“Le mie battaglie a sangue caldo”

Bizhan Bassiri non se ne è andato dall’Iran per motivi politici. Non rimpiange la Roma degli anni 70 che pullulava di amici artisti e poi “si è svuotata di colpo”. Non ha nostalgia della patria perduta dalla quale è mancato per quasi mezzo secolo – 40 anni per l’esattezza – e non ha mai coltivato questo sentimento “superficiale”.

Figlio della borghesia iraniana (padre pediatra), Bizhan Bassiri è arrivato in Italia nel 1975 perché non poteva concepire altro luogo dove fare arte. È stato allievo tra l’altro di Toti Scialoja (“Non insegnava niente se non quello che mi serviva: un modo di pensare”). Non è andato a Parigi, Londra e New York e se lo avesse fatto non avrebbe avuto l’incontro tellurico in cui ha trovato se stesso come artista ed elaborato il manifesto del “pensiero magmatico”. Poiché il magma, in senso vulcanico del termine, non esiste in quelle metropoli. Parigi, Londra e New York non hanno un vulcano. Allora frequentava l’accademia di Belle Arti di Roma, racconta al Fatto, ed è andato ospite di un compagno di studi a Torre del Greco. È salito sul Vesuvio, ha guardato nel cratere ed è stata “l’illuminazione”. La notte quasi non ha potuto dormire e il giorno dopo è salito con un lenzuolo per avvolgersi dentro e farsi fare fotografie in bianco e nero. Poi ha capito tutto. Cioè ha capito l’importanza di quell’incontro con la materia allo stato fluido e incandescente.

In linea con questa metafisica rocciosa il curriculum del vulcanico Bassiri inizia con i suoi ultimi lavori: due personali del 2019 a Teheran (Road e Nottambulo) e una alla Biennale di Venezia (Meteorite Narvalo). Oggi invece si inaugura la Fondazione Bassiri, nata per valorizzare e dare continuità alla propria opera: “L’opera degli artisti che non hanno creato una struttura rischia di spegnersi”, dice. “Finisce tutto in mano, chessò, a un sorella che ti odia per motivi che hanno a che fare con la psicoanalisi ed è un disastro”.

La Fondazione si trova in via della Osteriaccia a Fabro, Umbria, nome anche questo tellurico. “Un luogo pazzesco. Un amico mi ha invitato a vederlo perché era abbandonato e in vendita. Il caso ha costruito per me una coincidenza esatta”. Alle 18.30 nella vicina Città di Pieve si inaugurerà poi l’installazione di Bassiri Dimora della Sorte, a cura di Bruno Corà, nel museo del Duomo, dove ci sono tele del Perugino.

Tra le attività della Fondazione Bassiri, c’è quella della casa editrice Fb. Le 32 enigmatiche sculture intitolate Erme, sono il primo lascito. Elaborato nei primi anni 80, ma evoluto con l’autore, il “manifesto del pensiero magmatico” non è nato per creare un movimento artistico “Non credo ai movimenti, ti fanno perdere l’individualità”. Alcuni dei 58 punti: “Le battaglie vanno affrontate a sangue caldo: così le ferite guariscono senza dolore”; “Tapesh è il battito del cuore quando l’emozione prevale sulla ragione e genera la visione”. Tapesh, la Riserva aurea del pensiero magmatico si intitolava l’intervento di Bassiri alla Biennale di Venezia: un passaggio significativo nella vita di questo scultore che ha lavorato con cartapesta, metalli e vulcaniche aggregazioni come “zolfo, nero fumo e bianco titanio”. Altri titoli ctonii di esposizioni: La Caduta delle Meteoriti nelle ore vitali che anticipano la visione (a Gand e Firenze) ed Eventi Tellurici a Sarajevo.

Fondazione e atelier Bassiri Si inaugura oggi a Fabro, in Umbria

“Ariaferma”: la prigione non è solo quella del carcere

Bloccare l’aria dentro quattro pareti, frenare il respiro, sospendere il senso della vita. Il carcere può dare quest’effetto e addirittura peggiorarlo quando chi lo abita – detenuti e guardie – galleggia nell’attesa di sapere se, dove e quando avverrà un annunciato trasferimento.

Quell’aria, allora, diviene tremendamente soffocante, inabitabile come l’edificio solitario e decadente nel cuore di un’isola rocciosa. E l’unica speranza di sopravvivere invoca l’umano che resta in quei corpi, appesi e impotenti.

Ariaferma è il titolo perfetto come il film che lo denomina, esemplare racconto d’interni forzati, presto assurto a simbolo di ogni prigionia, dunque oltre quella giudiziaria. Cinema carcerario ma non solo, il terzo lungometraggio di finzione di Leonardo Di Costanzo meritava di concorrere alla Mostra di Venezia 78, è finito fuori concorso per sovraccarico tricolore, ma nulla toglie alla densità etica ed estetica di quest’opera espansa a dispetto della sua ambientazione narrativa.

Del resto, il cineasta ischitano ci ha abituati alle unità spaziali, dalla grotta de L’intervallo (2012) al cortile de L’intrusa. Anche l’antica fortezza destinata alla detenzione di Ariaferma non solo segue questa regola auto-determinata – che ormai ha il sapore di cifra stilistica –, ma ne intensifica la tensione drammaturgica, accompagnando il consesso dei suoi abitanti in un vortice kafkiano, un dramma claustrale fuori dal tempo pervaso dalle suggestioni che lo avvicinano al thriller psicologico, all’horror dell’anima.

