Ovadia (ri)porta Dante in mezzo al popolo e per le strade

Borges diceva che la Divina Commedia è il più bel libro scritto dagli uomini. E quest’anno saranno proprio loro, gli abitanti di Ferrara, a recitarla. Moni Ovadia, attore e direttore del Teatro “Claudio Abbado”, giovedì trasforma la città estense in diffuso palcoscenico dantesco. A 700 anni dalla morte, Ovadia e la regista Maria Cristina Osti organizzeranno la rievocazione della Divina Commedia “minuto per minuto”: così si chiama la manifestazione. “Sarà una cosa gioiosa, giocosa, piena di colore”, ha spiegato il maestro. I protagonisti saranno gli abitanti della città: cento esponenti del Palio delle contrade reciteranno i versi dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso. Ognuno potrà ascoltare e mischiarsi al corteo. A rendere tutto più originale ci saranno poi i costumi d’epoca, ma anche tamburi, trombe e bandiere: “Ci saranno momenti di recitazione collettiva a canone, alternati a versi individuali”. Questa volta non saranno gli esperti a ricordare il Poeta. L’unico filologo e dantista coinvolto è Federico Sanguineti, ma poi saranno gli abitanti ad andare in scena. “Una volta Dante era patrimonio di tutti, non solo dei professori”, spiega Ovadia. “Ricordo che mio suocero andava a sentire i contadini nelle campagne che recitavano Dante a braccio. Un suo amico che ascoltava insieme a lui gli diceva: ‘Non c’ho capito nulla, ma sento lo stesso quanto è bello!’”. Dante è stato il poeta per eccellenza, in grado di declinare il registro basso con quello alto. “Sanguineti ricorda che Petrarca non considerava Dante un poeta elevato perché veniva recitato dal popolo”. E, anche per questo, l’evento è simbolico: il corteo partirà dal Castello e arriverà al Gad, “il quartiere degli extracomunitari”. “Vogliamo portare Dante a tutti – spiega Ovadia – sia agli italiani nati lì, sia agli italiani che arrivano”.

Milan e Inter “puniscono” Bruce Springsteen (e i fan)

L’agenda è piena, ma a rovinare tutto c’è quel tratto di penna sul ritorno nella “casa italiana”. Il “no” di San Siro è uno sfregio per Springsteen, che sperava di chiudere il tour europeo nell’estate 2022 proprio a Milano. Al Meazza, Bruce si è già maestosamente esibito sette volte, a partire dal debutto che, il 21 giugno 1985, sigillò un amore rapinoso con il pubblico tricolore e meneghino. Eppure, la richiesta di prenotazione di tre date da parte della Barley Arts di Claudio Trotta per i probabili ultimi concerti della carriera del Boss con la E Street Band non ha mai trovato accoglienza presso la società che gestisce l’impianto di proprietà del Comune. La M-I Stadio Srl, compartecipata da Milan e Inter, ha negato l’eventualità di far esibire Springsteen nella stagione live 2022, con scorno dei fans e un boomerang d’immagine per la stessa Milano. “Non esiste alcuna chance che Bruce suoni lì. Dirò di più”, rivela Trotta: “Ho chiesto pure degli slot nel 2023, e mi è già stato detto no. Non ci sono date libere neppure tra due anni, e anche su questo Palazzo Marino è già informato”. Come accade che San Siro chiuda i cancelli in faccia al figlio eletto? Secondo Trotta, la M-I ha dato priorità ad altri spettacoli già fissati sin dal 2020 e oltre, rimandati per la pandemia. Ultimo, Salmo, Pezzali. Con le aggiunte in corsa di star mondiali come Elton John e Guns ‘N Roses. Per il Boss neanche uno strapuntino. Aggiunge il promoter, “per quale motivo, e con quali certezze sulla fattibilità, un calendario di eventi a lungo termine era stato aperto in pieno lockdown?”. Il sindaco Sala sottolinea di avere le mani legate: “Non possiamo decidere l’operatività di una società cui è affidata la governance della struttura sportiva”. Qualcuno degli assessori, vedi Del Corno, si è invano speso sui social per invocare una soluzione che non umiliasse la metropoli e l’artista. Altri, più a sinistra, vedono nel niet al supershow di Bruce una “vendetta” per la sua opposizione allo smantellamento del vecchio stadio, da lui dipinto come “un muro di umanità”. All’indomani della pubblicazione dell’album Letter to you Springsteen (così come lo stesso Trotta) aveva infatti manifestato sconcerto per l’ipotesi di demolizione del Meazza in un’area dove i club calcistici e le holding immobiliari-finanziarie virerebbero su progetti residenziali (e non) extralusso, con grattacieli e centri commerciali a far da corona al nuovo stadio. Per gli osservatori più maliziosi, impedire al Boss di suonare una volta di più nel suo tempio, anzi platealmente sfrattandolo, costituirebbe non solo una “punizione”, ma soprattutto la necessità di mettere la sordina al più prestigioso – e romantico – dei testimonial di una struttura gloriosa ma ormai ingombrante. Ma se davvero finirà così, sarà un’onta per Milano. Anche perché nel suo tour Springsteen, varianti covid permettendo, sbarcherà in ogni caso in Italia: una location a un passo dall’annuncio è il Franchi di Firenze, per le altre si lavora sottotraccia. “Saranno tutte degne di lui”, assicura Trotta. Intanto Bruce si tiene in esercizio a Broadway: ha cambiato teatro (resterà al St.James almeno fino al 4 settembre) e tre canzoni della scaletta rispetto al recital originario di tre anni fa. C’è poi il raduno della rinascita di New York, voluto dal sindaco De Blasio. Appuntamento (ancora da confermare) per il 21 agosto al Central Park: con il Boss anche Paul Simon, Jennifer Hudson e Patti Smith. Nelle poche ore di relax Bruce potrà godersi in tv le imprese della figlia Jessica con la squadra di equitazione Usa ai Giochi di Tokyo. I cavalli, si sa, sono una passione di famiglia.

