“Il Reddito è un baluardo di civiltà: ridimensionarlo sarebbe un disastro”

“Se cede anche sul Reddito di cittadinanza il Movimento 5 Stelle non ha più senso di esistere. E se il governo decide di ridimensionarlo ne trarremo le dovute conseguenze”. L’aria che tira sulla misura voluta ai tempi del governo gialloverde e cavallo di battaglia dei pentastellati non è delle migliori. Per questo l’ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, firmataria del primo disegno di legge, è netta: “È una misura sacrosanta, un baluardo di civiltà: non va ridimensionata”.

Renzi e Salvini fiutano le vostre difficoltà e lo attaccano proponendo un referendum.

Il Rdc va difeso a tutti i costi: esiste in tutti i paesi Ue, dove nessuno degli schieramenti politici, di destra o sinistra, pensa di eliminarlo. Chi lo attacca vuole guadagnare credito verso un certo pezzo di potere sulla pelle dei poveri. Non ha mai incontrato una famiglia beneficiaria.

Il refrain è il solito: va rivisto perché non incentiva l’occupazione.

Non sanno di cosa parlano. Non c’è nulla da rivedere, va solo implementato. Le Regioni devono procedere con le assunzioni previste per i Centri per l’impiego e mai fatte; così come i Comuni con i progetti di comunità. Vanno implementate le politiche del lavoro, che in Italia non sono mai partite. Nel Piano di ripresa nazionale abbiamo rafforzato la presa in carico e la formazione dei beneficiari. Il Rdc non produce lavoro, non è pensato per quello e non potrebbe essere altrimenti, gli investimenti lo creano: è un aiuto economico a chi è in povertà con servizi dedicati, sia di inclusione sociale che lavorativa per rendere i percettori occupabili. Buona parte dei beneficiari oggi non lo è. Ridimensionarlo sarebbe una follia sulla pelle di milioni di persone. Un attacco ai poveri.

Lasciare scadere il blocco dei licenziamenti a giugno è stato un errore?

Sì, serviva aspettare almeno fine settembre e monitorare la ripresa. Lo sblocco selettivo per tessile e moda, poi, serve a poco: esclude parte delle filiere e tocca anche imprese non in difficoltà. Il parametro da usare era il calo del fatturato. Ora serve monitorare, anche se tornare indietro sarebbe preferibile.

Sul dl Dignità è passato un emendamento alla Camera che permette, con l’ok dei sindacati confederali, di derogare alla stretta sui contratti precari. Pure M5S lo ha votato..

Un errore, poi corretto in parte inserendo un limite a settembre 2022. Il dl Dignità ha avuto un ruolo importante nel limitare il precariato, dopo un anno dalla sua introduzione aveva ridotto i contratti a termine e portato a un aumento di quelli a tempo indeterminato. Durante la pandemia abbiamo introdotto deroghe, ma solo temporanee, quella approvata ora è troppo lunga. Anche qui: la misura va rafforzata non ridimensionata. Io andrei oltre, abolendo l’articolo 8 del decreto Sacconi che permette, tramite accordi sindacali aziendali (o territoriali), di derogare anche alle leggi dello Stato.

Confindustria, centrodestra e pezzi di maggioranza vorrebbero eliminarlo.

Non accetto lezioni da chi ha precarizzato il mercato del lavoro approvando la legge Biagi, il Jobs act e togliendo l’art. 18. Aumentare la flessibilità non aiuta l’economia ed è il contrario di quanto si dovrebbe fare ora. La precarietà è maggiore tra giovani e donne, i più danneggiati dalla crisi Covid.

Il salario minimo è sparito dai radar.

Ho depositato il terzo disegno di legge, spero di discuterlo ma al resto della maggioranza non interessa. È una norma sacrosanta: il M5S deve puntarci, era nel suo programma, uno dei suoi temi identitari.

Sugli ammortizzatori sociali è in arrivo la riforma.

Spero non sia una riformetta.

Quella elaborata dalla nostra commissione tecnica era universale, semplificava le norme e copriva anche gli autonomi. Da quel che filtra, non sarà così. Sarebbe un errore.

Licenzia con i fondi pubblici Gianetti beffa la Lombardia

Vuoi chiudere la Gianetti Ruote srl e licenziare i 152 lavoratori? Benissimo (anzi malissimo), però prima restituisci gli 827.075,60 euro di finanziamenti pubblici (411.478,94 a fondo perduto e 415.596,67 di prestito) che hai ricevuto nel 2012. È quanto avrebbero dovuto dire (ma non hanno detto) i vertici di Regione Lombardia ai proprietari dell’azienda di Ceriano Laghetto l’8 luglio scorso, uditi in IV commissione. Un incontro chiesto dai sindacati che dal 3 luglio lottano contro 152 lettere di licenziamento recapitate ai lavoratori il giorno dopo lo sblocco dei licenziamenti voluto da Draghi.