Scritto e diretto con la purezza del mestiere, il film è popolato di una coralità d’interpreti eccezionali guidati dal duo partenopeo Toni Servillo-Silvio Orlando, l’uno a capo della polizia carceraria, l’altro leader carismatico dei prigionieri: sono l’uno il rovescio della medaglia dell’altro, dalle loro decisioni discendono i gesti dei compagni, dalle loro parole dipendono i muri dentro le mura: abbatterli o edificarne di più resistenti, quelli dello spirito. Luci e ombre, urla e silenzi, vita e morte. Tutto si tiene in Ariaferma, film visionario, intelligente e necessario a comprendere certe disfunzioni “istituzionali”. In sala, da non perdere.

“L’Arminuta”, dal Campiello al campo lungo

Che succede alla felicità quando perdiamo le persone da cui dipende? A una figlia quando scopre di avere due madri (o nessuna)? Alla “ritornata” quando le si nega persino il nome?

Interrogativi già esplorati su carta, nel fortunato romanzo Premio Campiello 2017 di Donatella Di Pietrantonio, e ora affidati al grande schermo: L’Arminuta è il terzo film di Giuseppe Bonito, dopo Pulce non c’è (2012) e Figli (2020, script di Mattia Torre). Unico italiano nella Selezione ufficiale della XVI Festa di Roma, dal 21 ottobre in sala, ci trasporta nell’estate del 1975, allorché una tredicenne (Sofia Fiore) viene restituita alla famiglia cui ignorava di appartenere: dal mare all’entroterra, dalla borghesia alla povertà, dalla modernità all’arcaicità, dall’essere figlia unica a cinque tra fratelli e sorelle, il cambiamento è brutale, l’avventura lunare, ma l’Arminuta non sarà satellite, non vivrà di luce (e oscurità) riflessa, bensì baratterà appartenenza con esistenza, destino con libertà, anonimato con coscienza. Forse.

Sceneggiatura della stessa Di Pietrantonio con Monica Zapelli, la bontà della trasformazione sta nel casting: la protagonista Sofia Fiore e Carlotta De Leonardis per Adriana sono indovinate, ancor più negli sguardi che nelle parole; il padre Fabrizio Ferracane e l’Adalgisa Elena Lietti sanno con poche pose evocare il passato e indicare il futuro; discorso a parte merita Vanessa Scalera, che non da oggi è – riduttivo – tra le migliori interpreti nazionali, naturalmente tragica, ineluttabilmente empatica, sempre risonante. Nel nero di una madre con le calzette al ginocchio, la miseria per compagna e la meschinità per ospite, Scalera spalanca un avvenire listato a lutto, condizionato dall’altrui volere, pregiudicato da una cattiva stella: il rosso dei capelli dell’Arminuta è contrappasso mobile, contrappunto sensibile e, chissà, convergenza parallela. Intenzionalmente Bonito accetta l’alterità, ovvero dualità e antinomia, quale dato di partenza per lavorare altrove e altrimenti, alla sintesi degli opposti: se si può dire di una fotografia, quella di Alfredo Betrò è piccolo borghese, senza stigma, simbolicamente e realisticamente mediana tra la borghesia di partenza e il proletariato di destinazione, e così l’intero film, che nella medietà trova la propria virtù, evitando frenesie e sciatterie. È nei fatti una regia a misura di Arminuta, che allo straordinario, e ce ne sarebbe, preferisce il quotidiano, la terra mezzana e mezzadra, la società per, altrui, azioni. L’assolo è governato (se non messo in sordina), la partitura sinfonica (musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, suggestive ma a tratti invasive), il precipitato partecipato: non riflettiamo sulla traiettoria del singolo, ma sulla responsabilità collettiva, chiedendoci per questa “ritornata” da e a chi, perché e per dove. Sono a pensarci gli stessi interrogativi del nostro stare al mondo.

 

Che storia, la pastasciutta. Gli spaghetti al sugo in mostra

Nacquero come una variante del pane, ma gli antichi non gli conferivano la dignità di un pasto autonomo. Per millenni sono stati concepiti in bianco, col formaggio, la salsa magica è dilagata solo nell’800. Poi si sa come è andata. Oggi rappresentano il nostro marchio identitario più forte, l’ammiraglia della dieta mediterranea, il passepartout globale dell’italian food, in centinaia di formati e migliaia di ricette regionali. E ora una mostra celebra la Storia illustrata degli spaghetti al pomodoro: dove allestirla se non a Forlimpopoli (Forlì-Cesena), nella città, anzi, proprio nella casa natale di Pellegrino Artusi, il sommo gastronomo autore de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene? A marzo ne è stato celebrato il centenario dalla morte: tra l’altro, il padre dell’arte culinaria nazionale fu il primo a inserire ben dieci ricette “alla meridionale” per condire la pasta. Muovendo da un intruglio alchemico di cipolla, aglio, sedano, basilico, prezzemolo, olio, sale e pepe.

