Settantadue morti e più di 1200 arresti. Il sesto giorno di disordini in Sudafrica lascia un bilancio disastroso e timori di carenza di cibo e carburante oltreché dell’acuirsi della pandemia, per l’impossibilità di fornire cure e vaccini. Gli scontri iniziati dall’arresto dell’ex presidente Jacob Zuma, condannato a 15 mesi di carcere per oltraggio alla Corte, si sono trasformati infatti in saccheggi e hanno colpito le catene di rifornimento e i mezzi di trasporto nella provincia di Johannesburg, Gauteng, e in quella di KwaZulu-Natal, provocando un’onda d’urto sui beni e i servizi di tutto il Paese. Nel porto di Durban, secondo l’agenzia Afp, la coda fuori dai negozi alimentari e dalle stazioni di servizio è iniziata alle 4 del mattino, quando finisce il coprifuoco per la pandemia. La più grande raffineria del Sudafrica, Sapref, ha chiuso l’impianto a Durban per cause di “forza maggiore”, interrompendo così un terzo dei rifornimenti del Paese. E alcuni distributori di carburante hanno iniziato a razionarlo, mentre in altri è già esaurito. Intanto gruppi di volontari ripuliscono le macerie e il dispiegamento di 2.500 soldati per sostenere la polizia prova ad arginare il peggio. La Commissione dell’Unione africana (Ua) ha condannato le violenze: “Il presidente della Commissione dell’Ua, Moussa Faki Mahamat, condanna con la massima fermezza l’ondata di violenza che ha provocato la morte di civili e le scene spaventose di saccheggio di proprietà pubbliche e private”, si legge nella nota e “chiede un urgente ripristino dell’ordine, della pace e della stabilità nel Paese nel pieno rispetto dello stato di diritto”, specificando che la mancata risoluzione della crisi avrebbe “gravi ripercussioni in tutta la regione”. Ma per ora la pace sembra lontana. Il leader del partito di opposizione, Economic Freedom Fighters (Eff), Julius Malema, è stato bannato da Twitter per aver violato le linee guida mobilitando i sostenitori per i disordini: “Niente soldati nelle nostre strade! Altrimenti ci uniamo”, ha twittato. Il ministro degli Interni ha fatto sapere che si indaga sui tweet della figlia di Zuma, per “sostegno all’anarchia”.
Rivolte stroncate nel sangue. Il pugno duro di Cuba
Dopo l’ondata di manifestazioni popolari di domenica e lunedì scorsi, le strade del- l’Avana erano ieri fortemente sorvegliate dalla polizia. In alcuni quartieri periferici più poveri e turbolenti erano schierate pattuglie del reparto antisommossa, appoggiate anche da militanti del Partito comunista armati di bastoni. In uno di questi quartieri, Arroyo Naranjo, lunedì vi è stata una vittima, l’unica riconosciuta ufficialmente, degli scontri con la polizia. Secondo una nota del ministero degli Interni, un gruppo di “facinorosi” aveva tentato l’assalto a una stazione di polizia dopo aver vandalizzato varie strade. Oltre alla vittima, un uomo di 36 anni, vi sono stati un numero imprecisato di feriti, tra i quali un agente, e diversi arresti.
Impossibile conoscere i veri numeri di vittime e arresti nelle decine di manifestazioni che hanno percorso l’isola per protestare contro le drammatiche condizioni di vita e chiedere cambiamenti sostanziali della politica del governo. Manifestazioni che hanno colto di sorpresa il vertice politico che ha reagito con una dura repressione. Il presidente Díaz-Canel ha accusato gli Stati Uniti di “praticare una politica di strangolamento economico di Cuba per provocare rivolte popolari”. È vero che il presidente Biden ha mantenuto tutte le 243 misure decise dal suo predecessore, Donald Trump, per soffocare l’isola e abbattere il governo socialista. Ma oltre alla politica di ingerenza del potente vicino vi sono cause interne e strutturali di un malessere sociale che è andato crescendo negli ultimi mesi. Errori nella politica economica, ultimo dei quali la riforma monetaria e cambiaria, riforme rimandate, investimenti riservati soprattutto al settore turistico a scapito dell’agricoltura e lo Stato socialista di diritto previsto dalla nuova Costituzione che è lungi dal concretizzarsi. Per questa ragione, secondo vari analisti, come la storica Ivette García González, le manifestazioni di domenica e lunedì scorsi erano prevedibili.
