Il Salvaladri abolisce il carcere. Tana libera tutti fino a 6 anni

È un ritorno al passato di quattro anni. Cancellando con un tratto di penna la riforma Bonafede del governo gialloverde. Non solo sulla prescrizione, ma anche sulle misure alternative al carcere per i condannati che ricalca il decreto Orlando del 2017 del governo Gentiloni. La conseguenza della nuova riforma firmata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia è questa: quando diventerà legge dello Stato, tanti riusciranno a evitare il carcere, sostituito con i domiciliari o la semilibertà. Misure alternative cui potranno accedere anche coloro ai quali vengono inflitte condanne pesanti, come a 9 anni di reclusione. Ma come si arriva a questa conclusione?

Partiamo dal principio. La riforma prevede questo: per le condanne fino a 4 anni il giudice può decidere di sostituire “tale pena con quella della semilibertà o della detenzione domiciliare”. Attualmente invece si possono concedere i domiciliari ai 70enni (per determinati reati) o a chi ha sì una condanna fino a 4 anni, ma a specifiche condizioni, come per le donne incinte o per chi ha problemi di salute particolarmente gravi. E ancora. La riforma per le condanne fino a tre anni prevede la possibilità di scontare la pena con il lavoro di pubblica utilità. C’è poi il capitolo della sospensione del processo con la messa alla prova: attualmente ciò è possibile solo per i reati fino a quattro anni. La nuova riforma alza l’asticella, comprendendo le pene fino a 6 anni per “ulteriori specifici reati” oltre quelli già previsti dal codice di procedura penale. Quali, non è chiaro.

Il rischio è che se la riforma diventerà legge, in molti riusciranno a evitare il carcere. E nei fatti in questa categoria rientrano se non tutti, molti reati. Come corruzione, rapina, associazione a delinquere, concorso esterno e così via. Gli escamotage sono presto fatti. Facciamo un esempio. Un uomo viene condannato a 9 anni. È incensurato e con le attenuanti generiche la condanna passa a 6. Ma ha anche scelto il rito abbreviato e ottiene un ulteriore sconto di pena di un terzo. Si arriva così a una condanna finale a 4 anni.

Gli emendamenti targati Cartabia, di fatto, estendono la riforma Orlando, che aveva iniziato a mettere mano alla legge Gozzini del 1975 per espandere le misure alternative al carcere. Lo aveva fatto con una delega ottenuta dal Parlamento il 23 giugno 2017 dopo il lavoro degli Stati generali presieduti dal penalista Glauco Giostra. Il decreto legislativo però era stato varato dal governo il 17 marzo 2018, dopo le elezioni del boom di Lega e M5S: la norma alzava la soglia da 3 a 4 anni per non scontare la pena nei penitenziari, dando discrezionalità al giudice di sorveglianza, ed estendeva la semilibertà a chi (anche se condannato all’ergastolo) aveva usufruito di permessi premio fino a 5 anni.

Una legge che aveva fatto gridare allo “svuota carceri” i vincitori delle elezioni. Alfonso Bonafede parlava di provvedimento “pericoloso” che minava “il principio della certezza della pena”. Matteo Salvini invece gridava alla “vergogna” perché un governo “bocciato dagli elettori” stava approvando “l’ennesima salva-ladri”: “Appena andremo al governo – prometteva il leghista – cancelleremo questa follia nel nome della certezza della pena: chi sbaglia paga!”. Il governo Conte-1 così nel 2018 aveva ridimensionato la riforma Orlando sulle pene alternative al carcere. Il 3 agosto l’esecutivo decise di non convertire in legge le misure di Orlando e di approvare tre nuovi decreti. Solo ieri Salvini si è ricordato dei suoi annunci e per la prima volta ha mosso una critica alla riforma Cartabia: “Ragionare su alcune pene alternative ci sta, ragionare sulla formazione professionale ci sta, ma svuotare le carceri con colpi di spugna no”. La prossima settimana, quando la riforma arriverà in commissione Giustizia, oltre alla diatriba sulla prescrizione su cui il M5S di Giuseppe Conte non transige, Lega e 5S presenteranno emendamenti per modificare le norme sulle misure alternative. Provando a scongiurare un altro colpo di spugna.

La Guardagingilli

L’equivoco del bravo banchiere “competente” e “migliore” per definizione in tutti i rami dello scibile umano sta crollando dinanzi alle scempiaggini che Draghi sforna a piene mani appena esce dal perimetro bancario. “Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno”. “Sì, è un condono fiscale, ma molto limitato e permette una lotta all’evasione più efficiente”. “Il cashback favorisce i più ricchi”. “Con quella Coppa gli Azzurri possono fare ciò che vogliono” (cioè violare il decreto Draghi contro gli assembramenti senza mascherine). “La responsabilità collettiva (nei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ndr) è di un sistema che va riformato. La riforma Cartabia è un primo passo che appoggio con convinzione”. C’è da sperare che i 52 agenti penitenziari arrestati per aver massacrato di botte i detenuti non leggano l’ultima, altrimenti hanno un alibi di ferro certificato dal premier: non è stata colpa loro, ma di un fantomatico “sistema”; e se, per evitare pestaggi futuri, occorre una riforma, vuol dire che i pestaggi passati e presenti sono previsti dalla legge vigente. In realtà sono da sempre vietati e attengono alla “responsabilità personale” di chi li commette. E la riforma Cartabia del processo (emendamenti peggiorativi alla Bonafede) non c’entra nulla con i pestaggi. Se cercano pretesti per giustificare il nuovo Salvaladri, se ne inventino un altro: questo non attacca.

