“Michele Colosio è stato assassinato. Il suo sorriso largo si è spento, lo hanno ucciso in un assalto, a un isolato da casa mentre tornava dai festeggiamenti per la finale degli Europei. Era così felice”. Michele aveva 42 anni, nato a Brescia, da 10 viveva in Messico, nello Stato di Chiapas, dove oltre a esercitare come radiologo nella Casa della Salute comune Yi’bel lk’ “Radice del vento”, portava avanti “molti altri progetti sociali “convinto com’era che ci sia bisogno di dare, di dare una mano, di restare uniti nella fratellanza, senza distinzione di lingua, frontiere e colore della pelle”. A dare l’annuncio dell’omicidio, con le parole di cui sopra, sono stati proprio i colleghi della Casa della Salute su Facebook, indignati per aver visto cadere uno dei loro più cari amici come i molti che quotidianamente restano a terra nel “Pueblo Magico” di San Cristóbal de Las Casas, “una città ormai alla mercé di diversi gruppi armati (criminali comuni, crimine organizzato, narcos, bande rivali e paramilitari, sicari in uiforme ecc..) – denunciano da “Radici del vento” – sottolineando che tutto questo avviene “grazie al fatto che tutti i governi hanno chiuso un occhio e alla corruzione dei corpi di polizia”. Michele – la cui notizia della scomparsa è arrivata al telefono alla madre Daniela dal Consolato e l’Ambasciata – oltre al radiologo, mestiere che prima esercitava al Civile di Brescia, aveva messo su un piccolo podere in Messico. “Artigiano, viaggiatore, pastore di capre, contadino, piccolo muratore, meccanico di biciclette e tutto quello che gli veniva voglia di imparare a fare”, il volontario bresciano potrebbe essere entrato in conflitto attraverso i suoi progetti con i locali, non sempre ben intenzionati. Ma c’è anche l’ipotesi di una rapina finita male, visto che dalla ricostruzione dei giornali locali, a sparare sarebbe stato un uomo a bordo di una moto verso le 22. Inutili sarebbero stati i soccorsi, Michele infatti sarebbe morto all’arrivo in ospedale. A ucciderlo, a ogni modo, è stato il contesto: “l’assenza di istituzioni, la povertà diffusa e l’impunità che hanno trasformato questo bel paesino in un inferno più dei mille posti di questo dolorante Paese”, scrivono su Facebook i colleghi che giurano di “denunciare da anni la situazione” alla quale non smetteranno di resistere. Non è un caso che proprio ieri, associazioni e Ong avevano organizzato un raduno in bicicletta anti-violenza, mentre i vescovi del Chiapas si riunivano per trattare lo stesso tema, visto l’attacco, sempre di domenica di un gruppo armato contro una comunità evangelica.
Soldati in fuga dai Talebani. Afghanistan, è già disfatta
Prosegue senza ostacoli la marcia dei talebani attraverso il cruciale settentrione dell’Afghanistan. E quando l’ostacolo è rappresentato non più dai militari della Nato ma dai soldati dell’esercito regolare, dopo lo smantellamento della presenza dei militari americani e in generale della Alleanza atlantica, gli estremisti islamici, pesantemente armati (dal vicino Pakistan e non solo) non fanno prigionieri.
Le poche truppe regolari, mal armate e ancor peggio pagate, rimaste nelle regioni al di fuori di Kabul sono di fatto in rotta a causa della sproporzione delle forze e della ferocia degli “studenti di Dio”.
Lo si può evincere anche da un video della Cnn che mostra una dozzina di soldati regolari mentre si arrendono dopo essere stati rassicurati dai talebani circa la propria sorte. Un attimo dopo essere usciti dai nascondigli, i giovani militari vengono falcidiati dai mitragliatori in uso ai talebani rimanendo immobili a terra. Secondo gli esperti dell’Afghanistan analysts network, la rapida avanzata dei talebani è dovuta non solo alla volontà di prendere possesso delle redditizie arterie commerciali che collegano il paese alle ex repubbliche sovietiche ma anche di prevenire un’eventuale riorganizzazione dell’Alleanza del Nord. Si tratta dell’organizzazione di mujaheddin, che negli anni Novanta appoggiò la Nato, l’unica in grado di mettere a punto un’opposizione armata a sostegno delle forze governative. È tuttavia un’ipotesi remota anche per la mancanza di un leader carismatico e capace quale fu il Leone del Panshir, soprannome del comandante Ahmad Massoud, ucciso in un attentato suicida talebano due giorni prima dell’11 settembre 2001, il giorno che ha segnato la storia contemporanea mondiale. Con l’efferata esecuzione al grido di “Allah è grande” mostrata dalle telecamere della emittente via cavo statunitense, perdono di credibilità le parole del portavoce dei talebani, Mujahid che Zabihullah, che il 6 luglio scorso ha riferito che in agosto il movimento presenterà al governo basato a Kabul una proposta di pace scritta per poi aggiungere che “anche se sul terreno siamo in vantaggio, abbiamo intenzione di dialogare”. Il portavoce ufficiale delle varie fazioni di talebani ha uno strano concetto di dialogo, ma il governo ha ben poche chance di controbattere e di riuscire a contenere la riconquista del paese da parte dei terroristi o guerriglieri islamici oscurantisti la cui roccaforte è Kandahar nel sud-est dell’Afghanistan.