Un’arma che il Pirellone si è “dimenticato” di usare. Non per volontà, ma per impreparazione. Chi invece si è dato la briga di studiare i bilanci è stato il consigliere M5s Marco Fumagalli. È lui che ha trovato quei fondi dati alla Gianetti e che potrebbero essere la leva per sbloccare la vicenda, convincendo l’azienda a trattare con i sindacati. Ipotesi da subito rigettata dalla proprietà. Promosso da Regione Lombardia e ministero dell’Istruzione, il bando prevedeva che “sarebbe stata dichiarata la decadenza, totale o parziale, dell’intervento finanziario concesso qualora non fossero stati rispettati dai soggetti beneficiari gli obblighi previsti dal bando e (…) qualora non fosse stata mantenuta l’attività economica (…) per un periodo di 5 anni dalla conclusione del progetto”. Cioè per i 5 anni successivi alla restituzione del prestito.

Gianetti ha saldato l’ultima rata nel 2018 e quindi per i prossimi 3 anni avrebbe dovuto mantenere invariata la produzione. Non solo, il bando specificava che beni e servizi dovessero essere “utilizzati esclusivamente nella sede per la quale era stato richiesto” il finanziamento e “per tutta la durata dell’intervento agevolativo”. Quindi doveva mantenere la sede in Lombardia. Infine, i beneficiari “erano obbligati (…) a segnalare tempestivamente eventuali variazioni di ragione sociale, cessioni o locazioni relative agli investimenti preventivati”, cosa mai fatta dal trust che governa la società.

E su quel trust c’è molto da dire. Per capire come uno dei principali produttori europei di ruote abbia chiuso da un giorno all’altro, bisogna ripercorrere la storia dell’azienda. Nel 1992 Gianetti viene acquistata dal Gruppo Cln che nel 2015 la cede ad Accuride Corporation, la quale si impegna a investire nella società 19,75 milioni in 36 mesi. L’idillio si rompe nel 2018, quando Accuride acquista la tedesca Mefro Wheels GmbH, principale concorrente di Gianetti. L’operazione va notificata all’Antitrust Ue, visto che le due società detenevano il 60% del mercato. E, infatti, l’Ue permette ad Accuride di acquisire la Mefro solo se prima vende Gianetti. Così Gianetti viene ceduta alla tedesca Quantum Capital Partners (QCP), il fondo che ne decreterà la morte “causa pandemia”, nonostante gli ordini non manchino, anzi. E ora che Gianetti è chiusa i clienti andranno a Mefro. Un bell’esempio di spoliazione industriale, avvenuto sotto gli occhi del ministro Giorgetti e dei suoi uomini al Pirellone.

La Coldiretti è Cassazione: la bufala del Pil che crescerà

Sono tanti i meriti della Coldiretti, tra le poche attente alla qualità dei cibi, ma non ci sembra che l’associazione dei contadini brilli per le previsioni macroeconomiche. Eppure, l’annuncio di un Pil destinato a crescere di almeno lo 0,7% a causa della vittoria degli Europei fa il giro dei quotidiani e delle rassegne stampa. E viene preso per oro colato, come ulteriore prova del binomio fortunato Italia-governo disegnato dalla narrazione nazionalista-populista.

Se si guardano le serie storiche degli andamenti del Pil per quei Paesi europei che nel corso degli ultimi dieci-quindici anni hanno vinto una competizione prestigiosa, Mondiali o Europei, i conti non tornano.

La Grecia, ad esempio, veniva nel 2003 da una crescita del 5,8% che scende nel 2004, anno degli Europei, a 5,1 e precipita nel 2005 a un +0,6% (e quello che accadrà dopo dimostrerà quanto gonfiati fossero quei dati). La Spagna ha vinto gli Europei nel 2008 e nel 2012 e i Mondiali nel 2010. Avrebbe dovuto avere un quinquennio di rose e fiori. L’andamento del suo Pil, invece, passa dal +3,6% del 2007 allo 0,9 del 2008 (Europei), allo 0,2% del 2010 (Mondiali), fino al -3% del 2012 (ancora Europei). La Francia vince i Mondiali nel 2018 e il suo Pil passa dal 2,3% del 2017 all’1,8 del 2018 e all’1,5% del 2019. Va un po’ meglio alla Germania, che nel 2014, anno dei Mondiali, fa un balzo del 2,2% previsto dalle stime di inizio anno. Anche l’Italia del 2006 ha un buon andamento del Pil, +1,8% che scende nel 2007 all’1,5. Leggendo però la valutazione che ne fa la Ragioneria dello Stato non si trova traccia dell’effetto Mondiale. Anzi, si legge chiaramente che, dopo tre anni di crisi delle esportazioni, “dall’inizio del 2006 si assiste a una inversione di tendenza: l’Italia ha iniziato a riconquistare quote di esportazioni, soprattutto nei confronti dei principali partner europei”. Dall’inizio dell’anno, quindi, non dopo il “po-po-po-po-po-po-po”.

Draghi Re di Coppa, l’Italia risorge ed Elsa lacrima un’altra volta

Da alcuni giorni va di moda una curiosa abitudine da parte dei giornali italiani: accusare Il Fatto Quotidiano, e il suo direttore, di “rosicare” per la vittoria italiana, con battute originali tipo “travaglio di bile” oppure ricorrendo all’ossimoro del “cretino intelligente”.