Rivolta per fame e Covid. L’Avana: “Colpa degli Usa”

L’Avana e Washington si rimpallano moniti e accuse, mentre migliaia di cubani scendono in piazza nelle manifestazioni di protesta contro il regime comunista più massicce nell’isola da decenni, cui fanno da contrappunto manifestazioni pro-governative. A San Antonio de los Banos, un centro di circa 50 mila abitanti, a una trentina di chilometri dalla capitale, i contestatori, per lo più giovani, sfilano scandendo “Patria e vita!”, titolo di una canzone anti-regime, e “Abbasso la dittatura!”, gridando “Non abbiamo paura!”. Dagli Anni Novanta non si vedeva a Cuna nulla di simile.

Il presidente Usa Joe Biden lancia un appello al regime cubano perché – dice – “ascolti il suo popolo e la chiara richiesta di libertà e di aiuto” per la crisi legata alla pandemia. Il presidente cubano Miguel Díaz-Canel accusa gli Stati Uniti di fomentare disordini nell’isola: dopo la normalizzazione dei rapporti avviata dall’Amministrazione Obama, l’Amministrazione Trump ha reintrodotto sanzioni contro Cuba e restrizioni alle relazioni turistico-commerciali con l’isola caraibica. Biden non ha finora allentato le pressioni, perché “il popolo cubano sta coraggiosamente chiedendo il riconoscimento di diritti fondamentali e universali … che vanno rispettati”. Una posizione che fa emergere preoccupazioni internazionali: messe in guardia contro tentazioni interventiste giungono da Mosca, ma anche da Città del Messico. Il malessere socio-economico cubano coincide con il picco della pandemia nell’isola, che domenica ha registrato 47 decessi e quasi 7.000 nuovi contagi, numeri record giudicati “allarmanti”. Il virus s’espande, con epicentro la provincia di Matanzas, nell’Ovest. Le cifre “aumentano ogni giorno”, constata Francisco Durán, direttore nazionale di Epidemiologia del ministero della Salute. Secondo quanto riferiscono i corrispondenti da Cuba di testate come la Bbc ed El Pais, le immagini dei cortei che sono sfilati in diverse città, fra cui la capitale postate sui social media mostrano agenti delle forze di sicurezza arrestare e picchiare manifestanti. Negli ultimi mesi, i cubani hanno subito il crollo dell’economia in gran parte controllata dallo Stato: l’anno scorso, il Pil ha perso l’11%, dato peggiore da trent’anni, per effetto di virus e sanzioni. La gestione inadeguata della pandemia, in un Paese che s’è sempre vantato del suo sistema sanitario nazionale, s’è accompagnata a ulteriori restrizioni delle libertà civili. I contestatori chiedono un’accelerazione del programma di vaccinazione. Dall’inizio della pandemia, i cubani devono affrontare lunghe file per fare scorta di cibo e generi di prima necessità e vivono una carenza di medicinali che innesca forti tensioni sociali. Con gli hashtag #SOSCuba o #SOSMatanzas, sui social si moltiplicano le richieste di aiuto, così come gli appelli al governo per facilitare l’invio di donazioni dall’estero. Il governo, però, respinge la richiesta d’aprire “corridoi umanitari”, sostenendo che il concetto “si applica alle aree di conflitto e quindi non a Cuba”.

A fronte delle migliaia di contestatori, migliaia di sostenitori del governo sono pure scesi in strada, dopo che il presidente Díaz-Canel, parlando in tv, ha spronato il popolo a difendere la Rivoluzione, cioè l’insurrezione armata che nel 1959 rovesciò il regime dittatoriale di Fulgencio Batista e installò al potere i barbudos comunisti. Per Díaz-Canel, le proteste sono una provocazione innescata da mercenari assoldati dagli Usa per destabilizzare il Paese. “L’ordine di combattere è stato dato: ‘Nelle strade, rivoluzionari’”, ha detto il 61 enne presidente dal 2019, primo leader che non ebbe parte nella conquista del potere, condotta da figure come Fidel Castro – rimasto al potere fino al 2008 a cui successe il fratello Raul – e Che Guevara.