Alla drammatica scarsezza di generi di prima necessità, associata a prezzi ormai fuori controllo, alle spossanti code quotidiane per mettere qualcosa in tavola, si è aggiunto un aggravarsi della pandemia di Covid-19 a causa di varianti introdotte soprattutto da turisti. Il giorno prima delle manifestazioni, si erano registrati quasi 7.000 contagi e 47 morti. Una cifra enorme per l’isola. Il governo ha puntato tutto sullo sviluppo di due vaccini autoctoni, ma a oggi circa il 17% della popolazione ha completato i tre cicli di siero richiesti. Per la prima volta da anni, ieri vari artisti noti – come il famoso gruppo dei Van Van, Adalberto Alvarez, Pupy Pedroso – e di certo non legati all’opposizione o al dissenso, hanno chiesto al governo di smettere la politica repressiva, di lanciare appelli alla calma e programmare una politica di conciliazione nazionale basata sul dialogo. “Il popolo ha il diritto di manifestare pacificamente per chiedere cambiamenti. Il governo ha il dovere di ascoltare le loro voci. Sono affianco al mio popolo. La violenza deve cessare”, ha dichiarato Pedroso. Più duro il noto compositore Leo Brouwer: “Duole vedere la polizia rivoluzionaria che colpisce con manganelli gente indifesa e che per tanto tempo ha sopportato condizioni di vita durissime”.
Anche la Chiesa cattolica ha difeso il diritto dei cubani a esprimere il loro malessere. “Il popolo ha il diritto di manifestare le sue necessità e speranze e a esprimere pubblicamente come alcune misure del governo stiano colpendoli seriamente” afferma la Conferenza dei vescovi di Cuba. Anche ieri l’isola era senza Internet, principale fonte di comunicazione sia all’interno che con l’estero.
I social, secondo il presidente, sono stati utilizzati dall’estero “per convocare esplosioni sociali” e diffondere fake news sulla situazione dell’isola. Díaz-Canel ha ribadito che le manifestazioni non erano affatto pacifiche e spontanee, ma “organizzate per diffondere una campagna d’odio tra cubani” e fornire argomenti a chi, non solo negli Usa, programma un intervento diretto nordamericano per false ragioni umanitarie. L’ipotesi di un intervento di questo genere è stata smentita ieri da Bob Menéndez, il dem capo della Commissione Esteri del Senato. “Non vi sarà un intervento militare a Cuba”. Il senatore ha confermato che Biden ha in corso una revisione della politica nei confronti dell’isola caraibica. Mantenendo l’embargo, gli Usa lasciano che sia la drammatica crisi economica prodotta dalle sanzioni Usa a causare una destabilizzazione del governo cubano.
Bonucci, Rai, e prestanome: che migliori!
Soggetto per il film a episodi: “I Migliori”. 1) Roma, esterno giorno, a Trastevere pattuglie di vigili urbani in tenuta antisommossa procedono alla chiusura di trattorie e ristoranti che non rispettano il distanziamento tra i commensali (almeno tre metri), nonché l’uso rigoroso della mascherina tra una portata e l’altra. Un paio di gestori riottosi vengono ammanettati mentre una voce fuori campo ammonisce sui pericoli del contagio fulminante di una misteriosa variante. Poi, l’inquadratura si alza e si allarga su piazza Colonna dove una folla sterminata di corpi festanti, ammassati e avvinti nell’afa estiva circonda un pullman scoperto. Ecco un uomo barbuto in maglia azzurra che sembra impartire un ordine perentorio ad alcuni dignitari incravattati che rispettosamente si fanno da parte. Vediamo il bus gremito da numerosi altri uomini in maglia azzurra, anch’essi inneggianti, che procede per il centro storico trascinando moltitudini assai assembrate ed eccitate, in una nuvola di fluidi. Titolo: “Due pesi e due misure” (oppure: “Bonucci premier”). 2) Nel salone di una lussuosa villa, un esperto manager dei vip sottoscrive un contratto capestro con un famoso leader politico. Gli verserà sull’unghia 750mila euro per un programma sulla città di Firenze che una volta trasmesso, con un ascolto del 2 per cento, frutterà all’esperto manager circa un migliaio di euro, peraltro mai incassati. Si ode la sirena di un’ambulanza, entrano due infermieri che convincono l’esperto manager a seguirli. Titolo: “Il Prestanome”. 3) Scene di panico in Viale Mazzini e a Saxa Rubra, voci concitate si accavallano: “Si salvi chi può, arrivano i Migliori”. Mentre il nuovo presidente e la nuova ad si appropinquano nelle sedi Rai, si procede freneticamente con l’ultimo giro di promozioni. Si vedono giornalisti e funzionari impegnati in una scatenata mazurka: “un-due-tre io promuovo tua moglie, un-due-tre tu promuovi mio cognato”. Immagini di repertorio: persone appese all’elicottero che decolla dall’ambasciata americana mentre i vietcong entrano a Saigon. Oppure: a Ciampino, Umberto di Savoia che prima di partire per l’esilio nomina a raffica conti e marchesi. Titolo: “Avanti il prossimo”.