Eppure, non risulta nessuna dichiarazione, nessun editoriale del nostro giornale, o del suo direttore (tranne quello di oggi) che autorizzi un simile atteggiamento. Salvo un articolo di Massimo Fini che ha dichiarato, come è suo diritto, il proprio rifiuto a tifare Italia (e figurarsi se il Fatto censura Fini) per la possibile strumentalizzazione in atto. Lecito chiedersi il perché di tanto spreco di energie.

La spiegazione la offrono gli stessi calunniatori i quali accusando Il Fatto di paventare la politicizzazione degli Europei, profondono grande impegno giornalistico nel dare vita a una narrazione a giornali unificati cui non smettiamo mai di abituarci.

“La coppa rafforza anche Draghi in Europa” è il titolo a tutta pagina del Corriere della Sera a un pezzo di Francesco Verderami, firma illustre, che però non spiega perché la coppa rafforzi Draghi, limitandosi all’auspicio, alla speranza.

Come Aldo Cazzullo che, nell’inserto del Corriere dedicato alla vittoria azzurra, la descrive come “la rinascita” che rappresenta “un segnale di speranza per il Paese come nel 1982” (e anche questa leggenda del Mondiale che chiuse il terrorismo, ormai, è data per scontata).

Il concetto è ribadito da Repubblica che racconta del “minuto di applausi che interrompe l’Eurogruppo” da cui si deduce non tanto l’apprezzamento europeo per una vittoria sportiva, ma il fatto che “il calcio ci rilancia in Ue”.

E chi viene rilanciato? Onore al merito al Sole 24 Ore che in una colonna non troppo vistosa dal titolo “Nella vittoria anche un po’ di senso dell’Europa”, dopo aver spiegato che la Ue è contenta per la brutta figura della Gran Bretagna della Brexit, nelle ultime righe spiega il senso politico di tutto: “Al disastro inglese si contrappone la resurrezione dell’Italia”. Calcistica, direte voi. No, dice Adriana Cerretelli che firma l’articolo: “Mario Draghi lo sa: anche il provvidenziale tonico di Wembley gli servirà a ricostruire il Paese”. Certo, magari con gli stadi nel Recovery plan, come nel caso di Firenze.

Poi ci sono i quotidiani che per darsi un tono amano prendersela con Il Fatto, a prescindere. Ma solo per confermare la tesi di fondo. Si veda Il Foglio di Claudio Cerasa secondo il quale “l’Italia, spiace per Travaglio, in questo momento, in Europa, è un piccolo modello di stabilità e di visione”. Soprattutto per “la capacità mostrata in questi anni di produrre anticorpi per governare il populismo”. Chissà se si riferisce al 2% di Matteo Renzi oppure al 40% che Fratelli d’Italia e Lega ottengono insieme nei sondaggi. Un esempio fulgido degli anticorpi populistici.

In tempi di narrazioni commosse per le “eroiche” gesta e gli impetuosi slanci, possono tornare utili i grandi topoi italiani, tra i quali ormai spicca quello delle lacrime di Elsa Fornero. Su la Stampa una delle ex ministre più odiate di sempre, infatti, fa una piccola lezione sul valore umanitario e tonificante per l’animo umano delle lacrime viste a Wembley “e anche a Wimbledon”, che ci fanno “riscoprire le emozioni”, un modo abile per riabilitare le sue lacrime di dieci anni fa.

Infine, ancora su Repubblica, troviamo la lezioncina del giornalista dei migliori che se la prende con chi ha fatto notare che la vittoria dell’Italia sarebbe stata utilizzata politicamente. L’articolo utilizza l’insulto furbesco di “cretino intelligente” ma la prosa, stavolta, fa pensare che sia stato scritto allo specchio. Solo qualche pagina più in là, del resto, Michele Serra invita a non scadere nella retorica delle celebrazioni e a far parlare solo lo sport. Ma i giornalisti dei migliori forse non leggono più nemmeno i propri, di giornali.

Sul Pnrr 190 audizioni alla Camera: ma il testo era già stato “blindato”

Quando si tratta di lasciar parlare, non c’è problema: in Parlamento tutti o quasi possono trovare un’occasione per far sentire la propria voce. Ma se si guarda a quante di quelle audizioni vengano poi prese sul serio, ci si accorge che a contare sono di fatto solo le posizioni di Confindustria, sindacati confederali e Anci, l’associazione dei Comuni. Lo dimostra un’analisi sui 4.593 soggetti “auditi” informalmente (molti dei quali più e più volte) dalle Commissioni permanenti della Camera da inizio legislatura sino al 31 dicembre scorso. Sul podio dei più “auditi” ci sono i sindacati (la Cisl è stata ascoltata ben 95 volte), seguiti da Confindustria (57 volte) e dall’Anci (48). Lo studio è stato elaborato dalla Legal Clinic Ruffilli dell’Università degli Studi di Salerno insieme alla Ong The Good Lobby, e si è esteso ai primi mesi di quest’anno per un focus sulle audizioni relative al Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che proprio ieri ha ottenuto il via libera dell’Ecofin.