A meno che non si riferiscano all’altra schiforma minacciata dalla ministra tramite Repubblica: la modifica della legge Gozzini, cioè dell’ordinamento penitenziario del 1975 che ha reso la certezza della pena una burletta e la giustizia uno spaventapasseri: una roba che fa paura da lontano e fa ridere da vicino. Ma questo alla Cartabia non basta ancora: vuole completare il colabrodo con la definitiva decarcerazione. E in effetti, svuotando le carceri, il problema dei pestaggi sarebbe risolto: eliminando non i picchiatori, ma i detenuti da picchiare. L’ideona si basa su un refrain ripetuto a ogni piè sospinto dall’ex cheerleader di Formigoni: “Non può essere il carcere l’unica pena per chi commette un reato”. Che, detto in Italia, è meglio di una barzelletta. Il suo amico Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione e altri delitti, è uscito dopo 5 mesi. Il suo alleato B., condannato a 4 anni per una mega-frode fiscale, se l’è cavata con 10 mesi di visite trisettimanali a un ospizio. Verdini, amico dei suoi alleati, condannato a 6 anni e 6 mesi per bancarotta fraudolenta, è uscito dopo meno di 3 mesi con la scusa del Covid (gli altri 1200 ospiti di Rebibbia invece no) e i giudici hanno appena confermato che può restarsene a casa perché “ha accettato la pena”.

 

Come se chi accetta la pena meritasse un premio. “La condanno all’ergastolo, che fa: accetta?”. “Ma sì”. “Perfetto, fuori”. Oggi, su circa 90 mila detenuti, 30 mila (un terzo) sono fuori in pena alternativa perché condannati a meno di 4 anni (anche per reati gravissimi: il tetto sale a 7 anni con gli sconti di un terzo per i riti alternativi). Fanno eccezione i soggetti mal difesi e gli stranieri senza fissa dimora: cioè i poveracci. E in una simile farsa che ci viene a raccontare la Cartabia? Che “il carcere non può essere l’unica risposta al reato”. Come se oggi ogni condannato finisse in carcere, mentre tutti sanno che non ci finisce nemmeno un decimo. Ora tenetevi forte e sentite cos’ha in serbo la Guardagingilli. Per le condanne fino a 4 anni (cioè a 7 col patteggiamento o col rito abbreviato, sempreché qualcuno ancora li chieda, con la prospettiva dell’improcedibilità in appello), il carcere resta finto: domiciliari o servizi sociali o semilibertà. Però oggi almeno i condannati sopra i 4 anni vanno in galera, salvo chiamarsi Formigoni e Verdini. Niente paura, Nostra Signora dell’Impunità ha pensato anche a loro con la “messa alla prova”, che sospende il processo e poi lo annulla se l’imputato chiede scusa, ripara il danno e chiede scusa alla vittima: non più per i reati puniti fino a 4 anni, ma addirittura fino a 6 (inclusi quelli sessuali, fiscali, tangentizi, edilizi, ambientali, gli omicidi colposi e naturalmente le violenze delle forze dell’ordine tipo S. M. Capua Vetere). Non solo: per questi reati si potranno pure evitare la confisca dei beni e il licenziamento, finora esclusi dal patteggiamento.

Una pacchia senza fine per i criminali e una beffa alle vittime, alla collettività e a quei fessi di cittadini che si ostinano a rispettare le leggi. Molte di queste facezie erano già nella “riforma” Orlando, quintessenza dell’impunitarismo “de sinistra” che contribuì alla débâcle elettorale del Pd nel 2018 e alla vittoria dei due partiti che si battevano per la certezza della pena: 5Stelle e Lega (poi convertita all’impunitarismo “de destra”). Infatti il governo gialloverde, con Bonafede ministro, smantellò la boiata. Ora, in barba alla volontà popolare, si ricomincia dando la mazzata finale a quel poco che resta dello Stato di diritto. Il tutto, barzelletta nella barzelletta, mentre si combatte sul ddl Zan per punire parole e violenze discriminatorie (rispettivamente) fino a 18 mesi e a 4 anni: altri processi nati morti o destinati a pene finte. L’ennesima macchina per tritare l’acqua. Alle prossime elezioni, chi avrà votato queste follie spiegherà agli elettori che è giusto mandare impunito uno stupratore perché è poco carino che il suo processo d’appello duri 2 anni e 1 giorno. Così gli elettori sapranno cosa fare.

 

Ferdinandea, da 190 anni è sempre l’isola che non c’è

Fu d’improvviso un ribollio dal profondo delle acque. La terra incessantemente tremava. Tra Sciacca e Pantelleria, nel Canale di Sicilia, i pescatori notarono qualcosa di insolito. Lo strano fenomeno si ripeté per giorni e poco a poco prese forma la speranza che da quel crescente sciabordio sarebbe emersa una sorpresa. Si levò una colonna d’acqua mista a magma e tra i vapori apparve dinanzi agli occhi attoniti degli isolani la neonata gemella minore. Centonovant’anni sono trascorsi da quell’avvistamento a 27 miglia dalla costa della Sicilia occidentale. Era il mese di luglio del 1831. Da Sciacca, Menfi, Mazara e Marsala si vide un’eruzione al largo da cui apparve “l’isola che non c’è”. Verrebbe spontaneo pensare – parafrasando Bennato – che pazzia, è una favola, è solo fantasia.