Ps: fatti e personaggi sono tratti dalla realtà. Purtroppo.
Mail box
Pnrr: le ultime ricette di morte per il pianeta
Arrivano i primi miliardi del Pnrr ottenuti grazie a Giuseppe Conte. Peccato che, a gestirli, sia Mario Draghi, la mossa perfetta perché nulla cambi. Con l’ex governatore della Bce (e il sistema finanziario di cui è espressione), a gestire quelle risorse è certo che la New Generation Eu ha già perso. Sta infatti prevalendo il restauro del sistema economico-finanziario che sostiene il mercato drogato della crescita infinita, in perfetta antitesi con la necessità di affrontare la ben più urgente crisi ambientale.
Proseguirà la corsa in rotta di collisione con le ultime opportunità di reazione per cambiare radicalmente l’economia e renderla sostenibile ambientalmente e socialmente. Il neoliberismo sarà alimentato con le ultime ricette di morte del pianeta.
Melquiades
M5S: base chiama, sua altezza risponde
Gentile Direttore, cosa sia successo ultimamente a Beppe Grillo non lo so e non me lo spiego. Ma tutto faceva in effetti pensare alla mancanza di un neurologo di fiducia. Mi piace credere che abbia voluto (o dovuto) ascoltare tutti i vari sostenitori, attivisti, elettori, o comunque “contiani”, che gli si sono rivoltati contro sui social network. E speriamo che stavolta, Giuseppe Conte possa finalmente avviare il motore e partire senza ulteriori (e quantomai sgraditi) intoppi.
Va anche detto però, che finché Matteo Renzi continuerà a fare il tour contro il Reddito di cittadinanza, invocando referendum abrogativi, per il Movimento 5 Stelle c’è speranza di futuro. Intanto, baderei bene a dar battaglia in Parlamento contro la riforma Cartabia.
Giuliano Checchi
Prescrizione: serve una raccolta firme
Sono sicuro che i recenti avvenimenti in materia di giustizia avranno fatto esplodere la vostra casella di posta, indice del fatto che per la stragrande maggioranza dei cittadini, l’improcedibilità dei processi è solo l’ennesimo disincentivo a comportarsi in modo virtuoso.
Vi chiedo, dato che in questi giorni è in corso una raccolta firme per i famosi sei quesiti proposti da Matteo Salvini, potete provare ad avviare una raccolta firme parallela, per dare la possibilità a noi cittadini di esprimerci anche in materia di prescrizione? Sono sicuro che Salvini sarà ben lieto che sia il popolo a scegliere il modo migliore per garantire la ragionevole durata dei processi.
Marcello Valente
Ottima idea, caro Marcello. Ci penseremo quando questa porcheria approderà in Parlamento.
M. Trav.
DIRITTO DI REPLICA
In merito all’articolo da voi pubblicato con il titolo “Eni ci riprova e chiede al mite di iniettare CO2 nel sottosuolo”, a firma di Virginia Della Sala, Eni tiene a precisare quanto segue. 1 – La cattura e stoccaggio della CO2 (Ccs) è un processo sicuro, tecnicamente maturo, basato su tecnologie consolidate che sfruttano l’esperienza acquisita per decenni nello stoccaggio del gas naturale.
