Gli imbucati

Vedendo Carlo Calenda che s’imbuca all’adunata milanese di Salvini e dei suoi eurocamerati e molesta capannelli di leghisti in piazza Duomo, ci è tornato in mente il vecchio film Via Padova 46-Lo scocciatore, dove Alberto Sordi interpreta Gianrico, un giovane rompipalle, gemello del compagnuccio della parrocchietta di Mamma mia che impressione!. La sua missione è perseguitare il vicino di pianerottolo, il signor Arduino alias Peppino De Filippo: ogni giorno Gianrico si apposta dietro l’uscio in attesa che esca per la passeggiata pomeridiana, al che gli s’appiccica addosso guastandogli il relax e insufflandogli negli orecchi con voce petulante i suoi problemi personali: “Sor Arduì, ho passato una notte d’inferno, m’ha mozzicato ‘na zanzara, ma proprio in un punto che nun me posso gratta’ né di qua né di qua: che me farebbe un grattino alla schiena, sor Arduì?”. Cos’abbia indotto Calenda, che resta comunque un ex ministro e il capolista Pd alle Europee nel Nord Est, ad aggirarsi nella piazza leghista in uniforme da molestatore, con tanto di impermeabile, arpionando incolpevoli passanti intirizziti dalla pioggia per infliggere loro “un civile confronto di idee”, non è dato sapere.

Forse voleva vedere com’è fatta una piazza, esperienza unica nella sua vita. O provare l’ebbrezza di incontrare della gente, fenomeno rarissimo nelle iniziative elettorali del Pd e ancor più del suo movimento “Siamo Europei”. O forse sperava in una contestazione, un paio di fischi, un insulto, mezza pernacchia, per poi fare il martire. Invece niente: a parte i più, che non l’hanno riconosciuto, qualcuno gli ha chiesto un selfie perchè lo vede sempre in televisione, altri l’hanno lasciato parlare. Da solo. Il momento più straziante è stato il commiato, simile a quel che càpita nell’ascensore condominiale fra due vicini che si conoscono di vista e abbozzano qualche parola sul tempo che fa, ma poi la conversazione non decolla e guardano per aria, impazienti di arrivare al piano per levarsi dall’imbarazzo. “Allora – avvertiva l’ex ministro – io vado, eh?”, nella segreta speranza che qualcuno lo trattenesse con un “Ma no, perchè mai, resti ancora un po’, faccia come fosse a casa sua”. Invece niente: Gianrico se n’è andato, insalutato ospite com’era arrivato, invocando “un faccia a faccia con Salvini sull’Europa dove vuole lui”, che non avrà mai. Un scena di rara mestizia, che dà l’idea della crisi della sinistra (si fa per dire) nata nelle piazze e morta nei salotti. Non riuscendo a riempire manco una cabina telefonica, i suoi leader (si fa sempre per dire) si imbucano nei comizi altrui.