E invece no, la nostra isola Ferdinandea è esistita per davvero. Il tempo giusto per lasciare estasiati gli astanti. Un lasso brevissimo, eppure sufficiente ai governi dell’epoca per inscenare una fervida contesa su chi dovesse rivendicarne la paternità. E, infine, la durata necessaria a cristallizzare nei secoli il fascino di una storia che ancora popola l’immaginario collettivo di poesia e mistero. Con l’eruzione, che proseguì per settimane, si formò un cono vulcanico alto 65 metri, largo 300 circa e di un chilometro di circonferenza. Dal mare affiorò la sommità densa di fumi tossici e materiale rovente. Si avventurarono i più curiosi a osservare il fenomeno e lo descrissero. Di quella vicenda restano alcuni campioni di materiale eruttato custoditi nei musei e le cronache del tempo. Ciascuna potenza considerò la neonata isoletta di sua proprietà e le attribuì un nome. Non perse tempo Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie. Mandò sul posto a piantare la bandiera borbonica le truppe guidate dal capitano Giovanni Corrao , che la battezzò in suo onore. Gli inglesi giunti da Malta fecero lo stesso e la chiamarono “isola di Graham”. Per i francesi divenne “Julie”. A porre fine alla controversia diplomatica fu il moto ondoso che la sgretolò, relegandola a 7 metri di profondità sotto il livello del mare asservita alla volontà suprema del vulcano Empedocle e al genio degli artisti che la celebrano ancora.

Il “sogno” che vive in guerra. Dalla Resistenza al golpe

È stato l’italiano più anticomunista del Novecento. Sino al punto da combattere le proprie battaglie per ben due volte al fianco degli altri grandi nemici della sua vita di liberale: i fascisti. Durante gli anni Trenta, quando partecipò alla Guerra di Spagna, ma accanto ai volontari italiani che stavano con Francisco Franco; e poi nell’ultimo scorcio della sua vita. Quando accettò di candidarsi, nel 1996, sotto le bandiere di An come indipendente. Lui, medaglia d’oro della Resistenza, nel collegio dell’antifascista città di Cuneo: non sarà però eletto.

Ma quell’epica leggenda del conte Edgardo Sogno Rata del Vallino, il comandante partigiano “Franchi”, un guerriero senza macchia e senza paura, a metà tra D’Artagnan e la Primula Rossa, pronto a vestirsi da ufficiale della Wehrmacht per liberare Ferruccio Parri prigioniero dei tedeschi all’Hotel Regina di Milano, aveva già dovuto affrontare una contraddizione ancora più stupefacente. È il 6 maggio 1976, infatti, quando l’allora giudice istruttore di Torino, Luciano Violante, manda l’Antiterrorismo ad arrestarlo nella casa di famiglia. Lo scandalo è enorme. Violante lo accusa di aver preparato il progetto di un “golpe bianco”, con lo scopo di costruire una Repubblica presidenziale.

Storie di ex partigiani monarchici, come Enrico Martini Mauri, di “padri della patria” come l’ex ministro della Difesa Randolfo Pacciardi, ma anche di oscuri personaggi legati ai servizi deviati e a Licio Gelli e i cui nomi ricompariranno poi nei processi per le stragi. E di finanziamenti che giungono dal gotha industriale: Gianni Agnelli, interrogato da Violante, sosterrà che i soldi della Fiat a Sogno erano pochi e concessi in quanto leader della destra del Pli.

Il conte sarà poi scarcerato, mentre la vicenda giudiziaria si trascina tra polemiche ferocissime. Alla fine, trasferita a Roma dalla Cassazione, si chiude nel 1978 con il proscioglimento di tutti, firmato dal giudice Francesco Amato.

Fu decisiva, però, una mossa del capo dei Servizi segreti, il generale Vito Miceli, che chiese al governo di mantenere il segreto di Stato. Sono i famosi “omissis” che accompagneranno per sempre quell’indagine: Amato se ne lamenterà con aspro rammarico. Un epilogo che segnerà sino alla fine la figura del Sogno anticomunista, contrapposto al suo “avversario rosso”: quel Luciano Violante che, lasciata la magistratura, è diventato parlamentare del Pci. Un odio viscerale che non lo abbandonerà mai più, pronto a riesplodere a ogni nuovo successo del suo “nemico”.

