Inpgi e i giornalisti: non salvate i privilegi a spese dello Stato

Andrebbero resi noti ai cittadini con la massima trasparenza i riservati tentativi in corso – per ottenere l’aiuto del governo Draghi e di politici di vari partiti – da parte della lobby dei giornalisti dipendenti iscritti al fondo previdenziale privatizzato Inpgi, che vorrebbero interventi pubblici per salvare le loro “pensioni d’oro” gonfiate con un regime privilegiato rispetto ai risicati parametri del sistema Inps dei comuni cittadini. Innanzitutto perché il costo di un eventuale salvataggio sarebbe pagato dai contribuenti. Ma anche perché il caso Inpgi è emblematico per capire l’Italia dei privilegi corporativi, delle diseguaglianze e dei conflitti d’interessi, in quanto coinvolge la minoranza meglio retribuita della categoria che ha il dovere di denunciare proprio queste anomalie.

L’origine dell’attuale crisi dell’Inpgi risale agli anni 90, quando iniziarono i tagli alle pensioni per evitare l’insolvenza futura della previdenza pubblica. Ordine (Odg) e sindacato unico (Fnsi) dei giornalisti – per difendere il regime privilegiato del fondo autonomo (dei soli dipendenti) – pretesero dal governo la privatizzazione. In questo modo evitarono di tagliare e mantennero rendite alte con tanti altri privilegi (sussidi di disoccupazione, pensioni anticipate per cinquantenni, mutui agevolati, prelazioni su case in affitto, ecc.). Ma il passaggio nel privato impegnava anche a rinunciare alla garanzia dello Stato, che avrebbe coperto solo l’importo della pensione sociale minima in caso di insolvenza futura dell’Inpgi. Quando il Corriere della Sera informò su questo alto rischio, Odg e Fnsi replicarono irritati garantendo la solidità del loro fondo da privatizzare. I dirigenti di aziende industriali, invece, insorsero contro il loro sindacato, che voleva uguale privatizzazione del fondo Inpdai. E gli imposero la retromarcia per non perdere la garanzia dello Stato sulle proprie pensioni.

Sindacato e Ordine dei giornalisti, al contrario, arrivarono a un clamoroso sciopero nazionale per accelerare la privatizzazione e difendere rendite medie tra le più alte d’Italia. A iscritti Inpgi preoccupati dal rischio futuro di insolvenza veniva sussurrato informalmente “l’asso nella manica”: un antico “inciucio”, che consentiva a leader politici e a tanti altri parlamentari di centro, destra e sinistra di essere dichiarati dall’ordine “giornalisti professionisti” (dopo un periodo nei loro organi di partito finanziati dallo Stato) e maturare una pensione aggiuntiva con contributi figurativi (gratuiti). “E quei politici non ci salverebbero, perdendo il poter cumulare una ricca rendita con il vitalizio parlamentare?”, era la furbesca rassicurazione fatta circolare tra i giornalisti con il richiamo di tenerla riservata.

A chi non voleva rischiare una futura insolvenza dell’Inpgi, il governo concesse l’opzione di passare all’Inps: cioè la pensione dei comuni cittadini, ben più bassa e meno insicura. Pochi però lasciarono quel Bengodi. Quasi tutti preferirono la scommessa speculativa ad alto rischio del “privato”. La crisi però poi ha colpito duro sui media. Tanti giornali sono stati affossati dalla poca libertà di stampa (in Italia è a livelli da Terzo Mondo secondo le classifiche internazionali), da una informazione condizionata da proprietà in conflitto di interessi, da “pubblicità & marketing”, da continui prepensionamenti e tagli di costi. Gli stipendi alti dei giornalisti e i relativi contributi si sono ridotti sempre più. E l’Inpgi, erogando tante “pensioni d’oro”, ha perso 560 milioni in tre anni. Ora si parla di rischio insolvenza.

I giornalisti dipendenti giovani, che non hanno avuto il diritto di opzione come al tempo della privatizzazione (e ormai maturano pensioni basse simil pubblico), potrebbero essere salvati facilmente con il trasferimento dei loro contributi all’Inps. Ma i pensionati e i pensionandi, che scommisero sui vantaggi del “privato”, dovrebbero accettare una drastica riduzione delle “rendite d’oro” – sulla base di quanto oggi l’Inpgi può permettersi di pagare – e, in caso di insolvenza, la pensione minima nel pubblico. Così implorano l’aiuto del governo Draghi e dei politici. Ma non dovrebbero rendere noti fin nei dettagli gli “inciuci” con i “parlamentari giornalisti”, che sarebbero in conflitto d’interessi se aiutassero (anche se stessi) nel salvataggio? Perché non si aiuta, invece, la massa dei precari sfruttati dagli editori con pochi euro ad articolo? E, soprattutto, non spetta ai contribuenti valutare se farsi carico delle “pensioni d’oro” dei giornalisti Inpgi, che sembrano aver attuato il malcostume italico dei profitti da privatizzare, quando si ritenevano ricchi privilegiati, e del voler scaricare sul pubblico, quando la loro scommessa speculativa è finita in perdita?