Un altro noto trascinatore di folle, Dario Nardella, sindaco di Firenze uscente e aspirante rientrante, s’è imbucato al saggio musicale degli allievi di una scuola media e s’è messo a suonare il violino coi ragazzi che lo guardavano incuriositi. Che s’ha da fare per raccattare, o per perdere, qualche voto. Non riuscendo più a brillare di luce propria e non sapendo come si fa l’opposizione, questi disperati fanno come Zelig: rubacchiano un po’ di luce altrui, piazzandosi alle spalle di quello famoso e salutando con la manina a favore di telecamera. Imbarazzante il caso di Renzi: siccome non se lo fila più nessuno, tenta di usare Salvini come Gabriele Paolini usa gli inviati dei tg. L’altro giorno, su Repubblica, ha riattaccato la solfa delle fake news origine e causa di tutti i suoi mali, poi ha aggiunto un particolare che, nelle sue aspettative, doveva terremotare la campagna elettorale: “Affermo pubblicamente che Salvini ha utilizzato parte dei 49 milioni per creare La Bestia, lo strumento di disinformazione della Lega. Sono curioso di capire se sarò querelato”. Ma nessuno, tantomeno Salvini, se l’è filato di pezza. Allora lo stalker di Rignano ha cominciato a bombardare sui social: “In un’intervista ho detto che per me la Lega ha usato parte dei 49 milioni per creare la cosiddetta Bestia. Ho chiesto a Salvini: se non è vero, querelami. Ma con una strana argomentazione Salvini ha annunciato che non mi querela”. La strana argomentazione è che non ha tempo per occuparsi di lui. Il guaio è che non ha tempo nessuno, così ogni sera questo morto di fama abbaia alla luna strillando: “Non so se avete notato, ma ho affermato pubblicamente una cosaccia su Salvini, eppure lui non mi querela, ma vi rendete conto, ma si può?”. Purtroppo si può. E purtroppo nessuno l’ha notato.
Alla fiera dello stalker partecipa pure l’altro Matteo, Orfini, di cui s’erano perse le tracce da un pezzo. Non sapendo più come far parlare di sé, s’è imbucato nello scandalo della sanità umbra, che ha portato la governatrice Catiuscia Marini a dimettersi, poi a votare contro le proprie dimissioni in Consiglio regionale, poi a ricoverarsi in ospedale, poi ad annunciare “mi dimetto quando voglio”, poi a comunicare che si dimette di nuovo, ma “appena la mia salute me lo permetterà”, e a patto che il Consiglio regionale gliele accetti, cioè che lei stessa non faccia brutti scherzi e non se le respinga una seconda volta. Che c’entra Orfini in tutto ciò? Niente. Ma la Marini proviene, come lui, dalla corrente dei Giovani Turchi: tanto basta a Orfini per infilarsi nello scandalo altrui e guadagnarsi qualche titolo di giornale criticando Zingaretti per aver sollecitato le dimissioni della Marini e non di altri governatori Pd indagati, come il calabrese Oliverio. Nessuno ha capito se Orfini auspicasse le dimissioni di entrambi gli indagati o di nessuno dei due, visto che tutti lo ricordano nello studio di un notaio a estorcere firme ai consiglieri comunali di Roma per far fuori il sindaco Marino. Ma questi son dettagli. L’importante è che, almeno per un giorno, si riparla pure di Orfini. Che me farebbe un grattino alla schiena, sor Orfì?

 

Slurp. “Chiamparino contro gli haters. Sui social replica agli attacchi. Davanti al computer il presidente risponde agli insulti dei nemici e dei troll della rete. Ha argomenti per ogni tema: dal grattacielo incompiuto ai debiti della Città della salute” (Repubblica-Torino,12.5). Ricapitolando: sa usare addirittura il computer, conosce financo i social e ha argomenti per ogni tema: questo Chiamparino è proprio un portento, una forza della natura, un dono del Cielo. Strano che rischi di perdere con un forzista qualunque.

L’ossimoro. “La Lega adesso apre il fronte della Cultura: ‘Lagioia se ne vada’” (La Stampa, a proposito del direttore del Salone del Libro di Torino, 14.5). Pensavano che Lagioia fosse un allenatore di calcio: infatti la Juventus ha subito cacciato Allegri.

Ostie consacrate. “Come se fosse una Rai qualsiasi e non il tabernacolo della sicurezza nazionale, Palazzo Chigi piomba, annunciandone l’occupazione, sull’assetto di vertice dell’intero sistema della nostra intelligence… Un atto che non ha precedenti nella storia repubblicana” (Carlo Bonini, Repubblica, 15.5). In effetti, nessun governo ha mai nominato i vertici dei servizi segreti: sono 73 anni che stanno nel tabernacolo.

Il sovrano e i sovranisti. “Napolitano: ‘Votare per sconfiggere l’inganno degli anti-europeisti” (Giorgio Napolitano, intervista a Repubblica, 19.5). Mo’ me lo segno.

Il sesso dei treni. “La Tav non è il Tav ma una tratta femmina e materna” (Sergio Valzania, Il Dubbio, 15.5). Minchia, signora Valzania!

Il titolo della settimana/1. “Salvini, molla i grillocomunisti” (il Giornale, 15.5). Uahahahahah.

Il titolo della settimana/2. “Legnati a Legnano” (Repubblica, a proposito del sindaco leghista e dei due assessori forzisti arrestati, 18.5). Per fortuna nessun arresto a Chiavari, a Lecco e a Cazzago.

