La base non “media”: “Via quel testo o uscite”

La leadership di Giuseppe Conte alla guida del Movimento 5 Stelle piace ai militanti ed elettori. Che però adesso chiedono subito un primo atto all’ex premier: tornare indietro sulla riforma della giustizia firmata Marta Cartabia e approvata giovedì scorso all’unanimità in Consiglio dei Ministri anche con il voto dei 4 rappresentati a 5 Stelle. Una riforma che di fatto cancella la “Bonafede” sulla prescrizione e inserisce un altro elemento –­il Parlamento indicherà annualmente alle procure a quali reati dare la priorità – che ricorda i tempi d’oro del berlusconismo. E che quindi non può andare giù agli iscritti del M5S. Così domenica sera, quando è stato annunciato l’accordo, i militanti pentastellati hanno preso d’assalto la bacheca di Conte, la pagina ufficiale del M5S e quella di Luigi Di Maio per chiedere loro di tornare subito indietro sulla giustizia. “Bisogna ricostruire quanto stanno smantellando” dice Luisella S. mentre Fernando T. lo chiede più chiaramente: “Fateci vedere la vostra buona volontà –­scrive sotto il post del M5S in cui domenica è stato annunciato l’accordo tra Conte e Grillo – almeno bloccate la legge sulla giustizia. Siete al governo e state distruggendo tutto quello che avete fatto negli ultimi tre anni”.

Molti si rivolgono direttamente all’ex premier perché difenda la riforma sulla prescrizione dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede che risale al governo gialloverde: “Lei che conosce bene le linee guida del Pnrr – commenta Luca S. –­ faccia un’operazione di verità: dica pubblicamente che l’Europa non ci chieda l’amnistia mascherata che hanno votato in Cdm”. Aurelio B. prova a indicare la direzione al nuovo leader: “Bisogna difendere le leggi volute e e approvate come quella sulla giustizia: niente regali a Draghi”. “Non dia tregua al governo” conclude Aris F.

Tra gli iscritti che esultano per l’accordo, però, in molti se la prendono anche con Beppe Grillo che, oltre ad aver provocato la rottura con l’ex premier, ha anche spinto per il “sì” dei ministri in Cdm alla riforma Cartabia. “Di Beppe Grillo non mi fiderei per nulla – scrive Nicola C. – stia attento. Grillo è stato il regista della riforma Cartabia”. Infine qualcuno attacca il fondatore anche per le tempistiche con cui è stato portato a compimento l’accordo per la nuova leadership del Movimento: “Grillo ha tenuto Conte in stand by fino alla modifica della riforma della giustizia –­ è l’accusa di Carmela C. – Adesso può tirare un sospiro di sollievo e dormire sogni tranquilli”.

Poi c’è anche chi, in maniera più netta, chiede al nuovo leader di non accettare qualsiasi compromesso sulla riforma che arriverà in aula il prossimo 23 luglio e arrivare allo strappo finale: “Ora deve uscire la verità del perché i 4 ministri hanno accettato la schiforma Cartabia-Draghi e se rimanere in questo ignobile governo” ci va giù pesante Oro C. “La mia sarà una fiducia molto condizionata –­aggiunge Roberto Biafore – Il governo Draghi è una iattura.” “Spero che questa risoluzione serva soprattutto a riparare i danni causati dal M5S, come il ripristino della prescrizione” attacca Riccardo R. La richiesta secca invece arriva da Angelo Scipio: “Adesso uscite dal governo”.

I magistrati infuriati tra email e chat: “È incostituzionale”

Da Milano a Napoli, passando per Roma, la riforma della Giustizia targata Cartabia sta sollevando diverse critiche tra gli addetti ai lavori. Nelle chat e nelle mailing list, i magistrati di tutta Italia da giorni si scambiano pareri sul testo approvato in Consiglio dei ministri, sottolineando parecchi punti controversi. E se ne discute anche a livello di Anm, l’associazione nazionale dei magistrati, che sta lavorando a un parere articolato da far arrivare in via Arenula. Il Fatto ha raccolto le voci di chi ogni giorno è in aula a rappresentare l’accusa e conosce bene la macchina dei processi italiani. Ciò che viene fuori è un mix di critiche che attraversa mezza Italia. Certo, c’è anche chi dà un parere positivo, condividendo la linea di Armando Spataro, ex magistrato di Milano, secondo il quale la riforma riuscirebbe a trovare un “equilibrio tra rapidità dei processi e garanzie”. Per lo più però nelle chat tra toghe sono tante le critiche sollevate. Su diversi aspetti della riforma, a cominciare dall’improcedibilità dell’azione penale quando il processo d’appello non viene definito in due anni, oppure in un anno per quanto riguarda la Cassazione. Una linea che piace poco a chi conosce bene i tempi della giustizia.

