Dobbiamo conviverci, inutile illudersi

Per mesiabbiamo parlato di come sarà l’era post-Covid. Pochi lo hanno fatto. Nessun problema, non ci sarà un post-Covid, almeno per decenni o forse per sempre. Siamo stati catapultati nell’era Covid. I grandi mutamenti storici sono stati segnati da eventi catastrofici o cruenti, spesso dovuti a invasioni di popolazioni in movimento. Oggi, la nostra era, appena cominciata, è dovuta non a un’invasione umana, ma a un’invasione virale, grazie alla Cina. Questa è l’evidenza dei fatti, a parte la querelle infinita tra virus naturale o di laboratorio. L’esplosione è avvenuta perché la miccia non è stata disinnescata in tempo. “In questo momento mi sento in colpa, con rimorso e rimprovero”, ha ammesso Ma Guoqiang, segretario del Partito comunista cinese (Pcc) di Wuhan. Zhou Xianwang, sindaco di Wuhan, ha ammesso di non essere stato autorizzato a parlare pubblicamente del virus fino a gennaio inoltrato, pochi giorni prima della messa in quarantena dell’epicentro del 2019-nCoV. Il danno è stato fatto, comunque, è ormai evidente che non abbiamo mezzi per vincere definitivamente questo dannato virus. Persino la quarantena, il più vecchio dei metodi utilizzati per fermare i contagi, oggi non funziona. Improvvisamente il mondo che, grazie alla globalizzazione, ci era apparso piccolo, adesso, per lo stesso motivo, è diventato troppo grande da gestire. Impossibile fermare una pandemia con immense disuguaglianze nelle capacità sanitarie. È questo l’incolmabile vantaggio del virus. Purtuttavia è indubbio che vogliamo continuare a vivere. L’evoluzione ci ha insegnato che, nei grandi mutamenti si salvano le specie che sanno adattarsi. Deve essere il nostro obiettivo. Dobbiamo adattarci alla convivenza con SarsCov2. È necessario che si promuova un’intesa internazionale sulle misure per il futuro (Oms, se ci sei, batti un colpo!). Bisogna stabilire il prezzo che si è in grado di accettare per andare avanti. Mentre il virus continuerà a mutare, cercando anche di rendere inefficaci i vaccini, noi dovremo avere sempre pronto un piano B.

 

Banche, FI e Lega regalano 2 miliardi a spese dei clienti

Nel decreto Sostegni bis c’è un regalo alle banche che vale due miliardi e mezzo e sarà pagato dai clienti. Lo hanno infilato Lega (primi firmatari Giuseppe Bellachioma e Claudio Borghi) e Forza Italia (Sestino Giacomoni) in Commissione Bilancio con un paio di emendamenti, approvati e divenuti definitivi grazie al voto di fiducia chiesto dal governo alla Camera. Nei prossimi giorni il dl passerà al voto del Senato, dove si prevede sarà approvato senza ulteriori interventi. Le modifiche modificano il Testo unico bancario per cancellare gli effetti a favore dei clienti della sentenza della Corte di giustizia europea dell’11 settembre 2019 sul caso Lexitor. La Corte ha stabilito che, in base alla direttiva europea 48 del 2008, nei crediti al consumo, finanziamenti e cessioni del quinto il cliente può rimborsare anticipatamente, in tutto o in parte, l’importo dovuto al finanziatore recuperando gli interessi e la quota di costi totali pagati ma non dovuti perché relativi alla durata residua del contratto. Secondo calcoli di Massimo Graziani, amministratore della società di consulenza Tutela Consumatore, considerato che i rimborsi possono essere chiesti per i contratti stipulati dopo il recepimento della direttiva nel 2010, solo per la cessione del quinto i clienti “scippati” sarebbero due milioni e i rimborsi “sottratti” varrebbero circa 2,5 miliardi. “La modifica di una legge non può essere fatta in un trafiletto di una misura di sostegno per il Covid, a discapito di milioni di clienti. Con questi emendamenti si pongono sullo stesso piano giuridico norme di diritto secondario, come le circolari di Banca d’Italia, e quelle di rango superiore dettate dal legislatore: un vero pasticcio! Inoltre gli emendamenti mettono in pericolo agenti e mediatori, perché le banche possono rivalersi nei loro confronti per recuperare le provvigioni”, spiega Graziani.