La CO2 è un gas intrinsecamente sicuro, non è infiammabile, non è esplosiva né velenosa. Nell’ambito delle attività di cattura e stoccaggio realizzati non si è mai verificata, nel corso dei decenni passati, alcuna perdita dai siti operativi. 2 – L’obiettivo della Ccs è quello di contribuire da subito a ridurre le emissioni delle attività industriali, in particolare di quelle dei settori “hard to abate”, salvaguardando la competitività della nostra industria e creando posti di lavoro.
La Ccs risulta efficace per la decarbonizzazione ed efficiente per tempi e costi. 3 – Il progetto Ccs di Eni a Ravenna abbatterà le emissioni Eni ma anche dei siti industriali di terzi, fino a una capacità di 4 milioni di tonnellate all’anno, già a partire dal 2026.
L’iniziativa favorirà la creazione di una filiera nazionale ad alto contenuto tecnologico in un settore previsto in forte espansione, a cominciare dall’Europa, creando nuovi posti di lavoro.
Il progetto di Ccs non andrà ad impattare sul programma di decommissioning in quanto interesserà meno del 10% del totale delle strutture offshore mentre il restante 90% sarà oggetto di interventi di rimozione in accordo con la normativa vigente. Tutti i pozzi di gas non più produttivi, anche nei giacimenti utilizzati per lo stoccaggio di CO2, saranno chiusi minerariamente e definitivamente. Vi chiediamo di pubblicare questa nostra precisazione.
Ufficio stampa Eni
Ringrazio Eni per la cortese precisazione. Che la Ccs sia un processo sicuro e maturo da un punto di vista tecnico, però, non è un dato che emerge dal dibattito internazionale, dove i dubbi abbondano e fanno oltretutto parte di una dialettica che, su temi come questo, è quantomai necessaria e meritevole di essere rilevata. Al netto dei numeri roboanti, poi, i progetti propedeutici alla produzione di idrogeno da gas non sono in linea con l’idea di una vera transizione ecologica, come rilevato dalla stessa Bruxelles, che ha voluto fossero eliminati dalla lista di quelli che sarebbero potuti essere potenziali beneficiari dei fondi europei del Next Generation Eu.
VDS
Sale il Pilcon il pallone? Nessuno farà la spesa pensando a Chiellini
Dopo il brivido d’orgoglio che ha percorso il Paese con la nottata di Wembley, i commenti tecnici sono stati superati da considerazioni di costume, storiche e, ahinoi, economiche. E qui, quando ci si avventura sui numeri, i guai sono in agguato. Commentatori, politici, dirigenti sportivi si sono spinti a quantificare nello 0,7% la futura (per l’anno in corso? il prossimo?) crescita del Pil indotta dalla vittoria. I numeri: parliamo di una cifra superiore agli 11,5 miliardi, il valore di mezza Finanziaria 2020. Le esportazioni italiane valgono mediamente il 29,5% del Pil, secondo questo scenario aumenterebbero di quasi 4 miliardi di euro, ovvero il 10% del valore di quelle dell’agroalimentare del 2019, settore considerato “il motore” del boom post Wembley. Queste fantasiose ipotesi si dovrebbero basare su studi accademici che, se davvero prodotti, sono indisponibili o segreti. Alcune citazioni rimandano all’unica pubblicazione sull’argomento, prodotta dal Dipartimento economico della Abn Amro “Soccereconomics” del 2006. Si tratta di un articolo che non ha, e non vuole avere, fondamento scientifico. È un esercizio di stile, quasi umoristico, che parte dall’assunto, privo di ogni motivazione, secondo il quale il Paese vincitore della Coppa del mondo (non dell’Europeo) possa godere di un aumento del Pil dello 0,7% mentre per il secondo un -0,3%. Tra l’altro, l’articolo è riferito a una congiuntura molto diversa dall’attuale, a livello nazionale e internazionale, per non parlare del post pandemia. Nessuno poi fa cenno alle esternalità negative: ristoranti e locali pubblici vuoti per almeno le sette sere in cui ha giocato l’Italia, l’assenteismo post festeggiamenti sui luoghi di lavoro, danneggiamenti. Oltre, e speriamo di no, alle temute impennate nei contagi. Insomma, godiamoci il successo sportivo e l’invidia del mondo, ma non sogniamo a occhi aperti: la famiglia del Nebraska non comprerà parmigiano al posto del cheddar pensando a Chiellini e Chiesa, e sarà difficile che in Australia le vendite di olio di oliva aumentino fino a +3 miliardi. Nel 2007 e nel 2008, dopo la vittoria della Coppa del mondo (non Coppa d’Europa) le esportazioni mantennero lo stesso trend positivo degli anni precedenti. Il Pil con la Coppa non segna, neanche lo 0,7 di un goal.