 

Meno lavoro, più posti: conta la motivazione

Sorprende la sorpresa con cui i giornali hanno riportato come sorprendenti i risultati di un esperimento condotto in Islanda su 2.500 tra medici, infermieri e poliziotti, secondo cui queste cavie umane, lavorando un’ora in meno al giorno e guadagnando uguale, hanno prodotto di più. Stessa sorpresa colse i ricercatori di Harvard già nel 1927, dopo un esperimento condotto con un gruppo di lavoratici della Western Electric di Chicago. Da allora in poi decine di ricerche simili hanno confermato che qualsiasi gruppo di lavoro, se sa di essere coinvolto in un esperimento organizzativo, per ciò stesso aumenta la sua produttività.

In base ai risultati dell’esperimento, imprenditori e sindacati islandesi hanno concordato la riduzione dell’orario di lavoro da 40 a 35 ore settimanali per l’86% di tutti i lavoratori di quel Paese. Ma non c’è nulla di nuovo. Come ho già ricordato più volte, secondo i dati Ocse, un francese lavora in media 1.514 ore l’anno (cioè 35 ore settimanali) e un tedesco lavora 1.356 ore l’anno (cioè 32 ore settimanali). Invece un italiano lavora 1.723 ore (cioè 40 ore settimanali). Anche per questo l’occupazione in Francia è al 70% e in Germania è al 79% mentre da noi è al 58%.

Praticamente, l’italiano lavora ogni anno ben 354 ore più del tedesco, ma produce il 20% in meno. In complesso, lavoriamo 40 miliardi di ore l’anno. Se ognuno di noi lavorasse le stesse 1.371 ore di un tedesco, potremmo disporre di 5,9 milioni di posti di lavoro in più e gli occupati potrebbero essere 28,9 milioni invece degli attuali 23 milioni. In altri termini, la disoccupazione sarebbe azzerata.

Tutto questo era chiaro già mezzo secolo fa, soprattutto a sociologi francesi come André Gorz e Guy Aznar. Nel 1977, sempre in Francia, il gruppo di studio Adret, in un rapporto significativamente intitolato Travailler deux heures par jour, aveva scritto: “La vera difficoltà per la nostra società non è quella di ridurre il tempo dedicato al lavoro ma di non ridurlo: per raggiungere questo risultato occorre pagare (il meno possibile) un esercito di disoccupati; mantenere nelle aziende una rilevante manodopera eccedente; creare posti di lavoro quale che sia la loro reale utilità; compiere importanti ricerche per rendere più fragili i beni di consumo che invece non chiedono di meglio che durare a lungo; lanciare costose campagne pubblicitarie per convincere la gente ad acquistare cose di cui non ha alcun bisogno; fare in modo di tenere il più possibile fuori della vita professionale i giovani, le donne, i vecchi e così via”.

La questione dell’orario di lavoro è nata con la società industriale e con il lavoro operaio. È nella fabbrica che in tot minuti si fabbricano tot bulloni; è con la catena di montaggio che il lavoro può iniziare simultaneamente solo quando tutti i lavoratori sono al loro posto, e deve finire simultaneamente quando il nastro trasportatore si blocca per tutti.

Nella metà dell’Ottocento, a Manchester, la città più industrializzata del mondo, il 94% di tutti i lavoratori erano garzoni e operai che lavoravano fino a 15 ore al giorno per sei giorni la settimana. Poi, con i ritmi scanditi dal cronometro di Taylor, il tempo e la velocità diventati condizioni dell’efficienza, l’efficienza è funzionale al profitto e perciò gli imprenditori resistono a qualsiasi riduzione di orario. Ciononostante, nel corso degli anni, l’orario di lavoro è diminuito incessantemente per effetto congiunto del progresso tecnologico, dello sviluppo organizzativo, della globalizzazione e delle lotte sindacali. Nell’anno 1891 gli italiani erano circa 30 milioni e lavorarono per 40 miliardi di ore. Cento anni dopo erano diventati quasi il doppio, 57 milioni, ma lavorarono solo 40 miliardi di ore. Eppure, lavorando 30 miliardi di ore in meno, produssero 13 volte di più. Gli economisti chiamano jobless growth questo fenomeno: sviluppo senza lavoro.

Ma il progresso non si è fermato: informatica, stampanti 3D, nuovi materiali, intelligenza artificiale, ecc. hanno modificato profondamente l’organizzazione del lavoro: ormai gli operai non superano il 30% di tutta la popolazione attiva, impiegati e creativi rappresentano il 70% e si riesce a produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano. Se non si riduce l’orario, i disoccupati aumentano a dismisura.

L’attività cognitiva non risponde a nessuna delle regole con cui Taylor e Ford imbrigliarono la fatica fisica nella fabbrica industriale. Oggi, ai fini della produzione, non è tanto l’orario che conta, né il luogo in cui si lavora, ma è la motivazione. Se lo hanno capito gli imprenditori islandesi si può sperare che, prima o poi, lo capisca anche la Confindustria.