Allora la pastasciutta veniva liquidata come una specialità locale napoletana: quanta acqua di cottura è passata sotto i ponti. L’inaugurazione dell’evento espositivo è prevista per oggi; il finissage il 22 novembre. Sempre a proposito di ricorrenze: il 25 ottobre è la “Giornata mondiale della pasta”, ormai associata al rosso, con una spruzzata di parmigiano. Insieme alla pizza, è il più potente antidepressivo naturale, economico e nemmeno troppo calorico.

La mostra, a cura del libraio antiquario milanese Andrea Tomasetig, prende le mosse dal saggio di Laterza Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro, scritto da Massimo Montanari, docente e storico dell’alimentazione. Cento pagine erudite, salate il giusto, sulla saga e sulle tante ibridazioni della portata tricolore per antonomasia. La genesi in Mesopotamia, il ruolo subalterno nei banchetti greco-romani, gli arabi, la pasta fresca o secca, Marco Polo e la Cina, la Sicilia dei “mangiamaccheroni”, le mani e la forchetta, la scoperta del pomodoro in Messico e quello in salsa spagnola, il “pepe d’India”, il burro e l’olio d’oliva. Montanari si è occupato delle didascalie, mentre le immagini sono farina del sacco dell’incisore Luciano Ragozzino. “Perché da un libro così non fare una mostra? Ci siamo detti. Bella idea, ma ci voleva un artista all’altezza. La gastronomia è un tema difficile da trasporre nel linguaggio dell’arte contemporanea – spiega al Fatto Tomasetig –. Per fortuna c’è Ragozzino. L’ho conosciuto e apprezzato nella magica officina brianzola di Alberto Casiraghy. Per gli spaghetti ha usato una delle tecniche in cui è maestro, l’acquerello. Il risultato sono queste 18 tavole più morbide delle acqueforti e godibili per il colore, ironiche e puntuali nel contrappunto grafico ai testi. Sono certo che i visitatori da oggi in poi guarderanno con altri occhi un bel piatto di spaghetti al pomodoro”. Metafore iconografiche di doppio livello che si attorcigliano alle papille gustative della memoria.

Ecco gli spaghetti che avvolgono lo Stivale congiungendosi con la sua geografia. Pulcinella che li porta alla bocca con voluttà. Le nozze tra il pomodoro e il peperoncino testé arrivati dall’America. La statua della libertà che imbraccia una forchettata fumante. Il fragoroso pesce d’aprile del 1957 della Bbc, che annunciava agli inglesi l’ottimo raccolto dei fantomatici alberi di spaghetti nella valle del Po. I vermicelli in uso ai tempi di Dante, è ancora il suo settecentenario. Il tributo che lo stesso Artusi rese nel suo opus magnum, aggettivo quantomai pertinente, al poeta fiorentino. Le parole di Monica Alba e Giovanna Frosini che corredano due ulteriori tavole di Ragozzino.

La svolta iniziale e iniziatica avvenne intorno al 1500-600, grazie all’introduzione delle “due macchine-chiave dell’industria pastaria, la gramola, cioè l’impastatrice meccanica, e il torchio, ispirato a quello per pigiare l’uva, che pressava la pasta nei fori di una trafila metallica onde ottenere le forme volute – sintetizza Montanari –. I maccheroni furono così promossi a cibo base partenopeo, e il binomio pasta-formaggio sostituì il tandem cavolo-carne”. Il rango degli spaghetti era mutato per sempre. Non sarebbero mai più mancati nelle dispense delle abitazioni borghesi e di quelle popolari, nei castelli e nelle stamberghe, nei ristoranti stellati o nelle osterie con mezza porzione. Spessi o sottili, standard e integrali, lunghi o corti. “Maccarone, m’hai provocato e io te distruggo”, sibilava Alberto Sordi in Un americano a Roma. Totò li fagocitava estaticamente e manualmente, fino allo spasimo, in Miseria e nobiltà. “La vita è una combinazione di pasta e magia” (Federico Fellini dixit). Buona visione, e buon appetito.

Assalti fascisti, piazze emozionali

Ma, insomma, sono fascisti o no? Dopo l’assalto di sabato scorso alla sede della Cgil di Roma si è riacceso il dibattito, dentro e fuori il mondo degli storici, sull’opportunità o meno di utilizzare la categoria “fascismo” per definire quegli scontri e, più in generale, per inquadrare le derive violente registrate nelle piazze degli ultimi tempi.

Per alcuni storici l’utilizzo della definizione “fascismo” rischia di svuotare di senso un’etichetta che in storiografia è ascrivibile a un ben determinato fenomeno storico che segue la parabola politica e umana del suo fondatore, Benito Mussolini. Altri, invece, riconoscono alla parola una forza di richiamo e una capacità evocativa tale da poter costruire legittimamente dei paralleli tra il fenomeno passato e l’attualità dell’azione politica di determinate forze.

La questione è aperta, anche se, a ben vedere, la si potrebbe risolvere con un briciolo di pragmatismo. Basterebbe chiedere loro. Basterebbe andare dagli arrestati, da chi marcia tronfio in piazza a braccio teso, e chiedere loro, se sono, se si sentono, fascisti. La risposta – tolto il comprensibile tentativo di mimetizzare un’ammissione che nel nostro Paese potrebbe configurare gli estremi di un reato – sarebbe con ogni probabilità un “Sì”. Sì, sono fascisti. Con tanto di busto di Lui sulla scrivania e tatuaggio recitante “Me ne frego!” e altre varie amenità. Che credono che il duce abbia fatto buone cose, che ci vorrebbe uno come lui anche oggi, a ripulire le strade e il Parlamento, a cacciare i comunisti (!) e dare all’Italia quell’onore che sembra le sia perennemente negato.