Il populismo clericale del Capitano e la tentazione della Dc di destra

Sono due le considerazioni di medio periodo sull’atteso discorso di Matteo Salvini sabato scorso a Milano, un testo intriso di cattolicesimo tradizionalista, con citazioni e invocazioni che includono la Madonna e De Gasperi e culminato con la scontata ostensione del Rosario tra le dita del Capitano.

Per prima cosa, il comizio salviniano segna la definitiva mutazione genetica di quel che restava della vecchia Lega. Ormai il suo è un partito non solo personale ma anche nazionalista e clericale. Evidentemente le dimensioni della prevista affermazione tra una settimana alle Europee, ossia il 30 per cento, spingono il ministro dell’Interno a dare un’identità precisa alla sua leadership sovranista alla guida di un partito di massa: non la vocazione liberale di Forza Italia ma la tentazione di una nuova Dc pigliatutto collocata a destra (un misto di Andreotti, Gedda e Scelba) come intuito dalla Nuova Bussola Quotidiana, sito online di tendenza anti-bergogliana.

Per farlo, e qui discende la seconda considerazione, ha dato appunto una torsione clericale al suo metodo populista. La frase chiave, sabato scorso, è stata questa, a proposito della xenofobia leghista: “Ditelo al vostro sacerdote, domani a Messa, che nel Mediterraneo ci sono meno morti e che stiamo salvando vite”.

È questo il passaggio che illumina più di tutti l’operazione salviniana, sublimata in piazza dai fischi che hanno accolto il nome di papa Francesco: radunare le minoranze cattoliche che si contrappongono al pontificato della misericordia di Bergoglio e cercare di ripetere lo stesso giochino dialettico fatto contro le élite politiche di Roma e di Bruxelles. Base, cioè, popolo dei fedeli, contro le gerarchie del Vaticano ispirate dai valori della solidarietà e dell’accoglienza.

Un disegno pieno di incognite. Sono pochissimi, innanzitutto, i vescovi italiani schierati sulle posizioni salviniane. E poi c’è l’uso strumentale della religione che può al contrario ricompattare i fedeli attorno al papa. Efficaci, in merito, le parole del gesuita padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, tra gli intellettuali più vicini a Francesco: “Adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici”.

A Napoli

Caro Leonardo Coen, oggi ti parlo di un albergo. Gente che va, che viene… La scrittrice Vichy Baum, nel suo Grand Hotel ci ha raccontato i misteri di uomini e donne, furfanti e femme fatale, che si muovevano tra stanze, hall e bar. Gli alberghi sono affascinanti, ma hanno anche la magia di parlare della loro storia. Di quello che erano prima, nelle vite precedenti. Al Golden Hotel, un tre stelle a pochi passi da via Toledo c’era un pezzo di storia della vita politica e civile napoletana, la sede della Federazione comunista. E io quelle stanze le conosco tutte, una per una, per antica e mai rinnegata frequentazione comunista. La hall è rimasta la stessa. In fondo c’era il bancone con i compagni della vigilanza, e poi l’ascensore che portava al primo e al secondo piano, nelle stanze dei funzionari e dei dirigenti. “Rivoluzionari di professione” si chiamavano, lavoravano per il Partito e percepivano (anche da deputati o senatori) lo stipendio di un metalmeccanico. C’erano uomini ormai passati dalla storia al mito come Andrea Geremicca, Carlo Fermariello (che fu anche attore in “Le mani sulla città” di Rosi). Nel salone dedicato a Mario Alicata (ora diventato un garage) c’era un teatro per le grandi riunioni. Se le mura potessero parlare ci racconterebbero gli scontri epici tra “miglioristi” e “ingraiani”. Amendola, Chiaromonte, Napolitano, Geremicca da un lato, Bassolino, Donise, e i giovani post sessantotto dall’altro. Fu Abdon Alinovi, nel 1956 segretario del Pci napoletano, a volere l’acquisto di quella sede prestigiosa. Nelle sue memorie, il dirigente scomparso da pochi anni, ha sempre narrato un episodio da leggenda. Si lanciò una sottoscrizione tra i militanti e la prima a versare tutti i suoi risparmi fu Emma Mancini, perseguitata dal fascismo e staffetta partigiana. 250mila lire. Emmarella faceva la camiciaia a Forcella. Altro che oro di Mosca, a Napoli i comunisti vivevano con l’oro di Forcella.