 

Bush, Blair, Berlusconi, Rutelli e D’Alema: tutte le bugie sul Medio Oriente

Ancora su Rumsfeld e i casini che, come capo del Pentagono, combinò con la guerra in Iraq basata su bugie. L’ultima scusa fu: “Non possiamo andarcene, sarebbe il caos in Medio Oriente”. Oh, per carità! Che non arrivi il caos in Medio Oriente! “Non possiamo andarcene”: una posizione che accomunava Bush, Blair, Berlusconi, Rutelli e D’Alema. “Andarsene ora sarebbe da irresponsabili”, disse Rutelli. Poi la cassiera annuì e gli diede il suo Big Mac. La verità è che Bush voleva sapere come mai l’Iraq avesse sotto la sabbia tutto quel petrolio americano. Ehhh, bei tempi, quando i presidenti americani mentivano solo sui pompini! E così, nonostante le rassicurazioni di Simona Ventura durante il Festival di Sanremo 2004 (“I nostri soldati sono in missione di pace”) e malgrado la propaganda bellica di Gene Gnocchi a Quelli che il calcio (in uno sketch, la prova che un albergo milanese era controllato da al Qaeda consisteva nella foto di Saddam Hussein trovata in una stanza: ma Saddam era CONTRO al Qaeda), tutto l’Iraq ci considerò complici di una occupazione coloniale basata sulla menzogna. A parte i curdi, che a quanto pare se la sono bevuta: ecco cosa puoi aspettarti, da popoli che ridono alle scenette di Gene Gnocchi. (Io ho smesso di fare battute sul sesso dopo le lamentele dei mullah sciiti iraniani). Dopo l’attentato a Nassyria, un fatto talmente drammatico che Berlusconi un altro po’ interrompeva i suoi bunga bunga, Berlusconi mandò un messaggio ai soldati: “Sono con voi! Ovviamente in senso metaforico. Mica voglio morire, cribbio”. “Non possiamo andarcene dall’Iraq perché sarebbe una ritirata vergognosa”, disse compatto Gustavo Selva. (Convenzione di Ginevra, art. 4: è lecito ammazzare civili per lo scopo nobile di evitare figuracce). Selva poi confessò: “Abbiamo dovuto mascherare Antica Babilonia (la guerra in Iraq) come operazione umanitaria perché altrimenti dal Colle non sarebbe mai arrivato il via libera” (Libero, 21 gennaio 2005). E mentre l’opinione pubblica americana discuteva di elezioni e Iraq, zitto zitto il malefico spin doctor di Bush, Karl Rove, inviava a tutte le comunità evangeliche (4 milioni di voti potenziali) un Dvd intitolato Faith in the White House, dove a un certo punto si vedevano, in split-screen, Bush e Gesù! Come in quel film di Elvis Presley in cui Elvis sta cantando in chiesa, Mary Tyler Moore deve decidere se farsi suora o seguire l’amore terreno, il regista mostra nella stessa inquadratura Gesù in croce e Elvis, e Mary è indecisa. Bush vinse le elezioni con 3 milioni e 800 mila voti di scarto. Anni dopo, Bush insignì della Medaglia della Libertà l’ex direttore della Cia George Tenet, noto per il suo fallimento nel prevenire l’attacco dell’11 settembre, e per la sua dichiarazione secondo cui trovare armi di distruzione di massa in Iraq sarebbe stato “un gioco da ragazzi”. Sotto la sua direzione, la Cia fu colta di sorpresa anche in occasione di due attacchi di al Qaeda ad ambasciate americane, e dai test nucleari in India e in Pakistan. Tenet si disse sorpreso dalla notizia dell’onorificenza accordatagli. Naturalmente, di solito Tenet era sorpreso anche dall’arrivo del postino. Ma torniamo a bomba su Rumsfeld, un bullo che ha sempre rifiutato di assumersi la responsabilità delle sue decisioni irresponsabili (Cockburn, 2007). Era membro del Pnac (“Progetto per un nuovo secolo americano”), il famigerato think tank reazionario e guerrafondaio che voleva imporre la pax americana al resto del mondo (Scott, 2008).

(4. Continua)

 

Ministro Cartabia vs giudice Cartabia

“È compito del legislatore garantire che il regime nazionale di prescrizione in materia penale non conduca all’impunità in un numero considerevole di casi di frode grave in materia di Iva”. Nel 2017 erano queste le parole che si ritrovano in una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte costituzionale di cui faceva parte, come vicepresidente, Marta Cartabia. Insomma, una presa di posizione netta per scongiurare la prescrizione sinonimo di “impunità”.

Oggi, quattro anni dopo, la riforma della giustizia di Marta Cartabia dice tutt’altro: dopo la sentenza di primo grado i processi devono concludersi in 3 anni (2 in Appello e uno in Cassazione). Altrimenti scatta l’improcedibilità”. Ergo: la prescrizione. Come sostengono molti autorevoli giudici italiani – da Davigo a Gratteri passando per i presidenti delle Corti di Appello – è un’amnistia firmata da Marta Cartabia. Che non è un’omonima della giudice della Consulta. È proprio lei.

Una lezione per i nostri cari politici

Non per spirito di bandiera (quella del Fatto) ma trovo che il nostro titolo “La Brexit azzurra” colga bene il senso, europeo, della vittoria azzurra che batte, e non soltanto ai rigori, il senso di superiorità e di presuntuosa autosufficienza dei tre leoni in campo bianco.

