Cene di sushi e plateau di ostriche, schede gratta-e-vinci e lattine di Red Bull, cartucce per fucile da caccia e videogiochi, un banchetto di nozze e il conto (salato) di un night club. Lungo e creativo, l’elenco delle spese pazze dei consiglieri regionali lombardi che si facevano rimborsare con soldi pubblici le loro spese private. Ora il giudice conferma anche in appello le condanne per la “Rimborsopoli” del Pirellone: 2 anni e 6 mesi per Renzo Bossi, figlio di Umberto il fondatore della Lega; 1 anno e 8 mesi per Massimiliano Romeo, che nel frattempo è volato in Senato dove è capogruppo del partito di Matteo Salvini; 1 anno e 6 mesi per Angelo Ciocca, intanto promosso eurodeputato. Il malloppo totale, scoperto nel 2012 dalla clamorosa inchiesta dei pm della Procura di Milano Alfredo Robledo e Paolo Filippini, era di circa 3 milioni di euro, rimborsati tra il 2008 e il 2012 a una cinquantina di consiglieri regionali per spese d’ufficio che d’ufficio non erano. La pena più alta – 4 anni e 2 mesi – se l’è aggiudicata l’ex capogruppo della Lega, Stefano Galli, che ha unito il reato di peculato a quello di truffa, facendosi rimborsare il banchetto nuziale della figlia (oltre 6 mila euro) e regalando, sempre a spese nostre, una consulenza al genero (da 196 mila euro). Tra i condannati, anche Nicole Minetti, ai tempi consigliera regionale eletta nel listino bloccato del presidente Roberto Formigoni: ha patteggiato 1 anno e 1 mese (in continuazione con i 2 anni e 10 mesi già incassati per il processo Ruby). Tra le sue spese, il libro Mignottocrazia di Paolo Guzzanti, in cui era ampiamente citata. La seconda sezione della Corte d’appello di Milano, presieduta da Daniela Polizzi, ha confermato una quarantina di condanne, ha accettato una decina di patteggiamenti, ha in alcuni casi assolto per qualche capo di imputazione e ha ritoccato al ribasso alcune condanne, per l’arrivo della solita prescrizione: cancellati i reati commessi nel 2008.
Latina, 45mila euro al clan in cambio di voti 2 arresti, indagato eurodeputato della Lega
Ha consegnato 45mila euro al clan Di Silvio in cambio di 250 voti in occasione delle Comunali di Latina del 5 giugno 2016. La sua ricompensa? I ricchissimi appalti della raccolta dei rifiuti. Le preferenze, infatti, secondo l’ipotesi della Dda di Roma e della Procura del capoluogo pontino, dovevano andare a Matteo Adinolfi, in quella tornata elettorale a capo della lista “Noi con Salvini” e oggi europarlamentare della Lega. Ieri l’imprenditore che ha pagato, Raffaele Del Prete, è finito ai domiciliari insieme a un suo collaboratore e l’esponente del Carroccio è indagato con lui con l’accusa di scambio elettorale politico-mafioso.
Agostino Riccardo e Renato Pugliese, i due pentiti sulle cui dichiarazioni si basa un altro importante processo al clan Di Silvio, quello denominato “Alba pontina”, ne hanno parlato profusamente nei verbali. Del Prete, secondo i magistrati, puntava gli appalti dell’immondizia e aveva bisogno di una sponda negli uffici che affacciano su piazza del Popolo. Tra i principali imprenditori nel campo dei rifiuti nella provincia, il suo ruolo era emerso nel 2017 nell’operazione “Touchdown” condotta dai carabinieri della Sezione Operativa di Aprilia. L’accordo prevedeva che il clan dovesse trovare nelle zone della città in cui esercitava la sua influenza almeno 200 voti per Adinolfi in cambio di 45mila euro, pagati in 3 tranche tra le mura dell’azienda di Del Prete e in un bar. Proprio il giorno precedente al voto, poi, l’imprenditore aveva ottenuto che altre 50 schede venissero contrassegnate con il nome del candidato. Altro termine dell’intesa, non secondario: nessun Di Silvio si sarebbe dovuto presentare nella sede del partito per evitare di apparire come “collettore” di voti “procurati da soggetto intraneo al clan”. Del Prete avrebbe tenuto le comunicazioni con i Di Silvio solo tramite il pentito Riccardo, anch’egli indagato. Era lui l’uomo a cui il gruppo criminale aveva dato il compito di curare i rapporti con i politici locali. E il mandato, per gli inquirenti era chiaro: in quelle comunali doveva sostenere la candidatura del capolista “Noi per Salvini” e occuparsi dell’attacchinaggio dei suoi manifesti.