Macron torna al passato: dopo il virus riforma delle pensioni

Era stato annunciato un discorso orientato tutto sulla crisi sanitaria, ora che l’epidemia di Covid-19 riprende in Francia, invece Emmanuel Macron ha parlato molto di politica ieri sera, in un discorso registrato di 30 minuti, con la Tour Eiffel sullo sfondo, fissando le direttive per l’ultimo anno di mandato all’Eliseo, prima delle urne, nell’aprile 2022. Il presidente ha difeso la sua strategia, tanto in materia sanitaria che economica: “Siamo riusciti a tenere l’epidemia sotto controllo e a rivivere, grazie ai nostri sforzi. Sul piano economico, il “costi quel che costi” ha permesso di proteggere il lavoro, di evitare i fallimenti e i drammi umani. Abbiamo avuto ragione a cercare l’equilibrio tra protezione e libertà. Questa estate – ha detto – deve essere di mobilitazione per la vaccinazione e di rilancio”. Macron non ha rinunciato ad alcune delle sue più contestate riforme che erano state accantonate a causa dell’epidemia. La riforma del sussidio di disoccupazione e la temuta riforma delle pensioni, con l’innalzamento dell’età pensionabile e la fine dei regimi speciali, che aveva causato blocchi e proteste e che è tornata sul tavolo dei negoziati sindacali nei giorni scorsi. Ha annunciato un piano massiccio a favore dei giovani e per la formazione dei disoccupati e investimenti per 7 miliardi nella ricerca, nell’innovazione e nell’industria. “Sui 100 miliardi del piano di rilancio, 40 sono già stati mobilitati – ha detto –, ma bisogna andare più veloci. Bisogna ritrovare il livello di economia di prima dell’epidemia, conciliando crescita e ecologia”. Macron si sarebbe volentieri messo la crisi sanitaria alle spalle, ma la diffusione della variante Delta ha cambiato i programmi. Meno di mille persone sono ricoverate in terapia intensiva, ma i contagi sono tornati a crescere, soprattutto tra i giovani: 4.200, quasi il doppio di una settimana fa. La Francia è entrata nella “quarta ondata” e la pressione sugli ospedali potrebbe sentirsi già ad agosto. Macron ha confermato l’introduzione dell’obbligo di vaccinazione per operatori sanitari e badanti, misura già in dibattito da settimane, e esteso il ricorso al “pass sanitaire”, dal 21 luglio, a tutti gli eventi con più di 50 persone e, da inizio agosto, a bar e ristoranti, centri commerciali, ospedali, e per i viaggi in treno e aereo di lunga distanza. I tamponi, ora gratuiti, saranno a pagamento da ottobre. Saranno rinforzati i controlli alle frontiere e delle campagne di vaccinazione nelle scuole e negli atenei prenderanno il via a settembre.

La Bulgaria cambia musica. Un rocker contro la destra

Un altro showman potrebbe diventare presto capo di Stato nell’est ex-sovietico. È il risultato delle ultime elezioni svoltesi nel Paese più povero dell’Unione europea, la Bulgaria: il cantante folk Slavi Trifonov, con il 23,7% dei voti, ha ottenuto quasi lo stesso numero di preferenze dell’ex primo ministro, Boyko Borissov, del partito di destra Gerb, “Cittadini per lo sviluppo europeo”. Nessuna maggioranza si è imposta alle urne, se non quella dell’astensione: l’affluenza registrata dalla Commissione elettorale di Sofia è ai minimi storici. Solo il 40% dei bulgari ha votato, il 10% in meno rispetto alle ultime elezioni dello scorso 4 aprile che, proprio come quelle anticipate di domenica scorsa, hanno fatto emergere nuovamente uno spettro frammentato e polarizzato di forze politiche, incapaci di governare il paese senza alleanze e coalizioni.

Adesso a Sofia non c’è un vincitore e non c’è un nuovo inizio, ma c’è sicuramente una fine, dicono i politologi: potrebbe presto avvicinarsi il tramonto della destra populista del già tre volte premier Borissov. Ex pompiere ed ex guardia del corpo, accusato di riciclare fondi neri negli anni ‘90 e di sfruttare quelli stanziati da Bruxelles per scopi personali, da quando è arrivato al potere nel 2009, è la testa d’ariete di una squadra la cui influenza ha cominciato a oscillare la scorsa estate, quando le piazze sono state invase dalle proteste contro la corruzione endemica dello Stato, il più corrotto dei 27 che compongono l’Unione, dicono i dati di Transparency International.

