“Con la Coppa possono fare quello che vogliono”

“Con quella Coppa possono fare quello che vogliono”. Una battuta da tifoso, magari della squadra sbagliata ma nessuno è perfetto, non proprio una disposizione. Così Mario Draghi, lunedì pomeriggio, avrebbe risposto a chi gli spiegava che gli azzurri, attesi a Palazzo Chigi dopo il Quirinale, minacciavano di disertare l’appuntamento aprendo un clamoroso incidente se non avessero concesso loro di sfilare per le vie di Roma con il torpedone a due piani scoperto e la scritta “campioni d’Europa”, affittato fin da venerdì 9 dalla Federcalcio e parcheggiato alla chetichella in pieno centro. Lo raccontano fonti qualificate ma una conferma non c’è, anzi Palazzo Chigi smentisce la frase e smentisce che il presidente del Consiglio abbia avuto qualsiasi ruolo nella gestione dell’ordine pubblico e nella decisione di far partire il mezzo scoperto, che ricade tutta sul Viminale dalla ministra Luciana Lamorgese al prefetto Matteo Piantedosi e alla Questura.

Prefettura e Questura avevano detto di no. E il prefetto ieri ha detto al Corriere che nessuno ha mai autorizzato il bus scoperto: “Avevamo negato il permesso a festeggiare la vittoria dell’Italia agli Europei sull’autobus scoperto, ma i patti non sono stati rispettati”. Insomma, un colpo di mano di cui le autorità hanno solo “preso atto” come riferito dal Viminale. Mentre la Figc in un comunicato afferma che la decisione “è stata condivisa dalle istituzioni”. Contraddizione insanabile, ma forse no. “Il pullman era lì, c’erano migliaia di persone, non c’è stata un’autorizzazione ma nemmeno era possibile impedirne la partenza senza rischiare guai maggiori. È accaduto mille volte con manifestazioni di altro genere”, spiega un dirigente della polizia, un veterano dell’ordine pubblico. Resta il rammarico per le immagini della folla incontrollata, tutti senza mascherine attorno al pullman. Restano i dubbi sulla “trattativa vinta” di cui ha parlato, all’arrivo a Palazzo Chigi, Leonardo Bonucci, il difensore della Nazionale e della Juventus che 45 minuti prima, davanti al Quirinale, era stato ripreso mentre discuteva animatamente con alcune persone, tra cui un funzionario di polizia. Sono stati i calciatori ad impuntarsi, Bonucci e il capitano Giorgio Chiellini.

Al Quirinale Bonucci ne aveva discusso con la sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali, olimpionica di scherma delle Fiamme Oro. “Lei è un’atleta, ci aiuti. Ci tengono in gabbia come animali”, le ha detto il calciatore, un po’ aggressivo come spesso gli capita in campo e fuori. E la Vezzali ha chiamato in diretta la ministra Lamorgese, poi ha detto a Bonucci: “No, non si può fare, lo dicono Questura e Prefettura”. Pochi minuti dopo erano tutti sul pullman scoperto per il bagno di folla che ha imbarazzato il governo e irritato i virologi. Nella speranza che i contagi non aumentino troppo e soprattutto che non aumentino i malati gravi.

“Lamorgese arresa, il premier distratto e Bonucci al potere”

Bonucci prefetto e Chiellini ministro dell’Interno. Hanno deciso il corteo e imposto la deroga universale alla pandemia.

È il segno di quel che purtroppo siamo, uno Stato che subisce, per dirla con un parolone, del vuoto di sovranità. Il vincente di turno occupa il potere e sostituisce il governo.

L’Italia era nel pallone, professor Marco Revelli.

Ieri si festeggiava senza rimedio e così l’assembramento – cattivo fino all’altroieri – è divenuto atto dovuto, anzi dispiegamento dell’energia creativa, insomma il legittimo coronamento della virtù conquistata.

Al vincente di turno, o colui che appare tale, è concesso ciò che non si potrebbe.

In gioco c’era la sanità pubblica. E si è visto com’è andata. Quando, qualche giorno prima è stata in discussione la decisione di allungare o meno il blocco dei licenziamenti al presidente di Confindustria è stato concesso di modificare la data. Anche qui una sovranità dimezzata. Ed è accaduto anche con l’influencer di turno: la sua parola ha contato di più di quella del Parlamento.

La sovranità occasionale.

Però che dire di voi giornalisti? Paginate, ne ho contate (Fatto a parte, ndr) fino a dieci di fila, a esultare per i rigori, per Donnarumma, per lo spirito nuovo di questo calcio italiano, per il modello Mancini, per l’Italia ritrovata. E poi l’apertura dell’undicesima pagina con le parole sbigottite e allarmate della rappresentante dell’Oms: “Ho assistito in diretta al contagio”.