Giacomo Spaini, Presidente IZI SpA
Caro Spaininon fa una piega.
Sal. Can.
I giovani, reietti del vaccino con la beffa del “Green pass”
“Parliamo dell’elefante; è la sola bestia di una certa importanza di cui si possa parlare, in questi tempi, senza pericolo”. Così scriveva Leo Longanesi ai tempi del fascismo. Io voglio parlare dei giovani, dai 12 ai 19 anni e oltre, e delle vaccinazioni, in questi tempi di pericolo, cioè di Covid. In Italia sono i reietti del vaccino. I grandi dimenticati. Nel solo Piemonte, come è noto, più dell’80 per cento di loro non è stato vaccinato, e meglio non va nel resto del Paese.
Il peggio capita a quelli come mio figlio Alighiero, 19 anni. Ragazzi e ragazze che, per motivi di studio, hanno ancora la residenza all’estero (nel caso di mio figlio in Germania, non in Azerbaigian). Mio figlio, poi, oltre a essere italiano e torinese, vive con me a Torino, Piemonte, Italia. Bene: mio figlio aspetta di essere chiamato al vaccino da quasi un mese e mezzo. Nessun segnale che qualcosa si sblocchi. E intanto sui non vaccinati incolpevoli, vale a dire non vaccinati per colpa dei ritardi dei vaccinatori, incombe la minaccia del green pass obbligatorio persino per treni, bar e ristoranti… I giornali, le tv, i social, ci bombardano con la retorica dei giovani a rischio e da vaccinare subito, della variante Delta, del “non abbassare la guardia”, della “pandemia non è finita” e via di questo stereotipato passo. Però, nonostante l’onnipresenza mediatica del Generale F. e le dichiarazioni presuntivamente rassicuranti degli altri, tra i quali il presidente della Regione Piemonte (quello che si chiama come i pelati, ossia Cirio), niente si muove per i giovani. Dovrebbero essere un’emergenza, sono però solo una dimenticanza. O una seccatura. Se uno chiama infatti chi di dovere, tipo “Il Piemonte si vaccina”, si sente rispondere in malo modo, come se al posto di Moderna o di Astra Z, chiedesse il Reddito di cittadinanza. Parlano dei giovani, del dovere di vaccinarsi, ecc, ma in realtà, per l’appunto, parlano dell’elefante. Ovvero di altro. Nei vaccini, come nel lavoro, nella scuola, i giovani sono un pretesto per parlare del nulla, dunque dell’elefante di Longanesi. In piedi o seduti (ancora Longanesi), il Generale F., il presidente Cirio e il rimanente della truppa di governo, parlano e riparlano, ma per loro un bel tacer dovrebbe essere scritto. Non parole, insomma, ma vaccinazioni, cari F., Cirio e soci.
Finisce in “fumo” la speculazione di Coima su Lucca
Manfredi Catella, il patron di Coima, ha perso. Per una volta hanno vinto i cittadini che si opponevano alle sue operazioni immobiliari. Non a Milano, dove Catella è il protagonista indisturbato dei principali affari urbanistici della città, da Porta Nuova agli Scali ferroviari (qualcuno dice che è lui il vero sindaco della città e che continuerà a esserlo chiunque vincerà le elezioni comunali del prossimo autunno); ma a Lucca, dove Catella aveva messo gli occhi sulla Manifattura Tabacchi, da ristrutturare, bonificare e “valorizzare” con un intervento da 60 milioni di euro, proprio a ridosso delle antiche Mura di Lucca. Dopo una battaglia durata un paio di anni, il sindaco della città, Alessandro Tambellini, ha ora comunicato che il Comune “ha riscontrato la mancanza di interesse pubblico della proposta di progetto per la riqualificazione della Manifattura sud”. Brindano le associazioni di cittadini che si erano opposte, gli ambientalisti di “Uniti per la Manifattura” e i consiglieri comunali di minoranza di “Salviamo la Manifattura”.