Secondo Paolo Fiorio, responsabile legale del Movimento Consumatori, “l’emendamento è contrario al diritto europeo perché fa salve le circolari di vigilanza della Banca d’Italia che, seguendo un’interpretazione non corretta delle norme italiana ed europea, consentivano di non restituire ai clienti oneri quali le commissioni di intermediazione e le spese di istruttoria perché indipendenti dalla durata del prestito. Anche per i nuovi contratti la modifica è non solo oscura e foriera di dubbi interpretativi, ma contraria al diritto europeo perché la Corte Ue ha precisato che la riduzione deve avvenire in maniera proporzionale e lineare e non con oscuri criteri come il costo ammortizzato che, grazie ai piani di ammortamento dei mutui, limitano la riduzione dei costi a danno dei clienti”.“Il Movimento Consumatori si rivolgerà alle competenti istituzioni europee e chiederà la remissione alla Corte di Giustizia”, afferma Alessandro Mostaccio, segretario generale Mc. “L’approvazione comporta una chiara violazione del diritto europeo a danno proprio dei consumatori più fragili. Si ripristinano condizioni di estinzione anticipata opache da cui stavamo uscendo con fatica. Auspichiamo che il governo, che ha posto al centro della propria azione politica la credibilità europea, non consenta un nuovo intervento salva-banche del tutto illegittimo, che ostacolerebbe i diritti al rimborso dei consumatori”, conclude Mostaccio.

Anche Whirlpool boicotta il patto di Draghi: tutti a casa

Niente da fare: nemmeno la Whirlpool rispetterà l’avviso comune firmato il 29 giugno da sindacati, governo e Confindustria. La multinazionale degli elettrodomestici non userà altra cassa integrazione: manderà subito a casa gli oltre 300 lavoratori di Napoli. Appena sbloccati i licenziamenti, insomma, l’azienda li ha messi in pratica. Con tanta fretta perché, dicono fonti vicine al dossier, la proprietà americana ha paura che il governo faccia marcia indietro e torni a imporre un divieto di licenziare. La decisione è stata comunicata ieri al ministero dello Sviluppo economico, dove c’era solo la viceministra Alessandra Todde. Assenti il titolare Giancarlo Giorgetti – che poi definirà “irragionevole” l’atteggiamento della Whirlpool – e la Confindustria. Dopo la riunione, gli operai sono corsi al carcere di Santa Maria Capua Vetere, per contestare il presidente Consiglio Mario Draghi (in visita con la ministra della Giustizia Marta Cartabia). Il premier ha ricevuto una delegazione e ha parlato di “sgarbo istituzionale” da parte dell’impresa, impegnandosi “a costruire alternative serie” seguendo da vicino il dossier insieme a Giorgetti. Ma il segretario Cgil Maurizio Landini ha parlato di “logica da Far West delle multinazionali”.

Un altro boicottaggio dell’accordo tra parti sociali, quello con cui le imprese della Confindustria si impegnavano – senza obblighi – a utilizzare gli ammortizzatori sociali prima di licenziare. Il decreto approvato a fine giugno ha infatti concesso altre tredici settimane di cassa. Il primo luglio il divieto di licenziamenti economici – iniziato il 17 marzo 2020, allo scoppio della pandemia, per evitare la catastrofe occupazionale – è caduto per industria ed edilizia. In due settimane, abbiamo già avuto tre grosse ristrutturazioni: la Gianetti, che produce ruote in Brianza, ha licenziato 152 persone; la Gkn, che fabbrica semi-assi, ha avviato il taglio di 422 lavoratori.

Ora la Whirlpool, che il 6 luglio aveva chiesto una settimana per decidere se usare le tredici settimane di cassa per rimandare la chiusura del sito campano. Così si sarebbe guadagnato tempo da impiegare nella definizione del piano di rilancio, che – a quanto si apprende – non dovrebbe puntare su produzioni in concorrenza con la Whirlpool. Ieri mattina, però, l’amministratore delegato Luigi La Morgia ha gelato governo e sindacati: “Dopo una riflessione durata una settimana molto intensa – ha spiegato – abbiamo deciso di avviare la procedura di licenziamento collettivo. Nel caso in cui venisse individuata un’alternativa, nell’ambito del 75 giorni, che consenta il trasferimento delle persone e dei nostri asset presso un altro investitore industriale, noi siamo disponibili a discuterne”. Sarà quindi una corsa contro il tempo.