Ma chi era questo rocambolesco personaggio che ha attraversato le ideologie del Novecento? Era nato a Torino, da una nobile famiglia, il 29 dicembre 1915, nella stessa casa dove sarebbe morto il 5 agosto 2000. Un destino segnato dalla tradizione: studi di Giurisprudenza, letture dei grandi autori del liberalismo, la carriera militare nel Nizza Cavalleria, la diplomazia. Giovane e irruento sceglie di andare coi franchisti: “Dall’altra parte c’era Stalin: il pericolo più grande in quel momento”. La situazione, però, sta cambiando. Dopo, “il pericolo più grande” diventa il nazismo (“Hitler e Stalin sono stati i veri nemici dell’umanità, non Mussolini”). Quando in Italia entrano in vigore le leggi razziali, si appunta sulla giacca una stella di David e allaccia i contatti con la principessa Maria José. Con l’8 settembre 1943, Sogno decide di stare col re. Ma soprattutto con gli inglesi, i cui servizi segreti stanno cercando uomini fidati per la guerra partigiana e, in particolare, per il dopo fascismo. Nasce la mitica “Formazione Franchi”, quella cui sono riservati i messaggi in codice di “Radio Londra”. Un’attività frenetica, sempre in contatto con l’intelligence britannica.

Alla fine della guerra, Sogno diventa un consigliere di Umberto II, il “re di maggio”. Dopo il referendum, gli propone addirittura un colpo di Stato, utilizzando le truppe polacche del generale Anders che avevano combattuto a Montecassino. Il sovrano, però, decide di partire per l’esilio. Lui, invece, non lo segue: va in servizio diplomatico a Buenos Aires, Parigi, Londra, Washington e, come ambasciatore, in Birmania. Infine, il rientro in Italia: nella politica del Pli e in quella più segreta dell’anticomunismo militante. Nascono “Pace e libertà” e poi i “Comitati di Resistenza Democratica”. “Sogno, Sogno, l’Italia ne ha bisogno…”, si urla nei cortei della “maggioranza silenziosa”. L’inchiesta di Violante è alle porte.

Dopo lunghi anni di silenzio e di emarginazione politica (contrastò invano nel Pli Valerio Zanone), il conte torna alla ribalta negli anni Ottanta, cominciando a collaborare all’Avanti! di Craxi. Durante le polemiche su Gladio, nel 1990, Francesco Cossiga rivelerà che cosa contenevano i famigerati “omissis”: l’attività clandestina di Sogno nella rivolta d’Ungheria del ’56. Nel dopo Tangentopoli, si avvicina a Berlusconi e accetta la candidatura di An: sempre pronto ovunque ci fosse da accusare “il comunismo e i suoi eredi”. Ultimo, autentico testimone della Guerra fredda.

Senza il Palio di Siena, gli “assassini” tornano in Piazza del Campo grazie a Marco Delogu

È questa la vera notizia: il Palio di Siena, quest’anno, ci sarà. Sì, certo: i giornali hanno scritto che, a causa del Covid non si sentirà nessuno scoppio di mortaretto ad annunciarne l’inizio e che nessuno, infine, trionferà. Ma dove le realtà manca un appuntamento, giunge l’arte a ridarle respiro.

Dal 2 luglio – la data della “Carriera di Provenzano”, cioè il primo Palio – è dislocata per tutta la conchiglia della storica piazza senese la mostra fotografica I trenta assassini di Marco Delogu, proprio quale avamposto della realtà mancante o, prendendo in prestito il codice digitale, quale esempio di realtà aumentata. “Assassini” è il soprannome dei fantini. Si tratta di cinquanta primi piani in cui vengono immortalati i protagonisti di ieri e di oggi. “Torno a ritrarre i fantini del Palio dopo oltre vent’anni” spiega il fotografo. Lo aveva già fatto nel 1998, ma per via del naturale ricambio generazionale era sempre più sottile il legame tra quei primi trenta ritratti e chi corre oggi. “Poiché anche quest’anno non si correrà ho voluto colmare questa mancanza, ritraendo i nuovi fantini, e orchestrando un’esposizione e un nuovo volume che mettesse insieme passato e presente. Il primo di loro, Tripolino, ha esordito nel 1930; l’ultimo, Scangeo, nel 2019”.

Delogu crea una mostra che riempie il vuoto di Piazza del Campo ed è una festa mobile per i sensi: gli occhi penetranti di Carlo Sanna detto “Brigante” e quelli tersi di Alessio Migheli detto “Girolamo”; le sopracciglia nerissime di Sebastiano Muras detto “Grandine”; le labbra ora arricciate di Giovanni Zedde detto “Gingillo”, ora ricoperte di morbida barba di Giosué Carboni detto “Carburo”. La scelta del primo piano è chiara per l’artista: “È uno scatto che non mente, che rivela tutto”. Lui che li ha visti da vicino e sentiti parlare, che ne ha auscultato l’esitazione e l’imbarazzo, il fiato trattenuto prima della posa e il sospiro rilasciato dopo il click: “Non sono dei tronisti, non hanno nessuno di quegli stilemi. Sono belli, bellissimi. Ragazzi puliti che al mattino si alzano alle cinque per andare a lavorare, che vanno a cavallo ‘a pelo’ senza sella. Sono appassionati”. Da sempre sensibile al tema dell’appartenenza e delle radici, Delogu nota con orgoglio che dei nuovi sedici fantini, ben dodici sono sardi. Perché, come sempre accade, indagare le esistenze degli altri equivale a spogliare qualcosa di sé: “Ci sono le mie origini, la mia sarditudine, il mio amore per i cavalli. C’è un pezzo della mia storia, della mia identità. Sono nato e cresciuto a Roma, ma da piccolo passavo le vacanze dai nonni in Sardegna, in mezzo alle campagne sul mare della Barbagia e tra i cavalli. Nel confrontarmi con questi sardi che vivono nel senese, c’è una parte di autoritratto, di come ho vissuto, io che quando ero in Sardegna per tutti ero romano, e quando tornavo a Roma ero sardo, come se mi mancasse sempre qualcosa”. Ed ecco un’altra mancanza, quella definitiva. Allora è vero che l’arte ripara la vita.