Proprio le audizioni sul Pnrr sintetizzano l’assoluta inanità delle audizioni informali “a pioggia”: sono cominciate tardi, il 27 gennaio, e sono terminate dopo 50 giorni il 17 marzo con 190 soggetti ascoltati. Ma ad avere efficacia sono state le voci di quei pochi che vantavano già canali di interlocuzione con la politica. Per dare un esempio del ritmo, il 4 febbraio i deputati della Commissione Lavoro nelle due ore tra le 11 e le 13 hanno sentito i rappresentanti del Comitato unitario permanente ordini e collegi professionali, della Consulta nazionale per il servizio civile universale, di Confprofessioni, la Confederazione italiana dirigenti e delle associazioni Comma 2, Donne per la salvezza-Half of it, Millenium project e del Movimento “Lo stagista frust(r)ato”: un quarto d’ora di palcoscenico non si nega a nessuno. Di cosa si sia parlato però lo sanno solo i presenti, perché non esistono resoconti. Dal report emerge non solo l’assenza di trasparenza ma anche la discrezionalità dei presidenti delle Commissioni, che scelgono chi ascoltare in totale libertà. Sebbene le audizioni esistano ormai da decenni, non sono mai state “codificate” nei regolamenti e ogni Commissione ha regole proprie. Emblematico il caso delle audizioni sul Pnrr: le commissioni Agricoltura e Trasporti non hanno convocato associazioni di consumatori, utenti o ambientalisti.

“Le audizioni parlamentari informali sono un prezioso strumento di interazione tra società civile e politica. Vanno rese però più trasparenti e inclusive, superando arbitrarietà e discrezionalità che ancora le contraddistinguono, per ridare al Parlamento il suo ruolo centrale”, commenta Federico Anghelé, direttore di The Good Lobby. “Come dimostra un recente report della Ong Re Common, che ha esaminato l’accesso ai ministeri sul Pnrr delle grandi aziende dell’energia, Eni su tutte, ci sono stati ben 102 incontri tra le imprese delle fonti fossili e i ministeri incaricati di redigere il piano: in media due incontri a settimana. È come se il contenuto significativo del Piano su questo fronte, con i miliardi stanziati, fosse arrivata dalle grandi imprese. Dunque il ruolo del Parlamento sul Pnrr è stato secondario: le audizioni sono arrivate in fase tardiva, avrebbero dovute essere condotte a monte e non a valle della redazione del Piano, non quando il Pnrr era già in larga parte scritto e quindi con possibilità di intervento limitate”.

Sostiene Anghelé: “Good Lobby ritiene che le audizioni parlamentari siano un buono strumento da potenziare per incanalare e formalizzare le relazioni, in modo da evitare che ogni commissione agisca in modo proprio e senza resoconti. Ai soggetti della società civile dovrebbe essere consentito trasferire ai parlamentari delle Commissioni memorie e documenti, come avviene nelle consultazioni Ue. Il modello di consultazione trasparente e aperta dei portatori di interessi, gli stakeholder, dovrebbe essere esteso ai ministeri perché oggi l’asse decisionale è in mano al governo, mentre il Parlamento pare ormai un mero validatore di decisioni prese altrove”.

Casellati più i due Matteo: ddl Zan sul binario morto

Alla fine di una giornata tesissima, il Senato vota contro le pregiudiziali di costituzionalità al ddl Zan, avanzate dal Carroccio e da Forza Italia. I margini sono stretti: 136 no, 124 sì e 4 astenuti. Tanto è vero che per tutto il pomeriggio si contano gli assenti: 11 M5S, 3 Iv, 1 dem. Ma il centrodestra non ne approfitta. Il voto certifica che la maggioranza è divisa. E il provvedimento è sempre più in bilico, dopo una giornata improntata di nuovo più alla tattica politica che alla volontà di portarlo a casa. Qualche sussulto lo regala la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, che convoca la capigruppo prima del voto (e non dopo, come ci si aspettava). Estremo tentativo di forzare la mano alle forze politiche per rimandare il testo in Commissione, come vogliono Lega, Fdi e FI, con Pd, M5S e Leu che protestano. Clima da stadio.

“Gli Europeisono finiti”, dice sprezzante la stessa Casellati, davanti alle urla di Pietro Grasso (Leu). L’Aula sommerge di fischi e “buuh” il vicecapogruppo del Pd, Franco Mirabelli che interviene per dire che l’accordo si è cercato per mesi, dopo che il leghista Andrea Ostellari ancora chiede tempo.

Fuori dall’Aula, c’è Franco Grillini, presidente onorario dell’Arcigay, che è venuto per spingere il testo, ma anche per ricordare a tutti come le Associazioni Lgbt ai tempi del Conte 2 avessero chiesto di iniziare l’iter della legge dal Senato. Proprio per evitare che il suo destino si giocasse sul filo. La linea di Letta non cambia (“o così, o niente), nessuno scommette un euro sullo Zan. Monica Cirinnà, la paladina delle unioni civili, continua a dire a tutti che non c’è altra strada. Modello “Mi spezzo, ma non mi piego”. Nella capigruppo, Davide Faraone di Iv, sostiene che non è stato mantenuto il patto per una mediazione. Però non chiede il ritorno in Commissione. I renziani si giocano il ruolo di ago della bilancia. Il resto della ex maggioranza giallorossa fa muro.