Il tavolo Whirlpool è aperto da maggio 2019, quando la multinazionale ha annunciato di voler smobilitare in pochi mesi. Una scelta che tradiva l’impegno assunto sette mesi prima; a ottobre 2018 l’azienda aveva infatti assicurato investimenti in ogni stabilimento italiano, compreso Napoli. In questi due anni, il governo Conte due è riuscito due volte a far rimandare la chiusura: prima a ottobre 2019 e poi a marzo 2020, quando la produzione è stata allungata fino a ottobre 2020. Da quel momento, nella fabbrica di Napoli è tutto fermo, ma il blocco dei licenziamenti ha congelato la procedura. Fino a quando, come detto, il governo Draghi non ha dato il via libera, provando a limitare i danni con il debole accordo del 29 giugno. La viceministra dello Sviluppo economico Alessandra Todde ha reagito duramente alla mossa dell’impresa: “Whirlpool non ha avuto problemi a fare scelte radicali nel corso di questi anni, spesso in totale contrasto con il suo codice etico e in maniera sleale nei confronti del governo”. Di questa, ha aggiunto, “si assumerà le responsabilità anche in termini etici e reputazionali”. “Un atto di sciacallaggio. L’avvio della procedura interrompe il dialogo e rompe le relazioni sindacali”, hanno tuonato Barbara Tibaldi e Rosario Rappa della Fiom. “La decisione – ha detto Gianluca Ficco della Uilm – è odiosa e ingiustificabile, se si pensa che le tredici settimane aggiuntive di cassa integrazione sono esenti da costi”.

Missione libica: Draghi resiste al pressing di Letta e dem

Una giornata di braccio di ferro tra il Pd di Enrico Letta e il governo. Oggetto? Il voto sul rifinanziamento delle missioni di oggi, che comprende anche la collaborazione con la Guardia costiera libica. E se il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, va in Aula a dire che il governo italiano non finanzia la Guardia costiera libica, la missione in Libia comprende il suo addestramento, supporto e formazione.

Mentre una trentina di parlamentari annunciano il no al rifinanziamento delle missioni (8 del Pd, capeggiati da Orfini, alcuni ex M5s, Nicola Fratoianni, quasi tutto il gruppo di Leu, Riccardo Magi), Letta vuole una “europeizzazione” del rapporto con la Guardia costiera libica. Da Bruxelles precisano che l’addestramento della guardia costiera libica rientra nel mandato della missione Ue Irini, ma da quando è stata lanciata, il 31 marzo 2020, non ha potuto iniziare l’attività per le resistenze libiche.

Letta cerca di tenere il gruppo e di piantare una bandierina sull’immigrazione. Tocca a Enrico Borghi e Lia Quartapelle preparare un emendamento da presentare alle Commissioni Esteri e Difesa. Chiedono di “superare nella prossima programmazione la missione della Guardia di Finanza di assistenza alle istituzioni libiche preposte al controllo dei confini marittimi”. La norma propone di trasferire le funzioni alla Missione bilaterale Miasit Libia e alla Missione Irini. Il governo, rappresentato da Benedetto Della Vedova, dice no. Propone di sfumare il testo subordinando la verifica del superamento della missione alla firma di un memorandum con il governo libico e altri elementi. Il Nazareno non ci sta: i dem minacciano l’astensione. A fine giornata il governo si “impegna” a verificare dalla prossima programmazione la fine della missione di assistenza alla Guardia costiera. L’emendamento passa nelle Commissioni. La Lega non vota. Il Pd canta vittoria: sostiene che significa che tra un anno tale missione finirà. Oggi, l’aula.

Statuto ai voti, il “capo” da Grillo

L’era ufficialmente contiana sta per partire, con il voto sul nuovo Statuto che verrà indetto da qui a un paio di giorni. Ma c’è ancora parecchio da chiarire e da discutere ai piani alti del Movimento. Perché la pace tra l’avvocato e il Garante a oggi è solo una tregua, tra due uomini molto diversi e molto distanti. Ergo, serve un incontro tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo, per dirsi tutto in faccia.