E sì che Draghi aveva detto di togliere a Londra le partite europee.

Aveva fatto intendere di più: che giocare in uno stadio pieno di una città dove corre la variante Delta non gli pareva né un rischio calcolato né, come ama dire, ragionato.

L’assembramento a Londra no, a Roma sì?

Ecco, e se la diciamo tutta dobbiamo aggiungere: dopo quel che ha detto il premier è stata opportuna la presenza del presidente della Repubblica a Wembley?

Ma il calcio muove sentimenti popolari, unisce un Paese, lo rende addirittura felice.

A patto che, esultando, si resti nel triangolo della ragione. Non è che la virtù del gruppo di Mancini cambi la faccia della terra. È una bellissima impresa, è un gruppo meraviglioso. Ma resta un microcosmo, un modello definito. Invece qui c’è stata l’idea del modello abracadabra: loro giocavano bene e noi iniziavamo la nuova vita.

Professore, lei ha tifato o gufato?

Ho tifato, applaudito, gioito e poi sono andato a letto. Non ho avuto visioni fantastiche.

Lei non ama il pop. Intellettuale di sinistra, dunque l’élite saccente

Basta con la dittatura del pop. L’adorazione di ciò che è popolare, a prescindere, è il segno di una società ignorante e di una cultura approssimata. Quel pop è spesso costruito dalla pubblicità. Inodore e incolore: pappa da consumare.

L’Italia questa è. A lei manca il principio di realtà.

Lo so! Tutti i grandi pensatori, da Leopardi a Gobetti, erano addolorati per la scarsa grana civile dei compatrioti. Siamo così.

Così come?

Un popolo dal peso piuma.

Infatti Bonucci per una mezz’oretta ha preso il potere.

Lamorgese si è arresa, il governo si è appisolato, anche Draghi si è distratto.

Anche il ministro della Salute aveva da fare.

Un Paese che per un mese è stato impegnato nella discussione infantile sull’uso della mascherina. Ma dai!

Purtroppo siamo così.

Una domanda: adesso chi avrà la faccia tosta di dire che gli assembramenti sono pericolosi?

L’Uefa ha decretato il campionato europeo itinerante proprio per dare una mortificazione al virus.

Ah già, l’Uefa. Bei tipi anche quelli.

I contagi risalgono.

Abbiamo fatto il massimo per agevolarli.

Siamo pieni di vizi, professore.

Quel che mi sconforta è che li scambiamo per virtù.

La Federcalcio detta legge: “Stadi pieni già il 22 agosto”

Aver portato migliaia di persone in piazza senza freni e senza regole per la sfilata della nazionale non basta. Adesso il pallone ne vuole altre decine di migliaia, negli stadi, ogni domenica per il campionato. È questa la vera trattativa Stato-Federcalcio che il governo non può permettersi di perdere, e forse nemmeno di intavolare. A maggior ragione dopo gli scivoloni degli ultimi giorni. Le folle scatenate per la vittoria degli Europei sono uno spettacolo discutibile in tempi di pandemia, che non è piaciuto nemmeno a Palazzo Chigi. Volente o nolente, con (come sostiene la Figc) o senza (versione del prefetto Piantedosi) autorizzazione, il governo ha chiuso un occhio sui festeggiamenti, sull’onda emotiva di un trionfo che ha mobilitato tutto il Paese.

Il problema però adesso è un altro: continuare a concedere favoritismi al pallone oppure provare a riprendere la briglia. Non è questione da poco perché ci sono interi settori (ristorazione, turismo, spettacolo) indignati dal trattamento di favore concesso al calcio.

Gli Europei hanno aperto un varco in cui i presidenti del pallone vogliono infilarsi. Avidi, ricchi ma ormai in rovina, per il Covid e ancor di più per i loro errori, non chiedono, pretendono. In particolare, la riapertura degli stadi. Totale, al 100%. È una battaglia che matura sottotraccia da settimane ed è ormai pronta ad esplodere, in vista dell’inizio del prossimo campionato e dell’avvio delle campagne abbonamenti. I club di Serie A vogliono che già dal 22 agosto, data in cui inizia il campionato, gli stadi siano pieni, senza limitazioni per il Covid. Su questo sono tutti d’accordo per una volta, anche se con sensibilità diverse. Ci sono i “falchi” alla De Laurentiis, che minacciano di far partire il campionato con una o due giornate di ritardo. E poi ci sono i più furbi, come il presidente del Milan Scaroni, che vanta un rapporto personale con Draghi, e invita alla calma (anche perché la “serrata” più che una minaccia è un boomerang che danneggerebbe solo se stessi).