Solo una cosa è certa: la totale e fatale solitudine delle truppe speciali afgane addestrate dagli Usa che sono le più esposte alla vendetta dei talebani dopo essere state per giunta tradite dagli ex alleati. Il 2 luglio scorso gli ultimi soldati a stelle e strisce hanno lasciato la base aerea di Bagram mostrando una totale noncuranza, un disprezzo e un’arroganza senza eguali nei confronti dei colleghi afgani. Dalla base che per vent’anni è stata al centro delle operazioni contro al Qaeda e i talebani suoi alleati, gli americani se ne sono andati di notte, gli afghani l’hanno scoperto qualche ora dopo. Alcuni militari inviati a rimpiazzarli in tutta fretta sono stati uccisi da alcuni dei cinquemila talebani prigionieri nella base e che erano riusciti a liberarsi.
Gli Usa hanno firmato un accordo di ritiro con i talebani e hanno esortato il presidente della repubblica Ashraf Ghani a fare scelte difficili. Ghani e il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Hamdullah Mohib, che hanno lauree prestigiose ma nessuna esperienza sul campo di battaglia, hanno rifiutato. “Non stiamo rinunciando e non rinunceremo a un centimetro del nostro Paese”, avrebbe detto Mohib ai funzionari governativi riunitisi pochi giorni fa. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la paura e la demotivazione dei soldati semplici, i più esposti. Il Pentagono nonostante l’inflessibilità di Joe Biden circa il completamento del ritiro entro settembre, teme che Kabul possa cadere in pochi mesi e vorrebbe tentare di evitarlo ma senza una vera strategia alternativa alle armi non più utilizzabili, pena la perdita della faccia di Biden davanti agli elettori. Preso dalla disperazione, il governo di Kabul ha esortato i signori della guerra e gli uomini forti regionali a richiamare le milizie che hanno combattuto i talebani, ma che si sono scontrate durante la guerra civile degli anni 90.
Delirio calcistico: la scuola pagherà le conseguenze
Dal classico panem et circenses al borbonico “festa, farina, forca”, tutta la tradizione occidentale denuncia l’uso scellerato che il potere ha sempre fatto di quelle che oggi chiamiamo vittorie sportive. Dunque, perché scandalizzarsi dell’indecente operazione affidata ai più servili tra i servilissimi giornalisti italiani, con cui i vertici della Repubblica stanno usando la vittoria della Nazionale per legittimare se stessi e la retorica dell’unità? Per due ragioni, una politica e una di fatto: le parole scelte da Mario Draghi e la pandemia.
Sulla seconda cos’altro si può dire se non che ci siamo lasciati andare a una specie di rito tribale collettivo in cui sfidiamo la morte andando incontro ai proiettili a petto nudo? La finale di Wembley era surreale, con il presidente e la famiglia reale che benedicevano la follia della Coppa Delta, perfettamente consapevoli che tutto il rito, e poi soprattutto i festeggiamenti, avrebbero violato ogni norma stabilita dai rispettivi governi. I numeri del contagio inglese sono impressionanti: il giorno della finale i nuovi casi erano 31.382. E nessuno sa cosa quest’onda significherà per la popolazione non ancora vaccinata, e per la possibilità che essa porti a una variante letale, cioè resistente ai vaccini. Siamo sull’orlo di un vulcano: e sembra che chi dovrebbe avvertire il peso terribile della responsabilità di tutti ci stia invece spingendo di nuovo dentro il cratere. E già si capisce che, con un amarissimo simbolo, a fare le spese del delirio calcistico potrebbe essere la scuola: già zoppa per l’incapacità del governo di provvederla di aule e insegnanti, e ora a rischio di vedersi infliggere un altro autunno a distanza. E se tutto questo non succedesse, se ancora una volta la sfangassimo? Ebbene, quanti azzardi vogliamo inanellare, uno dietro l’altro? La roulette russa è forse diventata uno stile di governo?