La Bulgaria è uno Stato di mafia, la mafia è di Stato o è dove “la mafia ha uno Stato”, ha detto Trifonov, che i bulgari chiamano semplicemente “Slavi”. Divenuto celebre al crollo dell’impero sovietico insieme alla sua Kuku band, deve la sua fortuna alla tv via cavo e alle note: quelle musicali e ora quelle politiche, entrambe balcaniche.

Nato 55 anni fa in un paese al confine con la Romania, per scendere dai palchi dei concerti e salire su quelli dei comizi si è tolto il giubbotto di pelle per usare giacca e cravatta, ma non i due orecchini d’oro. Calvo e gigantesco, (è alto due metri), rivolge spesso uno sguardo minaccioso ai giornalisti con cui si rifiuta di parlare. Se ha qualcosa da dire ai sette milioni di cittadini del suo paese, il moghul dei media lo fa attraverso qualche suo canale privato. Slavi è contro il sistema, contro la corruzione, contro le élite.

Distruggerà il clientelismo che paralizza Sofia e dintorni, o almeno è quello che scrive il suo team quotidianamente sui suoi seguitissimi profili social. Ma oltre ad alternale assoli e ritornelli, Trifonov non ha presentato programmi in campagna elettorale e le sue future mosse sono giudicate dagli altri leader come un’enigmatica “scatola nera”. Lui, che della caricatura e critica dei politici bulgari ha fatto missione e professione, adesso però fa parte della stessa categoria. Presentandosi come il paladino capace di ripulire i palazzi del potere dall’asfittico e traviato establishment, ha cominciato a capitalizzare la sfiducia verso la classe politica e l’indignazione dei bulgari indigenti o impoveriti dalla pandemia sin dal 2020.

Slavi, con propositi politici vaghi per il futuro, per essere eletto ha solo intonato una delle sue canzoni, “Ima takv narod”, in traduzione: “C’è un popolo come questo”, un titolo che è diventato nome del suo movimento. Il magnate che dice di essere dalla parte dei più poveri ha già dichiarato che non entrerà in coalizione non nessuna delle cinque forze tradizionali che adesso andranno a sedersi tra gli scranni del Parlamento a Sofia.

Senza rinunciare alle sue rime poetiche, a sfoglio ultimato, Trifonov ha detto che è tempo per i bulgari “di guardare verso le stelle, non più in basso per la vergogna” e ha proposto un possibile esecutivo composto di giovanissimi esperti, tutti laureatisi all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Slavi in fondo ha applicato un paradigma già dimostratosi vincente a Kiev, dove il comico ucraino Vlodimir Zelensky, protagonista della serie Servitore del popolo, è riuscito a diventare capo di Stato con un partito che ha lo stesso nome del programma tv.

E dopo aver forgiato la scena musicale del Paese, ora potrebbe plasmare quella politica grazie a una lirica del suo vastissimo repertorio, che comprende anche: “Infila i peperoni nei fagioli”. Oppure: “Tagliate la testa dell’anatra”.

Attenti al virus delle scimmie

Noi virologisiamo soliti consultare il sito dell’Oms per avere una panoramica sulla situazione infettivologica mondiale. Qualche giorno fa, invece, è apparso sul sito dell’Oms l’allerta “Vaiolo delle scimmie – Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord”. Sono questi eventi molto rari, ma che si stanno presentando sempre più frequentemente, evidenziando la crescente facilità di contatti in un mondo sempre più piccolo. Dopo una campagna vaccinale di vaste dimensioni, il vaiolo umano è stato dichiarato eliminato, ma rimane quello delle scimmie, spesso meno grave, che può essere trasmesso da questi animali all’uomo. A maggio, due soggetti provenienti dalla Nigeria, avevano presentato eruzioni vescicolari sugli arti. Erano stati ricoverati con diagnosi confermata di vaiolo delle scimmie. Il vaiolo delle scimmie è una zoonosi con infezioni umane accidentali che di solito si verificano sporadicamente nelle zone boschive dell’Africa centrale e occidentale. Il contagio può avvenire molto facilmente, per contatto e per esposizione alle goccioline espirate. Il periodo di incubazione può arrivare fino a 21 giorni. Poiché la sintomatologia può essere molto lieve, il rischio di contagio è molto elevato. Sono noti fattori di rischio il contatto con animali vivi e morti attraverso la caccia e il consumo di selvaggina o carne di arbusti. A oggi, nel Regno Unito, sono stati segnalati solo sette casi di vaiolo delle scimmie, di questi, tre casi sono stati precedentemente importati dalla Nigeria – due a settembre 2018 e uno a dicembre 2019 – e uno è un caso di trasmissione nosocomiale in un operatore sanitario, in Inghilterra nel 2018, a causa del contatto con biancheria da letto contaminata. L’attenzione è alta, anche perché non si è ancora arrivati a identificare la fonte di questa casistica. È necessario intensificare i controlli sanitari alle frontiere, negli aeroporti. La circolazione di soggetti potenzialmente infetti, può avvenire anche attraverso scali e porti “sicuri”.