La vicenda era iniziata nel giugno 2019, quando Coima Sgr aveva presentato una manifestazione d’interesse per l’acquisto della ex Manifattura Tabacchi sud. Catella propone un’operazione di project financing in cui la Fondazione Cassa di risparmio di Lucca mette 25 milioni di euro. E progetta di realizzare nell’area parcheggi, residenze di lusso, spazi commerciali. La “stecca” della Manifattura sarebbe stata occupata da Tagetik, multinazionale del software.
I comitati di cittadini e i consiglieri d’opposizione (SiAmoLucca, Difendere Lucca e Movimento 5 stelle) cominciano la loro battaglia. Denunciano la presenza nel progetto di un centro commerciale di 4 mila metri quadrati. Segnalano l’esistenza di penali pesanti che il Comune avrebbe rischiato di pagare in futuro. La “realizzazione di parcheggio presso ex Manifattura Tabacchi con relativa costituzione di piazza in quota e collegamenti con passeggiata delle Mura” sarebbe costata oltre 15 milioni di euro, mentre il Comune ha in bilancio il parcheggio per meno di 4 milioni. Coima avrebbe pagato 3,2 milioni di euro gli oltre 18 metri quadrati della Manifattura, che alcune valutazioni stimano valga 5 milioni. La ristrutturazione dei parcheggi pubblici sarebbe stata un bagno di sangue per le casse del Comune: ora raccolgono il 100 per cento dei pedaggi della sosta, che dopo i lavori sarebbero stati invece incassati per 50 anni da Coima, come i ricavi da spettacoli, eventi, ristorazione, pubblicità, nelle piazze interne della Manifattura e nel Baluardo San Paolino. Sarebbe stata realizzata anche una passerella larga 4 metri per collegare la Manifattura con le Mura. E per 50 anni, il Comune avrebbe dovuto impegnarsi a non adottare politiche di mobilità volte a limitare l’uso dei parcheggi gestiti da Coima e a non costruire altri parcheggi concorrenti nelle vicinanze.
La procedura parte. Tra il novembre 2019 e il settembre 2020 il Consiglio comunale approva la variante al regolamento urbanistico per la ex Manifattura. Il 7 ottobre 2020, Coima chiede che il Comune conceda la dichiarazione di pubblico interesse entro il 31 dicembre 2020 e le autorizzazioni edilizie, paesaggistiche e storico-artistiche entro il marzo 2021. Le associazioni criticano l’ultimatum. Il Comune comincia un braccio di ferro. Coima rinuncia via via ad alcune pretese e concede un contributo al Comune nel caso gli incassi dei parcheggi superino una certa cifra. Si arriva allo stallo. Fino allo stop finale. Ora staremo a vedere che cosa sarà della Manifattura Tabacchi di Lucca. Sappiamo già che cosa sarà dei tanti progetti di Coima a Milano: tutti accettati senza batter ciglio.
La “Riforma” Cartabia, orrore masochistico
La prescrizione, più che un problema tecnico-giuridico, è ormai una disputa fra contrapposti schieramenti politico-ideologici. Oltretutto condotta con intolleranza verso chi osi criticare l’emendamento approvato l’8 luglio dal Cdm su proposta del Guardasigilli, Marta Cartabia.
Eppure gli scontri, per quanto accesi, non possono cancellare il fatto che a rigor di logica il dibattito sulla prescrizione dovrebbe rimanere congelato almeno per qualche anno, perché di “trippa per gatti” – per dirla alla romana – oggi come oggi ce n’è poca. Mi spiego. La controversia verte sugli effetti della legge (cosiddetta Bonafede) che il 1° gennaio 2020 ha stabilito che la prescrizione si interrompe con la pronunzia della sentenza di primo grado. Cancellando così un’anomalia che diversificava il nostro sistema da ogni altro. Poiché la disfida oggi è regolata anche sulla modalità “catastrofe”, verrebbe da pensare che senza emendamento Cartabia, il crollo dei palazzi di giustizia sia questione di ore. Non è così. Le cassandre sono smentite da un dato inoppugnabile che riprendo dal Fatto del 10 luglio: nella relazione Lattanzi, presidente della commissione di riforma istituita dalla ministra, sta scritto (pag. 51) che gli effetti del blocco Bonafede “si produrranno a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal 2027 per i delitti”, per cui “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente (una nuova) riforma della prescrizione”. È la conferma “ministeriale” che per ora, appunto, non c’è “trippa per gatti” su cui valga la pena dividersi.
