Questa non è una pandemia. È Richard Horton, l’editore di una delle più prestigiose riviste mediche al mondo, a dirlo: “Covid-19 is not a pandemic”. Si tratta piuttosto di una “sindemia”, una malattia causata dalle disuguaglianze sociali e dalla crisi ecologica intesa nel senso più ampio. (…) Se non cambiamo il nostro modello economico, sociale e politico, se continuiamo a trattare il virus come un evento biologico rispetto al quale dovremmo limitarci a “bloccare il flusso”, gli incidenti sanitari continueranno ad aumentare. (…)
Se non stiamo vivendo una pandemia, d’altra parte stiamo vivendo in Pandemia. Siccome questo non è il termine giusto per descrivere il modo in cui il virus si manifesta, proponiamo che, con la lettera maiuscola, questa parola, o piuttosto questo nome, indichi un nuovo continente mentale, che è partito dall’Asia per ricoprire l’Europa, per poi finalmente imporsi in America. (…) Un continente in cui i nostri leader ci dicono che dovremo cambiare tutte le nostre abitudini di vita e dove ci viene detto che dovremo adottare una nuova “cultura” che verrebbe dall’Asia. Un continente, insomma, nel quale “la pandemia” non è più oggetto di discussione nelle nostre democrazie, ma dove la democrazia stessa, in Pandemia, diventa un oggetto discutibile. (…) La nostra ipotesi è che questa inversione non sia così brutale come sembra. Da diversi anni si sta preparando in silenzio ed è dovuta probabilmente ad un nuovo stato del mondo. Per una buona parte delle classi dirigenti, che hanno assistito con orrore all’ascesa di Donald Trump e Boris Johnson, ma anche al risveglio delle rivolte popolari un po’ ovunque nel mondo, il modello non si deve più cercare in Occidente, ma in Oriente. Sono stati i leader cinesi ad esplorare per primi questo nuovo continente mentale, con il suo linguaggio, le sue norme e il suo immaginario. Sono dunque loro che hanno tutto da insegnarci, mentre gli Americani e i loro cugini britannici non hanno visto arrivare nulla. In Pandemia, ormai è la Cina che domina. Non più solo economicamente, ma anche moralmente, culturalmente e politicamente. (…) Curiosa valutazione della situazione. Il Paese, che per anni ha permesso a nuovi virus di moltiplicarsi nei suoi mercati umidi, che pretende di risolvere le questioni sanitarie industrializzando l’allevamento agricolo, che ha appena permesso all’ultimo virus registrato di diffondersi nel mondo, che ha liquidato i suoi informatori a Wuhan, che ha nascosto all’OMS migliaia di morti e che, con il modello di confinamento, ha distrutto economicamente la vita di milioni di individui e la loro salute fisica e mentale, viene citato su France Culture come esempio della sua gestione della crisi e del suo senso della salute pubblica, senza che nessuno reagisca.
Come si è arrivati a questo? (…) Questa crisi ci rivela che la visione provvidenziale di Tocqueville in La democrazia in America, che fu insegnata per molto tempo all’École nationale d’administration e nelle scuole di giornalismo, è stata definitivamente smentita. No, la democrazia che egli credeva fosse emersa in America due secoli prima non era destinata a diffondersi in tutto il mondo. Per gli ex adoratori di Tocqueville è vero il contrario. Per molto tempo, hanno condiviso naturalmente le preoccupazioni del loro maestro riguardo a una “tirannia della maggioranza” che avrebbe accompagnato la democrazia come la sua ombra. Come lui, hanno pensato che una democrazia addomesticata dalle classi dirigenti fosse l’unica via d’uscita da opporre al pericoloso potere delle masse e che, a questo titolo, s’imponesse come il senso della storia. Questa narrazione tocquevilliana, trionfata con la caduta del muro di Berlino, non è più la loro. Trent’anni più tardi e in Pandemia, la democrazia è ormai squalificata come una sopravvivenza pericolosa, alla quale dovremmo essere pronti a rinunciare. (…) Non avremmo assolutamente più il tempo per discutere o deliberare. Saremmo in guerra, e d’altronde siamo in “stato di emergenza”. Tutto quello che dobbiamo fare è accettare, senza discutere, la sospensione di tutte le nostre attività ritenute troppo rischiose. Il diritto di contestare le decisioni politiche e di mettere in dubbio la validità di una norma, il diritto di andare e venire a proprio piacimento nello spazio pubblico, il diritto di manifestare la propria opinione per strada: tutti questi diritti imprescindibili sono diventati “inconvenienti”, al limite della legalità, e vengono gradualmente sospesi. (…)
Questo mondo di Pandemia, dove il potere elimina la democrazia sottomettendo la scienza alla propria agenda, è “il mondo di dopo”? Nessuno lo sa, e, per il momento, è solo il mondo sognato da alcuni. Ma è già ampiamente realizzato dalla Cina: “Il mondo di dopo è un mondo disinfettato ma inquinato, è il mondo di prima ma in peggio. Più igienico. Più eugenetico. Esangue. (…) Un’umanità sana, silenziosa, in cui le emozioni sono censurate, centrata sull’amnesia del leader. Il suo dogma. Le sue insonnie (da guerriero). Cresciuta nell’odio della dissonanza. E l’amore per la candeggina” (Alexander Labruffe, Un hiver à Wuhan, ndr). Solo che il seguito della storia non appartiene né alla Cina né ai suoi ammiratori, e del resto non appartiene a nessuno. Poiché non c’è un finale della storia già scritto, l’esito dipenderà anche dalla nostra disponibilità a difendere o a seppellire la democrazia. Non come un regno di ripiego difensivo sui diritti individuali, ma come un regime ridefinito dall’intensificazione della vita sociale, dalla riappropriazione degli spazi pubblici e dalla partecipazione di tutti alla scienza e alla conoscenza, in particolare nel campo del futuro della vita e dei viventi. Nel prendere oggi la parola, la convinzione che ci anima è che, piuttosto che rimanere in silenzio per paura di aggiungere polemiche alla confusione, il dovere degli ambienti accademici e universitari è di rendere di nuovo possibile la discussione scientifica e di aprirla allo spazio pubblico, l’unica via per ricostruire un legame di fiducia tra la conoscenza e i cittadini, essenziale per la sopravvivenza delle nostre democrazie. La strategia dell’omertà non è quella giusta. Al contrario, siamo convinti che il destino della democrazia dipenderà in gran parte dalle forze di resistenza del mondo scientifico e dalla loro capacità di farsi ascoltare nei dibattiti politici cruciali che dovranno essere condotti nei mesi e negli anni a venire sulla salute e sul futuro della vita.