L’esultanza della stampa spagnola, tedesca, scandinava, e una volta tanto perfino dei nostri criticoni francesi (“Invincibles”: paginone dell’Équipe), sommato al tripudio storicamente motivato di scozzesi, gallesi e irlandesi, dimostra che l’Italia è da domenica sera molto più simpatica al resto del continente perché è l’Inghilterra che sta sulle scatole a tutti.

Una volta esaurita la sacrosanta sbornia per il dolce risultato inatteso, faremo bene a non caricare di significati eccessivi un successo sportivo che non è né “il paradigma di un Rinascimento”, e neppure “la celebrazione patriottica di un ritrovato spirito nazionale” (abbiamo letto anche questo). Poiché da che mondo è mondo, il tifo più esaltante, genuino e diabolico consiste nel tifare contro qualcuno mentre sostenere i nostri è come voler bene alla mamma.

In questo senso la Nazionale di Southgate (uno dei pochi, oltremanica, a comportarsi con misura e stile) è riuscita a concentrare su di sé livelli straordinari di antipatia grazie all’esercizio del più deleterio sciovinismo, mescolato alla boria declamatoria del suo invadente primo ministro, e soprattutto ai festeggiamenti troppo anticipati (micidiale cocktail iettatorio che chi è pratico di sconfitte conosce bene). È molto probabile infatti che sui rigori falliti dagli inglesi (che non sono affatto una lotteria bensì l’esaltazione più sadica del gioco del calcio) abbia pesato come una pietrosa montagna di aspettative il famoso urlo di Wembley che ha finito per frastornare i più giovani.

Insomma, quel niente affatto disonorevole secondo posto, che Boris Johnson ha trasformato in una fiasco planetario, e che la Ursula di Bruxelles gli ha soavemente sbattuto sul muso, rappresenta una dura lezione per la propaganda Brexit. E se anche dalle vittorie si può imparare qualcosa, c’è una lezioncina per l’Italia della politica. Visto che tutti ci ripetono che siamo diventati campioni grazie allo spirito di squadra e senza bisogno dell’uomo solo al comando.

Macché fair play, lo sport è guerra meno gli spari

“Lo sport serio non ha nulla a che fare col fair play. È legato all’invidia, alla vanagloria e alla gelosia… In altre parole è la guerra meno lo sparo”. Scriveva così George Orwell nel 1945 e stupisce lo stupore col quale abbiamo commentato il rifiuto dei calciatori inglesi di accettare la medaglia degli sconfitti. Loro l’hanno fatto e anche noi lo facemmo qualche anno fa, quando noi fummo gli sconfitti. Stupisce lo stupore col quale abbiamo commentato i cori razzisti dagli spalti inglesi verso i loro beniamini di colore incolpati per il rigore sbagliato e trasformati in corpi da atterrire con insulti crudeli, definitivi, di puro odio.

Stupisce lo stupore col quale abbiamo assistito agli atti vandalici a Londra nelle ore precedenti la partita a opera di bande di tifosi inglesi, le legnate contro indifesi tifosi italiani dentro lo stadio, e le contumelie, i fischi al nostro inno, tutto quel magma verboso costruito su aggettivi incivili verso gli avversari e incoraggiato, persino agevolato, da un vocabolario ricco di una violenza inappellabile in uso per questa tipologia di tifosi. Lo sport non è solo fratellanza e solidarietà, se ce lo diciamo rendiamo onore alla verità. La felicità di chi vince piega chi perde verso il grumo di sentimenti odiosi di cui si è occupato il grande Orwell nel memorabile articolo (The Sporting Spirit) pubblicato dal Tribune nel dicembre del 1945.

I fischi, gli insulti razzisti e anche le violenze di gruppo o meno, sembrano (sono?) corollari quasi inestinguibili delle gesta sportive. I fischi di Wembley all’inno italiano sono tali e quali a quelli dell’Olimpico contro l’inno argentino in odio a Maradona. Il fair play si regge sulla lama sottile ed equivoca di una simulazione di massa. Lo stadio è pieno di gente perbene, ma è anche il luogo in cui gente permale governa, condiziona, a volte estorce e infine – se i beniamini non vincono – bastona.

Su lavoro, salari e diritti solite ricette fallimentari

Il blocco dei licenziamenti è stato una delle misure più rilevanti introdotte dal precedente governo. Ha scongiurato una distruzione di occupazione che sarebbe andata ben oltre i posti persi nel corso del 2020. Il blocco (combinato all’impiego massiccio degli ammortizzatori sociali) ha svolto una cruciale funzione di stabilizzazione: riducendo l’incertezza si è evitato che domanda aggregata e Pil crollassero più di quanto non abbiano fatto. Ha inoltre consentito di preservare il patrimonio di competenze dei i lavoratori. Tale patrimonio, poco visibile e scarsamente riconosciuto in termini di salari e condizioni di lavoro, è la chiave della competitività delle imprese e dell’economia. Scongiurare una massiccia distruzione di occupazione ha significato preservare quel patrimonio di competitività, nell’immediato e per il futuro.