Ed è per questo che i due si vedranno oggi nella villa di Grillo a Marina di Bibbona, in Toscana, la sede di tutte le riunioni chiave della storia recente del M5S. Così dicono fonti qualificate. Le stesse che prevedono entro la fine della settimana la pubblicazione sulla nuova piattaforma dello Statuto e l’indizione delle votazioni per approvarlo, che si dovranno obbligatoriamente tenere 15 giorni dopo. Ma prima ci sarà il chiarimento tra l’avvocato e Grillo. Urgente, e non a caso alla “pratica” stanno lavorando Luigi Di Maio e Roberto Fico, i motori del comitato dei sette che ha chiuso la mediazione sullo Statuto. Furono proprio loro, il 2 luglio, ad andare a trovare Grillo in Toscana e a convincerlo a trattare con sette ore di colloquio. E così a tarda sera, con l’Italia in campo contro il Belgio, arrivò la nota ufficiale sul comitato. La porta verso l’intesa di domenica scorsa. Però Grillo è ancora irritato con Conte, a cui imputava di voler calare dall’alto un progetto tutto incentrato su di sé e di trattarlo con sufficienza (“Non mi rispondeva al telefono”). L’avvocato invece non ha ancora perdonato al Garante la sfuriata davanti ai parlamentari e il durissimo post di pochi giorni dopo: “Conte non ha né visione politica né capacità manageriali”. Oggi, o comunque nell’incontro che avranno, dovranno spiegarsi. Ma dovranno parlare, eccome, anche di nomine e rotta politica. Perché l’avvocato potrà scegliersi tre vicepresidenti e un Consiglio nazionale, in sintesi una segreteria. Ma Grillo potrà nominare il collegio dei probiviri e soprattutto il comitato di garanzia. “E il comitato ha competenza sulle regole…” ricorda un big. Come a dire che il Garante si è tenuto una buona carta.

Facile prevedere che i due parleranno di chi mettere e dove, anche per non pestarsi i piedi. E poi c’è il nodo di fondo, quello del futuro dentro il governo Draghi. Grillo, lo sanno tutti, è per restare nella maggioranza fino al 2023, proprio come Di Maio, Fico e la stragrande maggioranza dei big. Conte lo sa, e per ora non ha i numeri e forse la voglia per un percorso diverso. Ma tra i contiani in tanti minacciano di non votare la controriforma Cartabia della prescrizione. Ed è una miccia che può far saltare assetti e calcoli.

Rai: Conte “forza” i 5S, a destra sconfitta Meloni

Una giornata di intense fibrillazioni quella che ha portato all’elezione dei quattro consiglieri di amministrazione della Rai di nomina parlamentare. Sono stati eletti il leghista (uscente) Igor De Biasio e l’avvocato Alessandro di Majo in quota 5 Stelle in Senato, mentre alla Camera ci sono Simona Agnes, in quota Forza Italia, e Francesca Bria in area Pd (a Montecitorio la votazione al momento di andare in stampa era ancora in corso, ndr). Fuori è rimasta Giorgia Meloni, con il consigliere uscente Giampaolo Rossi, che a Palazzo Madama ha ottenuto solo i 20 voti dei senatori di FdI. Ma gli scontri della giornata, specie nei 5Stelle, hanno fatto perdere voti anche a chi è passato. De Biasio ha ottenuto 102 voti (contro i 115 di Fi e Lega) e Di Majo ne ha presi solo 78 (su 113 di Pd e 5 Stelle). Con ben 34 schede nulle, 13 bianche e 12 voti dispersi. Segno che molti pentastellati non l’hanno votato. Mentre Fdi s’infiamma per Rossi. “Solo nelle dittature peggiori non si dà nemmeno un posto all’opposizione. Prendiamo atto che Lega e FI preferiscono stare con Pd e 5S. Ne trarremo le dovute conseguenze”, dichiara Daniela Santanchè.

Ma i meloniani sono inferociti. Per far passare il loro nome le hanno provate tutte. Prima, insieme a FI, hanno tentato una pressione su Palazzo Chigi, chiedendo un passo indietro al Pd in Cda, in forza del fatto che i dem “avrebbero già dalla loro l’ad Carlo Fuortes e la presidente Marinella Soldi”. “Quelle sono scelte fatte in autonomia dal governo, non sono nomi che ci possono essere attribuiti”, la replica del partito di Enrico Letta. “Gli scontri nel centrodestra vanno risolti nel loro campo, non nel nostro”, sottolinea Nico Stumpo (Leu). Poi i meloniani hanno tentato di fare squadra con i malpancisti dei 5 Stelle, senza successo.