Il pressing è iniziato. I presidenti hanno preparato una lista della spesa, che parte dagli stadi e arriva a ulteriori agevolazioni fiscali e previdenziali per tutta la prossima stagione (un’altra sospensione delle ritenute, dopo quella già avuta durante l’ultimo lockdown). Il mandato è affidato ai vertici del pallone, cioè il n.1 della Serie A Paolo Dal Pino che ieri è uscito allo scoperto: “Il 22 agosto vogliamo stadi pieni al 100% col green pass”. E poi proprio il presidente della Figc, Gabriele Gravina, che pure non ha nascosto una certa perplessità sulla richiesta di cui si deve far portavoce.

Il 100% di capienza, già ufficializzato dalla Premier League in Inghilterra (dove però Boris Johnson non sembra farsi troppi problemi per la variante Delta) e dalla Liga in Spagna, in Italia sembra una richiesta semplicemente irricevibile in questo momento. Non è neppure troppo accorta, dal momento che la maggior parte delle squadre di Serie A non riempiva gli stadi nemmeno quando si poteva: con poche eccezioni (Juve e Inter in testa, le uniche che si avvicinano spesso al sold out), anche il 50% andrebbe più che bene. Il governo invece sembrava orientato a concedere il 25%.

I club, disperati perché non hanno più soldi, sono pronti a battere i pugni sul tavolo. L’obiettivo è arrivare direttamente a Draghi, o il più vicino possibile al premier (la partita potrebbe essere gestita da Garofoli, anche se poi la competenza resta della sottosegretaria allo Sport, Valentina Vezzali). Magari sfruttando l’onda lunga degli Europei, la benevolenza popolare nei confronti della Nazionale, l’entusiasmo per il pubblico ritrovato. Ma questo è proprio ciò che vuole evitare il governo, che non può più permettersi favoritismi. Ed è forse anche la ragione degli attacchi indirizzati alla Figc: un modo per stoppare le rivendicazioni, dopo la sbornia degli ultimi giorni. La trattativa Stato-calcio continua.

Meglio Genny ’a Carogna

Ora della trattativa Stato-Bonucci c’è pure il video, col vicecapitano che negozia da pari a pari coi responsabili della sicurezza. Il resto della scena, più umiliante della trattativa fra Polizia e Genny ’a Carogna (che almeno era un pregiudicato pericoloso), lo racconta il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, al Corriere: “Avevamo negato il permesso all’autobus scoperto, ma i patti non sono stati rispettati”. Da un lato il no dei ministri della Salute e dell’Interno, del capo della Polizia e del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza, per “evitare assembramenti” e far incontrare giocatori e tifosi in piazza del Popolo o davanti Palazzo Chigi per “tenere sotto controllo la folla in un unico luogo, verificando che tutti indossassero le mascherine come prevede il decreto”. Dall’altra la Figc che, “dopo l’uscita dal Quirinale”, sfodera il bus scoperto per forzare la mano col fatto compiuto, mentre “Bonucci e Chiellini rappresentavano con determinazione il loro intendimento. Non s’è potuto far altro che prendere atto della situazione e gestirla nel migliore dei modi”. Cioè nel peggiore: “solo le forze di polizia indossavano la mascherina”. Che fa dunque il rappresentante del governo e responsabile dell’ordine pubblico nella Capitale d’Italia? Si dimette per la resa ingloriosa a quattro pallonari viziati e tracotanti? No, piagnucola, “amareggiato dalla mancanza di rispetto”, ergo in futuro “tratteremo direttamente coi calciatori”. Cioè persevererà nell’errore: nessuno Stato serio mercanteggia con chi grida più forte per esentarlo dal rispetto delle leggi. Dagospia, mai smentito, racconta pure una lite tra il ministro Speranza e il capitano Chiellini, chiusa da una “lavata di capo” di Draghi: non a Chiellini, che pretendeva di calpestare il decreto (di Draghi), minacciando di non presentare la squadra da Draghi; ma a Speranza, che voleva farlo rispettare.