 

Come rapinare e restare impuniti

Alcune modifiche alla legge Bonafede sulla prescrizione, previste nel testo emendato dal governo e approvato dal Consiglio dei ministri, presentano profili di irragionevolezza tali da lasciare stupiti.

Mi riferisco alla disciplina che prevede l’estinzione del processo per improcedibilità dell’azione penale qualora il grado di appello non sia definito entro due anni e quello di Cassazione in un anno, e ciò a prescindere dai termini di prescrizione del reato e dalla durata del primo grado. Così anche per reati per i quali il codice penale prevede un termine di prescrizione molto lungo in considerazione della loro gravità e che sono stati definiti in primo grado in pochi mesi per direttissima o con giudizio immediato, viene sancita l’improcedibilità malgrado sia decorsa una frazione di tempo – pari nel minimo a 2 anni e un giorno – molto inferiore al tempo di prescrizione e a quello ritenuto ragionevole dalla legge Pinto per la definizione dei processi. Si perviene in tal modo a risultati irrazionali. Un esempio. Poniamo che Tizio, con giudizio direttissimo, sia stato condannato dal Tribunale per rapina con sentenza emanata a distanza di sei mesi dalla data di consumazione del reato. Se in appello la durata del procedimento sfora i due anni, anche di un solo giorno, il processo si estingue con tutte le conseguenze del caso. Non si comprende la logica di tale soluzione. Per il reato di rapina il termine di prescrizione è di 12 anni e 5 mesi, il che significa che lo Stato ha stabilito nel codice penale che occorre il decorso di tale lungo periodo prima che possa considerarsi venuto meno l’interesse pubblico alla individuazione dei colpevoli e alla loro punizione. Come si spiega che lo stesso Stato sancisca nel codice di procedura penale, in palese contraddizione con se medesimo, che tale interesse viene meno dopo appena due anni, sei mesi e un giorno?

Lo stesso dicasi per tanti altri gravi reati: come l’estorsione, che pure si prescrive in 12 anni e 5 mesi; il depistaggio con la distruzione di prove essenziali per l’individuazione di autori di omicidi e stragi, che si prescrive in 15 anni; il disastro ambientale, che si prescrive in 30. Né tale soluzione è giustificabile per l’irragionevole durata del processo, tenuto conto che la “legge Pinto”, che ha introdotto il risarcimento dei danni per quella ragione, prevede che in ogni caso, il termine ragionevole è rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile non oltre i 6 anni. A tutto ciò occorre aggiungere che è concreta ed elevata la possibilità che in tali casi e in molti altri il giudizio di appello non possa essere definito in 2 anni. Le Corti di Appello sono ingolfate da una tale mole di processi arretrati da costringerle a mettere in coda i processi sopravvenuti, sicché delle due l’una: o si dà priorità ai nuovi processi falcidiando per improcedibilità i più antichi o, viceversa, si celebrano questi ultimi, assottigliando i termini per la definizione dei nuovi, in buona parte destinati a estinguersi anche se definiti in primo grado in tempi da record. Il che rischia di innescare una spirale perversa disincentivando il ricorso ai riti alternativi in primo grado (patteggiamento allargato e giudizio abbreviato) e puntando tutto sull’improcedibilità in appello, con rischi molto ridotti per i condannati: sino all’ultimo, se proprio si mette male, si può sempre patteggiare in appello tramite il c.d. concordato. Le difficoltà a trovare una soluzione ragionevole e condivisa per la prescrizione, a mio parere, non sono tecniche, ma macropolitiche. Lo dimostra il fatto che il tema della prescrizione è ormai da decenni al centro di uno scontro politico di tale intensità da avere determinato anche il pericolo di crisi di governo, caso unico al mondo. Il sistema penale è lo specchio fedele e la cartina di tornasole di un sistema Paese prigioniero delle tare del suo passato e costretto all’immobilismo o a quella simulazione di movimento che a Napoli definiscono ammuina e consiste nel correre a destra e a manca girando intorno a se stessi e ritornando al punto di partenza. Esiste una quota consistente di società civile, trasversale alle classi sociali e dotata di un forte potere di negoziazione politica, fisiologico in democrazia, che per vari motivi non ha alcun interesse reale a dare vita a un sistema penale che coniughi efficienza e garanzie. In proposito sarebbe necessario un lungo censimento, impossibile nel breve spazio di un articolo. Mi riferisco, per iniziare, alla vastissima e crescente area della “illegalità di sussistenza”: masse popolari condannate all’indigenza che sopravvivono grazie a svariati reati, da quelli contravvenzionali sino a quelli tipici della bassa manovalanza al servizio della criminalità organizzata. Un’illegalità di sistema, sottoprodotto cioè di un sistema che non essendo disposto a pagare gli ingenti costi economici di politiche riformiste e di inclusione sociale, offre, in cambio del mantenimento dello status quo, l’alternativa di una sostanziale tolleranza e convivenza con tale tipo di illegalità, che si realizza in tanti modi. Uno è la sterilizzazione della sanzione penale grazie alla prescrizione di una moltitudine di reati, o con condanne a pene pecuniarie inesigibili per lo stato di indigenza dei condannati e non commutabili in lavoro sociale per mancanza di lavoro, o ancora con misure alternative che consistono nel rispedire i condannati negli stessi inferni sociali che li hanno indotti al crimine. Poi c’è l’amplissima area sociale dell’illegalità di massa – dall’abusivismo edilizio all’evasione fiscale – che più che un problema costituisce una risorsa: un enorme bacino elettorale conteso da tutte le forze politiche. Da qui un diritto penale di pura esibizione muscolare, ma in realtà di programmata inefficienza. E ancora, c’è l’illegalità di ampi settori della classe dirigente: la strumentalizzazione dei poteri pubblici a interessi privati e lobbistici e la predazione sistemica di risorse collettive perpetuano a monte le condizioni che sono a valle alla base dell’illegalità di sussistenza e popolare.