Proprio la scuola è chiamata in causa dalla prima ragione per cui il trionfo degli Azzurri ricorda così tanto la bellissima e terribile sequenza finale di In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi, dove la bancarotta morale di un intero popolo si manifesta nei festeggiamenti per una vittoria della Nazionale proprio sull’Inghilterra. Mario Draghi, infatti, ha ringraziato gli Azzurri “per aver rafforzato in tutti noi il senso di appartenenza all’Italia. Lo sport insegna, unisce, fa sognare, è un grande ascensore sociale. Un argine al razzismo, uno strumento di coesione soprattutto in un periodo difficile come quello che abbiamo vissuto”. Il governo più oligarchico e antipopolare dell’Italia repubblicana indossa la maschera del più spinto populismo, cavalcando nel modo più rivoltante il consenso alla squadra vincente. Invece di investire tutto su scuola, istruzione e ricerca (che davvero insegnano, creano coesione sociale e costruiscono ascensori sociali), questo governo continua a puntare sullo stravolgimento del territorio, sulla macelleria sociale dei licenziamenti, contro ogni redistribuzione della ricchezza. E poi si rivolge agli italiani – e proprio a quelli che massacra di più, quelli a cui rimane solo il calcio per gioire e trovare motivi di appartenenza a questo Paese – carezzando, a favore di telecamere, Mancini, Chiellini e la coppa.
E ci mancava solo “l’argine al razzismo”! Bell’argomento ha scelto Draghi per esaltare questa squadra di camaleonti che (al contrario di Berrettini) ha dichiarato di non essere interessata a combattere perché contino anche le vite dei neri, inginocchiandosi (comicamente) solo quando si trova a giocare contro una squadra che invece ci crede. Ma si capisce che, alla vigilia del rinnovo degli accordi col mattatoio libico, qualche parola per i neri il governo debba pur spenderla. Sarà impopolare dirlo, ma Mario Draghi ha offerto questa coppa al popolo italiano usandola come l’ombrello di Cipputi. Festa, farina, forca: e senza farina.
I 442 licenziati alla Gkn. Si guarda più alla forma che alla vera sostanza
Ci sono, sui grandi giornali, 12-13 pagine di iper-retorica sul trionfo azzurro, la rinascita, la gioia, la festa, il rinascimento tricolore, il draghismo, il mattarellismo, il mancinismo, il donnarummismo, poi si arriva – col fiatone – ai 442 di Campi Bisenzio che il rinascimento italiano l’hanno ricevuto via email: licenziati. Tutti menano scandalo sul metodo: che modo sarebbe di mettere sul lastrico intere famiglie? Che poca eleganza, che cinismo! Insomma, davanti a quasi cinquecento persone che perdono il lavoro, in un momento in cui trovarne un altro è assai difficile (e trovarlo alle stesse condizioni praticamente impossibile), si stigmatizza il metodo e non il merito: viene da pensare che se i lavoratori della Gkn fossero stati licenziati con una regolare raccomandata tutto sarebbe stato accettato più facilmente. Una questione di eleganza.
Poi, giù a leggere dichiarazioni ed esternazioni della politica, la stessa che due settimane fa ha votato per sbloccare i licenziamenti, perché se non si licenzia non si può ripartire, logico, no? Povero governo Draghi, intendeva permettere licenziamenti di massa, sì, ma secondo il galateo, e invece…
Naturalmente nessuno ci spiega esattamente cosa vuol dire per una famiglia con un reddito di 20-30.000 euro annui perdere quel reddito. Nessun cronista sarà presente alle cene in famiglia dove si decide di rimandare questa o quella spesa, di affrontare azioni normali (un paio di scarpe per i ragazzi, un cinema, una gita fuori porta e altre cose persino più essenziali) come sforzi indicibili. Nessun politico assisterà alla frenetica compulsazione dei volantini dei discount che permetteranno (forse) di risparmiare quindici euro sulla spesa settimanale. Sarebbe retorica, sarebbe giornalismo a effetto, sarebbe parlare “alla pancia del Paese”, uh, che brutto! Populismo! Mentre invece infiocchettare di pagine e pagine la riscossa dell’Italia sul mondo per via di rigori ben tirati e ben parati è buona prassi, ma bisogna capirli: nessuno dei prodigiosi cantori del trionfo di Wembley ha problemi a mettere insieme il pranzo con la cena.