(A)morali della favola. 1) Più che “al centro dell’Europa”, siamo al centro del Terzo mondo (chiedendo scusa al Terzo mondo). 2) Lo Stato dei Migliori è la solita Italietta alle vongole del panem et circenses. 3) Il dl Draghi sulle “riaperture in sicurezza” vale per tutti, ma non per il calcio, il solito mondo a parte extra-territoriale ed extra-legale. 4) Il diritto alla salute un anno fa era al primo posto, poi coi Migliori passò al secondo dietro i profitti di Confindustria e ora è scavalcato pure dai capricci di quei tizi in mutande che han messo in mutande lo Stato. 5) Il Governo dei Migliori è molto più populista di tutti i populisti propriamente detti. 6) I ristoratori, baristi, negozianti, artisti, gestori di disco, palestre e piscine falliti o quasi per le regole anti-assembramento, ma anche i cittadini multati perché cercavano funghi nei boschi o correvano al parco sono un branco di fessi.

L’Iran e il “Tinder” made in Teheran. L’amore controllato dallo Stato

Una app di incontri nel rispetto del diritto islamico? È possibile. A lanciare Hamdam, applicazione di dating online – che in lingua farsi significa “compagno” – è proprio l’Organizzazione per la propaganda islamica. Lo riferisce sulla tv di Stato il capo della polizia per la cybersicurezza, colonnello Ali-Mohammad Rajabi, sottolineando che le altre app analoghe, come ad esempio Tinder, restano illegali. Con Hamdam, creata dal capo dell’Istituto Tebya Komeil Khojasteh, lo Stato entra nel mondo degli incontri social, ma certo non per favorire intimi scambi tra i suoi giovani cittadini. Si tratta, infatti, di un tentativo di creare “famiglie sane” tra gli scapoli del paese. L’applicazione è riservata solo a giovani single con “intenzioni serie” e sarebbe nata per contrastare il calo delle nascite e l’aumento crescente dei divorzi più volte denunciato dalle autorità iraniane (compresa la Guida Suprema Ali Khamenei), come risultato dell’influenza “culturale e sociale” dell’occidente.

Ma come farà il governo a vegliare sulle coppie, affinché nulla accada tra loro prima del matrimonio? Dopo l’iscrizione gratuita e un test psicologico, l’intelligenza artificiale dell’app individua il “giusto” match e successivamente “procede con la presentazione delle rispettive famiglie, alla presenza di un consulente”, il quale “accompagnerà la coppia per i quattro anni successivi al matrimonio”. Un tentativo, quello del governo dell’ultraconservatore Raisi, che da un lato intende favorire la famiglia “bersaglio del diavolo e i nemici dell’Iran”, accontentando la parte più conservatrice del paese e, dall’altro, strizza l’occhio al mondo dei giovani (come nel caso delle foto di Raisi con il famoso e tatuato rapper Amir Tataloo). Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte.

Per il momento fare previsioni sul risultato di questa iniziativa è impossibile, ma quello che è certo è che in Iran il sistema di controllo sui contenuti pubblicati sui social media resta molto forte e il racconto verso l’esterno di quanto accade nelle famiglie iraniane limitato. Uno scenario che sembra un mix tra una puntata di Black Mirror e un incubo fantascientifico di orwelliana memoria, dove il Grande Fratello, che tutto osserva e tutto sa, vigila attentamente sui suoi cittadini e sulle loro scelte nei rapporti personali (e non solo).

Lui, lei e Lilja Brik L’ultimo Majakovskij e le corna à gogo

L’Istituto Statale del cervello (GIM), nato per studiare, facendolo a fettine, il cervello di Lenin, una settimana dopo la morte per pallottola di Vladimir Majakovskij presenta la sua perizia sull’encefalo del grande poeta comunista. Il referto riporta un peso di 1700 grammi, a fronte dei 1300 di un cervello medio, e una preponderanza della regione parietale. Pochi anni dopo, il neuropatologo Poljakov conduce un’indagine caratteriale di Majakovskij, da cui emergono i seguenti tratti: tendenza all’epilessia; costituzione ansioso-apprensiva; pianto frequente; non mangiava pesci con le spine; amava gli animali; sensibile alla più piccola offesa; terrore dei batteri; terminazioni nervose a nudo; si lavava continuamente le mani; difficoltà o impossibilità di instaurare rapporti profondi con il prossimo; si innamorava facilmente (tratto da Serena Vitale, Il defunto odiava i pettegolezzi, Adelphi).

Dio vi preservi dall’innamorarvi del più grande poeta di Russia!, ci mette in guardia Veronika Polonskaja nelle sue memorie; è come innamorarsi di un uomo sposato con sé stesso.

Veronika fa l’attrice nella compagnia teatrale in cui lavorano suo marito Jansin e Osip e Lilja Brik, amante di Vladimir. La prima volta che lo vede è a una corsa di cavalli, il 13 maggio del 1929, a Mosca. Lui indossa un cappotto bianco, il bastone e un cappello enorme. Osip Brick le fa notare quanto sia ridicolo il suo modo di camminare. Ha un broncio strafottente, le gambe troppo corte per la sua mole, e tiene le braccia attaccate al tronco come chi non è a suo agio. Ha fama di teppista, e di mascalzone con le donne.