Da qui l’instancabile sabotaggio dell’efficienza del sistema penale condotto da tali settori negli ultimi 30 anni per garantire l’impunità ai colletti bianchi. Obiettivo pienamente realizzato: vedi le statistiche sulla composizione sociale della popolazione carceraria, con una percentuale di colletti bianchi talmente irrisoria da non essere neppure quotata. Due le leve fondamentali, oltre alle depenalizzazioni mirate e alle leggi ad personas: ridurre i termini di prescrizione dei reati e allungare i tempi processuali, creando un “triangolo delle Bermuda” che ogni anno ha inghiottito centinaia di migliaia processi. Dopo l’approvazione della “Bonafede”, il giocattolo si era rotto e il coefficiente di rischio e di costi penali per reati elitari si era pericolosamente alzato. Si sarebbe dovuto abbattere il numero dei reati espungendo dal diritto penale la miriade di reati contravvenzionali in larga misura destinati alla prescrizione dalla brevità dei termini quadriennali; introdurre seri strumenti per incentivare i riti alternativi disincentivando le tecniche dilatorie per lucrare la prescrizione; abbattere i tempi nei limiti della “Pinto” eliminando tempi morti e inutili lungaggini; aumentare le piante organiche della magistratura per assicurare la proporzionalità tra il numero dei magistrati e quello dei procedimenti. Invece si è preferito introdurre alcuni palliativi e tornare al punto di partenza con la facile scorciatoia di abbattere i processi per sopravvenuta improcedibilità. Così la vecchia e salvifica prescrizione del reato uscita dalla porta con la “Bonafede” è rientrata dalla finestra sub specie di prescrizione del processo. Dunque se vogliamo essere realisti, sino a quando il “gioco grande” dietro le quinte resterà quello descritto, il sistema penale è destinato a restare nella sostanza quello che è. L’ordinamento penale vivente del resto è l’ordinamento della realtà risultante dai mutevoli rapporti di forza tra le varie componenti della società e dalle loro reciproche transazioni e compensazioni.

 

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Orfani e delusi dei 5 Stelle: che fare?

Caro direttore, sono disperata e vorrei delucidazioni chiare sulla catastrofe politica targata 5Stelle. Forse sarò di parte, ma condivido ogni tuo punto di vista, perché fondato su cose reali e non sulla propaganda o sull’onda emotiva. Ho seguito il M5S dall’inizio, il paese andava cambiato e l’entusiasmo di quelle persone mi ha contagiata: “che sia la volta buona?” Certo che sì, il 33% delle ultime elezioni ne era testimonianza! Ora, al di là dei compromessi politici, cosa sta succedendo?

Mi sento disorientata… se anche loro sono diventati come gli altri, dove guardare? Dovrei smettere di informarmi sul Fatto e magari scegliere altre fonti, illudendomi che questo è proprio il governo dei migliori. L’unico punto di luce che riesco a vedere si chiama Giuseppe Conte, ma cosa potrà fare con tutti contro? Intanto Renzi comincia a “lavorare” per smantellare il RdC e ce la farà. Sembra di vivere un incubo… cosa faresti tu Marco, se si andasse a votare domani? Cosa dovrebbero fare le persone che, come me, si sentono orfane e mal rappresentate?

Valeria

 

Voterei fra chi, in Parlamento, si oppone alle schiforme di Draghi, a cominciare dal Salvaladri Cartabia.

M. Trav.

 

Giornalisti pavidi contro “Il Fatto”

Non sapevo che Il Fatto fosse il giornale del partito che non c’è (quello di Conte). Non sapevo neanche che “tendesse ad avere una leadership nel mondo grillino”, ma forse l’illustre giornalista che ha scritto l’articolo non si riferiva al Fatto, infatti la prima volta citava un giornale e la seconda, un non precisato quotidiano. Neppure il coraggio di nominare a chi si riferiva: ecco i nostri giornalisti. Questa la condizione misera in cui è precipitato un giornale storico come Repubblica.