Probabilmente è questo il punto centrale della questione: al di là delle interessanti e a loro modo necessarie discussioni sulla denominazione da dare a questi gruppi, varrebbe la pena, e anche in fretta, affrontare la questione, prendendo atto del fatto che una parte rumorosa di quella piazza chiama se stessa fascista e, del fascismo, non solo crede di conoscere la storia ma tenta anche di applicarne le tecniche. Il modello applicato negli scontri di sabato – sempre prescindendo dalla correttezza formale della denominazione – è difatti fascista, e al fascismo vuole richiamarsi. Non ha altra spiegazione l’assalto alla sede della Cgil, se non quella di essere un fortissimo richiamo simbolico a uno squadrismo ormai centenario. E non ha altro esempio storico, se non quello Ventennale, l’abuso di bandiere, simboli patrii e linguaggi farciti di onore, potenza, violenza e nazione. E, oltre alle azioni e ai linguaggi, si diceva, sono fasciste le tecniche: come il tentativo, in gran parte riuscito, di intestarsi una manifestazione di dissenso autorizzata, per trasformarla in una massa di manovra inconsapevole per la guerriglia di piazza (una tattica che rimanda drammaticamente non solo allo squadrismo anni Venti, ma anche alle violenze di strada degli anni Settanta).

È proprio nell’intestazione della piazza che sta, probabilmente, il più interessante tra gli agganci col passato dei fatti di Roma. Le immagini degli uffici devastati trasmesse da tutti i telegiornali mostravano un gruppo di violenti particolare: organizzati, inquadrati e con un’età media piuttosto elevata per quel tipo di attività. Niente a che fare con presunti rappresentanti di una “rabbia cieca e spontanea”, ma quasi tutti tra i quaranta e i cinquant’anni, per lo più già conosciuti negli ambienti di polizia, e con ingombranti “carriere” di violenti alle spalle (o quasi). Insomma, dei professionisti dello scontro. Pochi, in realtà. La cui vera forza è stata la capacità di mettersi alla testa di una folla di persone che manifestava in molti modi, per lo più pacifici, il proprio dissenso.

Quella di sabato, in effetti, era una piazza particolare, priva cioè di un vero e proprio intento politico, inteso nel senso più complesso, si direbbe novecentesco, del termine. Scontenti, arrabbiati, accomunati solo dalla propria stessa rabbia. No vax accanto a No Green pass accanto a persone che in vari modi esprimono il loro dissenso a scelte di cui non comprendono l’utilità, insieme ad antiscientisti e complottari; gente del “a me tanto non capita” insieme a difensori della libertà del singolo ad ogni costo. Riuniti tutti insieme, grazie al tam-tam social, all’uso innovativo della tecnologia che in breve tempo riesce a surriscaldare gli animi e a trascinare la gente in piazza per rendere visibile il malcontento senza nemmeno aver bisogno di fare sintesi.

Un gruppo di individui singoli, ognuno rappresentante se stesso e le proprie ragioni, anzi, le proprie emozioni. Difficile parlare di destra o sinistra in un contesto così variegato e, soprattutto, privo di riferimenti riconoscibili. Una folla emozionale, come la definirebbero alcuni sociologi, che scesa in piazza cade facile preda di chi nelle piazze ci sguazza da un sacco di tempo. L’aspetto più preoccupante del fenomeno di sabato è proprio la facilità con cui personaggi come Giuliano Castellino siano riusciti a prendere voce e a dare voce a questo malcontento, salendo su un palco e aizzando una folla che i fascisti di oggi da soli non sarebbero mai riusciti a raccogliere.

Questa operazione è purtroppo riuscita proprio per la struttura stessa dei due fenomeni. La natura raccogliticcia e variegata dei molti scesi in piazza ha permesso a chi aveva un’identità e un vocabolario politico forte di identificare con i propri argomenti l’intera massa di persone intervenute a Roma. Nel secolo scorso, i movimenti di piazza avevano quasi sempre connotazioni politiche più solide e chiare: chi partecipava alle manifestazioni negli anni Sessanta, Settanta e fino agli anni Duemila aveva la ragionevole sicurezza di essere circondato da persone che, per la maggior parte, avevano le stesse idee e convinzioni, o almeno le stesse ragioni per essere lì. Erano folle politiche quelle che venivano richiamate da partiti e movimenti. Politiche perché consapevoli di essere strumento di lotta e quindi più difficilmente manipolabili da agenti esterni. Piazze che venivano dotate di slogan unitari, di leader riconosciuti; piazze che avevano servizi d’ordine contro i violenti e i provocatori.

Quella di sabato era invece una folla pre-politica, fatta di persone che spesso erano lì per rappresentare solo se stessi. Tra i molti gruppi che hanno tentato di mettere il cappello su quella manifestazione hanno vinto, almeno a livello mediatico, quelli abituati da più tempo ai cortei, quelli con le idee più chiare, con uno scopo definito, anche se questo scopo era diverso da quello dei più. Hanno vinto i fascisti, che hanno saputo, come un secolo fa, cavalcare sentimenti senza nome. E il problema è che, anche volendo – e finora pare che in molti non abbiano voluto – il resto della folla di sabato non potrà smentire questa affiliazione, perché non vi sono leader che possano parlare a nome di tutti, se non quelli che sono riusciti a rubare palco e scena. I fascisti, o, se preferite, i sé-dicenti fascisti, hanno compiuto un’azione di appropriazione degna delle squadracce di inizio Novecento, dimostrando di esserci, attivi e agguerriti. E di essere molto più consapevoli di altri della propria forza e della propria storia.