Lui le dà appuntamento per la sera stessa all’uscita del teatro: lei lo aspetterà per oltre un’ora. Quando alla fine si presenta, le dice: “Perché cambiate così tanto? Stamane alle corse eravate un mostro, e ora siete talmente bella”. Iniziano a frequentarsi: la invita a casa sua e le declama le sue poesie, che siccome parlano di una donna che dorme in un altro letto in un’altra casa, Veronika si illude parlino di lei. Poi la raccolta esce ed è dedicata a Lilja: Veronika non sa del patto che li lega, in base al quale lui deve dedicarle tutto quello che scriverà fino alla morte. Le sue opere vengono ignorate. Il partito gli rimprovera di badare troppo ai sentimenti privati, di tradire la Rivoluzione con l’eccessivo lirismo. Veronika lo consola e lui la nomina parte della sua famiglia. È ipocondriaco, sigilla le finestre, tocca le maniglie solo con la falda della giacca, regala rose rosse ad altre donne. È soggetto a violenti sbalzi d’umore. È incapace di mentire, anche quando una bugia potrebbe rendere più sereni i loro rapporti. La porta alle sue letture: a Veronika si stringe il cuore a sentirlo declamare: “Mi ama? Non mi ama? Mi spezzo le mani e sparpaglio le dita spezzate” a un pubblico di borghesucci che hanno nostalgia dei versi fluidi di Puškin. Lo vede spiegare loro, con la gentilezza dei collerici quando hanno ragione, che i tempi sono cambiati, e la forma poetica adatta a raccontarli deve essere compulsiva e spezzata. Una volta a casa, furioso, urla i suoi versi: “Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore il grembo dimagrato della terra?”. Lei piange, lui va da Lilja.

In preda alla gelosia diventa infantile e furente. La obbliga a scrivere i suoi pensieri su un taccuino dove lui scrive i suoi, e sono tutti insulti, frasi offensive e sciocche. Vede nemici dappertutto, si sente bellissimo e brutto, e non vuole che lei veda altre persone. Veronika abortisce e cade in una depressione che le impedisce di avere rapporti fisici: lui non lo accetta, litigano spesso. Un giorno, il 14 aprile del 1930, la chiude nella sua stanza di 11 metri quadri della kommunalka per impedirle di andare alle prove. La implora, urla. Bussano alla porta ed è un garzone che porta – a lui, l’autore del poema Lenin – una raccolta di opere di Lenin. Quando vede chi è quello che sta piangendo inginocchiato per terra, lascia i libri sul divano e scappa.

Vladimir si calma di colpo. Le dà 10 rubli per il taxi e si fa promettere che lo chiamerà all’uscita. Lei fa qualche passo verso il pianerottolo, quando sente uno sparo. Gli inquilini riferiscono che Majakovskij indossava una camicia gialla con una cravatta a farfalla nera. Ha un foro di tre centimetri sopra il capezzolo sinistro, la testa rivolta verso la porta e gli occhi aperti. Ha scritto un biglietto “a tutti”: “Non incolpate nessuno della mia morte e per piacere non fate pettegolezzi. Il defunto li odiava… Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è composta da Lilja Brik, mia madre, le mie sorelle, e Veronika Polonskaja… Come si dice – l’incidente è chiuso, la barca dell’amore si è schiantata contro l’esistenza quotidiana. Io e la vita siamo pari”.

Qualcuno comincia a parlare di omicidio politico. Il poeta Nikolaj Aseev riferirà che quando la mattina lui aveva detto a Veronika che non poteva vivere senza di lei, si era sentito rispondere: “E non vivete, allora!”. Un altro compagno dirà che Veronika, appena uscita dalla porta, s’era accesa una sigaretta in attesa dello sparo.

Reduci, malattie, costi e vedove: cos’è la guerra

Politica “Dove prima le siccità avevano causato le carestie, i microbi le epidemie, la geologia i terremoti, generando morti, infermi, migrazioni forzate, adesso hanno imperato le catastrofiche decisioni della Politica: guerre, mondiali e civili; genocidi; deportazioni; carestie frutto di imposizioni vendicative”.

Nel decennio antecedente alla Grande guerra, l’Europa contava un quarto della popolazione e produceva un terzo della ricchezza mondiale; oggi conta un decimo della popolazione e produce un terzo della ricchezza.

