Ma, insomma, sono fascisti o no? Dopo l’assalto di sabato scorso alla sede della Cgil di Roma si è riacceso il dibattito, dentro e fuori il mondo degli storici, sull’opportunità o meno di utilizzare la categoria “fascismo” per definire quegli scontri e, più in generale, per inquadrare le derive violente registrate nelle piazze degli ultimi tempi.
Per alcuni storici l’utilizzo della definizione “fascismo” rischia di svuotare di senso un’etichetta che in storiografia è ascrivibile a un ben determinato fenomeno storico che segue la parabola politica e umana del suo fondatore, Benito Mussolini. Altri, invece, riconoscono alla parola una forza di richiamo e una capacità evocativa tale da poter costruire legittimamente dei paralleli tra il fenomeno passato e l’attualità dell’azione politica di determinate forze.
La questione è aperta, anche se, a ben vedere, la si potrebbe risolvere con un briciolo di pragmatismo. Basterebbe chiedere loro. Basterebbe andare dagli arrestati, da chi marcia tronfio in piazza a braccio teso, e chiedere loro, se sono, se si sentono, fascisti. La risposta – tolto il comprensibile tentativo di mimetizzare un’ammissione che nel nostro Paese potrebbe configurare gli estremi di un reato – sarebbe con ogni probabilità un “Sì”. Sì, sono fascisti. Con tanto di busto di Lui sulla scrivania e tatuaggio recitante “Me ne frego!” e altre varie amenità. Che credono che il duce abbia fatto buone cose, che ci vorrebbe uno come lui anche oggi, a ripulire le strade e il Parlamento, a cacciare i comunisti (!) e dare all’Italia quell’onore che sembra le sia perennemente negato.
Probabilmente è questo il punto centrale della questione: al di là delle interessanti e a loro modo necessarie discussioni sulla denominazione da dare a questi gruppi, varrebbe la pena, e anche in fretta, affrontare la questione, prendendo atto del fatto che una parte rumorosa di quella piazza chiama se stessa fascista e, del fascismo, non solo crede di conoscere la storia ma tenta anche di applicarne le tecniche. Il modello applicato negli scontri di sabato – sempre prescindendo dalla correttezza formale della denominazione – è difatti fascista, e al fascismo vuole richiamarsi. Non ha altra spiegazione l’assalto alla sede della Cgil, se non quella di essere un fortissimo richiamo simbolico a uno squadrismo ormai centenario. E non ha altro esempio storico, se non quello Ventennale, l’abuso di bandiere, simboli patrii e linguaggi farciti di onore, potenza, violenza e nazione. E, oltre alle azioni e ai linguaggi, si diceva, sono fasciste le tecniche: come il tentativo, in gran parte riuscito, di intestarsi una manifestazione di dissenso autorizzata, per trasformarla in una massa di manovra inconsapevole per la guerriglia di piazza (una tattica che rimanda drammaticamente non solo allo squadrismo anni Venti, ma anche alle violenze di strada degli anni Settanta).
È proprio nell’intestazione della piazza che sta, probabilmente, il più interessante tra gli agganci col passato dei fatti di Roma. Le immagini degli uffici devastati trasmesse da tutti i telegiornali mostravano un gruppo di violenti particolare: organizzati, inquadrati e con un’età media piuttosto elevata per quel tipo di attività. Niente a che fare con presunti rappresentanti di una “rabbia cieca e spontanea”, ma quasi tutti tra i quaranta e i cinquant’anni, per lo più già conosciuti negli ambienti di polizia, e con ingombranti “carriere” di violenti alle spalle (o quasi). Insomma, dei professionisti dello scontro. Pochi, in realtà. La cui vera forza è stata la capacità di mettersi alla testa di una folla di persone che manifestava in molti modi, per lo più pacifici, il proprio dissenso.
Quella di sabato, in effetti, era una piazza particolare, priva cioè di un vero e proprio intento politico, inteso nel senso più complesso, si direbbe novecentesco, del termine. Scontenti, arrabbiati, accomunati solo dalla propria stessa rabbia. No vax accanto a No Green pass accanto a persone che in vari modi esprimono il loro dissenso a scelte di cui non comprendono l’utilità, insieme ad antiscientisti e complottari; gente del “a me tanto non capita” insieme a difensori della libertà del singolo ad ogni costo. Riuniti tutti insieme, grazie al tam-tam social, all’uso innovativo della tecnologia che in breve tempo riesce a surriscaldare gli animi e a trascinare la gente in piazza per rendere visibile il malcontento senza nemmeno aver bisogno di fare sintesi.
Un gruppo di individui singoli, ognuno rappresentante se stesso e le proprie ragioni, anzi, le proprie emozioni. Difficile parlare di destra o sinistra in un contesto così variegato e, soprattutto, privo di riferimenti riconoscibili. Una folla emozionale, come la definirebbero alcuni sociologi, che scesa in piazza cade facile preda di chi nelle piazze ci sguazza da un sacco di tempo. L’aspetto più preoccupante del fenomeno di sabato è proprio la facilità con cui personaggi come Giuliano Castellino siano riusciti a prendere voce e a dare voce a questo malcontento, salendo su un palco e aizzando una folla che i fascisti di oggi da soli non sarebbero mai riusciti a raccogliere.
Questa operazione è purtroppo riuscita proprio per la struttura stessa dei due fenomeni. La natura raccogliticcia e variegata dei molti scesi in piazza ha permesso a chi aveva un’identità e un vocabolario politico forte di identificare con i propri argomenti l’intera massa di persone intervenute a Roma. Nel secolo scorso, i movimenti di piazza avevano quasi sempre connotazioni politiche più solide e chiare: chi partecipava alle manifestazioni negli anni Sessanta, Settanta e fino agli anni Duemila aveva la ragionevole sicurezza di essere circondato da persone che, per la maggior parte, avevano le stesse idee e convinzioni, o almeno le stesse ragioni per essere lì. Erano folle politiche quelle che venivano richiamate da partiti e movimenti. Politiche perché consapevoli di essere strumento di lotta e quindi più difficilmente manipolabili da agenti esterni. Piazze che venivano dotate di slogan unitari, di leader riconosciuti; piazze che avevano servizi d’ordine contro i violenti e i provocatori.
Quella di sabato era invece una folla pre-politica, fatta di persone che spesso erano lì per rappresentare solo se stessi. Tra i molti gruppi che hanno tentato di mettere il cappello su quella manifestazione hanno vinto, almeno a livello mediatico, quelli abituati da più tempo ai cortei, quelli con le idee più chiare, con uno scopo definito, anche se questo scopo era diverso da quello dei più. Hanno vinto i fascisti, che hanno saputo, come un secolo fa, cavalcare sentimenti senza nome. E il problema è che, anche volendo – e finora pare che in molti non abbiano voluto – il resto della folla di sabato non potrà smentire questa affiliazione, perché non vi sono leader che possano parlare a nome di tutti, se non quelli che sono riusciti a rubare palco e scena. I fascisti, o, se preferite, i sé-dicenti fascisti, hanno compiuto un’azione di appropriazione degna delle squadracce di inizio Novecento, dimostrando di esserci, attivi e agguerriti. E di essere molto più consapevoli di altri della propria forza e della propria storia.
Verrebbe da dire, parafrasando amaramente un bel film, che “quando una folla prepolitica ed emotiva incontra un gruppo di fascisti, la folla prepolitica ed emotiva è una folla fascista”. E questo indipendentemente da come, da fuori, la si voglia definire.