Nel dibattito il blocco è divenuta una misura “da Corea del Nord”, da abolire il prima possibile così da restituire libertà al mercato. Quale libertà? Quella di licenziare, ovviamente. Con la pretesa che sia licenziando (o minacciando di licenziamento) che si ottiene competitività e crescita. Il 1° luglio questa libertà è stata restituita all’industria e alle costruzioni. Il massimo che i sindacati hanno ottenuto è stata una raccomandazione sottoscritta assieme alle organizzazioni datoriali che invita “all’utilizzo degli ammortizzatori che la legislazione vigente e il decreto legge in approvazione prevedono in alternativa alla risoluzione dei rapporti”. Sono bastate poche ore per avere conferma della sua irrilevanza. Trascorse nemmeno 24 ore, la brianzola Giannetti Wheel ha comunicato (via mail) ai dipendenti la chiusura del sito e il licenziamento di 152 lavoratori. La Gkn di Campi Bisenzio ha annunciato 422 licenziamenti via WhatsApp. Non è peregrino pensare si tratti delle prime di una lunga serie di “ristrutturazioni”.

Dove nasce l’urgenza di rimuovere il blocco? In che modo dovrebbe favorire competitività e crescita? Le idee, sbagliate, sono sempre le stesse. Quelle che negli ultimi 25 anni hanno giustificato la continua flessibilizzazione del lavoro: per avere più occupazione bisogna rimuovere i vincoli (diritti e tutele). Libertà di licenziare, contratti flessibili e parsimonia con gli ammortizzatori così da stimolare mobilità e produttività. L’esito di questa ricetta è ben noto. Lo sfruttamento del lavoro e i bassi salari sono preferiti all’innovazione e alla formazione con nefaste conseguenze sulla produttività. La precarietà cresce con effetti negativi sulla crescita. Le diseguaglianze aumentano e con esse la povertà. In questo quadro, i fautori (a cominciare da Confindustria) dello sblocco identificano le incipienti ristrutturazioni come la via maestra per selezionare le imprese, gli occupati e le attività migliori e per accelerare la ripresa. È quello che accadrà? Se si guarda all’esperienza degli ultimi anni ci sono ottime ragioni per dubitarne. In presenza di elevata disoccupazione, ampia disponibilità di strumenti tesi a usare il lavoro in modo flessibile pagandolo poco e di perdurante incertezza è molto probabile che le ristrutturazioni si tradurranno in crescita della disoccupazione e del lavoro precario e sottopagato. Perché non sfruttarle per ridurre la forza lavoro, renderla meno costosa e, se possibile, non sindacalizzata? Strategie competitive basate solo sul contenimento dei costi sono l’opzione strategica scelta da una buona parte delle imprese.

Che fare dunque? Una discontinuità positiva è rappresentata dal Pnrr e dalla (timida) riscoperta dell’intervento pubblico e della politica industriale. Sul fronte del lavoro, per ora, di discontinuità se ne vede molta meno. Anzi. Con un recente emendamento al dl Sostegni, si è aperta la strada allo smantellamento del decreto Dignità. Anziché contrastare la precarietà che ci ha reso fragili durante la pandemia e ci penalizza in termini di crescita, si liberalizzano i contratti a tempo determinato consentendo ai quelli collettivi di qualunque livello (nazionali, aziendali e territoriali) di introdurre nuove causali. Il contrario di quello che servirebbe per rafforzare l’economia e contrastare le diseguaglianze. Con la Commissione nominata dall’ex ministro Catalfo abbiamo proposto uno schema di riforma degli ammortizzatori di tipo universalistico che va nella direzione opposta: offrire a tutti (occupati, disoccupati e autonomi, a prescindere dal settore e dalle dimensioni dell’impresa di appartenenza) tutele adeguate per durata e prestazioni. Sarebbe un modo efficace per proteggere coloro che saranno coinvolti dai processi di ristrutturazione. E per attenuare la compressione dei salari e lo sfruttamento del lavoro che gli ultimi 25 anni di ‘riforme strutturali’ hanno pervicacemente incoraggiato. Forse sono proprio queste caratteristiche che hanno spinto la proposta fuori dai radar governativi.

 

Il sussidistan ha evitato una vera catastrofe. Licenziamenti, aiuti Covid e Reddito

L’artiglieria pesante messa sul tavolo dal governo giallorosa nel 2020 – attraverso l’Inps – per contenere la crisi economica dovuta al Covid ha avuto la capacità di dimezzare l’impatto della pandemia sulle disuguaglianze e sulla perdita di reddito. Un totale di quasi 45 miliardi per una platea di 20 milioni di persone. Tra cassa integrazione, bonus, Reddito di cittadinanza e di emergenza, congedi e voucher baby-sitter, la mole di interventi – che la vulgata cara agli ambienti confindustriali ha bollato come “Sussidistan” – ha evitato una catastrofe.