Nel M5S, anche sulla scelta del candidato Rai, si sono riversate le guerriglie interne. La prima mossa politica di Giuseppe Conte ha scatenato un putiferio nelle truppe parlamentari. Specie tra gli esponenti della Vigilanza che, dopo un lungo esame dei curricula, avevano scelto l’avvocato Antonio Palma. Bocciato poi da Conte, che ha imposto un suo uomo, l’avvocato Di Majo. Così ieri a Palazzo Madama è andata in scena un’infuocata riunione di gruppo dove sono volate parole grosse. E nel mirino è finito pure il capogruppo Ettore Licheri, accusato di essersi piegato ai voleri di Conte e Vito Crimi. “Se questo è il nuovo corso dei 5Stelle, calpestare la volontà degli eletti, iniziamo male…”, hanno detto diversi senatori. Poi però Di Majo, seppur perdendo per strada oltre 30 voti, è passato, ma i dem fino all’ultimo a Montecitorio hanno tenuto il fiato sospeso sulla Bria, temendo che lo scontro nei pentastellati potesse ripercuotersi sulla candidata scelta dall’ex maggioranza giallorosa.

Nel frattempo, nel pomeriggio, era scoppiata una bomba pure in Italia Viva. “Non siamo stati coinvolti nelle scelte, mentre secondo noi c’erano candidati più autorevoli di Bria come Stefano Menichini e Flavia Barca”, avvertiva a metà pomeriggio Michele Anzaldi. “Sbagliato il merito e il metodo”, ribadiva Davide Faraone. Quando poi Stefano Buffagni (M5S) è andato all’attacco di Renzi (“sul caso del finanziamento illecito sul documentario serve chiarezza”, ha detto), a quel punto Italia Viva ha deciso di votare scheda bianca, facendo mancare i voti ai candidati scelti da Pd e M5S.

Ora a fare le spese di questi trambusti parlamentari rischia di essere Soldi, che per essere eletta alla presidenza dovrà ottenere i due terzi dei voti in Vigilanza. Perché lì tutti questi malumori potranno trovare sfogo. E potrebbero esserci delle sorprese.

“Soluzioni dannose, cattive, inaccettabili e incostituzionali”

Ieri è arrivata la reazione dell’Associazione nazionale magistrati sulla riforma della prescrizione proposta dalla ministra Marta Cartabia: un comunicato che è una bocciatura secca del blocco dei processi per “improcedibilità”, se il processo d’Appello durerà più di due anni e il ricorso in Cassazione più di un anno. “L’obiettivo di una riduzione dei tempi dei processi penali è da tutti condiviso. Gli strumenti con cui perseguirlo devono però essere adeguati al fine, per non compromettere un altro caposaldo dell’assetto democratico, costituito dalla effettività della giurisdizione”. Il rischio è “di imbastire riforme, non solo inefficaci, quanto dannose e inaccettabili sul piano della tenuta costituzionale del sistema”. La riforma Cartabia finirà per allungare i processi: “Si determinerà un incentivo per le impugnazioni, con ulteriore aggravio per gli uffici in sofferenza e inevitabile incremento dei tempi di definizione”, lasciando inoltre “senza risposta le istanze collettive di accertamento dei reati”. Ribadisce queste preoccupazioni il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia.

Giudizio negativo sulla riforma della prescrizione?

Le proposte del Consiglio dei ministri sulla improcedibilità nei processi penali hanno destato nella Associazione nazionale magistrati una forte preoccupazione. È chiaro che alcune Corti d’appello riuscirebbero a concludere il procedimento nei due anni, ma altre no, a causa dei carichi di lavoro di alcune sedi giudiziarie. E sedi importanti, come Torino, Napoli, Reggio Calabria. L’improcedibilità scatterebbe in conseguenza di un meccanico sforamento dei tempi, senza tenere conto delle condizioni di lavoro dei diversi uffici giudiziari italiani. Ci sembra una soluzione fortemente inadeguata. Per questo chiediamo di essere ascoltati. Oltretutto, la proposta dell’improcedibilità entrerebbe in vigore subito, mentre altre parti della riforma, che introducono utili meccanismi di deflazione del carico di lavoro degli uffici, scatterebbero in un secondo tempo, in seguito all’approvazione dei decreti legislativi di attuazione delle deleghe. Ci sembra una cattiva soluzione, un meccanismo non comprensibile. Il tempo ipotizzato non tiene conto della realtà dei carichi di lavoro dei giudici italiani. La politica prenderà le decisioni che le competono, ma prima ascolti quello che hanno da dire i magistrati italiani.