Contro Salvini

Milano la Resiliente, venerdì 17, vigilia uggiosa del raduno sovranista internazionale di piazza del Duomo. Eccomi a Città Studi, in piazzale Gorini. Al numero 20 penzola, da un balcone del primo piano, un sovversivo lenzuolo bianco. Vi campeggia infatti una scritta… rossa: “Prima le persone”. Dal balcone accanto (del numero 18), un altro lenzuolo spiega perché: “Piazzale Gorini resiste e si oppone a chi continua ad annegare le persone!”. Un fotografo del Giorno aspetta il possibile blitz della Digos. La settimana scorsa, sul ponte di Ripa di Porta Ticinese all’angolo con via Paoli, è comparso un murale molto provocatorio: mostrava un sorridente ministro degli Interni che manganella un dimostrante. “L’hanno subito vandalizzato i fasciocazzari”, dice l’autrice Cristina Donati Meyer, 34 anni. Si definisce “artivista”. E come tale ha preparato per il comizio salviniano di sabato 18 un altro murale, dalla parte opposta del ponte di Ripa di Porta Ticinese. Lo ha intitolato “il Capitano Schettino”: “È un mio omaggio”, ironizza Cristina, “l’arte pubblica non poteva non dargli il benvenuto, soprattutto alla luce della manifesta avversione leghista per striscioni e critiche”. Caro Enrico, in questa Italietta da brividi, finalmente si riaffaccia, dai centri alle periferie, un’opposizione multiforme, spesso spontanea, comunque sempre più diffusa, che si ribella alla galassia nera fascistoide del “Cazzaro Verde” e alla sua becera politica, con irriverenti striscioni o con murales grotteschi e sfottenti. L’ultima opera di Cristina mostra il capo del Viminale (dove va assai di rado) vestito da marinaretto, mentre idealmente pilota la nave Italia: “Ma la sta conducendo dritta sugli scogli, proprio come fece Schettino. Da quando, l’estate scorsa, ho cominciato ad attaccare Selfini, ho pagato lo scotto dei suoi seguaci, sono presa di mira da lui e di conseguenza dai suoi storditi discepoli… diciamo che dona parecchi spunti per essere l’oggetto di un’artista impegnata nel sociale. L’arte è lo strumento che ho per dissentire da questa società mistificata”.

Roma cinica silura il fedele De Rossi

Domanda da un milione di dollari: secondo voi c’è una persona, al mondo, che alla notizia dell’addio di Daniele De Rossi alla Roma sia corsa a stappare lo champagne ubriacandosi fino a notte fonda? La risposta è sì. Ma se pensate che si tratti di un nemico personale del capitano giallorosso, toglietevelo dalla testa. La sola persona al mondo felice per il fine corsa di De Rossi alla Roma è un collega calciatore, russo, di ruolo portiere, di anni 33: si chiama Igor Vladimirovic Akinfeev ed è il portiere che ha difeso la porta della Russia nell’ultimo mondiale, giocato ad alto livello: basti ricordare i rigori parati a Koke e Aspas negli ottavi vittoriosi contro la Spagna o quello parato a Kovacic nei quarti, non sufficiente, quest’ultimo, a qualificare la Russia alle semifinali.

Okay direte voi, ma che ci azzecca Akinfeev con De Rossi? C’entra moltissimo, e ve lo spieghiamo subito. Anche se pochi lo ricordano, il 27 aprile di un anno fa Capitan Futuro venne premiato dall’Uefa come “giocatore più fedele d’Europa” nella classifica dei calciatori in attività che in carriera hanno indossato per più stagioni una sola maglia. Era dai tempi di Cannavaro “Pallone d’Oro 2006” che un italiano non riceveva un riconoscimento dalle mani dell’Uefa. E il bello era che De Rossi, alla sua 17ª stagione con la Roma, il club che lo ha cresciuto fin da piccolo, riceveva idealmente il testimone da Francesco Totti, ritiratosi dall’attività – e dalla militanza nella Roma – addirittura dopo 25 stagioni, un quarto di secolo esatto. E insomma, nonostante nel “Pianeta Pallone” la sola religione conosciuta sia quella del Dio Denaro, questo primato di fedeltà a una maglia, a un amore giovanile, a un sentimento, primato tutto italiano, anzi, tutto romano, era parso a noi degno di nota.