Verrebbe da dire, parafrasando amaramente un bel film, che “quando una folla prepolitica ed emotiva incontra un gruppo di fascisti, la folla prepolitica ed emotiva è una folla fascista”. E questo indipendentemente da come, da fuori, la si voglia definire.

 

Altro che missioni umanitarie: ora mancano pure gli ospedali

Gli occidentali non ce la fanno proprio a non essere “umanitari”. Sono proprio commoventi in questa loro missione. Erano andati in Afghanistan vent’anni fa per sconfiggere il terrorismo. Ci hanno messo anni per capire quello che sapevano già: che la dirigenza talebana dell’epoca era completamente all’oscuro dell’attacco alle Torri gemelle e che non aveva niente a che fare col terrorismo internazionale allora impersonato da Bin Laden e che prendeva il nome di al Qaeda. Lo sapevano talmente bene che già nell’inverno del 1998 Bill Clinton aveva preso contatti con il Mullah Omar per far fuori Bin Laden e Omar si era dichiarato disponibile. Ma Clinton, all’ultimo momento, si tirò indietro per ragioni rimaste misteriose. E questi sono documenti del Dipartimento di Stato resi noti nell’agosto del 2005. Poiché il terrorismo internazionale non aveva niente a che fare con i Talebani la missione occidentale, che non faceva più capo all’Onu, cambiò nome e si chiamò “Riportare la speranza” in Afghanistan. Che cosa abbiano fatto per vent’anni gli occidentali in Afghanistan non è facile capire. Ancora oggi tra le lagnose lamentele sulla “disastrosa situazione in Afghanistan” – e lo credo bene dopo vent’anni di guerra – c’è che mancano gli ospedali. Cioè in vent’anni non siamo stati nemmeno capaci di costruire degli ospedali, rimane solo Emergency che era in Afghanistan, a Kabul e a Lashkargah, già all’epoca in cui governava il Mullah Omar.

Siamo stati invece abilissimi nel sommergere quella gente con fiumi di dollari per corromperla. Operazione in parte riuscita, molti di quelli che oggi scappano dall’Afghanistan sono persone che hanno intascato i soldi che dovevano andare al popolo afghano. A cominciare dall’ultimo presidente Ashraf Ghani, al suo ancor più impresentabile predecessore Hamid Karzai, il cui fratello era uno dei più grandi trafficanti di oppio, giù giù fino ai governatori provinciali, alla polizia, alla magistratura. La magistratura era talmente corrotta che si pagava per avere una sentenza favorevole tanto che, soprattutto nella vastissima area rurale (circa il 90% del Paese) gli afghani preferivano ricorrere alla giustizia talebana, più sbrigativa ma non corrotta, come ha documentato Ahmed Rashid in Caos Asia. I talebani sono stati fin troppo accomodanti emanando quasi immediatamente un’amnistia per questi mascalzoni. Poiché non sono riusciti a sconfiggere l’Afghanistan talebano sul campo, gli occidentali cercano ora di riappropriarsene manovrando la leva ricattatoria degli “aiuti umanitari”.

Al G20 straordinario per l’Afghanistan il presidente italiano Mario Draghi ha dichiarato: “L’impressione è che i talebani e l’Isis non siano amici”. O bella, ma che bravo, che intuizione formidabile, la scoperta dell’acqua calda.

La posizione più intelligente l’hanno presa i Paesi che di fatto a questa buffonata del G20 non hanno partecipato, Russia e Cina: richiamandosi al principio della autodeterminazione dei popoli e quindi all’illegittimità “dell’interferenza negli affari interni di uno Stato sovrano” e proponendo la restituzione a Kabul delle riserve finanziarie detenute nelle Banche Usa e in Gran Bretagna. Una appropriazione, questa, del tutto indebita perché non è sufficiente che uno Stato cambi il proprio governo per rendere legittimo il sequestro delle sue riserve auree. È a questo sequestro, e non al governo talebano, che vanno attribuite molte delle difficoltà in cui si trova oggi l’Afghanistan. Naturalmente gli occidentali, sempre più ”umanitari”, condizionano i loro interventi finanziari ponendo delle condizioni: sui diritti civili, sui diritti delle donne allo studio e al lavoro e così via. Si scrive che attualmente le donne possono frequentare solo le elementari. In un’intervista rilasciata al Corriere il portavoce dei Talebani e capo della Commissione culturale Zabihullah Mujahed ha assicurato che questi diritti verranno garantiti e che al più presto le scuole superiori e le università saranno aperte a tutti, secondo programmi uguali per tutti, uomini e donne. Ma che bisogna lasciar loro un po’ di tempo. Naturalmente tutto ciò all’interno dell’interpretazione hanafita, che è la loro, della Sharia. “A queste tradizioni millenarie non intendiamo rinunciare” ha aggiunto. Non si può pretendere che i talebani abbandonino la propria cultura e le proprie tradizioni. Non hanno combattuto vent’anni per questo. Non si può chieder loro di adottare una Costituzione liberale di tipo occidentale. Non hanno combattuto vent’anni per trovarsi di nuovo sul collo la “cultura superiore”. Ricadiamo qui, ancora una volta, nel “vizio oscuro dell’occidente” di voler imporre la propria cultura, le proprie istituzioni, la propria democrazia all’universo mondo, si chiami Afghanistan o Libia o Venezuela. Tutto ciò senza sapere né capire nulla delle culture di quei Paesi. Che ne sa l’onorevole Draghi, un banchiere che non è mai stato in Afghanistan, che lo conosce solo dalle carte geografiche, delle tradizioni, dei costumi, delle usanze? Che ne sanno i vari capi di Stato che hanno partecipato al G20 straordinario?