Lo si legge nei numeri diffusi ieri dall’Istituto di previdenza, che ha pubblicato il rapporto annuale del 2020, il più complicato della sua storia. Lo scorso anno l’occupazione è calata del 2,8% – “una parte relativamente ridotta”, ha spiegato il presidente Pasquale Tridico –, ma le ore lavorate sono diminuite del 7,7%. Tra marzo 2020 e febbraio 2021, il blocco dei licenziamenti ne ha evitati 330 mila, due terzi dei quali sarebbero arrivati nelle piccole imprese. I posti, salvo quelli dei precari non rinnovati, in qualche modo sono stati protetti, ma i lavoratori hanno subito pesanti perdite di guadagni. Il valore medio delle settimane di effettivo lavoro è passato da 42,9 nel 2019 a 40,1 nel 2020. I redditi complessivi (sotto forma di imponibile previdenziale) sono crollati di 33 miliardi; la retribuzione media è passata da 24.140 euro a 23.091 euro. La contrazione di domanda ha riguardato soprattutto la ristorazione (meno 290 mila giornate), il commercio (meno 112 mila) e l’alloggio (meno 98 mila).

I pagamenti della cassa integrazione sono aumentati di 13 volte rispetto al 2019: 18,7 miliardi spesi nel 2020 contro 1,4 nel 2019. I beneficiari sono passati da 620 mila a 6,7 milioni di lavoratori. Il 43% delle aziende non ha mai usato la cassa, un altro 18% ne ha usufruito solo nella fase più acuta del primo lockdown. Il 22% – che l’Inps stima in 288 mila imprese, pari al 26,5% dell’occupazione – non è invece ancora riuscita a risollevarsi dalla crisi pandemica.

Soprattutto alcuni dati danno un’idea chiara del disastro scampato. Ad aprile 2020, l’imponibile contributivo mediano si sarebbe ridotto del 60% rispetto a due mesi prima; la perdita, invece, è stata del 33%. L’indice di Gini sulle retribuzioni da lavoro dipendente – che misura le disuguaglianze – era pari a 0,29 a gennaio e febbraio, sarebbe arrivato a 0,42 a marzo e 0,56 ad aprile; si è invece fermato a 0,45. La disuguaglianza, insomma, è aumentata del 55% anziché del 93%. In particolare, sembrano aver funzionato le indennità concesse ai lavoratori stagionali, intermittenti e gli operatori dello spettacolo: queste categorie hanno ricevuto fino a 8.800 euro e questo ha mantenuto i loro guadagni grossomodo equivalenti a quelli del 2019 (anche se – va ricordato – si tratta di fasce a basso reddito a prescindere dalle crisi). I bonus incondizionati, però, sono inevitabilmente finiti anche nelle tasche di chi non aveva subito perdite. Infatti, per quanto riguarda i lavoratori autonomi, quando sono stati introdotti criteri di calo di fatturato, la platea dei beneficiari si è ridotta al 35%.

Il Reddito di cittadinanza (affiancato a quello “di emergenza”) è stato fondamentale. I numeri che emergono dal Rapporto Inps sono utili a zittire molti degli argomenti solitamente agitati dai critici. Nel 2020 ne hanno beneficiato 3,7 milioni di persone. Due terzi – un quarto dei quali minori – non erano presenti negli archivi Inps e sono quindi molto distanti dal mercato del lavoro. Nemmeno un navigator capace di miracoli potrebbe quindi collocarli; questo spiega quanto strumentale sia il dibattito che si è creato sull’argomento. Di quelli che invece sono presenti nei sistemi Inps, solo il 20% ha lavorato per più di tre mesi all’anno prima di prendere il sussidio. Il settore che più di tutti ha impiegato i beneficiari del sussidio è quello degli alberghi e dei ristoranti; per il 67% a tempo determinato. Sembra quindi che molti percettori del Reddito svolgessero lavoretti sotto-pagati e per questo si sono ritrovati in stato di povertà e nelle condizioni di dover chiedere il sostegno. Proprio gli imprenditori di quel comparto lamentano ora difficoltà nel trovare addetti, probabilmente perché l’aiuto statale li ha resi meno ricattabili di prima.

“Spesso si fa riferimento – ha detto Tridico – allo scarso ruolo che ha avuto il RdC nella ricerca del lavoro. E ciò è vero. Tuttavia, fermo restando che Inps su questo non ha alcun ruolo, occorre ricordare che il RdC entra in vigore pochi mesi prima della pandemia, durante la quale il problema principale è stato mantenere i posti di lavoro esistenti”. Ma la netta difesa del Reddito – con chiaro ma implicito riferimento all’idea di abolirlo via referendum lanciata da Matteo Renzi – è arrivata anche dal ministro del Lavoro, Andrea Orlando: “Invito a leggere il rapporto prima di parlare del Reddito di cittadinanza – ha detto – Credo che la discussione che si sta sviluppando prescinde completamente dai dati. O si contesta questo rapporto oppure si parte da lì. La discussione appare a un tasso di strumentalità che fa sospettare che si sia in procinto di attivare una pericolosa, sbagliata campagna contro i poveri e di criminalizzazione della povertà”. “Lo scorso anno – ha anche ricordato Tridico – sono state revocate circa 80 mila prestazioni. Simili numeri vengono talvolta citati come prova della diffusione degli abusi, tuttavia andrebbero letti come misura dell’efficacia del sistema dei controlli”.