Adinolfi, che riuscì a entrare in consiglio comunale, si difende: “Vediamo le carte, ho fiducia nella magistratura, ma so che non ho fatto nulla”, ha detto l’europarlamentare. Che ieri stava tornando da Bruxelles ed è stato convocato per il 20 luglio a Piazzale Clodio per essere interrogato dal procuratore aggiunto Ilaria Calò e dai sostituti Corrado Fasanelli e Luigia Spinelli, titolari dell’inchiesta.
A.A.A. cercansi volontari. I Beni culturali li pagheranno (addirittura) 27 euro al giorno
Dovrebbero mettersi al lavoro giovedì, per un anno intero, i volontari che la Direzione generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del ministero della Cultura ha deciso di “assumere” (ossimoro appropriato nel caso in questione) per attività di collaborazione “in ordine alla raccolta di informazioni e documentazioni inerenti il patrimonio archeologico, architettonico, storico e artistico”. Il bando, pubblicato il 30 giugno e scaduto lunedì 12 luglio, con una formula ormai reiterata per quanto riguarda gli uffici dei Beni culturali, si rivolge specificatamente a una “associazione di volontariato, con esperienza almeno triennale nella tutela del patrimonio culturale, avente sede legale e operativa nella città di Roma”: la stessa formula assurta agli onori delle cronache nel 2017, quando 22 “volontari” che lavoravano alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma denunciarono di essere impiegati come lavoratori veri e propri, ma pagati con la formula del rimborso spese, per un massimo di 400 euro al mese, in base agli scontrini raccolti. Ne avevano parlato tutti i giornali, ed erano stati definiti “scontrinisti”. Dopo la denuncia a mezzo stampa, gli era stato chiesto via sms di non presentarsi più in biblioteca. Pare che da allora il ministero abbia deciso di non abbandonare questa formula, permessa da una forzatura della legge 4/1993, che consente l’impiego di volontari nei luoghi della cultura statali. Non solo reiterando bandi simili nella Biblioteca Nazionale, ma estendendo la ricerca di personale disposto a operare con rimborso spese anche ad altri uffici della capitale. Nel 2019 la Fp Cgil aveva denunciato l’uso di “scontrinisti” per una mostra a Villa d’Este, nel 2020 per attività di catalogazione all’Istituto centrale del restauro. E ora arriviamo agli uffici dirigenziali, sempre a Roma. Nel bando del 30 giugno si chiedono 8 unità (viene valutata la competenza e esperienza pregressa dei volontari) che dovranno lavorare al massimo 20 giorni al mese e 4 ore al giorno, in cambio di un rimborso spese massimo di 27,5 euro giornalieri. Difficile non ravvisare in queste formule di pagamento un modo per impiegare personale senza vincoli né contributi. “Il presente avviso potrà essere revocato qualora se ne ravvisi la necessità” recita il bando: data la situazione di difficoltà dei lavoratori del settore, la necessità sembra evidente.
Interdetto giudice del Riesame Valea: falso ideologico
“Un atteggiamento di sostanziale infedeltà alla funzione pubblica”. Lo scrive il gip Maria Zambrano che ha disposto l’interdizione per un anno dalle funzioni per il giudice Giuseppe Valea, l’ex presidente del Riesame di Catanzaro. Il tribunale è stato perquisito ieri. Il magistrato Valea è indagato per falso ideologico in un’indagine che nasce dall’inchiesta “Genesi” (che ha portato alla condanna in primo grado del giudice Marco Petrini, ndr) sul “sistema Catanzaro”, ovvero l’intreccio di presunti rapporti illeciti volti ad aggiustare le sentenze. Trasferito da poco a Milano dal Csm, il giudice Valea si sarebbe “auto-assegnato” alcuni fascicoli. Non solo: ha assunto i provvedimenti “in solitudine” e depositato le sentenze senza condividerle con i colleghi del Riesame. I pm di Salerno avevano chiesto per Valea il divieto di dimora in Calabria e in Lombardia. Per il gip basta l’interdizione nonostante “il profilo di pericolosità dell’indagato” le cui condotte sono “sintomatiche di un approccio infedele alla funzione pubblica esercitata”.