Nella motivazione, l’Uefa aveva voluto riportare le parole che proprio De Rossi aveva rilasciato ai suoi microfoni a inizio stagione: “Il rapporto con il club inizia quando sei ragazzino – aveva detto Daniele – e per me questo è sempre stato la Roma. Poi è diventato il mio lavoro, ma il grande amore per la squadra è rimasto ancora lì. Ho iniziato a sostenere la Roma da ragazzo e la mia personalità mi ha portato a sostenere il club con tanto fervore. Anche mio padre ha lavorato e sostenuto la Roma, ma non in modo fanatico come me”.

È andato avanti ancora, dal giorno del premio, Daniele; portando a 18 il numero delle stagioni e a 458 le partite giocate, fino all’annuncio, dolorosissimo, della settimana scorsa. “La Roma mi ha comunicato che non le servo più: giocherò ancora, ma non potrò più continuare a farlo qui”. Alzi la mano chi non si sia commosso, non abbia provato un profondo, lancinante dispiacere. Forse, mentre si accingeva a stappare lo champagne, avrà faticato a tenere a bada un po’ di tristezza anche Igor Vladimirovic Akinfeev, il 33enne portiere russo nato, cresciuto e affermatosi nel CSKA Mosca, 16 stagioni e 410 partite, ad oggi, con la maglia del suo unico club. Akinfeev, anche lui un campione, nella classifica dei giocatori più fedeli d’Europa era secondo: da agosto diventerà primo. Perchè Capitan Futuro continuerà a giocare, sì, ma non potrà più farlo con la maglia della Roma. Peccato. Quel premio era un “made in Italy” di cui sarebbe stato importante sentirsi fieri. Qualcuno non l’ha capito.

Alle periferie servono leader locali, non selfie e telecamere

N

elle ultime settimane due sono stati i momenti fondamentali di un (primo?) singulto di riscossa antifascista: la cacciata di un editore vicino a Casa Pound dal Salone del Libro di Torino, e la reazione della sinistra politica ma soprattutto associazionistica alla strumentalizzazione, da parte di Casa Pound, dell’assegnazione a Casal Bruciato (Roma) di un alloggio popolare a una famiglia rom. C’è voluta Casa Pound per costringerci a parlare di periferie, della necessità di una presenza.

Nel leggere con approvazione l’unifonia dei proclami sulla necessità che la sinistra torni nelle periferie, che le strappi a Casa Pound e a chi, come la Lega di Matteo Salvini, alimenta la xenofobia e la guerra tra poveri, colpisce l’estetica di questa narrazione. Da Matteo Orfini a Stefano Fassina, fino ai proclami di Nicola Zingaretti sulla necessità di riaprire la sede del Pd a Casal Bruciato –perché l’avevano chiusa? – l’estetica era quella di una “discesa”, di un “arrivo”, persino di una “conquista” da fuori, da un altrove non solo geografico ma ideale: il politico e persino il militante va in una periferia a cui non appartiene a spiegare agli indigeni che no, non bisogna farsi la guerra tra poveri, che Casa Pound, Lega e compagnia fascisteggiante li stanno ingannando. Ci va magari con le Clarks, spesso con i microfoni, con lo smartphone, e dall’azione antifascista ricava un selfie, una dichiarazione, un’immagine che va ad alimentare sui social un discorso pubblico che rimane sempre nazionale, planetario, intergalattico, e non è mai veramente locale. O meglio, se è locale lo è sempre in modo subordinato a una sfera pubblica più ampia: finita la puntata in periferia, ottenuto il risultato, si guarda il telefonino e si leggono le reazioni nell’unica vera “realtà” del discorso pubblico, su uno schermo.