Malattie “Persino nelle guerre reputate le più sanguinose, la malattia restava la maggiore fornitrice dei cimiteri, perché a quell’epoca il reclutamento di tante migliaia di giovani contadini li esponeva a così gravi pericoli di contagio e d’infezione che il rischio di essere uccisi da un proiettile, da una granata o da un colpo di sciabola era, in confronto, minimo” (Y. Blayo e L. Henry, La population de la France de 1740 à 1860, in “Population”, XXX, 1975, 1).

Stati Stati sovrani in Europa nel 1815: 50. Nel 1900: 22.

Sei Nel 1900 quattro quinti della popolazione europea viveva in soli sei Stati (Russia, Germania, Austria-Ungheria, Francia, Regno Unito e Italia).

Inghilterra Durante la Prima guerra mondiale, l’Inghilterra ebbe più caduti tra le classi agiate che non tra quelle povere (i ricchi erano più animati di zelo patriottico). Rimasero uccisi, tra gli arruolati, il 19,2% degli studenti di Oxford e il 18% degli studenti di Cambridge, contro l’11,8% nell’insieme degli arruolati.

Squilibrio Meccanismi che permettono di rimediare a uno squilibrio post-bellico tra i sessi: immigrazione di uomini disponibili al matrimonio, maggior disponibilità al matrimonio, maggior flessibilità delle donne sull’età del coniuge.

Reduci Dopo la Prima guerra mondiale i reduci hanno vissuto in media 1,7 anni in meno di chi non aveva combattuto.

Vedove Vedove nel 1920: 525mila in Germania, 240 mila in Gran Bretagna, 200 mila in Italia, 700 mila in Francia.

Mussolini Mussolini voleva che la popolazione italiana raggiungesse i 60 milioni entro il 1950, pena la retrocessione del Paese all’irrilevanza. Nel 1926 vietò la vendita di preservativi.

Stalin Nel 1937, in Unione Sovietica, l’Ufficio del Censimento contò 162 milioni di abitanti anziché i 170 annunziati da Stalin: il direttore O. Kvitkin venne liquidato e fu annunciato “la gloriosa polizia sovietica ha schiacciato il nido di vipere nell’apparato delle statistiche sovietiche”.

Popoli Tra il 1941 e il 1944 in Unione sovietica, popoli e etnie considerati poco affidabili o pericolosi vennero brutalmente trasferiti verso destinazioni lontane migliaia di chilometri: 840 mila tedeschi del Volga finirono in Kazakistan e in Siberia orientale, 183 mila tatari della Crimea finirono nei territori del nord e in Siberia, 89 mila finlandesi finirono in Kazakistan, “e poi gli ingusci, i calmucchi, i balkari, i greci, i bulgari, gli armeni, i mescheti, i curdi, per un totale di 2 milioni”.

Calore L’eccezionale ondata di calore abbattutasi sull’Europa centromeridionale nel 2003 è stata la più intensa del dopoguerra: ha determinato 9 mila morti in Spagna, 15 mila in Germania, 19 mila in Francia e 20 mila in Italia.

Notizie tratte da: Massimo Livi Bacci “I traumi d’Europa. Natura e politica al tempo delle guerre mondiali”. Il Mulino, Bologna. Pagine 140, € 16.

 

Dalle Crocs a Barilla: la terapia giusta per affrontare le crisi (che arrivano sempre)

Se c’è una cosa che la pandemia ci avrebbe dovuto insegnare è che le crisi possono essere gestite e superate. L’importante, ovvio, è sapere come fare, anche perché le crisi sono un po’ come la Pasqua: quando arrivano, arrivano. E non c’è un super manager che possa ritenersi escluso. Come spiega nel suo Crisis Therapy Andrea Polo, esperto in relazioni pubbliche e capo delle relazioni esterne di Facile.it, per superare le crisi prima di tutto bisogna ammettere di essere in crisi comunicandolo bene. E per capirlo basta prendere alcuni degli svariati esempi che Polo riporta con dovizia di aneddoti che riescono anche a strappare un sorriso, se non fosse che sempre di crisi si parla. A dimostrazione che la padronanza di un’ottima comunicazione consente di svicolare, anche quando si pensa di non farcela più.