Raggi in Procura deposita gli atti su gestione Ipab
La sindaca di Roma, Virginia Raggi, si è recata ieri mattina in Procura, a Roma, per depositare documenti relativi alla gestione delle Ipab (gli istituti di pubblica assistenza e beneficenza). Raggi si è intrattenuta per circa un’ora nell’ufficio del procuratore Capo Michele Prestipino. “Abbiamo depositato alcuni atti”, ha affermato la sindaca lasciando la cittadella giudiziaria di piazzale Clodio. Intanto la sindaca di Roma potrebbe firmare già oggi l’ordinanza per la riattivazione della discarica di Albano. A quanto si apprende, gli uffici dell’ex Provincia stanno limando gli ultimi dettagli del provvedimento: l’impianto dovrebbe accogliere un totale di circa 1.000 tonnellate al giorno di scarti già lavorati dagli impianti di trattamento, per un totale di 180 giorni. “I cittadini sono esasperati e l’inerzia della Regione Lazio è intollerabile”, ha detto la sindaca aggiungendo: “Tutti i Comuni di un’intera Regione non sanno dove portare i rifiuti che raccolgono. Ora basta. Vanno riaperti subito impianti e discariche. Lo faremo noi, a cominciare da Albano”.
Tutta la trattativa Stato-Bonucci, minuto per minuto
Il pasticcio l’hanno fatto e ora a Palazzo Chigi si rendono conto che le immagini della folla attorno al pullman scoperto della nazionale italiana sono “allucinanti”, dicono “con quale coraggio andremo a chiedere alla gente di evitare assembramenti”. Fino a lunedì mattina Questura e Prefettura, su indicazione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, erano stati categorici: “Niente pullman scoperto, motivi di ordine pubblico”. Ma fin dalle 7, all’arrivo dei calciatori a Roma, il governo ha confermato la notizia che gli eroi di Wembley e lo storico finalista sconfitto a Wimbledon, Matteo Berrettini, sarebbero andati al Quirinale e poi a Palazzo Chigi. Con tanto di orari: alle 17 e alle 18,30. Era abbastanza perché migliaia di persone si riversassero nel pomeriggio nel centro di Roma, come ovviamente è accaduto. E d’altro canto, ragiona un ministro, “il peggio era già avvenuto con i festeggiamenti di domenica sera in tutta Italia, il pullman scoperto era l’ultimo dei problemi”. Sicuro. Ma non è una buona ragione per aggiungere rischi a rischi.
Il pullman scoperto era “sconsigliato”, come dicono al Viminale, ma la Federcalcio l’aveva affittato lo stesso fin da venerdì e l’aveva fatto parcheggiare nelle vicinanze di Palazzo Chigi. Leonardo Bonucci all’uscita dal Quirinale ha discusso animatamente con alcuni responsabili della sicurezza che ribadivano il “no” al pullman scoperto, il difensore viterbese della Juventus non è uno che le manda a dire e gli sarebbe scappato: “Se è così non fateci andare neanche da Draghi e riportateci in albergo”.
Erano felici ma stanchi, gli eroi di Wembley. Erano sbarcati all’alba a Fiumicino dopo una notte di festeggiamenti, non capivano perché gli fosse negato il bagno di folla. Così Bonucci e gli altri sono risaliti sul pullman, quello coperto, che ha impiegato 45 minuti per percorrere, a passo d’uomo, via IV Novembre e via del Corso, cioè i due chilometri fino a Palazzo Chigi tra migliaia di persone in festa. In quei 45 minuti si è chiusa la partita. Perché quando è sceso a Largo Chigi lo stesso Bonucci ha detto ai giornalisti: “Abbiamo vinto la trattativa, poi saliremo sul pullman scoperto, lo dovevamo ai tifosi”. Il secondo pullman, infatti, era già lì, portato di nascosto.