Qualche anno fa, un giornalista Rai intervistò il Comandante delle forze sovietiche che avevano occupato a suo tempo l’Afghanistan e gli chiese: “Che cosa dobbiamo e possiamo fare per salvare l’Afghanistan?” rispose: “Bisogna lasciare che gli afghani si salvino da soli”. Cioè bisogna lasciare che ogni popolo si evolva, o anche non si evolva, secondo la propria volontà, le proprie tradizioni, la propria storia. C’è stato bisogno di un Comandante sovietico perché ci desse una lezione di democrazia internazionale.

Il conservatore-tipo ucciso a coltellate dinanzi ai suoi fan

Sir David Amess, 69 anni, deputato britannico, è stato ripetutamente accoltellato a morte da un giovane – per il Telegraph, un ragazzo britannico di origini somale – in una chiesa dell’Essex, mentre stava incontrando gli elettori del suo distretto, nel Sud-Est dell’Inghilterra. L’assassino è stato arrestato e l’arma del delitto è stata recuperata: non è ancora chiaro se l’uomo, 25 anni, sia uno squilibrato o se abbia agito con un preciso movente, personale, politico o terroristico. Di certo l’Antiterrorismo si è unito all’inchiesta e questo potrebbe essere significativo. Per Harrington, chief constable della Essex Police, l’assassino non aveva complici.

I paramedici di un’eliambulanza in attesa fuori dall’edificio dove si trovava il deputato hanno tentato a lungo di stabilizzarlo e poi di rianimarlo, ma senza successo. Gli agenti, armati – un fatto insolito nel Regno Unito –, hanno transennato la strada davanti alla chiesa nella località di Leigh-on-Sea, sulla costa, e hanno allontanato le persone che vi si trovavano. Amess, veterano del partito conservatore, è il secondo deputato assassinato negli ultimi cinque anni in Gran Bretagna. Prima di lui, era toccato a Jo Cox, una deputata laburista di 41 anni, uccisa a pugnalate e colpi di arma da fuoco nel nord dell’Inghilterra nel giugno 2016, poco prima del referendum sulla Brexit, contro cui stava facendo campagna. A scagliarsi su di lei fu Thomas Mair, un lupo solitario legato alle idee dell’estrema destra nazionalista e razzista. Se il movente dell’uccisione di Amess, esponente Tory brexiteer, anti-abortista e fautore dei diritti degli animali, è ancora da stabilire, l’assassinio della Cox ebbe certamente matrice politica. Le due aggressioni hanno in comune il teatro d’azione: sono entrambe avvenute nei collegi elettorali dei due deputati e a margine di una riunione con elettori. In tal senso, ricordano anche la sparatoria in cui rimase gravemente ferita nel 2011 la deputata Usa dell’Arizona Gabrielle Giffords, attaccata in un super-mercato di Tucson – sei persone furono uccise –. La Giffords, che non s’è pienamente ripresa dalle ferite riportate, è diventata una testimonial della sterile campagna contro le armi facili negli Stati Uniti. Le cronache britanniche registrano nel 2000, l’uccisione di un assistente del deputato liberaldemocratico Nigel Jones, che si frappose tra un accoltellatore e il parlamentare per difenderlo. Amess sedeva ininterrottamente alla Camera dei Comuni da 38 anni: era un’icona di Westminster. Non ha mai ricoperto incarichi di governo, ma è stato in prima linea in varie campagne legislative, fra l’altro per l’introduzione di norme a tutela dei diritti degli animali. Sposato con cinque figli, rispettato dai colleghi, era favorevole alla Brexit e votò per l’uscita dall’Ue al referendum del 2016.

Il premier Boris Johnson era in vacanza a Marbella, in Spagna: ha ordinato bandiere a mezz’asta ed è subito rientrato in patria, riunendo il governo a Bristol e dicendosi, al ritorno a Downing Street, “scioccato” per la morte di Amess, “un amico e un uomo gentile”. Il cordoglio è unanime, l’impressione destata dall’accoltellamento letale profonda: il vedovo della Cox, Brendan Cox, nota che “l’attacco ai nostri rappresentanti eletti è un attacco alla stessa democrazia, non c’è scusa, non c’è giustificazione, è un atto di codardia”; Angela Rayner, una leader dei laburisti all’opposizione, si dice “orripilata”; l’ex premier conservatore David Cameron considera la notizia “molto allarmante e preoccupante”. I messaggi di condoglianze alla famiglia s’intrecciano con gli allarmi per l’insicurezza: il Paese è stato scosso, negli ultimi 24 mesi, dall’attuazione della Brexit con tutte le incognite relative; poi dallo scoppio della pandemia – devastante per numero di vittime e impatto economico e con un dossier che ha messo sul banco degli imputati per le sue incertezze nell’ordinare il primo lockdown, proprio il primo ministro Johnson –; e ora dall’insicurezza degli approvvigionamenti energetici e alimentari. S’aggiunga che il Regno Unito, dal 2015, è stato teatro di numerosi episodi di terrorismo integralista, letali e sanguinosi, spesso condotti con il coltello o usando veicoli come armi. Di qui il dibattito, rilanciato dall’uccisione di Amess, sull’opportunità o meno di armare i poliziotti.