Ne sa qualcosa Guido Barilla. Nel 2013 disse che la più famosa azienda italiana produttrice di pasta aveva come principale riferimento di consumo la famiglia tradizionale e non le coppie omosessuali. Apriti cielo. I social si scatenano, i tg ne straparlano, la politica cavalca la crisi e la società sbaglia tutto trincerandosi dietro un silenzio assordante. Ed anche quando Barilla si decide a comunicare lo fa nel modo sbagliato: sul proprio sito e non sui social dove si era scatenato l’inferno. Errori madornali che sono serviti alla società per reagire con una successiva e vincente comunicazione al punto che, nel giro di un paio di anni, Barilla si è vista riconoscere notevoli progressi nelle classifiche di valore del brand. Ma dove non c’è l’errore umano, potrebbe arrivare una crisi pandemica, come è successo alla Crocs. Il marchio americano dalle calzature di plastica nel 2014 cade nell’oblio, perché le ciabatte non sono più ritenute uno status symbol. Ma nei mesi più drammatici della pandemia, Crocs sovverte tutto regalando 450 mila calzature a chi lavora negli ospedali e realizza un’abilissima campagna di comunicazione in cui spiega che non si devono seguire le moda, basta essere come si è. Anche calzando comode ciabatte soprattutto se si è costretti in casa durante il lockdown o se si sta ore in piedi in ospedale a salvare vite. Nel 2021 Crocs ha segnato un +64% nelle vendite. Insomma, basta saper gestire la crisi.

La “grandeur” di Cannes per ora è solo nei numeri

Luglio, credevo a un abbaglio, e invece ci sei tu, Asghar Farhadi. Premio Oscar con Il cliente (2017) e Una separazione (2012), il regista iraniano corre per la quarta volta a Cannes con A Hero. Che si confermi a quei livelli è una doppia notizia: per le topiche europee, Il passato (2013) e Tutti lo sanno (2018), che si poteva risparmiare, e perché sulla Croisette, onorando l’odierno 232° anniversario della Presa della Bastiglia, continuano a cadere nobili teste. Già, la cara vecchia politique des auteurs sotto il solleone annaspa: Annette di Leos Carax non vale il precedente Holy Motors, Benedetta di Paul Verhoeven è divisivo, Tre piani di Nanni Moretti ha consenso autarchico, The French Dispatch non guadagnerà a Wes Anderson nuovi spettatori, sicché i favori della critica vanno al meno noto giapponese Hamaguchi Ryusuke per il sontuoso adattamento da Murakami Drive My Car, che vedremo in Italia con Tucker Film. Farhadi potrebbe contendergli la Palma, il ritorno in patria ha grandemente giovato: complessità narrativa, nitore sociologico e profondità psicologica. A Hero racconta di un giovane uomo, Rahim (Amir Jadidi, bravo), imprigionato per debiti che prova a riguadagnare la libertà con i soldi trovati in un borsone dalla fidanzata. Il piano non andrà a buon fine, e il percorso accidentato dice dell’Iran oggi: invasività dei social, risparmio familiare al lumicino, associazioni umanitarie fragili, reti sociali lasche. Su questo piano poco cartesiano Farhadi dispone i suoi personaggi, onorando la realtà dei fatti, e la verità dei sentimenti, e astenendosi dal giudizio: vittima del sistema e carnefice di sé stesso, Rahim incarna l’impasse di una nazione intera, sebbene il regista persiano non indulga d’abitudine nel simbolico. Un bel ritorno, prossimamente al cinema con Lucky Red. Detto che A Chiara di Jonas Carpignano vi avrebbe fatto un figurone, e invece sta alla pur meritoria Quinzaine, in Concorso delude Titane, opera seconda della francese classe 1983 Julia Ducournau. Pastiche pastrocchiato di Crash e Leon, pulp e women’s empowerment, elaborazione del lutto e utero in affitto, anzi, in leasing, affida a Agathe Rousselle e Vincent Lindon una fracassona traversata nel deserto, di idee soprattutto. Avrebbe potuto trovare posto nella defunta sezione Mezzanotte, per la Palma è indebito: ventiquattro titoli, un Concorso fin qui grande solo nei numeri. Ma la grandeur è altra cosa: graziata dal presidente Emmanuel Macron, giacché le nuove misure anti-Covid per le sale francesi entreranno in vigore a festival concluso, Cannes si barcamena tra antichi splendori e presenti incertezze.

Parola del genio Jannacci. “Con Enzo mi sento a casa”

“Tutto quello che faccio mi piace moltissimo, non è motivato da ambizioni strane” è l’incipit per togliere ogni dubbio sul nuovo progetto targato Elio, Ci vuole orecchio, un tour per rievocare, celebrare e far ascoltare l’eccentrico e poetico universo di Enzo Jannacci. Oggi lo spettacolo sarà a Carpi (Mo) e giovedì a Como per proseguire sino al 31 luglio al Ravenna Festival a Cervia, data scelta dalla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi. Con la regia di Giorgio Gallone e cinque musicisti sul palco si potranno ascoltare i grandi classici e brani più ricercati dell’artista milanese quali L’Armando, Silvano, Faceva il palo, Saltimbanchi e molti altri. Un sogno nel cassetto di Elio, determinato a portare in scena il teatro dell’assurdo e i personaggi borderline descritti con grande maestria da Jannacci. Nello show verranno letti testi e riflessioni di Umberto Eco, Michele Serra, Dario Fo e dello stesso Elio.