Tra i più grotteschi interpreti di questo scandalizzarsi per il modo e non per la sostanza, c’è l’ineffabile ministro Giorgetti, il leghista buono, il leghista che non bacia i salami. Testuale: “È inevitabile che queste cose accadano” (intende i licenziamenti che il suo governo ha sbloccato, che poteva rendere evitabili, per l’appunto). Ma poi, sventurato, aggiunge la sua perlina alla collana di paraculismo diffuso: “Però non possono succedere in questo modo”. Il dito, la luna. E infine, ecco la ciliegina: “Noi abbiamo in mente di fare il West, non il Far West”. Costruzione semantica stretta parente dei giochetti verbali del renzismo, parlandone da vivo, calembour, formulette buone per andare sui giornali, che non dicono niente, che non hanno dietro un pensiero, che servono a fregare i gonzi. Tutti i gonzi – come volevasi dimostrare – riportano la frasetta a effetto. Prudono le mani, più che altro.
Ancora più irritanti le reazioni della politica: “Inaccettabile”, dice il ministro del Lavoro, che alla fine accetterà. “Se le cose stanno così bisogna rivedere lo sblocco dei licenziamenti”, dice il segretario del Pd. E come dovevano stare, le cose? Qualcuno lamenta che non abbia funzionato a Campi Bisenzio la moral suasion di governo e Confindustria: licenziate pure, ma con garbo. In modo che centinaia di famiglie possano precipitare nella povertà, ma con garbo, mi raccomando, sennò fa brutto.
Afghanistan, le bugie Usa e il ritorno a 30 anni fa
Il generale americano Austin Miller, comandante della missione in Afghanistan, ha affermato che prepara raid aerei se i Talebani non fermeranno la loro offensiva. Ma come? Gli americani non hanno appena firmato a Doha un accordo con i Talebani in cui si impegnano a por fine a una belligeranza che dura da più di vent’anni? Ma che fine della belligeranza è mai se una parte decide sì di abbandonare fisicamente, con i propri uomini, l’Afghanistan, ma poi continua a bombardare il nemico dalle sue basi in Pakistan o magari dal Nevada? Che valore possono avere, non solo per i Talebani che sono i diretti interessati, ma per chiunque, gli impegni, le parole, l’onore degli americani?
Intanto americani e turchi stanno discutendo fra di loro su chi debba gestire l’aeroporto di Kabul. E questo senza consultare non dico i Talebani ma quello che gli stessi americani ritengono il governo legittimo dell’Afghanistan, quello di Ashraf Ghani. Cioè non rispettano nemmeno quello che loro stessi hanno deciso. A questo punto non si riesce più nemmeno a trovare le parole per descrivere una situazione che viola non solo ogni norma di diritto internazionale, ma la correttezza più elementare, il rapporto di fiducia più elementare, la morale più elementare.
Sono almeno vent’anni che i governi americani, democratici o repubblicani che siano, violano costantemente quello che dovrebbe essere il diritto internazionale: l’aggressione alla Serbia del 1999, quella all’Iraq del 2003, quella alla Libia del 2011 sono state condotte non solo senza l’approvazione dell’Onu ma contro la sua volontà. A questo punto ci si chiede cosa conti l’Onu. Con tutta evidenza: niente.
In tutto questo aggiungiamo, per sola misura di contorno, che la stampa italiana riesce a essere più serva di qualsiasi servo. Sul Corriere della Sera la collega Marta Serafini ci fa un lacrimevole ritratto dell’Afghanistan in questi vent’anni di guerra: civili uccisi, bimbi uccisi, donne uccise. Si dimentica però di dire chi ha causato queste vittime. Non certo i Talebani. Per due motivi. Uno formale, l’altro sostanziale. Nel Libretto Azzurro, naturalmente irriso in Occidente, il Mullah Omar dettava precise indicazioni ai suoi comandanti militari: “Il sacrificio dei valorosi figli dell’Islam è lecito soltanto se il bersaglio è importante, vale a dire solo per obiettivi militari e politici cha abbiano una certa rilevanza, col massimo impegno per scongiurare vittime civili”. E il Mullah Omar aveva il prestigio sufficiente per imporsi, ammesso ce ne fosse stato bisogno, ai suoi combattenti che rispettarono puntualmente quelle consegne. Motivo sostanziale, come ho scritto e ripetuto alcune centinaia di volte, è che i Talebani non avevano alcun interesse a inimicarsi la popolazione civile sul cui sostegno hanno potuto condurre, in totale inferiorità per mezzi tecnici, una vittoriosa guerra di indipendenza ventennale. Per quanto possa sembrar strano a orecchie occidentali, bombardate dagli articoli della Serafini e di tutte le Serafini, il Mullah Omar era un uomo etico, di principi, come dimostra, in modo inequivocabile e non contestabile, il trattamento che i Talebani han sempre riservato ai loro prigionieri, considerandoli correttamente prigionieri di guerra e non trattandoli alla Guantanamo. Lasciamo anche perdere, per carità di patria, la consueta confusione che si fa, volutamente o per ignoranza, fra Talebani e Isis.