Audiard e i giovani precari tra sesso, “dating”e call center

Il piccolo film di un grande autore è grande o piccolo? Sorto a Cannes 74 per Tre piani di Nanni Moretti, l’interrogativo si ripropone per Les Olympiades (Paris, 13th District) di Jacques Audiard, già Grand Prix per Il profeta (2009) e Palma d’Oro per Dheepan (2015). Dai fumetti dell’americano Adrian Tomine, sceneggiato con due altre registe, Céline Sciamma, la cui mano ideologica si sente eccome, e Léa Mysius, inquadra le storie di tre ragazze e un ragazzo nel tredicesimo arrondissement, la Chinatown parigina: istruzione senza sbocco, call center e agenzie immobiliari, sesso che si vorrebbe senza impegno, app di dating e amor “ch’al cor gentil ratto s’apprende”, il bianco e nero stilizza e stigmatizza le geometrie variabili, ovvero precarie, dell’essere giovani oggi. Facilità e felicità di regia, freschezza poetica ammirevole, colonna sonora di Rone perfetta e interpreti aggraziati, va tutto bene, ma la proporzioni sono del Kammerspiel giovanile, anzi, del dramedy da appartamento condiviso: può il settantenne Audiard ridursi a coinquilino del suo stesso cinema? Meglio, comunque, dell’indie americano Red Rocket, diretto dal Sean Baker del meritevole The Florida Project (2017), che segue il ritorno nella cittadina natale in Texas di Mikey Saber (Simon Rex, che ha veri trascorsi nel cinema hard), attore a luci rosse fallito che nessuno vuole rivedere. Sedurrà una diciassettenne commessa di un negozio di donuts, Strawberry (Susanna Son), ma la parabola della pornostar prodiga lascia abbastanza indifferenti: i caratteri non hanno evoluzione, il white trash è stato raccontato meglio altrove, lo sbadiglio è facile. Decisamente più ambizioso, sempre in Concorso, The Story of My Wife della valente ungherese Ildikó Enyedi, che adattando il romanzo (1942) del connazionale Milán Füst firma il debutto in lingua inglese e scruta negli anni Venti il matrimonio tra uno statuario capitano di fregata olandese (Gijs Naber) e la sua destabilizzante sposa francese (Léa Seydoux). Tre ore di durata, ricostruzione storica agiata e sontuosa, il focus è sul sospetto tradimento, anzi, sulla paranoia, e le sottigliezze non mancano, sebbene il nostro Sergio Rubini, decisamente sopra le righe, non vi rientri. Assente perché malata di Covid, la trentaseienne francese Léa Seydoux, che oggi è forse la più grande interprete del cinema mondiale, è esaltante, al pari del protagonista Denis Podalydès, nello spassoso Deception di Arnaud Desplechin. Dal libro omonimo (Inganno) di Philip Roth, i dialoghi sono in francese e qualcuno storcerà il naso, ma lo script di Desplechin, gli attori e il décor elevano a insindacabile potenza artistica: peccato non corra per la Palma.

Crimine sì, e poi botte“ ai nazi. Il ‘Ritorno’? Ho pure il ter”

Ha un che di festa, Ritorno al crimine. Quelle un po’ caotiche, imprevedibili, dove spesso non si conoscono tutti gli invitati, ma non importa, il tono è chiaro e basta farsi cullare da musica, vino e “pistole” per trovare la giusta sintonia.

Padrone di casa è Massimiliano Bruno, regista e attore del film arrivato al secondo capitolo, insieme a un gruppo di interpreti (in primis Alessandro Gassmann, Edoardo Leo, Marco Giallini e Gianmarco Tognazzi) che rivestono i panni di improbabili criminali e tornano al tempo della Banda della Magliana, “anche se questa volta andiamo pure a Napoli e prendiamo in giro Gomorra”, racconta Bruno. Nel cast i cammei di Antonio Cabrini e Bruno Conti, investiti dalla sana commedia all’italiana, quando la cattiveria non era da bollino rosso: il primo viene preso in giro per com’è invecchiato, una sorta di “guarda com’eri e guarda come sei”; il secondo per la capigliatura immutabile (“E avevamo contattato pure Paolo Rossi e Marco Tardelli”).

Oltre al set, siete realmente un gruppo di amici…

Edoardo Leo è mio fratello ed è bravissimo in veste comica, nonostante non sia la sua cifra classica; poi anche con gli altri ci conosciamo da una vita.

Menzione alla Goggi.

Una persona fantastica: durante una delle pause le abbiamo chiesto di cantare Maledetta primavera e lei ha accettato, con la troupe in coro.

Si è prestata.

È una compagnona, giovane dentro; è una persona brava, intelligente e divertente; e poi ha studiato la Pastorelli (protagonista del primo episodio: interpreta lo stesso personaggio, 35 anni dopo), e ora parla esattamente come lei.

Con Leo siete cresciuti insieme.