Un discorso diverso va fatto per il mondo dell’associazionismo, del mutualismo, di una militanza più tematica e terra a terra, a cui davvero deve andare il credito di queste parziali vittorie. Ma, anche in quel caso, l’estetica rimane quella di una “discesa”, di un “arrivo”, da quartieri e mondi diversi, in un altrove: le associazioni e i militanti vengono per lo più da fuori, perché la forza –organizzativa e ideale – di una mobilitazione locale, spontanea, in queste periferie non c’è. Il problema è doppio: c’è quello dell’assenza della sinistra da queste periferie e quello dell’assenza di una sinistra di queste periferie, in queste periferie.

In un saggio del 1960 dal titolo Omaggio a Tom Maguire, il più grande storico del movimento operaio, E. P Thompson, autore del monumentale The Making of the English Working Class, notava una certa presbiopia nella storiografia sull’emergere del movimento laburista britannico alla fine dell’ ‘800: se il livello “nazionale” era ben servito dagli storici, c’era al contempo “una visione curiosamente distorta di quanto accadeva nelle province. Gli eventi delle province sono visti come inspiegabili sommovimenti spontanei nella periferia della scena nazionale, da un lato ci sono i movimenti di massa che crescono in modo cieco e spontaneo a causa di pressioni economiche e sociali; dall’altro, ci sono i leader e i manipolatori che canalizzano queste forze elementari”.

Contro questa narrazione Thompson metteva a fuoco il locale, la centralità dell’azione autonoma della “periferia”, nel lavoro di una generazione di giovani leader socialisti dal e del popolo che emersero nella distopia industriale del nord dell’Inghilterra e, loro sì, crearono il Partito Laburista Indipendente, tra la loro gente. L’eroe del saggio di Thompson, Tom Maguire, aiuto fotografo, più spesso disoccupato, tra Leeds e Bradford, morì nel 1895 a trent’anni, ma in dodici di militanza riuscì a creare un movimento socialista e laburista locale di massa in modo pressoché indipendente dal “centro”: la forza della sua leadership era proprio nell’essere periferico, nel non venire da un altrove, geografico e socioeconomico. In parole che potrebbero essere scritte ieri, Maguire ironizzava su un certo stile politico: “Alcuni di noi pensavano che si potesse concentrare l’azione sulla nostra località. Altri erano fortemente dell’opinione che il nostro ideale fosse troppo limitato e proponevano come oggetto della nostra organizzazione l’internazionalizzazione del mondo noto e ancora ignoto, in vista di una eventuale intersolarizzazione dei pianeti. Ignoravano interamente il locale, al quale, per lo più, erano estranei”.

Per Thompson, la chiave di volta fu non la presenza di leader “centrali” nella periferia, ma l’emergere di una leadership periferica – di tanti Tom Maguire – dal popolo e per il popolo. Figure nazionali come Keir Hardie e William Morris furono ispiratrici, ma il salto di qualità fu la nascita di questa leadership locale, popolare, che “apparteneva”.

Oggi, in un’epoca di scontento e di ribellione contro le élite, la composizione sociale prevalente –borghesissima! – della leadership e anche della militanza di sinistra è il problema più pressante e insormontabile. Per questa leadership e questa militanza, forse, la strada non è tanto convincere con la propria presenza queste periferie a votare sinistra – non funzionerà – ma piuttosto facilitare l’emergere di una nuova leadership locale, popolare, che davvero vi appartenga.

Due viadotti del Veneto nell’inchiesta Autostrade

Il complotto. “Caccia giudiziaria al leghista. Il ‘capitano’: ‘Siamo sotto attacco, vogliono impedirci di vincere’” (Libero, 17.5). “Il leader del Carroccio vede ‘nemici potenti’ nelle cancellerie europee” (Corriere della sera, 17.5). E provare a rubare un po’ meno?

Mamma li pm! “No a un governo ostaggio delle toghe” (Massimiliano Romeo, capogruppo Lega al Senato, La Verità, 13.5). Paura, eh?

La buona strada. “Berlusconi: Matteo sulla buona strada per tornare da noi” (Corriere della sera, 18.5). Ancora una dozzina di arresti, ed è fatta.