Giovanni Frulloni

 

Caro Frulloni, ricordo con quanta passione questo poveretto difendeva i governi Berlusconi sul “Corriere” e sul “Sole 24 Ore”. Ora lo fa su “Repubblica”: a suo modo è coerente.

M. Trav.

 

AAA, casa vacanze cercasi per una lettrice

Buongiorno, ho 69 anni e ho avuto il bonus vacanza di 150 euro. Faccio molta fatica ad arrivare a fine mese, mi piacerebbe fare qualche giorno al mare o in un posto con piscina, ma con quella cifra che ci faccio? C’è qualcuno che ha una casa che per un certo periodo di tempo non occupa? Vivo a Torino e ho un piccolo barboncino molto ubbidiente, ma nel caso peggiore posso lasciarlo a mia figlia. Inoltre ho completato le vaccinazioni.

Giulia Motta

 

Voto al Senato: si faccia largo ai giovani cittadini

Cara redazione, sul sito ho letto un commento che non condivido, sul voto dei diciottenni al Senato. A me sembra una conquista: se andranno a votare, i giovani riceveranno due schede elettorali e in un attimo potranno mettere due croci! Inoltre i 4 milioni di ragazze e ragazzi bilanceranno lo stesso numero di ultraottantenni che contribuiscono all’allucinante gerontocrazia che blocca questa Repubblica delle banane marce! Largo ai giovani: potranno votare in modo superficiale la prima volta forse, ma cosa aspettiamo a farli diventare cittadini? Grazie di esistere.

 

Cartabia: comunione poca, liberazione molta

A parte la situazione dei 5Stelle ridotti a gelatina politica, ma cosa ci si poteva aspettare da una ministra della Giustizia affiliata a Comunione e Liberazione?

Salvatore Griffo

 

Sui proclami di Renzi c’è da “stare sereni”

Caro Direttore, qualche giorno fa l’innominabile nelle vesti di Verbo di Rignano ci ha deliziato con due proclami. Nel primo ha dichiarato che il M5S è politicamente morto. Detto da un leader di un partito all’1,6% nei sondaggi, credo sia un buon viatico per i prossimi 50 anni dei 5S a guida Conte; poi che proporrà un referendum per abrogare il Reddito di cittadinanza. Ricordando la competenza e la serietà, penso che i percettori del reddito si sentano rassicurati. Anzi: STATE SERENI. Con stima.

G. Carlo Di Girolamo

 

Sostegno alla petizione contro B. presidente

Mi associo alla lettera di qualche giorno fa della lettrice Stefania. Pronto a firmare una petizione contro Berlusconi, la vergogna di questo paese, presidente della Repubblica.

Francesco Collecchia

 

DIRITTO DI REPLICA

In relazione al pezzo del Fatto Quotidiano del 10 luglio, MySecretCase smentisce la notizia relativa all’acquisto di spazi sulla Tv pubblica e dichiara che non farà investimenti pubblicitari sulle reti Rai. La società risulta, inoltre, in utile e ha chiuso il 2020 con un Ebitda positivo e un fatturato pari a 6,5 milioni di euro.

Uff. Stampa MySecretCase

Cannes 74. Un festival sottotono, ma ancora necessario (alle sale)

Gentile redazione, sui giornali vedo pagine e pagine dedicate al Festival di Cannes poi però in ete e sui social trovo poco o nulla, se non articoli stranieri piuttosto tiepidi e commenti tranchant sull’inutilità ormai di queste vetrine cinematografiche… Da che parte sta la ragione? Non sembra anche a voi che Cannes sia un po’ moscio, ininfluente e inutile, se non per le quattro sfilate di vip sulla Croisette? C’è chi addirittura invoca la chiusura anticipata…

Annamaria Pacini

 

Cara Annamaria, la 74esima edizione del Festival di Cannes, come vuole la giurata Mati Diop, è in realtà l’edizione zero: la pandemia ha stravolto anche il mondo del cinema. Cannes Anno Zero, dunque, e quel che osservi non è peregrino: per farla breve, è utile un festival al tempo del (post)Covid? La risposta rimane positiva, però bisogna intenderci: la Mostra di Venezia l’anno scorso ha dimostrato impeccabilmente come la via sia stretta ma praticabile, viceversa, la Croisette sotto il profilo sanitario, ovvero dell’organizzazione, lascia a desiderare, tracciamento, distanziamento e tutela sono questi sconosciuti. Ne vale la pena? Anche sotto il profilo della promozione cinematografica i dubbi permangono: “Tre piani” di Nanni Moretti, accolto assai tiepidamente dalla stampa internazionale, arriverà in sala solo il 23 settembre, quindi più che lancio Cannes è al massimo un elastico. E vale per la gran parte dei titoli, da “Futura” di Marcello/Munzi/Rohrwacher a “Jfk Revisited” di Oliver Stone, che dopo la vetrina si metteranno in fila dietro ai tanti già pronti e bloccati dal lockdown. Toccata e coda. Sui vip che sfilano sulla montée des marches, invece, dissento: servono come il pane, giacché ridondano il successo del festival. Il problema è l’opposto: il Covid non ha smesso di mordere, e tra quarantene e disagi la defezione è all’ordine del giorno. Da Léa Seydoux, quattro titoli in cartellone e il contagio a tenerla lontana, a Juliette Binoche, sul set in America, passando per “The French Dispatch” di Wes Anderson, che pur essendo un film sul giornalismo non farà alcuna conferenza stampa, le assenze danno nell’occhio, pubblico compreso. La chiusura anticipata, se non motivata dal contenimento della pandemia, non ha senso, un ripensamento generale e profondo della manifestazione sì: Yes We Cannes quest’anno è solo un sussurro, tra lo sputo di un tampone salivare e una star che non si vede.