Nonostante ciò, si litiga ferocemente, con il paradosso che la tenzone si è imprevedibilmente allargata: dagli effetti non ancora misurabili della legge Bonafede a quelli, fin d’ora tracciabili, della riforma Cartabia. La quale, come si sa, da un lato spranga la porta (confermando il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado) ma subito dopo la spalanca: se entro due anni non si conclude la fase d’appello, il processo svanisce nel nulla. Come con la prescrizione, che però in questo caso si chiama “non procedibilità”.
Gli effetti? Ecco due pareri fra i più autorevoli. Primo: secondo l’avv. Franco Coppi, la pena inflitta all’imputato in primo grado ovviamente non può essere eseguita. Ma che sarà del risarcimento riconosciuto alla parte civile? L’imputato può ben dire che se si fosse celebrato l’appello lui sarebbe stato assolto. Insomma, un groviglio. “Meglio la riforma Bonafede, che se non altro aveva il pregio della chiarezza”. Secondo: sostiene il prof. Paolo Ferrua, che in caso di prescrizione del reato, il giudice può entrare nel merito stabilendo ad esempio, se vi è prova evidente, che il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso; l’improcedibilità invece impedisce qualunque accertamento nel merito prevalendo su ogni altra sentenza; per cui se il pm impugna la sentenza di assoluzione di primo grado e l’appello non si conclude entro due anni, l’assoluzione si converte in improcedibilità: una “esilarante reformatio in peius per decorso del tempo”.
Lasciamo l’empireo del diritto e proviamo a fare due conti, come usa dire, facili facili. Prendiamo un reato fra i più diffusi, il furto, con prescrizione di dieci anni. È realistico prevedere che l’imputato raggiunto da prove sufficienti possa essere condannato in primo grado entro quattro anni (tra indagini e dibattimento). Se la mancata conclusione dell’appello entro due anni fa scattare l’improcedibilità, tutto svanisce in sei anni, ovviamente molto meno dei dieci previsti dalla legge al netto di ogni blocco.
Secondo alcuni, la riforma Cartabia tutto sommato andrebbe sostenuta perché il suo vero obiettivo è spingere i magistrati a essere più efficienti nella fase dell’appello, che spesso costituisce un vero e proprio collo di bottiglia nel sistema. Resta però che i processi non si velocizzano per decreto, ma con misure adeguate che supportino efficacemente il lavoro dei magistrati. A partire dall’abolizione del “divieto di reformatio in peius” : se soltanto l’imputato ricorre contro la sua condanna, questa non può essere peggiorata neppure di un giorno o di un euro. Morale? Non rischiando niente, tutti ricorrono sempre, il sistema si ingolfa e i processi non finiscono mai. Mantenere un simile obbrobrio è puro masochismo processuale! A che serve? Di certo non a rendere la giustizia più efficiente.
