare la resa dei conti a dopo il 26 maggio. Stessa fine fa il decreto Famiglia con cui Di Maio – senza il via libera della Ragioneria – vuole stanziare un miliardo risparmiato sul Reddito di cittadinanza a un assegno per le famiglie. Risultato che accontenta tutti.