Si torna in Aula. Matteo Renzi interviene per dire che Iv voterà le pregiudiziali, ma che serve una mediazione. Un colpo al cerchio, uno alla botte. Mentre difende lo scrutinio segreto. Un messaggio. In Aula anche Matteo Salvini chiede la mediazione. A proposito di asse tra i due. Si ricomincia oggi, con il voto sulla sospensiva. Anche questo passerà. Il termine per gli emendamenti è fissato per martedì. Ma prima di cominciare a votare, l’Aula deve licenziare 6 decreti. Se ne parla a inizio agosto, forse. O a settembre. Meglio rimandare, ma il destino dello Zan appare comunque segnato.

Consip, Eventi 6, Open: la “family” ha molti altri guai

Ci vuole pazienza, buona memoria e un pallottoliere per mettere in fila i guai giudiziari di Matteo Renzi e famiglia senza dimenticare nulla. Iniziamo da Open, il salvadanaio dei renziani, la fondazione che organizzava la Leopolda grazie ai generosi finanziamenti di una trentina di aziende, circa 670.000 euro nel 2012, 700.000 nel 2013, 1,1 milioni nel 2014, 450.000 nel 2015, 2,1 milioni nel 2016, 1 milione nel 2017 e 1,1 milioni nel 2018. Si tratta di un’inchiesta aperta a Firenze che vede l’ex premier indagato nel filone principale, in cui si ipotizza il reato di finanziamento illecito continuato ai partiti. Secondo i pm Luca Turco e Antonino Nastasi, Open doveva ritenersi una “articolazione di partito” del Pd.

Sempre a Firenze, il 1º giugno si è formalmente aperto il processo che vede imputati i genitori di Renzi, Tiziano Renzi e Laura Bovoli, insieme ad altre 13 persone, per la bancarotta di Marmodiv, Delivery ed Europe Service, tre cooperative che si occupavano di diffusione di materiale pubblicitario e volantinaggio. Renzi sr. e la signora Bovoli sono ritenuti dagli inquirenti gli amministratori di fatto delle tre coop. Il dibattimento è stato aggiornato al 2 novembre e in questa data il Tribunale riunirà a questo procedimento anche quello per le false fatture emesse, secondo i pm, a vantaggio di Eventi 6 srl, altra società della galassia imprenditoriale dei Renzi, accuse per le quali Tiziano Renzi e sua moglie a maggio sono già stati rinviati a giudizio insieme a Matilde Renzi, sorella di Matteo, legale rappresentante della società nel 2018.

Le due inchieste sono connesse perché secondo le indagini del pm Luca Turco, i coniugi Renzi avrebbero usato Marmodiv e le altre cooperative di cui sarebbero stati amministratori di fatto per aumentare il volume di affari di Eventi6, che avrebbe documentato false passività per 5,5 mln di euro evadendo imposte per 1,2 mln di euro.

L’8 giugno è invece iniziato il processo a carico dei fratelli Alessandro e Luca Conticini, accusati di appropriazione indebita e autoriciclaggio, e Andrea, accusato di riciclaggio. Avrebbero utilizzato per investimenti immobiliari in tutto il mondo, il denaro raccolto da associazioni non profit e destinato ai bambini africani. Circa 6,6 milioni di dollari su circa 10, ricevuti da varie organizzazioni umanitarie internazionali come l’Unicef e la Fondazione Pulitzer, sarebbero transitati sui conti personali di Alessandro Conticini. E perché questo processo lo inseriamo tra quelli della ‘Famiglia Renzi’? Perché Andrea Conticini è il cognato dell’ex premier, è il marito di Matilde Renzi: su delega del fratello Alessandro Conticini, Andrea avrebbe acquistato quote in tre società e una di queste, sulle quali ha investito 188 mila euro, era la Eventi 6.

E c’è un processo ai Renzi che si è già concluso, almeno in primo grado. È quello per le fatture false collegate al progetto di sviluppo dell’outlet “The Mall” di Leccio Reggello: sentenza del 7 novembre 2019, un anno e nove mesi per Renzi sr. e signora Bovoli, due anni per il loro ex socio Luigi Dagostino.

I guai giudiziari fiorentini finiscono qui. A Cuneo è alle battute finali il processo che vede imputata la signora Bovoli per concorso in bancarotta fraudolenta di Direkta, società cuneense che si occupava di volantinaggio per i supermercati e che annoverava tra i suoi clienti Eventi 6. Mentre, a Roma, Tiziano Renzi deve difendersi da una richiesta di rinvio a giudizio per traffico di influenze e turbativa d’asta nell’ambito di uno dei filoni del caso Consip, e relativo a due gare: l’appalto Fm4 indetto da Consip (del valore 2,7 miliardi di euro) e la gara per i servizi di pulizia bandita da Grandi Stazioni. Secondo il pm Mario Palazzi Carlo Russo, “in accordo con Tiziano Renzi” si sarebbe fatto promettere denaro in nero da Alfredo Romeo per sé e per Renzi sr., in cambio della mediazione sull’ex ad di Consip, Marroni, affinché favorisse le aziende di Romeo.