Ci siamo conosciuti al Locale (celebre “locale” romano degli anni 90): c’erano pure Valerio Mastandrea, Daniele Silvestri, Rocco Papaleo, Angelo Orlando e Marco Giallini.

Al Fatto ha dichiarato anni fa: “Preferisco il ruolo di regista e sceneggiatore a quello di attore”.

È sempre così. Per questo ho rifiutato tantissimi ruoli e solo in pochi casi ho accettato senza sapere niente, come in Boris e L’ispettore Coliandro.

Refrattario.

Preferisco impegni di tre o quattro giorni, altrimenti mi scoccio; anche nei miei film ho piccole parti.

A 50 anni è diventato un “maestro”?

Ma come si fa? Mi occupo di commedie e intrattenimento, di cultura pop: i maestri sono altri; (ci pensa) ho conosciuto dei grandi maestri che poi si sono rivelati deludenti a livello umano, e persone che artisticamente non apprezzavo, ma che si sono tramutate in punti di riferimento professionale.

Un maestro per lei.

Gigi Proietti, eppure per la critica cinematografica era solo da film commerciali: quando ci parlavi ogni momento si tramutava in lezione di vita e artistica. Carisma raro.

Se potesse tornare indietro nel tempo, quale segreto vorrebbe scoprire?

Forse andrei a Bologna il 2 agosto 1980; (pausa) no, vorrei prendere un caffè con Mussolini per scoprire come parlava nel quotidiano, se anche nel privato manteneva la voce e l’atteggiamento da folle (ne fa una super imitazione).

Regista sempre.

Sogno un film basato su una storia omosessuale tra Hitler e il Duce.

Tra le sorprese di Ritorno al crimine c’è Achille Lauro.

Che carino. All’inizio ero spaventato, pensavo fosse un tipo trasgressivo e aggressivo, invece è arrivato e si è rivelato un tesoro: educato, preparato, bravissimo. E ho capito che è un vero professionista, nato per stare nel mondo dello spettacolo.

Ha imparato a sgridare sul set?

Non ce la faccio. Per questo prendo sempre degli aiuto registi cattivissimi; (pausa) alla fine penso sempre che in fondo è un film e non è necessario incavolarsi, un po’ come prima della finale ha dichiarato Mancini, quando gli ponevano domande apocalittiche: “È una partita di calcio”.

Relativizza.

Difendere spocchiosamente, narcisisticamente e in maniera violenta le proprie idee sul set, non fa parte di me. Non urlo e non tiro sedie.

Ha mai ricevuto sediate?

Seeeee, sa dove je la metto (ride). Pubblica questa risposta?

Sì.

Se vuole cambiamo con “mi faccio rispettare”.

Vita reale o il set?

Reale. Sul set, quella del regista non può essere reale perché è un incrocio tra chi ti vuole blandire e chi fregare.

Ne soffre?

Quando conosci i meccanismi, sai come attrezzarti per aggirare certe logiche.

Tra poco, come attore, torna in Boris

Non so ancora quando inizieremo, forse a settembre: rispetto a 15 anni fa siamo tutti molto più impegnati tra lavoro e famiglia, ed è complicato incrociare le agende di Pietro Sermonti, Caterina Guzzanti e anche la mia. Però amo Boris.

Non ci sarà il contributo alla sceneggiatura di Mattia Torre, morto due anni fa.

Mi fa effetto, per questo ci ho pensato due volte prima di accettare: Mattia era bravissimo e mancherà la sua anima, il suo lato poetico, ma Ciarrapico e Vendruscolo (gli altri due autori) sono fortissimi.

Di Ritorno al crimine ci sarà il terzo capitolo…

Lo stiamo montando ed è tutto ambientato nel 1943: una battaglia della Banda della Magliana contro i nazisti. E i nazisti perdono. Di brutto.

Capitol Hill de noantri: deputati a prova d’assedio

Con l’aria che tira e pure la dea sfortuna sempre in agguato, non si scherza in tempi di pace e figurarsi in questi: bisogna esser pronti a tutto, pure a darsela a gambe e mettersi rapidamente in salvo, ché una scossa, un incendio o pure un’alluvione possono mettere in ginocchio il Palazzo.

Specie ora che si è materializzato un altro rischio che si è andato ad aggiungere a quelli classici, per quanto si possa fare il callo all’idea di una qualche sciagura naturale: la preoccupazione più grande, dopo il Covid che ha persino modificato la logistica di Montecitorio, vive nelle immagini ancora terrorizzanti del Congresso americano preso d’assalto all’inizio dell’anno dai trumpiani in occasione della seduta che avrebbe dovuto confermare la vittoria dell’odiato Biden alle Presidenziali. Bilancio: alcuni morti, diversi feriti, l’idea devastante della democrazia sotto assedio da parte di facinorosi di ogni fatta anche en travesti. Come dimenticare Jake Angeli, l’uomo-bufalo apostolo della teoria cospirazionista di QAnon? Ad aprile lo spettro dello sciamano si è riproposto in piazza del Parlamento, e che importa se era un ristoratore inferocito per le restrizioni imposte dall’emergenza coronavirus? corna minori si dirà, ma tant’è. Da allora la guardia è alta fuori, ma pure dentro la Camera dove, toccando ferro affinché nulla di tutto questo si debba verificare mai, né terremoti, né orrende pire né tantomeno allarmi sicurezza, ci si prepara: insomma, a Palazzo, oggi sono in programma le prove di evacuazione generale dall’aula, come era stato già fatto nella scorsa legislatura quando però Capitol Hill preso a fucilate non era neppure tra gli incubi peggiori.