Trattativa di chi? Con chi? C’è chi racconta che a cedere è stato il prefetto Matteo Piantedosi, chi dice invece che l’ok alla Federcalcio l’ha dato la ministra Luciana Lamorgese. Al Viminale dicono che i due e il capo della polizia, Lamberto Giannini, si sono sentiti mille volte e hanno gestito tutto insieme. “Nessuno ha dato l’ok, abbiamo solo preso atto”. Così però, all’ultimo momento, era anche difficile organizzare il servizio: agenti in strada, transenne, accessi contingentati. C’erano solo i poliziotti di scorta, per evitare che la gente si arrampicasse sul pullman. La polizia però ha ottenuto che il tragitto rimanesse quello concordato per il mezzo scoperto: via del Corso, via Nazionale, Tritone, Barberini, via Veneto fino a villa Borghese e poi l’hotel Parco dei Principi, il quartier generale della nazionale ai Parioli.
Era dalla vittoria della semifinale con la Spagna che le istituzioni calcistiche e di pubblica sicurezza discutevano di come festeggiare, se tutto fosse andato come doveva andare. Per tutto il weekend ogni richiesta di una festa organizzata per il ritorno trionfale degli azzurri è stato rimbalzato al mittente da Questura e Prefettura. Si era pensato di aprire l’Olimpico, per dare appuntamento ai tifosi dentro lo stadio, con gli stessi requisiti già previsti per le partite dell’Europeo e cioè ingresso riservato ai possessori del mitico green pass: vaccino o tampone negativo. Niente da fare, proprio come per l’idea lanciata dalla sindaca Virginia Raggi di un maxi-schermo nell’impianto per la finale con l’Inghilterra. Troppo difficile controllare il perimetro del Foro Italico, nessuno si è voluto prendere la responsabilità. Poi era stato proposto di fare qualcosa nella Fan Zone di Piazza del Popolo: in assoluta sicurezza, con accesso a numero limitato e prenotazione, o addirittura a porte chiuse in favore delle riprese televisive. La struttura commissariale aveva anche stoppato lo smontaggio della struttura domenica notte, ma anche qui dalla Questura è arrivato un “no” categorico. Quanto alla parata in strada, nemmeno a parlarne.
Così si è arrivati a lunedì, senza nulla di organizzato. E all’inizio la situazione sembrava pure gestibile. Decine di tifosi a Fiumicino per l’atterraggio alle 6 del mattino, qualche centinaia sotto l’hotel, l’arrivo tra due ali di folla del pullman coperto al Quirinale. Tutto sotto controllo. Ma poi troppa gente ha cominciato ad accalcarsi in strada, impensabile rimandarla a casa. Il resto l’hanno fatto proprio i calciatori, Bonucci in testa, e la Figc. E lo spettacolo, in tempi di pandemia, non è piaciuto neanche a Palazzo Chigi.
Sarà ancora “emergenza”, con Draghi non è dittatura
La variante Delta, la campagna vaccinale da completare e la struttura del commissario per l’emergenza Francesco Paolo Figliuolo che non può certo essere smantellata. Proprio ora che il rischio di impennata dei contagi causa variante indiana è più che concreto, favorito anche dai festeggiamenti incontrollati per gli Europei di calcio. E allora il presidente del Consiglio Mario Draghi resta fermo sulla sua posizione: lo stato di emergenza in vigore dal 31 gennaio 2020, che scade il prossimo 31 luglio, sarà rinnovato. Fino a quando, non è ancora deciso: potrebbe essere il 31 ottobre, ma più probabilmente il 31 dicembre. La decisione arriverà forse già questo fine settimana o al massimo all’inizio della prossima. A piegarsi sarà anche il leader della Lega Matteo Salvini che a metà giugno, quando erano iniziate a trapelare le prime notizie di un’ulteriore proroga, si era detto contrario perché “l’emergenza non c’è nei fatti”. Poi il giorno dopo, il 18 giugno, il segretario del Carroccio era stato ricevuto a Palazzo Chigi e, in cambio del via libera sulle mascherine all’aperto da inizio luglio, aveva accettato che la questione dello stato di emergenza fosse rinviata a luglio. Adesso è il momento di decidere e Salvini, pur rimanendo critico con la proroga, la accetterà senza opporsi.