Carlo Rossella, Christian Rocca e la propaganda bellica contro l’Iraq
Ancora su Rumsfeld e i propagandisti italiani che sostennero la guerra in Iraq basata su bugie. Dopo quello di Giuliano Ferrara, non va dimenticato l’apporto generoso di Carlo Rossella, all’epoca direttore di Panorama, dove, oltre a far ritoccare la pelata di Berlusconi in copertina, e anni prima di definire i bunga bunga “cene eleganti”, accreditava la guerra in Iraq come una guerra contro il terrorismo, arrivando a mandare in edicola un numero del settimanale (“Avanti, marines!”) così spudorato che il Cdr se ne dissociò con un comunicato in ultima pagina. Rossella inoltre si produsse a Domenica In, davanti a una costernata Mara Venier, in un accorato appello alla guerra contro Saddam perché (strepitò) “possiede armi di distruzione di massa!”. Panorama, nel settembre 2002, aveva pubblicato la notizia dell’Iraq che aveva acquistato uranio dal Niger: era falsa (come un anno prima l’articolo di Jannuzzi su un fantomatico incontro a Lugano di giudici contro Berlusconi), ma perfetta per i magheggi di chi voleva scatenare la guerra in Iraq. La Cia ammetterà poi che non c’erano prove che l’Iraq avesse tentato di comprare uranio dal Niger, ma che comunque questo era l’indizio che la parola “Iraq” poteva essere usata in una frase insieme alla parola “uranio”. Nota personale: me ne andai da Rolling Stone quando il condirettore Carlo Antonelli intervistò Rossella sui suoi gruppi rock preferiti negli anni 60, invece di chiedergli conto della propaganda bellica di cui era stato fra i protagonisti; e questo nel numero sulla guerra in Iraq in cui un mio articolo parlava di Rossella e del falso documento dell’informatore Sismi, Rocco Martino, qualche mese prima che Repubblica facesse scoppiare in Italia lo scandalo Nigergate. Chiudiamo dunque con Christian Rocca, le cui gesta di garbuglione atlantista, tendenza Iraq Group, meriterebbero almeno un cinepanettone. I titoli dei suoi libri di politica estera sono eloquenti: Esportare l’America. La rivoluzione democratica dei neoconservatori, Contro l’Onu, Cambiare regime: la sinistra e gli ultimi 45 dittatori: in questo rifrullava tutto l’armamentario dei neo-con americani per dire che insomma la cacciata di Saddam doveva essere una posizione di sinistra. Come se fosse di sinistra sostenere una guerra illegale, coloniale e criminale basata su bugie (a Roma, quel libro di Rocca fu presentato da Adriano Sofri, Ferrara e Fassino). Con la stessa sicumera con cui Rumsfeld, nel settembre 2002, sosteneva di avere prove bulletproof (a prova di proiettile, certe) dell’alleanza (inesistente) fra Saddam e al Qaeda, Rocca era pro-guerra in Iraq e definiva il Nigergate una barzelletta. Poi, nel 2012, Michele Bordin parlò su Radio Radicale delle visite di Rocca e Ferrara nella sede del Sismi di Pollari & Pompa di via Nazionale, e gli entusiasmi bellici di Rocca assunsero una luce sinistra, sicché Ferrara intervenne a buttarla, al solito, in caciara (“Eravamo noi a orientare il Sismi”: bit.ly/3jKSXMi), ma Repubblica replicò a muso duro: bit.ly/3ypeD4s.
Maggio 2005: il Times pubblica un documento riservato dell’intelligence inglese che svela come l’Amministrazione Bush avesse deciso già nell’estate 2002 di invadere l’Iraq, e di “alterare a questo fine fatti e intelligence”. Rumsfeld continuerà a fingere spudoratamente: in una conferenza stampa al Pentagono cercò pure di smentire i giornalisti Usa che avevano raccontato una strage di civili a Samarra. Questa sua bugia immonda fu smascherata da Wikileaks: bit.ly/3hCksVC. Adesso che Rumsfeld è morto, Kissinger può gongolare: “Rumsfeld ha solo 400 mila morti sul groppone, io 4 milioni. Niente Nobel per la pace, ai pivelli”. (6. Fine)
Il leader Iv confonde anche i suoi diritti
Immunità parlamentare questa sconosciuta. Nel senso dell’articolo 68 della Costituzione che la disciplina. Matteo Renzi martedì sera ha dichiarato di essere “disponibile a rinunciare all’immunità parlamentare”, in relazione alle inchieste per finanziamento illecito che lo vedono coinvolto a Roma e a Firenze. Peccato che nessuno – fin qui – gliel’abbia chiesto. Specialmente i magistrati, che al momento lo hanno solo iscritto nel registro degli indagati. Al contrario, in caso di richiesta di arresto, perquisizione o avvio di intercettazioni telefoniche e ambientali, la Procura dovrebbe chiedere l’autorizzazione a procedere al Senato, per poi passare alla votazione. Solo dopo l’indagato è chiamato a decidere, eventualmente, di “rinunciare all’immunità parlamentare”. A meno che l’ex premier e senatore di Italia Viva non temi il peggio. Insomma, è vero che quando era a Palazzo Chigi non vedeva l’ora di cambiarla, ma forse a Renzi converrebbe rileggere ogni tanto la Costituzione Italiana: potrebbe aiutarlo a fare meno confusione e a “tranquillizzarlo” anche di fronte ai suoi guai giudiziari.