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Il “governo dei migliori” è un bluff o cos’altro?

Il cosiddetto “governo dei migliori”, invocato da tutti i giornali e telegiornali a reti unificate, doveva restare in carica per il tempo necessario per uscire dalla pandemia con le vaccinazioni e per ultimare il Pnrr. Tuttavia, sono passati otto mesi e non è stato risolto né il primo né l’altro problema se è vero, come è vero, che l’enorme confusione determinatasi con il Green pass obbligatorio rischia di dividere le fazioni già di per sé l’una contro le altre armate con un pericoloso antagonismo. Del Pnrr non si vede neanche la traccia, se non l’arbitraria intromissione della autonomia differenziata nel collegato al Decreto di economia e finanza. Dobbiamo quindi concludere che il governo dei migliori era un bluff? Oppure che l’emergenza invocata era solo una furbata per affossare un governo legittimo ed efficiente?

Aurelio D’Amore

 

Entrambe le cose.

M. Trav.

 

Lamorgese non ha fatto il gioco di Giorgia Meloni

Mentre vedevo alla tv l’intervento alla Camera dei deputati della segretaria di Fratelli d’Italia, con i suoi soliti toni contro la ministra dell’Interno, mi è sorto il dubbio che avrebbe invece preferito l’intervento ipso facto delle forze dell’ordine sulla piazza per arrestare quei tipi, provocando così quella confusione che sarebbe tutto sommato stato meglio per la deputata date le conseguenze che ne sarebbero derivate, e che invece intelligentemente la ministra dell’Interno ha evitato. Poi vedo in questi giorni sui visi di chi indicava come responsabile l’ex premier Conte, ora invece sono preoccupati perché hanno il terrore che quanto sta accadendo in questi giorni si possa solo pensare che andrebbe, come prima per logica, addebitato all’attuale capo del governo.

Fabio de Bortoli

 

L’unanimità dei giudizi a favore del certificato

Sono lieta che Travaglio, nella puntata di Otto e mezzo del 14 ottobre, abbia deciso di manifestare apertis verbis tutto il suo scetticismo nei confronti del cosiddetto lasciapassare verde. Una misura governativa di ispirazione puramente ricattatoria, esplicitamente dittatoriale, totalmente inutile da un punto di vista sanitario, ma “essenziale” per prendere a picconate alcuni articoli fondamentali della nostra Costituzione, primo fra tutti proprio quello che fonda la nostra Repubblica proprio “sul lavoro”. Un principio sacro e inviolabile che non può essere in alcun modo vincolato ad alcuna situazione sociale contingente, che potrebbe essere strumentalizzata ad arte da qualunque governo, sempre di passaggio. Ma la Costituzione resta. Veramente ripugnante, invece, l’acritica e quasi ossessiva unanimità dei giudizi pro Green pass espressa da tantissimi giornalisti italiani, sia radiotelevisivi che della carta stampata, totalmente appiattiti sul pensiero unico governativo dominante. Giornalisti che, nascondendo unanimemente la testa sotto la sabbia, rifiutano deliberatamente di gettare uno sguardo oltre confine, per rendersi conto di ciò che avviene in tutte le democrazie occidentali veramente civili e socialmente evolute, in merito alle profilassi adottate per la riduzione dei contagi.

Simonetta De’ Negri

 

Così il governo aumenta la divisione fra gli italiani

Ho questa sensazione: che grazie al governo e ai poteri forti si vogliano dividere i lavoratori tra gli obiettori e i vaccinati dando la colpa ai non vaccinati. Speriamo che la maggioranza dei lavoratori (vaccinati) si renda conto di questo fatto, visto che fino adesso ha sempre lavorato assieme ai non vaccinati senza problemi. Chissà perché adesso rompono le scatole ai lavoratori. E i sindacati che fanno? La maggioranza dei lavoratori è vaccinata, gli altri sono nullità? Ma finora i non vaccinati hanno lavorato oppure no? Ecco, penso che bisognerebbe dare una informazione sincera, affermando che purtroppo non basta aver raggiunto l’85% dei vaccinabili ma arrivare vicino al 100 per cento. Proviamo a pensare: se durante questi due anni di pandemia tutti i lavoratori che sono stati indispensabili (tipo logistica, alimentaristi e tutte le altre categorie) hanno lavorato senza vaccino, perché ora questo bel governo tira fuori il green pass? In futuro bisognerà avere il permesso di lavorare anche se si dimostrerà di essere in buona salute? Non bisogna fidarsi di questi politici “dragoni”.