L’Anm non è intervenuta su un altro aspetto discusso della riforma, quello che affida al Parlamento il compito di indicare le priorità nell’intervento penale.

Intanto l’Anm è intervenuta sull’improcedibilità, perché ci sembrava il profilo più critico e su cui era più urgente intervenire. Non è però l’unico profilo, c’è anche quello dell’indicazione da parte del Parlamento delle priorità in campo penale. L’Anm si pronuncerà anche su questo punto. Intanto posso già dire che non comprendo il senso di questa innovazione, in un sistema dove vige l’obbligatorietà dell’azione penale per tutti i reati, che sono tali per volontà del legislatore. Non c’è bisogno che una legge indichi priorità, perché il pubblico ministero deve agire per tutti i reati, tenendo conto delle risorse organizzative di cui dispone. I criteri di priorità sono una questione legata alla distribuzione e all’impiego delle risorse in dotazione agli uffici, che certo devono essere frutto di scelte trasparenti e adeguatamente partecipate, ma che non necessitano di ulteriori interventi del legislatore.

Sono passati alcuni giorni dalla decisione del Consiglio dei ministri. La reazione del- l’Anm non è stata immediata.

No, non c’è stato ritardo nella reazione dell’Anm. Noi conoscevamo il testo della Commissione Lattanzi, che sulla prescrizione proponeva due ipotesi alternative, di cui una preferibile ma comunque entrambe più ragionevoli. Poi il testo definitivo è arrivato solo nello scorso fine settimana e la giunta esecutiva dell’Associazione l’ha subito discusso e ha redatto il comunicato sul “principio di realtà e la proposta del governo sulla prescrizione processuale”.

Il salvaladri ha un papà: il processo breve di B.

In quel novembre del 2009 spirava un vento di “pacificazione nazionale”. Per dirla con Luciano Violante, ex presidente della Camera, era necessario porre fine al “conflitto tra politica e magistratura”. Undici anni e molta acqua sotto i ponti più tardi, il film è lo stesso. Al governo non ci sono più Silvio Berlusconi e Angelino Alfano (ministro della Giustizia), ma Mario Draghi e Marta Cartabia. Eppure la voglia di restaurazione è la stessa di allora. La riforma del processo penale dell’attuale Guardasigilli, approvata all’unanimità in Consiglio dei ministri, infatti, ha un padre che risale ai tempi d’oro del berlusconismo: il “processo breve”. Una legge concepita con un obiettivo preciso: salvare il presidente del Consiglio dai suoi processi. Oggi, invece, il governo dei “migliori”, sempre a trazione centrodestra, con la scusa di velocizzare i tempi della giustizia, ha deciso di cancellare con un tratto di penna la riforma “Bonafede” che stoppava la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Come? Tornando indietro di 12 anni, resuscitando il progetto di legge di Berlusconi-Alfano-Ghedini.

Allarme Salvare Silvio a tutti i costi da Mills

A fine 2009, a Milano, incombeva il processo per frode fiscale nel caso Mediaset, per corruzione giudiziaria nel processo Mills, mentre a Roma per istigazione alla corruzione di alcuni senatori del centrosinistra. Così, dopo aver vinto le elezioni un anno e mezzo prima, nel primo anno e mezzo di legislatura Berlusconi riesce a piazzare ben quattro leggi ad personam: la “blocca processi”, il ddl Intercettazioni, lo scudo fiscale e il “lodo Alfano” che rendeva immuni le principali cariche dello Stato. Nell’ottobre 2009 però la Corte costituzionale dichiara incostituzionale il “lodo Alfano”. C’è bisogno di mettere una pezza subito per evitare che riprendano i processi in corso. Così, provvidenziale, arriva l’ennesima legge ad personam: il “processo breve”. Nel novembre 2009 i responsabili giustizia dei partiti di maggioranza, Matteo Brigandì (Lega), Giulia Bongiorno (An) e Niccolò Ghedini (Forza Italia) iniziano a studiare una legge per salvare il premier dai processi, soprattutto da quello con l’avvocato Mills, il più pericoloso. Il 12 novembre, dopo un incontro risolutore tra Berlusconi e Fini, l’accordo è raggiunto: il capogruppo e vice capogruppo del Pd al Senato, Maurizio Gasparri e Gaetano Quagliariello, presentano un ddl per “tutelare i diritti e le garanzie del cittadino”. Il principio è semplice: la legge stabilisce che se un processo non si conclude entro una certa data, scatta la prescrizione. Sei anni in tutto: 2 dalla richiesta di rinvio a giudizio, 2 per l’Appello e 2 per la Cassazione. Se il processo dura anche solo un giorno in più, muore. La legge non si applica per i delitti gravissimi e per gli imputati recidivi: vale per i reati puniti fino a 10 anni e per gli incensurati. Inclusi i reati contro la pubblica amministrazione. Quelli che interessano a Berlusconi e ai colletti bianchi. La legge Cartabia di oggi sembra copiata per quanto è simile: la prescrizione si blocca dopo la sentenza di primo grado, ma da quel momento il processo si deve celebrare in Appello in 2 anni e in Cassazione in 1. Altrimenti scatta l’improcedibilità. Ergo: la prescrizione.