In cambio, nell’incontro di metà giugno, la Lega ha ottenuto da Draghi la garanzia che il governo nelle prossime settimane non tornerà indietro con nuove chiusure, a meno che la situazione epidemiologica non subisca un crollo improvviso e gli ospedali non tornino a riempirsi. Le barricate, annunciate dai maggiorenti leghisti, quindi saranno accantonate: “Restiamo contrari ma, come abbiamo visto in questi mesi, decide Draghi – dice un leghista di peso – di certo non faremo drammi in Consiglio dei ministri”.
Da settimane il Pd e il Movimento 5 Stelle hanno annunciato la propria posizione favorevole. Dietro all’appeasement del leader della Lega c’è anche un motivo politico: di fronte alle convulsioni interne del M5S e all’inasprimento dei toni sulla giustizia che arriverà in aula alla fine del mese, Salvini vuole indossare la maglia del leader responsabile e mostrarsi come il pilastro del governo Draghi senza aprire ulteriori frizioni nella maggioranza. Allo stesso tempo però servono garanzie che il Paese non ripiombi in una spirale di chiusure. Che peraltro anche a Palazzo Chigi per ora non sono all’ordine del giorno. Ieri il leader leghista ha criticato la decisione del presidente francese Emmanuel Macron di riservare l’accesso a bar, ristoranti e mezzi pubblici a chi è dotato di green pass (“non scherziamo”) e continuerà a fare pressione sul governo perché riapra le discoteche prima della fine dell’estate. Fonti del ministero della Salute spiegano che per il momento il governo non ha ancora discusso dell’utilizzo del “green pass” sul modello francese.
Ma proprio per non rischiare di far tornare alcune regioni in zona gialla, il governo già nel fine settimana potrebbe fare il punto della situazione. L’obiettivo delle Regioni è quello di modificare i parametri che servono per stabilire il “colore” dei diversi territori e quindi le restrizioni. Oggi, come hanno voluto le Regioni, il criterio-cardine è quello dell’incidenza (50 contagiati ogni 100 mila abitanti) ma, sempre su spinta delle Regioni e del centrodestra, l’intenzione del governo è quella di modificarlo dando maggior peso alle ospedalizzazioni, come già accade per gli eventuali passaggi in zona arancione o rossa.
La ratio è presto detta: i contagi continueranno a crescere ma bisognerà capire in quale misura aumenteranno i ricoveri. Quello che sta succedendo nel Regno Unito, duramente colpito dalla circolazione della variante indiana. Il fisico Giorgio Sestili due giorni fa sul Fatto Quotidiano ha scritto che nell’ultima settimana si è registrato un tasso di ospedalizzazione del 3,7% e una letalità dello 0,3%: dati in netto calo rispetto all’estate 2020 o all’ultimo inverno, quando la percentuale di ospedalizzati era tra il 10 e il 12% e la letalità oscillava tra il 4,5% e il 6%. Ma anche una bassa percentuale di ricoveri, se i contagi saliranno fino a 20-30 mila al giorno come molti esperti si attendono, potrebbe portare a numeri assoluti inaccettabili. Nel Regno Unito, dove ci sono più vaccinati perché hanno iniziato prima, i ricoveri sono ancora pochi ma crescono da due settimane. Per modificare i parametri però servirà un decreto legge in settimana, dopo un’intesa preliminare con le Regioni, e quindi anche un accordo politico nel governo. Sempre nella stessa sede si dovrà sciogliere il nodo del green pass, con la possibilità di concederlo da ora in poi solo dopo la seconda dose, come si fa in quasi tutta Europa mentre in Italia arriva a 15 giorni dalla prima iniezione. Oltre alla proroga dello stato di emergenza. Ma la direzione sembra stabilita: cambiare i parametri per evitare chiusure, ma prorogare l’emergenza.