Il destino del governo “regolare” di Ashraf Ghani è segnato. I soldati regolari accettarono a suo tempo l’ingaggio per avere, in una Kabul che aveva raggiunto la dimensione mostruosa di cinque milioni di abitanti e dove era stato distrutto anche l’artigianato locale, un salario purchessia, ma adesso disertano e, o si uniscono ai Talebani o si rifugiano, cercando protezione, presso i rispettivi clan.
Il generale Miller si dice preoccupato che l’Afghanistan sia sconvolto da una guerra civile che veda contrapposti pashtun, tagichi, uzbechi. Questo è possibile. Peccato che nella loro travolgente avanzata fra il 1994 e il 1996 , i Talebani, in maggioranza pashtun, avessero sconfitto i leggendari “signori della guerra”, Dostum, Heckmatyar, Ismail Khan, che si erano messi a capo delle rispettive etnie per pure ragioni di potere personale, riportando per sei anni l’ordine, la pace e la legge in quel Paese (in Uzbekistan fu ricacciato
Dostum, che attualmente è vicepresidente del governo afghano, un tale pendaglio da forca che gli stessi americani gli hanno negato il visto per gli Stati Uniti, Heckmatyar e Ismail Khan si rifugiarono nell’Iran sciita, in quanto a Massud, che aveva tradito il suo Paese chiedendo l’aiuto americano, s’è fatto fuori da solo perché i servizi segreti Usa, ritenendolo troppo ingombrante, lo avevano a suo tempo eliminato).
Sì, è possibile che in Afghanistan ritorni la guerra civile che si era scatenata fra il 1990 e il 1996, dopo il ritiro degli invasori sovietici e a cui l’avvento dei Talebani aveva posto fine. In questo caso avremmo fatto tornare indietro l’orologio della storia afghana di trent’anni. Complimenti.
Euro2020 Vista da fuori, l’Italia sembra una gabbia di ammattiti
Certo, non si potevano rinviare un’altra volta i Campionati europei. Non si poteva far disputare le partite a porte chiuse. Non si poteva impedire ai tifosi di festeggiare. Non si potevano evitare le celebrazioni con annesso bagno di folla dei vincitori. Non si poteva, appunto, lo si è lasciato fare. L’Oms ha già detto che “la pagheremo cara”. Spero si sbaglino, ma se così non fosse, e ci dovessimo ritrovare un’altra volta in pieno incubo, chi se ne assumerà la colpa?
Mauro Chiostri
Caro Mauro, Euro2020 per l’Uefa è stata una grande occasione persa. Avrebbero potuto dare accesso agli stadi soltanto ai vaccinati, favorendo le campagne di immunizzazione e fornendo comunque al mondo un’immagine di ritorno alla vita e alla spensieratezza assolutamente legittima. Non è stata neppure una grande trovata mantenere la formula itinerante, decisa e programmata quando la pandemia non era ipotizzabile. Avrebbe fatto bene l’Uefa a concentrare le partite in uno o due Paesi organizzatori creando delle bolle. Invece i vertici del calcio europeo hanno preferito far come se la pandemia non ci fosse, come se l’incubo fosse già finito. E il prezzo di tutto questo lo si sta già pagando, speriamo non sia troppo salato grazie ai vaccini. Vorrei citare il professor Guido Silvestri, luminare italiano che vive e lavora negli Stati Uniti, ad Atlanta: “A guardarla da fuori, l’Italia di questa estate 2021 sembra una gabbia di matti. Fino a ieri una persona doveva mettersi la mascherina, pena multe severissime, se andava da sola a passeggio per un parco o in un bosco a cercare funghi. Con le vittorie dell’Italia ai campionati europei di calcio si vedono assembramenti da migliaia di persone quasi tutte senza mascherina che urlano e si abbracciano appiccicate per ore, il tutto sotto il naso, se non con la benedizione delle autorità ufficiali. Scusate l’asprezza, ma non credo ci voglia un h-index di 80 per capire che si debba trovare una qualche via di mezzo tra questi estremi entrambi assurdi”.