Mannaia Mediaset, Cirio: procedimenti in fumo

Il governo nasconde una norma ad personam dietro a un trucco linguistico – il “processo breve” – ma i magistrati non la bevono: l’Anm parla di “riforma devastante”, il Csm calcola che si estingueranno il 40-50% dei processi. Alfano assicura che “solo l’1% dei procedimenti in corso è a rischio”, ma anche ad Arcore c’è chi prende le distanze. Addirittura l’altro avvocato di B. Gaetano Pecorella si dissocia: “La legge risponde a esigenze demagogiche e populiste – dice – la corsia preferenziale per gli incensurati è irragionevole e se il processo è molto complesso è difficile che si celebri in due anni”.

Dopo le proteste, la legge viene un po’ modificata in Parlamento: il processo breve si applicherà a tutti gli imputati senza distinzione e i procedimenti si estinguono in 3 anni per il primo grado, 2 in Appello e 1 anno e 6 mesi per la Cassazione. La norma transitoria è quella ad personam perché fa scattare il processo breve per tutti i reati commessi prima del maggio 2006 tra cui quelli del processo Mills e Mediaset. Insieme a questi moriranno anche tutti gli altri procedimenti che vedono imputati i colletti bianchi: i crac Cirio e Parmalat, le scalate illegali di Antonveneta e Bnl, lo spionaggio Telecom e lo scandalo Calciopoli. Tutto prescritto. La legge viene approvata al Senato con 163 voti del Pdl, 130 no di Pd, Udc e Idv, ma il “processo breve” non sarà mai legge dello Stato: il governo lo usa come grimaldello per approvare un’altra legge ad personam, il “legittimo impedimento”.

Quirinale Persino re Giorgio si oppose al governo

In quei giorni, l’approvazione della riforma aveva fatto scattare la rivolta nel centrosinistra. Il Pd minacciava fuoco e fiamme: Luigi Zanda chiedeva al premier di “venire in aula a riferire” sulle 10 domande poste da Repubblica sul caso escort, mentre i leader dem annunciavano le “barricate”. Anna Finocchiaro sull’Unità parlava di “amnistia mascherata”. Ancora Pier Luigi Bersani: “Se cancelliamo i processi sarà scontro”. Il più duro era il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, che parlava addirittura di “crimine” di cui era “complice” Fini. Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano provò a influenzare le mosse di Palazzo Chigi: “No alle riforme di corto respiro” fu il monito. Anche i quotidiani iniziarono una campagna durissima contro la legge. Repubblica di Ezio Mauro parla di “legge salva-premier”, pubblica le denunce dei pm e schiera le migliori firme contro la norma. Massimo Giannini accusa B. di “stato di eccezione”, Giuseppe D’Avanzo di legge “che sfascia la già malmessa macchina giudiziaria” e Curzio Maltese di “vergogna al potere”. Si immola anche Roberto Saviano che chiede al premier di ritirare “la norma del privilegio”. Anche L’Unità titola contro il self made laws (l’uomo che si fa le leggi da solo) e la direttrice Concita De Gregorio scrive della “ossessione di uno solo”. Anche il Corriere e il Sole 24 Ore si schierano: per Sergio Romano sono “riforme piccole e sbagliate” mentre il quotidiano di Confindustria fa il conto dei processi a rischio (100 mila). Oggi, invece, 12 anni dopo, è tutto cambiato: il Pd sostiene la riforma Cartabia che sulla prescrizione è identica a quella del 2009. La differenza? Al posto del “diavolo” Berlusconi a Palazzo Chigi c’è Draghi e il governo dei migliori. Quindi va bene tutto. Anche a costo di rinnegare anni di battaglie.