Populisti democratici. “Pd: uno stipendio in più per 20 milioni di italiani, costo 15 miliardi di euro. E 50 miliardi di investimenti” (Repubblica, 16.5). Zingaretti deve aver vinto al Superenalotto.

Colpa di Virginia. “De Rossi, l’addio del gladiatore nella città che perde i simboli” (Repubblica, 15.5). Te pareva che era colpa della Raggi.

Canti orfinici. “L’idea di una maggioranza senza Grillo è impensabile. Non so se qualcuno lo pensa, nel Pd, ma io sono contrario. L’idea di un governo Pd-Pdl, anche con la lista Monti, non esiste in natura” (Matteo Orfini, Pd, due mesi prima che il Pd facesse il governo col Pdl, 26.2.2013). “Un governo Pd-Pdl è inimmaginabile” (Orfini, un mese prima che il Pd facesse il governo col Pdl, 27.3.2013). Ora parla Orfini: ‘Mai coi grillini’” (Il Dubbio, 15.5.2018). Resta da capire che cosa intenda Orfini per “mai”.

L’orrenda accusa. “Famiglia, Lepri (Pd) accusa il M5S: ‘Di Maio presenta la nostra proposta del 2018’. Il decreto Famiglia del ministro pentastellato prevede l’elargizione di un assegno per le famiglie con figli, proprio come l’analogo progetto dem” (Repubblica.it, 18.5). Fanno quello che abbiamo promesso e non abbiamo fatto: vergogna.

Sana autocritica. “Non dovete lasciare il Piemonte a chi ha rovinato il Paese” (Nicola Zingaretti, segretario Pd, Corriere della Sera-Torino, 13.5). Il primo caso di segretario di partito che chiede di non votare per il suo partito.

Il cacciatore. “Chiamparino, caccia ai voti dei grillini per battere la Lega” (La Stampa, 14.5). “Con Chiamparino contro la Lega: la tentazione dei 5S. Tra i grillini si fa strada l’idea del voto disgiunto: indicare il governatore Pd per fermare il centrodestra” (Repubblica, 19.5). Con la quale marciava fino a un mese scorso per il Tav contro i grillini.

Segue a pagina 13

La Meloni nella piazza disertata dal Carroccio: “Forza Italia è inutile”

Da quella piazza Matteotti dalla quale è scappato nei giorni scorsi Matteo Salvini, una piazza di Napoli caratterizzata dall’architettura del ventennio, Giorgia Meloni prova a erodere al leghista i consensi della destra sovranista, chiude a Silvio Berlusconi e auspica dopo le europee un nuovo governo Lega-Fdi. Senza Forza Italia. “Salvini, avevi promesso che avremmo sconfitto la sinistra, non che l’avremmo tenuta al governo per cinque anni: molla la sinistra dei Cinque Stelle e torna con la destra di Fratelli d’Italia”, urla Meloni tra gli applausi. Bocciata la proposta Berlusconi di un esecutivo Draghi: “I voti di Fdi per un nuovo governo Monti non ci saranno mai”. Il centrodestra unito si allontana. Meloni riserva ai berlusconiani lo stesso veleno che in altri passaggi riserva a Matteo Renzi e a Luigi Di Maio. “Votare per Tajani significa votare per Merkel e Juncker, mentre quello che vogliamo andare a fare noi in Europa è andare a dire in faccia a questa gente, come la Merkel e Juncker, che è uno schifo come hanno governato le istituzioni europee”. Tajani replica: “Meloni cerca di dividere il centrodestra per arrivare al 4%”.

Bomba contro mezzo turistico: 17 i feriti

Attacco a un bus di turisti in Egitto vicino alle piramidi. Una bomba è esplosa al passaggio di un autobus di visitatori sudafricani nei pressi del cantiere del Grande museo egizio di Giza, alla periferia del Cairo, provocando 17 feriti, tutti sudafricani ed egiziani. A essere investiti dallo scoppio, infatti, sono stati tanto il bus, su cui viaggiavano 25 turisti sudafricani, quanto un’auto, a bordo della quale si trovavano quattro egiziani. Si tratta di feriti lievi, perlopiù perché colpiti da schegge di vetro dei finestrini.