Ecco, le parole del prof. Silvestri mi sembrano le più sensate lette e ascoltate finora.
Giampiero Calapà
Mail box
Il Conticidio e l’Ordine dei giornalisti fantasma
Caro Marco, voglio inviarti i complimenti di una zia quasi 96enne cui ho regalato il tuo libro sul Conticidio. Ogni giorno legge Il Fatto e dice che è una “boccata di aria fresca”. Adesso il libro lo sto leggendo io, ma ci vorranno mesi perché a ogni pagina mi viene da vomitare… è tutto fantascientifico.
Mi chiedo dove sia l’Ordine dei giornalisti: possibile che non si possa fermare questi servi bugiardi? Possibile l’Italia sia così? Una voce sola (la vostra), contro tutti. Resistere, resistere, resistere. Vi prego, non vi fermate mai.
Alberto
Caro Alberto, l’Ordine, se fosse davvero un Ordine, dovrebbe espellere i due terzi (almeno) dei suoi iscritti. E andrebbe in fallimento.
M. Trav.
Integrazione, sport e festeggiamenti nazionali
Carissimi redattori, ieri sera Genova, come tutta l’Italia, era in festa per la vittoria della Nazionale al Campionato europeo. Mentre rientravo a casa dopo la partita, circondato dalla gioia dei tanti tifosi diretti verso il centro della città, ho notato una vettura con i finestrini aperti e una grande bandiera italiana tenuta in mano da due ragazze ecuadoriane. Allora la mia gioia è aumentata, perché mi sono detto che anche quella sportiva è integrazione nella nuova comunità che ha saputo accoglierle e farle sentire orgogliose di sventolare il tricolore.
Italo Borini
“Governo dei migliori” balle e promesse vuote
Ci voleva un ex presidente della Bce per far ripartire la girandola dei licenziamenti, senza che alcuna vertenza sindacale abbia trovato la benché minima soluzione alternativa. Ci voleva una stimata giurista per far votare in Cdm una riforma della giustizia che sembra tanto un grande indulto. Tutto condito dalle balle dell’innominabile, grande stratega dei giochi di palazzo tipici di una politica marcia, che sta alla politica vera come l’acqua di fogna sta all’acqua di sorgente, e dalle promesse di riduzione delle tasse del “cazzaro verde”, che prima di parlare dovrebbe leggere una bolletta, per verificare che la pressione fiscale sui contribuenti supera largamente il 60% ed è in aumento. Per essere il “governo dei migliori”, non c’è male!
Stefano Tomasoni
La riforma Cartabia mette alle strette il M5S
Accordo nei 5 Stelle: Conte dà la linea, Grillo vigila sui valori. Detta così, sembrerebbe la soluzione perfetta. Ma il limite tra le due “competenze” è molto stretto e Grillo non ha l’attitudine alla continenza. Vedremo presto se il nuovo statuto e le sue regole funzioneranno. C’è la riforma Cartabia “ammazza-processi” che verrà discussa in Parlamento, dopo aver avuto il lasciapassare in Consiglio dei ministri.
Tutti gli occhi ora sono puntati su Conte, per vedere che farà nella votazione in aula. Se prevarranno i no, il nuovo corso di Conte sarà confermato; se invece i gruppi si spaccheranno, vorrà dire che l’accordo è solo forma e la crepa che taglia il Movimento resterà.
Massimo Marnetto
Giustizia da rifare: archivi ancora fatiscenti
Caro Direttore, del suo editoriale del giorno 11 luglio, condivido tutto, ma da ignorante in materia, devo dire che a mio parere, nessun Paese del mondo, nessuna riforma potrà farla funzionare se come in Italia ci sono 250mila avvocati (in Francia 50mila), schierati contro i giudici, privi di cancellieri, fotocopiatrici, toner, carta e quant’altro. Ha mai visto i filmati sulle condizioni degli archivi nei tribunali della Calabria? La prima riforma da fare dovrebbe riguardare il corso di laurea in Giurisprudenza, da portare minimo a 5 anni.
Paolo Gulinello
Lei è tutt’altro che ignorante.
M. Trav.
Vittoria in campo, ma sconfitta sui diritti
Sono imbarazzato nel vedere come gli italiani hanno inneggiato e festeggiato, in tutte le città, per la vittoria del campionato europeo! E per la povertà del nostro paese? E per tutto quello che manca e che si dovrebbe fare? Quando gli italiani si mobiliteranno, similmente a una giocata di pallone, affinché il nostro paese non sia solo in mano alle multinazionali e alla corruzione?