E così, il 30 giugno, la conferenza dei capigruppo di Montecitorio presieduta da Roberto Fico ha convenuto che era il caso di farla l’esercitazione, per capire in che tempi i deputati siano in grado di imboccare le vie d’uscita e mettersi al riparo. Pronti, partenza via, cronometro alla mano. Perché non è una gara di velocità, ma insomma, l’invito è quello ad affrettare il passo: la riuscita o meno dell’esercitazione, e dunque l’efficienza del piano di sicurezza, dipende sostanzialmente dalla capacità di darsi una mossa e imboccare i percorsi di uscita più semplici e più rapidi, possibilmente senza creare code né assembramenti.

Insomma, i tappi o colli di imbuto che possono essere fatali in caso di emergenza. “Il personale di vigilanza svolgerà una rilevazione statistica sui tempi di svolgimento dell’esercitazione. Affinché risulti attendibile, sottolineo l’opportunità di procedere all’esodo senza indugio”, ha spiegato il vicepresidente della Camera, il meloniano Fabio Rampelli, nella circolare informativa inviata nei giorni scorsi ai membri dell’Ufficio di Presidenza, ai presidenti delle giunte e delle commissioni, ai presidenti delle delegazioni parlamentari presso le Assemblee internazionali, ai presidenti di gruppo e ovviamente anche a tutti i deputati semplici: insomma a tutti gli eletti perché si spera nella massima partecipazione, anche se di giovedì è sempre difficile il pienone, specie nel pomeriggio ché per tradizione c’è il fuggi fuggi con le valigie. Il collegio dei questori della Camera ha previsto la partecipazione massima e ha organizzato tutto al centimetro, manco fosse la Svizzera.

Ogni deputato, ovunque sia posizionato, dovrà imboccare una via di fuga ben precisa, poi le scale e infine arrivare a una tra le quattro uscite da Palazzo, che poi sono l’ingresso principale su piazza Montecitorio nonché quelli di via dell’Impresa, via della Missione e piazza del Parlamento. Il fischio d’inizio lo comunicherà il presidente di turno e solo allora ci si potrà incamminare, ma alla svelta, lungo i percorsi guidati verso le uscite. Chi ha dubbi potrà consultare il materiale informativo, magari prima che inizi l’esercitazione. I più distratti potranno comunque fare affidamento sugli assistenti parlamentari mobilitati per fornire tutte le indicazioni eventualmente necessarie: in teoria se tutti usano la testa, la faccenda è semplice anche se non tutti ancora conoscono il Palazzo come le loro tasche, ché alla Camera nel 2018 sono entrate tantissime nuove leve tra gli eletti. E poi c’è pure l’incognita Covid che ha trasformato Montecitorio al punto che non è facile raccapezzarsi neppure per gli inquilini più navigati.

“Nella giornata di giovedì 15 luglio, al termine delle votazioni della seduta dell’Assemblea è previsto lo svolgimento della prova d’esodo dell’aula di Palazzo Montecitorio nella sua attuale configurazione allargata”, ha dovuto specificare Rampelli ché la configurazione logistica prevede, per le note ragioni legate al virus e alle esigenze di distanziamento conseguenti, che i deputati prendano parte ai lavori anche sulle tribune e nelle postazioni allestite lungo il Transatlantico, divenuto a tutti gli effetti aula e un tempo corridoio dei passi perduti. Che nell’esercitazione di oggi dovranno essere soprattutto svelti.

Est, nuovo muro anti-migranti

La Lituania costruisce un muro da 41 milioni di euro al confine bielorusso per fermare migliaia di migranti usati come “arma ibrida” da Lukashenko.

Un nuovo muro viene eretto a est: sarà lungo 550 chilometri e costerà 41 milioni di euro. Lo costruirà la Lituania al confine con la Bielorussia per frenare l’entrata nel Paese di migliaia di rifugiati in arrivo dallo Stato di Lukashenko. “Migranti e richiedenti asilo, originari di Afghanistan, Siria ed Iraq, (soprattutto curdi), vengono usati come ‘arma ibrida’ dal presidente di Minsk”, ha detto la premier lituana Ingrida Simonyte, che ha dichiarato lo stato d’emergenza nel Paese e schierato l’esercito alla frontiera.

Circa duemila persone hanno attraversato negli ultimi tre giorni i boschi al confine tra i due Paesi ex-sovietici: “I migranti riescono a raggiungere la Bielorussia tramite ‘agenzie di viaggio’ che operano per organizzare voli aerei da Istanbul e Baghdad verso Minsk”, ha chiosato ancora la premier, che ha accusato il capo di stato bielorusso di organizzare i flussi per destabilizzare l’Europa. Ylva Johansson, Commissaria Ue per gli Affari interni, ha allarmato l’Unione per la gravità della situazione: “Lukashenko usa esseri umani come strumenti di pressione politica sugli Stati confinanti”, che hanno emesso, come molte altre nazioni europee, sanzioni contro il suo regime. Le ha fatto eco Charles Michel, presidente del Consiglio europeo: “le autorità bielorusse strumentalizzano la migrazione irregolare per farci pressione”.