“Finanziamento illecito”: Renzi di nuovo indagato

Contratti per l’ideazione di programmi televisivi, per il documentario “Firenze secondo me” e poi l’esclusiva sui diritti. La procura di Roma indaga sui rapporti economici tra Matteo Renzi e l’agente delle star Lucio Presta. E per l’ex premier è una tegola giudiziaria che arriva proprio nei giorni in cui è alle prese con la presentazione del suo libro “ControCorrente”. Il leader di Italia Viva è indagato dalla procura della capitale, guidata da Michele Prestipino, per finanziamento illecito. Nella stessa inchiesta figurano nel registro degli indagati anche Lucio Presta e il figlio Niccolò, accusati di finanziamento illecito ma anche di fatture per operazioni inesistenti. Secondo gli inquirenti romani – ed è questa in sostanza l’accusa da verificare –, tra l’agente più famoso d’Italia e l’ex premier (già indagato per finanziamento illecito nell’ambito di un’altra indagine, quella della procura di Firenze sulla Fondazione Open), vi sono “rapporti contrattuali fittizi” dietro i quali si cela un presunto finanziamento alla politica.

“Firenze secondo me” share al 2 per cento

Ma procediamo con ordine. L’indagine – di cui sono titolari il procuratore aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Alessandro di Taranto e Gennaro Varone – è partita da un accertamento fiscale sull’agente. Tutto procedeva in silenzio finché più di una settimana fa ci sono state le perquisizioni della Guardia di Finanza a casa di Presta e in quella del figlio, ma anche nella sede legale della “Arcobaleno Tre srl”, società con sede a Roma, di cui è titolare al 15 per cento ed è amministratore unico Niccolò Presta.

Quando le Fiamme gialle sono entrate negli uffici della società hanno acquisito i contratti firmati con Matteo Renzi. Sarebbero almeno quattro e comprendono diverse prestazioni per un totale di circa 700mila euro. C’è l’accordo che riguarda l’esclusiva che Renzi ha concesso a Lucio Presta, quello per la progettazione di programmi ideati dall’ex premier e alla fine mai venduti. E poi c’è il contratto per la realizzazione del documentario “Firenze secondo me”, di cui Renzi era autore e conduttore. La vicenda era stata rivelata da Emiliano Fittipaldi su L’Espresso. Secondo quanto ricostruito dal settimanale nel 2019, per “Firenze secondo me” Renzi ha incassato poco più di 400 mila euro. Per quel documentario, andato in onda per quattro serate sul canale Nove (con uno share al 2 per cento), la multinazionale Discovery ha poi pagato 20mila euro al medesimo Presta. Ed è sempre L’Espresso che aveva scritto come i diritti versati dall’agente per il documentario, nell’autunno 2018, sarebbero serviti a Renzi per restituire il prestito di 700mila euro della madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli, soldi utilizzati per acquistare una villa sulle colline del capoluogo toscano. Ma questa è un’altra storia che non ha nulla a che vedere con l’indagine romana. Che invece si concentra solo sui contratti di Renzi con l’“Arcobaleno Tre Srl”. Accordi che non prevedono dunque solo l’ideazione e la conduzione del documentario, ma anche altri progetti per la realizzazione di alcuni programmi televisivi.

Mediaset avrebbe dovuto comprarli, ma alla fine non se ne è fatto più nulla. E che una trattativa fosse in corso lo aveva confermato lo stesso Piersilvio Berlusconi, ad di Mediaset, che a settembre 2018 aveva dichiarato: “A me piacerebbe avere il docufilm di Renzi sulle mie reti perché stimo Renzi. Appena vedremo il prodotto vedremo se potremo averlo sulle nostre reti: io spero di sì”.

Pillole in 5 minuti e le interviste di Matteo

Desiderio che non si è realizzato. Renzi però il compenso (circa cento mila euro) per l’ideazione di quei format lo ha incassato lo stesso. Erano però almeno due le proposte in cerca di acquirente arrivate sul tavolo della “Arcobaleno Tre Srl”: un programma in cui Renzi si sarebbe trasformato in intervistatore di personaggi famosi e poi le pillole di storia in 5 minuti. “Il progetto dell’ideazione di programmi non valeva cento mila euro, ma un milione. Solo che non si è concretizzata e Renzi ha incassato solo i soldi dell’idea. Ma li ha tenuti per lui, non li ha mica versati al partito, per questo non può essere finanziamento illecito”, hanno ripetuto ieri fonti vicine all’ex premier.

La Procura di Roma però indaga proprio su questo aspetto, tanto che oltre Renzi ha iscritto anche Lucio e Niccolò Presta. Nel decreto di perquisizione nei confronti dei due si parla infatti di “rapporti contrattuali fittizi, con l’emissione e l’annotazione di fatture relative a operazioni inesistenti, finalizzate anche alla realizzazione di risparmio fiscale, consistente nell’utilizzazione quali costi deducibili inerenti all’attività di impresa, costi occulti del finanziamento alla politica”. Per questo all’agente la Procura contesta il finanziamento illecito “per i pagamenti eseguiti nel 2018 e non iscritti a bilancio” e poi dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. In sostanza, il sospetto dei magistrati, tutto da verificare, è che i progetti siano stati pagati a fronte di prestazioni che non sono state eseguite oppure che valevano molto meno. E tutto ciò per finanziare l’attività politica di Renzi.