Inoltre, la vittoria di ieri, anche stando alle logiche “pallonare”, vale meno che il lancio di una moneta: l’Italia e l’Inghilterra hanno giocato più o meno nella stessa maniera e abbiamo vinto ai rigori. La realtà ha messo in evidenza che Spagna, Italia e Inghilterra si equivalgono e che l’Italia, forse, ha migliori rigoristi… contenti voi!
Eugenio Girelli Bruni
Non solo ddl Zan: il Belpaese torna in Libia
In Parlamento, i deputati e senatori del Pd e di Leu da un lato tenteranno di approvare il ddl Zan e, al contempo, turandosi il naso, approveranno la conversione in legge del dl che finanzia nuovamente le missioni militari all’estero e tra queste, la più oscena e incostituzionale, la missione in Libia: vergogna.
Ciullo Milano
Rumsfeld, la guerra illegale contro l’iraq e il think tank bugiardo
Ancora su Rumsfeld e i casini che, come capo del Pentagono, combinò con la guerra coloniale, criminale e illegale in Iraq, basata su bugie. Rumsfeld era fra i membri del Pnac (“Piano per il nuovo secolo americano”), l’aberrante think tank guerrafondaio che mirava alla pax americana nel mondo, ovvero a “modellare le circostanze prima che una crisi emerga”, “aumentare le spese per la difesa” e “sfidare i regimi ostili ai nostri interessi e ai nostri valori” per “estendere un ordine internazionale amico della nostra sicurezza, della nostra prosperità, dei nostri princìpi”. Oltre agli ispiratori Kristol e Kagan, ne facevano parte ceffi come Cheney, Wolfowitz, Perle, Armitage, Bolton, Abrams, Libby e Ledeen. Kristol, direttore del Weekly Standard e opinionista di Fox News (entrambi di Murdoch), con discorsi, interviste e articoli spacciò un tale cumulo di menzogne sulle motivazioni, i costi, la pianificazione e le conseguenze della guerra in Iraq che si rivelò del tutto inattendibile sia come commentatore politico che come giornalista: molti lettori liberal cancellarono il proprio abbonamento al New York Times quando Kristol ne diventò columnist nel 2008; e fecero lo stesso con Newsweek, dopo che vi venne assunto come opinionista lo spudorato spin doctor di Bush, Karl Rove, la mente dell’Iraq Group, la combriccola propagandistica della Casa Bianca che disinformava l’opinione pubblica tramite giornalisti complici come Judith Miller del NYT (quella coinvolta nel Plamegate). Il gruppo fu creato nell’agosto 2002, e a settembre Cheney, Rice e Bush già parlavano della “minaccia nucleare” di Saddam. A quella guerra aderirono Blair (con il sostegno propagandistico dei giornali di Murdoch) e Berlusconi (con il sostegno propagandistico di Belpietro, Feltri, Fede, Giordano, Mentana, Vespa, Mimun, Mazza, Gervaso, Ostellino, Polito, e soprattutto degli sfegatati Giuliano Ferrara, Carlo Rossella e Christian Rocca). Rove, Ledeen e Kagan venivano citati e pubblicati dal Foglio e da Panorama. Kagan fu pure intervistato a Otto e mezzo da Ferrara, che oggi definisce Rumsfeld “un gigante della guerra e della pace”. Ferrara (che non è grasso, è pieno di sé), pur di non ammettere l’errore della guerra in Iraq arrivò a pubblicare quattro pagine del Foglio con foto a colori della decapitazione jihadista degli ostaggi. Un artificio propagandistico per dire “questa guerra è giusta perché è contro terroristi che tagliano le teste”, confondendo la causa con l’effetto, però, dato che i terroristi tagliateste erano una conseguenza della guerra di Bush, Blair e Berlusconi. Quella guerra alimentava il terrorismo jihadista. Conclusione: chi andava in vacanza in Iraq, lasciava a casa la testa, era più prudente. Ferrara chiosò: “La chiamano pornografia. Queste immagini, della pornografia hanno alcune caratteristiche: scenografia sommaria, situazione ripetitiva, mezzi tecnici poveri”. E, come le foto porno, potresti metterle sottosopra e nessuno noterebbe la differenza. Ma non c’erano tette. Non c’erano vagine. Non c’erano penetrazioni. La pornografia serve a eccitare, a indurre erezioni in modo che uno poi arrivi a masturbarsi (non so come faccio a saperlo). Ferrara voleva forse confessarci che si masturbava guardando quelle foto? “Ogni volta che vedo foto di ostaggi decapitati devo masturbarmi. Perché a questo serve la masturbazione: ad alleviare la tensione”. No, molto peggio: stava facendo il propagandista di guerra, con la stessa abiezione con cui l’altro giorno ha usato la morte della Carrà per paragonare il Tuca Tuca al bunga bunga (della serie: riverginare Berlusconi per il Quirinale). Il paragone gli è venuto loffio perché la Carrà non era stata decapitata. (5. Continua)