Ma fatevi una vita
Da quando la Nazionale ha vinto con merito l’Europeo, una congrega di spostati e pipparoli da Twitter e da carta straccia se la prende col Fatto come se avessimo perso noi. Tutto, come sempre accade nell’“informazione” all’italiana, si basa su una fake news: e cioè che noi tifassimo Inghilterra. Cosa che nessuno ha mai detto o scritto, anche se non ci sarebbe stato nulla di male: ciascuno ha il diritto di tifare per chi gli pare o di non tifare per nulla. L’unico articolo uscito sul Fatto contro la vittoria della Nazionale l’ha firmato Massimo Fini che, prevedendo al dettaglio l’uso politico della vittoria da parte di Draghi&C. (come in passato con Spadolini, Pertini e altri papaveri), confessava di tifare Belgio. Ma i due maggiori cazzari della politica non hanno nulla di meglio da fare che commentare ciò che non ho mai detto. E svariati “colleghi”, un istante dopo il rigore sbagliato da Saka, anziché gioire per l’Italia già twittavano contro di me (ma come siete messi? ma fatevi una vita). “Travaglio non ne azzecca una”: peccato che non avessi fatto alcun pronostico. Rispondendo alla Gruber, avevo solo detto che nelle eliminatorie avevamo battuto tre squadrette ed era presto per esultare. Peraltro, diversamente da chi vive in diretta social h 24, anche quando va al cesso, convinto che le sue gesta appassionino i più, non ho mai pensato che il mio tifo interessi a qualcuno. Ma c’è sempre chi me lo chiede. Ai tempi del doping e di Calciopoli, tifai contro la mia Juve finita nelle grinfie del clan Moggi e contro la Nazionale di Lippi &C. che ne era la legittima erede, nell’illusione di una bonifica. Ma il calcio restò marcio. E il tifo è roba di pancia: dalla mia non sale più nulla.
Domenica ho sofferto per Berrettini, poi ho assistito alla finale di Wembley nella più assoluta indifferenza: come se giocassero Malta e Lussemburgo. Meno indifferente mi lascia l’uso politico che il governo Draghi e i suoi trombettieri, molto più populisti di chi fingono di combattere, fanno della vittoria: prima profittando della distrazione generale per infilare il Salvaladri, come B. il 13 luglio ’94 (semifinale mondiale); poi calandosi le brache dinanzi agli azzurri per il bagno di folla in pullman contro il parere dei ministri della Salute e dell’Interno, in una “trattativa Stato-Bonucci” che ha coperto di ridicolo le istituzioni, oltre ad aggiungere focolai di Covid a quelli delle “notti magiche” con ammucchiate di piazza. Un discorso a parte meriterebbe un noto leccapiedi dal nome volatile che su Rep distribuisce patenti di “cretino anti-tifoso” a chi non lecca con e come lui. Ma, diceva La Rochefoucauld, “in questi tempi difficili è opportuno concedere il nostro disprezzo con parsimonia, tanto numerosi sono i bisognosi”.