Arrestato il “postino” di Messina Denaro: per la consegna usava l’auto del Comune

Postino e collettore di “pizzini” dei padrini di Cosa Nostra. Dagli incontri durante la latitanza con Bernardo Provenzano, alla corrispondenza per l’inafferrabile Matteo Messina Denaro – che secondo gli investigatori continuerebbe a a nascondersi nell’isola – , fino alla comunicazione gestita per il clan Lo Piccolo. Lorenzo Di Maggio, detto ‘Lorenzino’, non è solo un uomo d’onore, ma la figura di spicco della famiglia mafiosa di Torretta, piccolo Comune in provincia di Palermo, che ricade nel mandamento mafioso di Passo di Rigano, legato al cugino Salvatore Lo Piccolo detto “il barone”. È stato arrestato insieme ad altre dieci persone, nell’operazione di ieri dei carabinieri e della Dda di Palermo, accusati a vario titolo di associazione mafiosa, detenzione di stupefacenti e tentata estorsione. “Di Maggio – racconta il collaboratore di giustizia Antonino Pipitone – ha curato in via quasi esclusiva, i rapporti di comunicazione, tramite biglietti e pizzini tra gli affiliati di Cosa Nostra e Salvatore Lo Piccolo, durante la latitanza. A Di Maggio arrivavano i pizzini provenienti non soltanto dai territori di Carini e Torretta, ma anche da Brancaccio e le famiglie mafiose di Palermo”. Grazie al suo “carisma criminale e affidabilità”, Di Maggio può “incontrare più volte Bernardo Provenzano negli anni 2000”, nei periodo in cui il padrino “trascorreva la sua latitanza a Torretta”. Infine, con il cambio degli equilibri in Cosa nostra, diventa il “raccoglitore” dei messaggi per l’ultimo capo dei capi. “Gran parte dei pizzini – racconta Pipitone – che erano diretti al latitante Messina Denaro arrivavano a Di Maggio sia dei territori di Carini e Torretta sia dalle famiglie dei mandamenti di Palermo e gli venivano consegnati nella sede Amat (Azienda municipalizzata trasporti di Palermo) dove lavorava come impiegato, oppure a casa della madre”. Pipitone svela anche il percorso che facevano i messaggi per il super boss: “Poi Di Maggio consegnava i pizzini a Calogero Caruso, che a sua volta li consegnava a Campobello di Mazara, che raggiungeva con l’auto del Comune di Torretta, dove all’epoca lavorava”. Ma Di Maggio è anche uno dei “turritisi”, affiliati di Torretta, favorevole al rientro nell’isola degli Inzerillo, la famiglia scappata negli Stati Uniti dopo la sconfitta nella guerra di mafia con i corleonesi di Totò Riina. Il clan di Torretta vantava un forte legame con i clan americani: infatti, quando Frank Calì (Frank Boy), esponente dei Gambino di New York, venne ucciso nel marzo del 2019, un emissario dagli States viaggiò per raggiungere Torretta e incontrare Raffaele Di Maggio, figlio dello storico boss Giuseppe, e rassicurarlo che gli affari non avrebbero avuto intoppi.

L’Egitto proroga ancora la prigionia di Zaki. Altri 45 giorni in carcere, si arriverà a 523

Altri 45 giorni di custodia cautelare per Patrick Zaki per un totale di 523. Questo l’esito dell’ultima udienza, arrivato dopo 48 ore di attesa. Lo studente, detenuto senza processo, è prigioniero al Cairo dal 7 febbraio 2020, con l’accusa di propaganda sovversiva in Internet, per la quale rischia fino a 25 anni di carcere. “Un risultato che in molti davamo purtroppo per scontato. Quella di Patrick è una situazione drammatica”, commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Per la prima volta dai primi giorni del suo arresto, Patrick è stato sottoposto ieri a un interrogatorio di due ore sulle sue passate attività”, riferiscono su Facebook gli attivisti di “Patrick Libero”. Intanto, i governi italiani che si sono succeduti nell’ultimo anno e mezzo si sono mossi in modo talmente cauto sulla questione, da sembrare fermi. Unico intervento quello di Camera e Senato, che hanno approvato due mozioni non vincolanti per chiedere al governo la cittadinanza italiana per Zaki che, tuttavia, non garantirebbe la sua scarcerazione. Per ora, quindi, molte parole e pochi fatti.