“Grazie Mario” È colpa di Virgi
“La festa degli Azzurri” vista da Repubblica è tutta da raccontare, per chi ieri non avesse avuto la fortuna di ritrovarsi il quotidiano di largo Fochetti tra le mani. Prima pagina: “Avete unito l’Italia. Draghi riceve la Nazionale e Berrettini: ‘Grazie a voi siamo al centro dell’Europa, lo sport insegna a tutti’. Poi il bagno di folla nelle strade di Roma”. Pagine 2 e 3, grande foto con il maxi-assembramento romano attorno all’autobus scoperto dei campioni e titolo: “Festa Italia con la Coppa in trionfo tra la folla. Il successo ha bisogno dell’oggetto che lo fa passare dall’astratto al concreto. Il viaggio del trofeo da Londra alle strade di Roma”. Pagine 4 e 5: “Per gli Azzurri l’orgoglio di Mattarella e Draghi”. E, attenzione, “il teorema dell’anti-tifoso che confonde politica e sport”. Pagina 6: “Un minuto di applausi interrompe l’Eurogruppo. E il calcio ci rilancia in Ue”. Cronaca di Roma, prima pagina: “Pazza gioia, incubo contagi”. Merito di Mario, colpa di Virgi, chiaro.
La variante “destra” ormai spopola
Siamo onesti, lunedì sul pullman scoperto dei vincitori che a Roma solcava la folla esultante, inneggiante (e forse, speriamo di no, contagiante) avrebbe dovuto salire di diritto anche Matteo Salvini. Il leader di quella variante destra oggi saldamente al comando della linea aperturista del governo Draghi. Non lo diciamo per spirito polemico, ma sulla base dell’analisi dei fatti che dall’inizio della pandemia, un anno e mezzo fa, hanno visto in contrapposizione due visioni del mondo, e del virus. Da una parte la linea cosiddetta rigorista rappresentata, in continuità tra i governi Conte e Draghi, dal ministro della Salute, Roberto Speranza. Dall’altra, il liberi tutti propugnato con coriacea coerenza da Lega e Fratelli d’Italia, mai domi neppure quando ricoveri e terapie intensive risultavano fuori controllo (per non parlare del resto). Da una parte la sinistra del reddito garantito (pensionati e pubblico impiego), più sensibile alla difesa della salute collettiva. Dall’altra la destra più preoccupata dalle conseguenze del crollo dell’economia sul lavoro autonomo dei non garantiti.
Questo in soldoni. Per lungo tempo il partito dei lockdown
, delle mascherine, dei distanziamenti, del non abbassiamo la guardia ha prevalso sui valorosi resistenti alla “dittatura sanitaria”, quelli con la mascherina a mezz’asta. Poi, con l’avvio della vaccinazione di massa si è come stabilita una tregua: il famoso “rischio ragionato” propugnato dal premier Draghi. Infine, con l’arrivo delle travolgenti “notti magiche” la diga della prudenza ha ceduto di colpo. “La variante Delta approfitterà delle persone non vaccinate, in ambienti affollati, senza mascherine che urlano, gridano e cantano”, ha detto Maria van Kerkhove, al vertice dell’Organizzazione mondiale della Sanità commentando lo spettacolo di Wembley. E non sembrano parole rassicuranti. Infatti, è arrivata subito l’impennata dei contagi Delta anche se gli esperti sperano che i vaccini possano impedire conseguenze più gravi. A questo punto per il governo Draghi non sarà facile arginare la variante destra. Dopo aver aperto tutte le porte e finestre del Paese, come si fa a richiuderle da un giorno all’altro? Perfino ripristinare in alcune regioni le tenui zone gialle appare più che altro un esercizio patetico. E poi, i sondaggi pesano anche sull’unità nazionale. Con la crisi dei 5stelle e l’inconsistenza del Pd il baricentro della maggioranza pende decisamente dall’altra parte. Nel governo dei migliori, meglio Salvini. Forza, abbracciamoci.