Ermes Zille

 

Svastiche e altri simboli: fascisti sempre impuniti

I fatti di questi giorni mi hanno fatto sorgere una domanda. Come mai solo disegnando su di un muro la famigerata stella a cinque punte si va in galera, mentre certi signori si possono permettere di tatuarsi e sventolare bandiere con svastiche e altri simboli fascisti e circolare impuniti?

Giovanni

 

Giovanni Paolo I è stato un papa anticipatore

Albino Luciani sarà proclamato beato, riconosciuto un suo miracolo per la guarigione di una bambina argentina. Ora aspettiamo la data ufficiale da papa Francesco. Giovanni Paolo I è stato un grande personaggio: con molto anticipo aveva capito la crisi della società e del lavoro, i problemi che derivano dalla mancanza di un Dio e la necessità di una chiesa più povera. Oggi il mondo avrebbe bisogno della grande dote di cultura e spiritualità di questo papa.

Massimo Aurioso

Nobel ad Assange? Non arriverà mai, nonostante i suoi tanti meriti

 

Fantastico!!! Il Nobel per la Pace va a due giornalisti che si impegnano contro le dittature: Maria Ressa e Dmitrij Muratov. Mi domando come mai si tratti sempre di dittature “nemiche” e chiedo: perché non il Nobel per la Pace ad Assange e a WikiLeaks? (La risposta la so, ma vorrei sbagliarmi).

Bruno De Zen

 

Caro Bruno, Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks hanno innescato una rivoluzione: la loro idea brillante di introdurre una piattaforma per l’invio di documenti scottanti da parte delle fonti in modo anonimo è stata copiata dal gotha del giornalismo.

Dal New York Times al Guardian, oggi non esiste una redazione internazionale che non ne abbia una. L’altra idea brillante di creare media partnership con decine di giornali tradizionali, è stata altrettanto copiata, per esempio dall’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), che ha appena pubblicato i Pandora Papers. Assange e WikiLeaks hanno vinto premi giornalistici di prestigio: dal Walkley Award al Martha Gellhorn Prize, intitolato alla grande giornalista Martha Gellhorn, su cui Lilli Gruber ha appena scritto un libro. Pubblicando i documenti segreti del governo americano, hanno rivelato crimini di guerra, torture, assassini stragiudiziali con i droni. Eppure, Assange non ha alcuna speranza di vincere un Nobel per la Pace. E dopo averli pubblicati, non ha più conosciuto la libertà. Che sia chiaro: nessuno contesta il premio a Ressa e a Muratov, contestiamo che non ce ne sarà mai uno per Assange, che pure è stato ripetutamente candidato, anche insieme a due delle più grandi fonti giornalistiche di tutti i tempi: Chelsea Manning ed Edward Snowden. I Nobel per la Pace vengono selezionati dal Norwegian Nobel Committee e per capire come funzionano le cose in Norvegia, basta ricordare che nel 2016 la sezione norvegese dell’autorevole organizzazione Pen International decise di assegnare a Snowden il prestigioso Premio Ossietzky per contributi straordinari alla libertà di espressione. Snowden, però, non è mai potuto andare in Norvegia a ritirarlo: sarebbe stato arrestato su mandato degli Usa. Pen International dovette volare a Mosca per premiarlo.

Stefania Maurizi

L’influenza e il Covid

In Italia, nella seconda settimana di ottobre, sono stati individuati due casi di influenza. Lo rende noto l’Istituto Superiore di Sanità: i portatori sono due bambini di Varese e Torino. Che cosa ci attende? Leggiamo già toni allarmistici su qualche testata giornalistica “Attesi da 4 a 6 milioni di ammalati” (Corriere della Sera). Siamo sicuri? Per avere una previsione su come e se si evolverà l’epidemia stagionale, con uno scarto di errore accettabile, è buona norma guardare ai dati relativi alla stagione autunno-inverno appena trascorsa nell’altro emisfero. Sappiamo che la circolazione virale in quei territori precede quella che poi avverrà nella nostra parte di pianeta. Quasi sempre, sia la capacità di diffusione del virus sia la severità della patologia, si ripropongono. Ciò è stato confermato lo scorso anno, quando, al quasi totale azzeramento dei casi in Australia e terre limitrofe, abbiamo ipotizzato che anche da noi l’influenza non sarebbe stato un problema. I fatti non l’hanno smentito. Tutte le infezioni respiratorie, del resto, hanno avuto un calo di incidenza, in tutto il mondo e ciò è sicuramente dovuto all’osservanza delle misure di contenimento adottate per Covid-19. Consultiamo il sito del ministero della Salute australiano, Australian Influenza Surveillance Report and Activity Updates del 10 ottobre 2021. L’attività di malattia simil-influenzale nella comunità rimane a livelli storicamente bassi nel 2021.

Possiamo avanzare un’ipotesi sulla stagione che ci attende? Probabilmente, visto l’allentamento delle misure Covid che invece non erano avvenute negli scorsi mesi nell’emisfero australe, la probabilità di una maggiore diffusione dei virus che, per l’esattezza sono una variante H1N1 e una variante H3N2 (relativamente nuova), è probabile. Purtuttavia, non ci sembra ci siano le premesse per ipotizzare un’epidemia numericamente preoccupante, né una gravità della patologia. I mezzi di vigilanza sono attivi ed efficienti. Aspettiamo prima di allarmarci. Non ne abbiamo proprio bisogno!