La Conchiglia pellegrina, una snob che depura i mari
Di animali marini ce ne sono tanti ma in pochi sono dotati di bellezza e perfezione come la conchiglia di San Giacomo. Questo esemplare, della famiglia dei pettini, oltre ad essere un instancabile viaggiatore cela peculiarità disattese. Lo rivela nel libro Storia della conchiglia pellegrina. La sentinella dell’oceano (Add Editore) il biologo marino Laurent Chauvaud. La conchiglia di San Giacomo, oggetto dei suoi studi da oltre 30 anni, deve il nome al figlio del pescatore Zebedeo, San Giacomo appunto: l’apostolo pellegrino il cui feretro, dopo il martirio, venne portato in Galizia, divenuta poi meta del cammino di Santiago. Il suo simbolo infatti è la conchiglia. Gli stessi pellegrini, fin dal Medioevo, la indossavano tra i capelli o sui vestiti mentre si recavano al suo sepolcro. Ma in questa storia l’agiografia conta poco. La protagonista indiscussa è la nostra conchiglia, che ha macinato così tanti chilometri da essersi diffusa su tutto il Pianeta senza rinunciare alle sue comodità. Si potrebbe definire una conchiglia ultra-snob: “non ama le acque profonde”, detesta le rocce, “si tiene saldamente aggrappata alla costa” e infine “quando ha trovato il suo materasso dei sogni se la prende comoda, filtrando l’acqua di mare per dieci, vent’anni”. Oggi la si trova sui fondali degli arcipelaghi norvegesi, in Spagna, Marocco, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, Giappone e immancabilmente in Bretagna, dove si ritiene si sia diffusa originariamente. La sua comparsa risale a 25 milioni di anni fa nell’Atlantico. Da allora il suo fascino ha attraversato i millenni, catturando l’attenzione di tanti, specialisti e non. Di lei ne ha scritto Aristotele ed è sempre lei ad aver ammaliato Botticelli che l’ha ritratta ne La nascita di Venere. Tuttavia la conchiglia di San Giacomo di peculiarità che la rendono unica ne ha anche altre. Oltre al fascino del manto rossiccio, del “bianco immacolato all’interno” e del “guscio plissettato di linee eleganti”, il suo scheletro funge da “archivio ambientale”. Una sorta di termometro, di macchina per viaggiare nel tempo. Un albero del mare con le sue cicatrici, che custodisce un bagaglio di informazioni tale da parlarci di noi, dello stato di salute del nostro Pianeta. Chauvaud ci racconta di questa scoperta, della natura sottomarina che prima di essere scienza è semplicemente bellezza: “Ho vissuto – dice – la vita degli uomini che si innamorano e poi scoprono la poesia”.
Juve regina del basket. Quel miracolo (di) Gentile & C.
Il cartello indica “struttura sportiva sottoposta a sequestro”. A vederlo oggi, mangiato dall’erba secca, da anni in amministrazione commissariale, con i segni lasciati da un incendio verosimilmente doloso che data a metà giugno e il cancello serrato da un catenaccio, il PalaMaggiò di via Pezza delle Noci a Castel Morrone, in provincia di Caserta, sembra un vecchio tempio dimenticato nella vegetazione. Un cartello ancora millanta “Caserta città del basket”, ma oggi la Juvecaserta, fallita dopo anni travagliati, milita in Serie C con una squadra di ragazzi. Eppure lo fu davvero “città del basket”, Caserta, che vinse lo scudetto 30 anni fa. E il PalaMaggiò, che ancora si erge tra le erbacce, ne fu uno dei simboli luminosi.
Per capire la “grandezza” dell’impresa, basterebbe dire che, da quando esiste il campionato di basket, quindi dal 1920, quello è l’unico Scudetto vinto da una squadra del Sud. Eppure anche questo, da solo, non basterebbe per farne epopea. Negli Usa, per una storia come quella della Phonola Caserta, che il 21 maggio 1991 espugnò il campo della Philips Milano (non sfugga lo scontro Sud contro Nord che in quegli anni avrebbe fatto di Maradona un simbolo potente e di un piccolo partito territoriale una forza di governo) farebbero film, docuserie e podcast.
I personaggi per una serie di successo, del resto, ci sono tutti. C’è il presidente “papà”, “il Cavaliere” Giovanni Maggiò, imprenditore edile, che mette in piedi tutto ma non riesce a vederne la fine (morirà nel 1987). Assieme ai figli Gianfranco e Ornella, che custodiscono e poi realizzano il sogno del padre (la squadra andrà a portargli lo Scudetto sulla tomba), fanno parte di quella “famiglia azienda” che conosce il basket e riesce a riunire sotto uno stesso tetto il general manager Giancarlo Sarti, il giovane allenatore Bogdan “Boscia” Tanjevic e il professor Franco Marcelletti, che inizia con le giovanili. E sono quelle giovanili il secondo miracolo. Lì cresceranno Ferdinando Gentile e Vincenzo Esposito, simboli di quel riscatto del Sud che va a vincere “a Milano”, nel palazzetto dove ogni tanto si vedeva comparire anche Bettino Craxi, così come a Caserta non era raro arrivasse Maradona.