Artista, cantante, compositore, poeta e… medico.

Il suo essere medico prima che artista vuole anche dire toccare con mano la vita vera che è molto dura.

Una grande responsabilità interpretare Enzo Jannacci. Com’è nata l’idea?

Partiamo da una nota biografica: mio papà era nella stessa classe di Enzo al Liceo Berchet di Milano e mi raccontava vari aneddoti. Già da piccolo ascoltavo i dischi di Jannacci: posso dire che è nella mia vita da quando son nato. Inoltre mi è sempre piaciuto da impazzire il suo senso dell’umorismo, l’amore per il surreale, i progetti a cui ha dato vita ad esempio Cochi e Renato e le collaborazioni con Dario Fo. Già con le Storie Tese era un continuare il suo percorso, una Milano folle che racconta tante cose che accadono con un linguaggio particolare. Per arrivare a questo spettacolo bisogna passare da Giorgio Gallone: voleva che portassi in scena Il Grigio di Gaber. Gaber è un artista che io non sento affine ma è andata bene, ha avuto molte repliche con i complimenti dei fan e, soprattutto, dall’autore Luporini. Ho accettato di fare Gaber con la promessa di Gallone di fare poi Jannacci. E ha mantenuto la promessa.

Gaber è stato propedeutico.

Altro che. Per me era più difficile Il Grigio, con Jannacci mi sento a casa: le storie assurde a me piacciono tanto. Nello spettacolo mi accompagnano cinque musicisti sul palco e tra questi la sassofonista Sophia Tomelleri che è la nipote del Tomelleri che suonava con Jannacci. Si chiude il cerchio.

Interpreta i brani in modo originale o li stravolge a modo suo?

Quando faccio le cose degli altri cerco di essere fedele alla loro idea del brano.

C’è un momento particolare dello show nel quale prova una fortissima emozione?

Nella canzone finale che s’intitola Quando il sipario calerà, un commiato. La forza fantastica di Enzo è che riesce ad esser credibile sia nel comico che nel drammatico. In questo pezzo dice: “io ci ho provato con le buone”, che è bellissima come immagine. Chiunque sale sul palcoscenico ci prova, non sa se va bene: implica dose di coraggio e incoscienza che sento anche io di aver messo in gioco. Quei versi mi appartengono molto.

Magari tra quindici anni qualche artista di spessore porterà in scena Elio.

Mah, sarebbe bello, anche se mi sembra strano, anzi improbabile. Mi accontento di quello che ho fatto, non ho nessuna ambizione; mi piace aver visto gente contenta.

Un ragazzino mi ha chiesto di ringraziarla per Luigi il pugilista cantata con Sio: l’ha aiutato tanto.

Non ho dubbi, la forza della musica è questa. Tanta gente mi ringrazia dicendomi che in un periodo difficile della vita “le musiche con le Storie tese mi hanno aiutato, mi hanno dato allegria”. Per me è la realizzazione di un sogno, raccontare cose allegre e far star bene la gente.

Domanda d’obbligo: con le Storie tese bolle qualcosa in pentola?

Al momento no. Continuiamo a frequentarci perché siamo amici, abbiamo vissuto fianco a fianco per un lunghissimo periodo, praticamente siamo parenti. Se quando ci saranno delle cose da dire faremo altrimenti nulla.

La rivedremo a Lol in una seconda serie?

Per me è stato bello partecipare alla prima edizione: mi sono trovato benissimo con tutti e sarebbe bello fare ancora qualcosa con loro. Cosa fare? Non saprei.

Su Rai 5 si occupa anche di lirica.

È un tentativo di far capire la bellezza che abbiamo sotto gli occhi e che ignoriamo come popolo. È un tipo di spettacolo nato in Italia e creato prevalentemente dagli italiani. Racconta come siamo fatti, anche se le storie sono state pensate secoli fa ma con meccanismi simili a quelli di oggi, con musiche di una bellezza strepitosa. E le ascoltiamo tutti i giorni: magari in una pubblicità c’è un’aria tratta da qualche opera, o la sigla delle trasmissioni Rai con il Guglielmo Tell di Gioacchino Rossini.