La replica I due indagati “è tutto regolare”

È un’accusa che sia il leader di Italia Viva che Presta respingono. L’ex premier ieri in un video pubblicato su Facebook ha dichiarato: “Si parla di una mia attività professionale che sarebbe finanziamento illecito, cosa che non sta né in cielo né in terra”. E ha aggiunto: “Quello che mi riguarda è tutto trasparente e tracciato. Io non ho niente da nascondere e nulla di cui vergognarmi. E quindi buon lavoro ai magistrati che facciano il loro dovere di indagare, noi siamo a loro disposizione”. In una nota, l’avvocato Federico Lucarelli, legale della società “Arcobaleno Tre”, spiega: “Abbiamo saputo di questa indagine solo pochi giorni fa e ci siamo subito messi a disposizione dell’Autorità Giudiziaria per chiarire rapporti di collaborazione nel campo delle prestazioni artistiche ed autoriali da parte di Matteo Renzi che risalgono a quasi 3 anni fa, inerenti il documentario ‘Firenze secondo me’, di cui si era parlato pubblicamente al momento in cui la società Arcobaleno 3 aveva proposto a Matteo Renzi di produrla con la sua collaborazione autoriale e conduzione. Contrariamente a quanto si legge, si tratta di prestazioni esistenti, regolarmente fatturate all’Arcobaleno Tre e pagate alla persona fisica, quale corrispettivo dell’attività svolta, non al Politico o al Partito”.

Giustizia, Conte confida nell’asse con Pd e Leu per “fermare” Draghi

La strada per arginare la controriforma Cartabia è angusta, un cunicolo. Eppure il capo prossimo venturo del M5S Giuseppe Conte deve percorrerla, e cercare di farsi largo. Innanzitutto per mostrare ai tanti grillini molto inquieti che qualcosa farà contro il nuovo testo sulla prescrizione, perché adesso guida lui, l’avvocato. E per riuscirci si aspetta un aiuto concreto da parte di Leu e del Pd. Insomma, che i giallorosa facciano gruppo, agendo da coalizione. “Noi e i dem siamo alleati, e gli alleati devono aiutarsi” riassumono da ambienti vicini all’ex premier. Consapevoli che quella sulla prescrizione è una battaglia identitaria sentitissima dalla base e dai veterani del M5S.

Conte in questi giorni ne sta parlando con il segretario del Pd, Enrico Letta. E infatti dai dem cominciano ad arrivare (cauti) segnali. Perché è vero, ieri nell’incontro con Mario Draghi, Letta ha ribadito al premier che al Pd “l’impianto della riforma Cartabia va bene”. Ed è altrettanto accertato che i primi segnali dei democratici alla Camera “non sono positivi” come sussurra un graduato del M5S. Ma l’indicazione di aiutare il Movimento a cambiare il testo in Parlamento è arrivata, dai piani alti del Nazareno. Sottotraccia, perché la partita sulla prescrizione e su tutta la riforma della giustizia almeno per ora va giocata così, “a bassa intensità”, come ripetono dai 5Stelle da un paio di giorni.

Il primo obiettivo è evitare che Draghi faccia Draghi, ossia che da qui a qualche giorno ordini di blindare il testo con il voto di fiducia. Così l’idea è di partire con il fioretto. Anche perché a Palazzo Chigi ritengono, e non può essere un dettaglio, che la riforma Cartabia possa essere toccata solo con un lavorìo congiunto di M5S e dem. Indispensabile anche per bilanciare eventuali contro-spinte degli altri partiti. “La Lega non vede l’ora di peggiorare ulteriormente il testo” riconoscono dal Movimento. Ma Conte non potrà giocare troppo di bilancino. “La nuova prescrizione potrebbero far liberare tanti criminali con l’improcedibilità, la gente se ne renderà conto” è la convinzione del giro contiano. Ergo, l’ex premier insisterà, si farà sentire. Chiedendo ben più di qualche ritocco. A breve dovrebbe incontrare i parlamentari grillini della commissione Giustizia della Camera, per concordare assieme la strategia.

Soprattutto, l’avvocato deve e vuole parlare del tema giustizia con Draghi, anche per accreditarsi come nuovo leader del Movimento. “Un incontro non è da escludere” spiegano. Lo cercherà, Conte. A naso, anche per far capire al premier che un’eccessiva rigidità del governo potrebbe rendere totalmente instabile la nebulosa a 5Stelle. Però poi si torna sempre lì, al Pd. “Conte e Letta hanno davvero un ottimo rapporto” assicurano i contiani. E allora il passaggio successivo è lavorare assieme sulla prescrizione, “tenuto conto che anche il Pd potrebbe avere bisogno del nostro aiuto in futuro…”. Da dove partire? Per i dem, dai tempi del processo di appello. “Due anni sono effettivamente pochi”, ragionano in Parlamento. Molto più di questo, però, non c’è sul tavolo, almeno ora. Troppo poco per Conte: si dovrà discutere di molto altro. Anzi, di molto di più.