Intanto Vilnius sceglie di dipanare il filo spinato prima che arrivino gli uomini e gli elicotteri che la Frontex, agenzia di frontiera Ue, ha promesso di inviare. Nelle ultime ore una nuova, controversa legge che permette la detenzione di massa dei rifugiati senza diritto di appello è stata appena approvata in Lituania, dove le autorità valutano la costruzione di strutture e campi profughi. Prima una recinzione, poi una vera e propria barriera fisica verrà eretta partendo da Druskininkai, al confine polacco, ha riferito Agne Bilotaite, ministra dell’Interno del piccolo Stato baltico che ha anche accolto la leader dell’opposizione Svetlana Tikhanovskaya, costretta a fuggire all’estero appena sono scoppiate le manifestazioni a Minsk la scorsa estate. “Se Ucraina, Polonia e Lituania pensano che la Bielorussia chiuderà i confini per diventare una colonia di rifugiati, si sbaglia di grosso”, ha detto Lukashenko, che solo due giorni fa sorrideva accolto al Cremlino di Mosca: “La destinazione finale dei rifugiati non siamo noi, ma la comoda Europa”.

Nero e ispanico, non voti. Biden scomunica il Texas

L’Aventino d’America è il Campidoglio di Washington: lì si sono “ritirati” i parlamentari democratici del Texas, nel tentativo, dall’esito incerto, di bloccare il varo di una legge dello Stato che rende più difficile l’accesso alle urne, specie di neri e ispanici. Protagonisti dell’esodo, compiuto un po’ alla chetichella, sono stati 46 deputati e nove senatori: si sono mossi in perfetta sintonia politica e coincidenza temporale con un discorso sul tema del presidente Joe Biden, a Filadelfia. Biden ha definito “un-American” i tentativi dei repubblicani, partiti dalla Georgia e in corso in 17 Stati, di limitare l’esercizio del diritto di voto. E il presidente ha indicato nella tutela del diritto di voto “la sfida del nostro tempo”. Ma – a giudizio dell’Ap – l’Amministrazione e i democratici hanno pochi strumenti per riuscire a salvaguardarlo: una legge federale è in discussione dal 2019, ma al Senato mancano i voti per approvarla.

La fuga dalla cupola di Austin, la più grande dell’Unione – in Texas, “tutto è grande” –, a quella di Washington dei deputati e senatori democratici, ha avuto momenti rocamboleschi, con il ricorso a voli charter privati. Alcune settimane or sono, c’era già stato un primo Aventino, meno spettacolare: i legislatori democratici avevano temporaneamente bloccato il passaggio della legge. Dopo quel fallimento, i repubblicani hanno però indetto una sessione straordinaria del Parlamento del Lone Star State, che dovrebbe protrarsi fino all’inizio di agosto: i parlamentari democratici dovrebbero dunque restare sull’Aventino fino ad allora, perché la loro strategia abbia successo. Secondo il Washington Post, i democratici texani avrebbero già raccolto un numero di adesioni sufficiente per impedire ai repubblicani di avere in aula il quorum di presenze necessario per rendere valide le deliberazioni. Ma il loro è anche un tentativo di fare pressione sul Congresso, affinché approvi una legge federale che tuteli il diritto di voto contro colpi di mano dei repubblicani, che, dove non sono maggioranza, provano a vincere tenendo lontano dalle urne gli elettori democratici. Il governatore repubblicano del Texas, Greg Abbott, un ‘ultra- trumpiano’ con qualche ambizione presidenziale, l’ha presa male e minaccia di far arrestare i parlamentari democratici dello Stato “fuggiti” a Washington. “È il comportamento più anti texano mai visto – commenta –, se ne vanno per non combattere, si sono arresi”. E Abbott aggiunge: “Una volta rientrati nel nostro Stato saranno arrestati e portati in Campidoglio per fare il loro dovere”: raro esempio di quorum manu militari.

Tutta la vicenda texana, e più in generale l’ondata di leggi “anti-voto”, sono frutto di quella che Biden e la Casa Bianca definiscono “la grande bugia” di Donald Trump sulle elezioni presidenziali che gli sarebbero state rubate. Nel discorso a Filadelfia, Biden, che finora ha sostanzialmente ignorato le sparate del suo predecessore, ha ribattuto alle false accuse del magnate ex presidente e ha puntato il dito contro quegli Stati a guida repubblicana che, con il pretesto di brogli e truffe, vogliono restringere l’accesso alle urne.

Che il Texas ci vada giù duro con gli ostinati del voto lo dimostra la vicenda di Hervis Rogers, che da eroe nazionale s’è ritrovato arrestato e rinchiuso in una guardina statale, in attesa che una colletta gli raccolga i 100 mila dollari di cauzione richiestigli. Il giorno delle Presidenziali, Rogers, un nero, era stato intervistato da tutti i media Usa: aveva dovuto aspettare per ben sette ore, fuori dal seggio, il suo turno per votare – ovviamente Biden, non Trump –. Ora il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, lo ha fatto arrestare con l’accusa di voto illegale, perché avrebbe illecitamente deposto la sua scheda mentre era in libertà condizionata dopo una condanna nel 2004 per un furto con scasso compiuto nel 1995.