Nando è di Tuoro, i genitori a Caserta hanno un negozio di materiale elettrico. Di fronte a quel negozio abita Enzo, due anni più piccolo.
Maggiò prende la squadra in Serie B nel 1971. In quello stesso anno, Tanjevic, 24enne, decide di lasciare il basket giocato: farà l’allenatore. Nel ’79 con il KK Bosna, la squadra dell’Università di Sarajevo, Boscia vince l’Eurolega, la maggiore competizione europea. Tre anni dopo è a Caserta, che porta in A1 anche grazie a Oscar Schmidt, “Mão Santa”, un brasiliano che aveva vinto l’intercontinentale proprio contro il Bosna e che ancora oggi ha il record di punti medi segnati in campionato (34,63 in 11 anni sul parquet). La squadra, però, non ha un campo per la A1. “Quando giocavamo in casa andavamo a Rieti – ricorda Gentile –, ma il Cavaliere Maggiò ci disse che per il girone di ritorno avremmo avuto un palazzetto. Pareva impossibile”. Nel 1982, in cento giorni, altro evento irripetibile nella storia, a Castel Morrone sorge il PalaMaggiò: c’è il palazzetto da 7.000 posti e, accanto, “la palestrina” delle giovanili. È sempre Gentile, all’epoca giovane promessa 15enne, a raccontare: “Ogni giorno arrivavamo con i motorini da Caserta a controllare come andavano i lavori e ogni giorno ce n’era un pezzo in più”. Nei primi mesi, poi, “c’era solo il campo, i posti a sedere, e gli ingressi, ma mancavano le finestre e faceva un freddo incredibile”, ricorda Nando che qui esordì anche in Nazionale. Racconta Sante Roperto nel bel libro Dinastia Gentile, che quando quel giorno incrociò il Cavaliere e gli mostrò la maglia della Nazionale sotto la tuta, quello si mise a piangere.
Fatto sta che Caserta in A1 ci sta, va in finale di Korac nell’86, fa due finali scudetto (’86 e ’87, entrambe perse con Milano), vince la Coppa Italia nel 1988. La strada tra Caserta e Castel Morrone, quando ci sono le partite, è un’unica fila di macchine. Nel 1989 Gentile, Oscar e compagni, dopo aver battuto lo Žalgiris di Sabonis arrivano addirittura in finale di Coppa delle Coppe contro il Real Madrid di Drazen Petrovic. Perdono solo al supplementare (anche per un torto arbitrale), con l’extraterrestre jugoslavo che mette a referto 62 punti.
E siamo quindi all’ultimo ballo, The last dance del 1991. L’anno inizia male. La Phonola vende Oscar per puntare sui due ragazzini casertani, su Sandro Dell’Agnello e su due stranieri che Sarti e Marcelletti (diventato primo allenatore nel 1986) vanno a prendere negli Stati Uniti: Charles Shackleford e Tellis Frank. Il pubblico non gradisce lo scambio e i primi risultati nemmeno. Il 21 maggio, però, la storia cambia. In gara 5, contro la squadra di Mike D’Antoni – uno che adesso allena i Nets in Nba e che fino all’anno prima era il playmaker della Tracer schiacciasassi di Meneghin e McAdoo –, la Phonola vince in una partita drammatica che Esposito passa per metà in barella a bordo campo con un ginocchio rotto. È l’ultimo ballo.
Due anni dopo, la squadra è in A2, costretta a vendere i suoi gioielli (Nando vincerà l’Eurolega col Panathinaikos e lo scudetto con Milano, Enzo sarà il primo italiano a segnare punti in Nba, con i Raptors).
Il declino della Juvecaserta è inesorabile. L’anno scorso l’ultimo fallimento che porta in C l’Academy dei ragazzi con il sostegno di Gianfranco Maggiò e di Nando che è tornato in città (“Me lo chiese Ornella”). Tutti i simboli di quella stagione oggi chiedono che lo Stato, che si chiami Comune, Provincia o Regione, gestisca il PalaMaggiò. Perché i miracoli si fanno una volta sola, ma lasciare in malora “il tempio del basket” è un delitto.