“Riforma scritta da chi non è mai stato in un tribunale”

“Ma il gip quante cose deve fare? È già schiacciato così come sta, ora sarà anche peggio”. Alfonso Sabella nella sua lunga carriera in magistratura, dalla caccia ai latitanti a Palermo al Riesame di Napoli dove è ora, è stato, sempre a Napoli, anche nell’ufficio del Gip (Giudice per le indagini preliminari). Ed è qui che vede una delle più grandi criticità della riforma Cartabia: “Questa riforma sembra scritta da chi non ha mai messo piede in un’aula di tribunale”.

Insomma un disastro?

Un’occasione sprecata e solo per sostituire quella mostruosa figura dell’imputato a vita, con quella del condannato non prescritto, non innocente, non colpevole e non processabile, uno zombie 4.0 insomma. Ci si è attorcigliati a cercare un pasticciato compromesso sul tema della prescrizione, tralasciando invece le vere criticità della giustizia e del processo penale: depenalizzazione consistente, introduzione del doppio binario, semplificazione delle procedure, riduzione, seria, delle circoscrizioni giudiziarie…

Torniamo al Gip.

I gip dovrebbero assicurare il primo e più efficace controllo di legalità sull’operato dei pubblici ministeri, ma già adesso non riescono a farlo bene perché sono pochissimi in rapporto ai compiti che sono chiamati a svolgere: intercettazioni, misure cautelari, abbreviati con 80-100 imputati, udienze preliminari, amministrazioni giudiziarie, liquidazioni… Non si può realisticamente pensare che i gip trovino anche il tempo di scrivere più sentenze di non luogo a procedere e a trattare un numero maggiore di riti alternativi.

Con i soldi del Recovery si potrebbero aumentare le piante organiche dei Gip?

Sì, nel libro dei sogni. Se io mando cento nuovi giudici al dibattimento posso creare dieci nuovi posti di presidente di sezione, merce di scambio preziosissima nel meccanismo di spartizione correntizia, ma se li mando all’ufficio Gip non produco nessun nuovo posto semi-direttivo oltre a quelli già esistenti.

La riforma non ha nessun rapporto con la realtà?

Purtroppo i gabinetti ministeriali sono pieni di magistrati cooptati dal sistema delle correnti e raramente ci trovi i peones che hanno passato la vita a buttar sangue nelle aule di giustizia e che, a differenza dei loro colti e amati (dal potere politico) colleghi, conoscono i reali problemi del quotidiano. Il risultato è che spesso abbiamo norme sulla carta apparentemente perfette ma che poi quando si scontrano con la realtà diventano inapplicabili.

La prescrizione legata al procedimento e non più al tipo di reato. L’Appello non potrà durare più di due anni e il procedimento in Cassazione non più di uno…

Questo sistema rischia di essere devastante per i maxi-processi di mafia, laddove la riapertura del dibattimento in appello è pressoché una regola. È naturale che dopo la sentenza di primo grado intervengano nuovi collaboratori di giustizia o si acquisiscano nuovi elementi; e tre anni, tenuto conto delle innumerevoli garanzie di cui dispone la difesa, possono anche non bastare.

Insomma la riforma non risolve nessun problema?

Oggi come oggi non c’è nessun rischio per l’imputato a ricorrere in appello, ma solo vantaggi: nella peggiore delle ipotesi passerà più tardi in giudicato la sentenza e quindi sarà ritardata l’esecuzione della pena. Nella migliore, ammesso che non arrivi qualche amnistia (in Italia non si sa mai), si incasserà qualche sconto di pena. Ma c’è un rischio enorme che non si è tenuto in considerazione. Oggi esiste il concordato in appello con rinuncia ai motivi e rideterminazione della pena e già adesso assistiamo a consistenti riduzioni delle condanne in secondo grado, gradite anche ai giudici che evitano di scrivere la sentenza nel merito. Con il nuovo meccanismo è chiaro che i magistrati per non incorrere nella declaratoria di improcedibilità saranno costretti ad accettare condizioni ancora più capestro. Per avere una minima speranza di funzionare la riforma doveva prevedere limiti, reali e non discrezionali, per le impugnazioni dell’imputato e abrogare anche il divieto di reformatio in peius.

Cioè?

Nessuno può ignorare l’assurdità di un meccanismo che oggi consente all’imputato, magari confesso, di patteggiare una pena con il pm, di sottoporre il loro accordo a un giudice che, se lo condivide, emette sentenza; quindi lo stesso imputato e lo stesso avvocato possono impugnare quella sentenza in Cassazione senza rischiare nulla; e lo stesso avviene per i concordati in appello. Facciamo almeno rischiare qualcosa all’imputato che impugna solo per prolungare il processo, magari in termini di azzeramento degli sconti di cui ha beneficiato o di pericolo di riportare una condanna a pena più elevata.