Trattandosi dell’Inps, il capitolo tra i più spinosi non poteva che essere quello delle pensioni. Tridico ha innanzitutto ricordato i numeri di Quota 100: 180 mila uomini e 73 mila donne ne hanno beneficiato, opportunità utilizzata soprattutto da persone con redditi medio-alti, specie nel pubblico impiego. Il presidente ha fatto i calcoli sui possibili costi di eventuali nuove riforme – alcune fortemente caldeggiate dai sindacati – che introducano flessibilità in uscita. Per esempio, consentendo a tutti la pensione dopo 41 anni, la spesa partirebbe da 4,2 miliardi e a fine decennio arriverebbe a 9,2 miliardi. Permettendo invece di andare a riposo con 64 anni di età e 36 di anzianità – con ricalcolo contributivo dell’assegno – si inizierebbe con 1,2 miliardi e si arriverebbe a 4,7 miliardi nel 2027. Infine, concedendo la sola quota contributiva a 63 anni (restando fermo il retributivo a 67) l’onere sarebbe più contenuto: 500 milioni in fase di avvio e 2,4 miliardi nel 2029.

Al netto del contenimento operato dagli ammortizzatori sociali durante l’emergenza, la disuguaglianza dei redditi continua a crescere (quella salariale risulta raddoppiata dal 1985 al 2018). Ecco perché Tridico ha parlato dell’opportunità di introdurre il salario minimo legale: “Se una misura di questo tipo negli scorsi decenni poteva essere considerata irrilevante nel contesto italiano, data la forte e centralizzata contrattazione collettiva, nell’ultimo ventennio la capacità regolativa del Ccnl è stata fortemente depotenziata”. “Il salario minimo in misura compresa tra 8 e 9 euro orari (a seconda di quali componenti vi vengano ricompresi) – ha aggiunto – può essere immaginato non solo come misura di contrasto alla povertà ma anche e soprattutto come fattore di crescita per altri indicatori di mercato. I lavoratori sotto questa soglia sarebbero compresi tra il 14% e il 26% del totale, ovvero tra i 2 e i 4 milioni circa”.

Ddl Zan, il blitz leghista per affossarlo

L’unica cosa certa è che oggi non inizieranno i voti segreti sul ddl Zan. Eppure la giornata al Senato si attende comunque pericolosa per la maggioranza perché, prima che inizi la discussione generale in aula (ore 16.30) della riforma anti omofobia, la Lega proverà un blitz finale cercando di riportare la legge in commissione Giustizia per ricominciare l’ostruzionismo e ritardare la discussione alle calende greche. Un tentativo disperato che potrebbe stuzzicare i senatori renziani.

Tanto vale provarci, è il ragionamento che si fa nel Carroccio: alle 15 il relatore della legge, il leghista Andrea Ostellari, ha convocato la Commissione Giustizia e chiederà se ci sono gli estremi per un’ultima mediazione. Ipotesi ormai quasi impossibile visto che nel Pd la linea è sempre la stessa: nessuna trattativa. “Non si può trattare con chi appoggia paesi che discriminano gli omosessuali” è la posizione che filtra dal Nazareno. Anche i 5 Stelle non cedono: “I voti con i renziani ci sono, niente modifiche”.

E dunque, come è stato deciso una settimana fa, alle 16.30 inizierà l’iter della legge in aula senza relatore. Oltre alla discussione generale in cui si capiranno le posizioni delle forze politiche, si dovrebbe arrivare anche al voto sulle pregiudiziali di costituzionalità quando prenderà la parola Matteo Renzi. Il segretario di Italia Viva spiegherà che dal suo partito “ci sarà il sostegno al ddl Zan” ma che, se la norma venisse affossata, la responsabilità sarebbe tutta del segretario del Pd Enrico Letta che “non ha voluto mediare con nessuno”. Ieri Renzi ha già anticipato il suo discorso a Napoli: “Se si vuole andare alla conta per tenere in mano la bandierina identitaria come fu per le unioni civili e poi si va sotto sappiamo la colpa di chi è”. Il voto sulle pregiudiziali sarà a scrutinio palese quindi non ci dovrebbero essere problemi visto che IV dovrebbe votare sì. La partita vera si giocherà nelle prossime settimane quando si inizierà a votare emendamenti a scrutinio segreto. Il centrodestra e anche i renziani hanno già annunciato che presenteranno emendamenti per modificare gli articoli su identità di genere (1), libertà di espressione (4) e giornata contro l’omotransfobia (7) e a quel punto la legge rischia di essere affossata: secondo il pallottoliere, ai giallorosa mancano 6-7 voti. I franchi tiratori tra Pd, M5S e Autonomie potrebbero arrivare a 15, parzialmente neutralizzati dai 5-6 dissidenti in Forza Italia che diranno “sì”. I voti però non inizieranno oggi: la conferenza dei capigruppo darà almeno 10 giorni per la presentazione degli emendamenti. Si arriva a fine luglio e c’è il rischio che i voti inizino addirittura a settembre visto che ad agosto il Senato è impantanato tra il decreto Sostegni bis, Semplificazioni e Cybersicurezza.