Federico Pontiggia

Il Movimento avrà un futuro solo se Grillo si fa da parte

Due giorni fa, il Movimento 5 Stelle ha annunciato l’accordo tra Conte e Grillo. L’accordo è stato accolto con sollievo dai più. Ci sta: una scissione avrebbe senz’altro avvantaggiato il centrodestra. Si tratta però di capire di quale accordo si parli, e soprattutto quanto questo “accordo sullo statuto” reggerà nei fatti e nel tempo.

I pontieri, su tutti Di Maio e Fico, hanno cercato in ogni modo di ricucire lo strappo tra l’ex presidente del consiglio e il garante dei 5 Stelle. Uno strappo che era stato voluto pressoché esclusivamente da Grillo, prima abile nell’individuare in Conte l’unico in grado di salvare il M5S e poi scellerato nel bombardare quello stesso uomo che lui per primo aveva voluto. Roba da bipolarismo psichiatrico spinto.

Comprendere Grillo è diventata impresa improba. Dall’avvento di Draghi in poi, Grillo si è definitivamente trasformato nello PsicoBeppe. È verosimile che l’accusa di stupro pendente sul figlio Ciro lo stia minando oltremodo psicologicamente. E ci mancherebbe altro: sarebbe impossibile il contrario. Il dispiacere umano per il suo travaglio interiore non può però giustificare una condotta politica allucinante e masochista.

Prima Grillo ha definito Draghi grillino. Poi ha ordinato ai 5 Stelle di calarsi le braghe nella non-trattativa per entrare nel governo dei presunti “migliori”. Quindi ha spacciato Cingolani per grillino. Ha messo tutti in imbarazzo per il video sul figlio. Ha usato toni indecenti su Conte, comportandosi come un padre padrone che pur di non cedere il suo giocattolo preferito lo distrugge (così nessun altro potrà usarlo). Come se non bastasse, cinque giorni fa ha imposto alle sue truppe cammellate in Parlamento di ingoiare pure il rospo sulla giustizia. La sua è una Waterloo continua, assurdamente nichilista e politicamente suicida.

Due giorni fa è arrivato l’accordo in extremis. In apparenza è per i 5 Stelle una buona notizia. Ma Conte può fidarsi di Grillo? L’uomo che “vedeva” le cose in anticipo e che dal palco denunciava (con coraggio raro) storture che altri fingevano di non vedere, è lo stesso che da mesi non ne imbrocca mezza e distrugge tutto quel che tocca? Perché Grillo sta sbagliando tutto? Mancanza di lucidità o dietro questi harakiri c’è altro?

Per Conte non sarebbe stato facile creare una forza politica tutta sua, anche perché lo avrebbero seguito ben pochi 5 Stelle di peso. Ora, però, dovrà navigare a vista e valutare di volta in volta la correttezza di Grillo. Il M5S è ancora convalescente e Conte, ancor più se in qualche modo disinnescato dalla presenza ingombrante di Grillo, non può certo risolvere tutti i problemi per magia.

Il M5S da quando è al governo (pure) con Draghi, appare tristemente imbelle. Non ottiene quasi nulla e cede quasi su tutto. Incoerente a ripetizione, evanescente come poche altre forze al mondo, di fatto invotabile. Conte ha in testa una forza politica che guardi al centrosinistra. Un po’ Dc cattocomunista, un po’ Verdi europei, un po’ M5S del bel tempo che fu. Un cocktail ardito ma non impossibile, purché però Conte abbia libertà totale d’azione. A partire dalla costruzione di una classe dirigente totalmente rinnovata. La sfida è campale e troppo tempo è stato buttato via. Un tempo durante il quale la destra ha continuato a volare (almeno nei sondaggi).

Sara brutale affermarlo, ma il M5S potrà avere futuro solo se Grillo farà sempre meno, accontentandosi del ruolo un po’ pleonastico di “padre nobile”. E – purtroppo per i 5 Stelle e per Conte – non credo proprio che si accontenterà di fare il bel soprammobile.