Stasera infine potrebbe arrivare anche la decisione del “tribunale di Appello” del Senato sui 700 ex senatori che hanno fatto ricorso per riottenere i vitalizi. In primo grado la commissione contenziosa aveva stabilito l’illegittimità del taglio. Ieri il presidente dell’organismo Luigi Vitali ha già messo le mani avanti spiegando che la decisione potrebbe slittare per la concomitanza con il ddl Zan e perché all’ordine del giorno c’è anche il ricorso sugli ex M5S espulsi. La decisione potrebbe arrivare in serata aprendo un nuovo fronte nella maggioranza visto che i 5S più vicini a Conte sono pronti a dare battaglia.

Mogli, cognati e “generali” Rai, ultimo giro di promossi

Una lenzuolata di promozioni. Fatte in zona Cesarini o quasi. Nelle ultime settimane e mesi, con il vertice in scadenza e in attesa del prossimo, nelle testate e nei telegiornali della Rai si è proceduto a un bel pacchetto di nomine e promozioni. Molte di queste giustificate dalle necessità operative: un posto di caposervizio mancante da tempo di qua, un ruolo di caporedattore vacante di là. Assolutamente necessarie al buon funzionamento di notiziari e tg. Altre, come spesso accade in Rai, che invece rispondono ad altre logiche, come accontentare la forza politica di turno, magari con veri e propri premi in carriera, ovvero promozioni date a chi ne faceva richiesta da tempo (con conseguente scatto di grado e di stipendio), continuando però a svolgere l’identico lavoro di prima. Ma, si sa, nei tg Rai ci sono più graduati che redattori.

Un vero campione di promozioni è il direttore di Rai Parlamento Antonio Preziosi, che ha nominato tre vicecaporedattori e tre caposervizio. Parecchio per una testata che produce due tg flash da tre minuti e uno da sei minuti al giorno. Tra i promossi a vicecaporedattore c’è Federica Corsini, moglie del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. Ma da queste parti potrebbe arrivare presto, dalla Sardegna, Incoronata Boccia, attuale vicecaporedattrice a Cagliari, moglie di Ignazio Artizzu, un ex Rai che ora è capo ufficio stampa del governatore Christian Solinas. Con la benedizione del consigliere meloniano Giampaolo Rossi. A Rai Parlamento su 40 giornalisti solo 5 sono redattori ordinari. Molti generali, ma pochissime truppe. Pure altrove, però, non si scherza. Come al Tg1 diretto da Giuseppe Carboni (quota M5S). Tra gli ultimi avanzamenti ci sono quelli di Paolo Sommaruga agli spettacoli, Andrea Bovio e Susanna Lemma, moglie di Antonio Preziosi, diventata caposervizio. Anche Mario Orfeo (area Pd), nel suo Tg3 s’è dato parecchio da fare. Di recente qui c’è stata un’infornata di vicecaporedattori, tutti nominati col manuale Cencelli per non scontentare nessuno. Promossi sono stati Alessia Schiaffini, Valeria Collevecchio, Luca Patrignani e Flavia Paone. Numerose pure le promozioni a Rainews, dove direttore è Andrea Vianello (anch’egli Pd). Da gennaio in poi sono stati fatti tre nuovi caporedattori: Alessandra Baldoni, Paolo Poggio e Valerio Cataldi (quest’ultimo è il cognato di Roberto Gualtieri). Poi tre vicecaporedattori: Cristina Prezioso, Mario Forenza e Monica Moretti. E una sfilza di capiservizio: Andrea Gerli, Fabrizio Angeli, Anna Trebbi, Sabrina Bellomo e Francesca Piatanesi. Infine, la Tgr diretta da Alessandro Casarin (quota Lega), dove in Umbria è arrivato (dal Veneto) e promosso caporedattore Luca Ginetto. E qui i sussurri dicono sia una scelta per dare man forte alla governatrice leghista Donatella Tesei. Così come quella di inviare Andrea Caglieris come caporedattore in Sardegna (dal Piemonte) in supporto di Solinas.

Ma ci sono nomine pure a sinistra. Nella sede Rai del Lazio è stata promossa caporedattore Roberta Serdoz (ex moglie di Piero Marrazzo), mentre in Toscana ha fatto un balzo in avanti Cristina Di Domenico. Ieri, intanto, l’assemblea dei soci che doveva indicare Carlo Fuortes (ad) e Marinella Soldi (presidente) è stata rinviata a giovedì, così da consentire prima il voto in Parlamento sugli altri 4 consiglieri, previsto domani sera alle 21. Dove si preannuncia battaglia. M5S non ha ancora un nome (nelle ultime ore si sono riuniti i capi delegazione di tutte le commissioni), mentre nel Pd la scelta dovrebbe ricadere su Francesca Bria, tallonata da Stefano Menichini. A destra, invece, i berluscones reclamano il posto del meloniano Rossi (con Simona Agnes), ma per blindare il suo uomo in Cda Giorgia Meloni ha alzato il telefono e chiamato Silvio Berlusconi. Basterà? Di sicuro chi resterà ora a bocca asciutta potrà poi vantare un bel credito sui tg. Col Tg1, come sempre, boccone più ambito.