Per dare qualche numero: secondo i dati del ministero della Giustizia del 2019, a Napoli i processi d’appello durano 1.495 giorni, a Roma 1.128, a Reggio Calabria 1.013. Più di 2 anni. “L’improcedibilità stabilita dalla riforma blocca il processo: che si chiami prescrizione o meno il risultato è lo stesso. – spiega Eugenio Albamonte, sostituto procuratore a Roma ed ex presidente dell’Anm –. Lo scorrere dei due anni inizierà nel momento in cui viene presentato l’atto di appello, che si depositata al giudice di primo grado. A Roma solo per far passare il fascicolo dal giudice alla corte d’Appello ci vuole un anno”. Anche a Milano è questo uno dei temi più dibattuti. L’improcedibilità, ricorda un sostituto del capoluogo lombardo, scatterebbe dopo due anni dalla presentazione dell’impugnazione d’appello: “Prima ancora che il fascicolo arrivi fisicamente presso la Corte d’appello e che sia fissata l’udienza. Inaccettabile, visto che almeno 10 Corti d’appello su 29 in Italia non sono in grado di rispettare questo termine: e non per pigrizia dei magistrati, ma per il carico di lavoro dei giudici, che la riforma non accenna minimamente a risolvere”. E proprio a Milano, i magistrati ricordano la lettera che l’Ocse mandò all’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano, chiedendo che l’Italia risolvesse l’anomalia della prescrizione che azzera centinaia di processi. “Siamo tornati indietro nel tempo – dice uno dei procuratori aggiunti –. La riforma Cartabia resuscita la prescrizione, che era stata congelata dalla legge Bonafede”. Critiche arrivano anche da Napoli, dove la riforma Cartabia sta producendo un mix di “agitazione e rassegnazione”, come sostiene un pm della Dda molto attento al dibattito associativo e nelle chat interne c’è chi ipotizza una iniziativa per produrre un documento di critica.

Altro tema di discussione è quello della rinnovazione degli atti del giudizio, che si presenta quando un giudice deve lasciare, per i più disparati motivi, il processo. Spiega Albamonte: “La riforma prevede che qualora vi sia il mutamento di uno o più giudici, il processo possa proseguire con la rinnovazione del dibattimento quando vi sono testimonianze video-registrate. Finora le testimonianze sono solo registrate, manca la parte video, di cui in futuro i tribunali dovranno dotarsi. È facile immaginare quanto ciò possa essere complicato”. Perplessità condivisa anche da altri magistrati, molti dei quali puntano il dito su un aspetto molto più preoccupante: quello dei criteri di priorità dell’azione penale che saranno indicati con legge del Parlamento. Se ne sta parecchio discutendo in ambito associativo. “È in forte contraddizione sia rispetto al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sia rispetto alla separazione dei poteri”, ha affermato Albamonte. E anche da Napoli la critica è la stessa: “C’è silenzio sul tema dell’atto di indirizzo del parlamento sulle priorità dell’azione giudiziaria – spiega un pm – Si va dritti verso la figura del pm non più autonomo e indipendente”.

Giustizia, Conte e l’incubo-fiducia. Con Draghi una trattativa in salita

Il rifondatore ha dovuto sbuffare in panchina per mesi, ma ora dovrà subito giocare una partita da dentro o fuori. Nel giorno in cui la Nazionale ha vinto gli Europei, Giuseppe Conte è riuscito a prendersi il Movimento, da capo. Ed è proprio da primo della fila che ora dovrà provare a trattare con il presidente del Consiglio Mario Draghi sulla controriforma della prescrizione: quella approvata all’unanimità in Consiglio dei ministri, anche con i voti dei quattro esponenti del M5S, sensibili più a lui (e a Beppe Grillo) che a Conte. Ma da qui a metà settimana il testo planerà in commissione Giustizia alla Camera, e la preoccupazione che fa rima con spavento per i 5Stelle è che Draghi faccia di tutto per blindare il provvedimento.

Sino a ricorrere nei prossimi giorni all’arma da fine del mondo, cioè al voto di fiducia, così da legare la tenuta di questa larghissima maggioranza alla riforma del processo penale. E sarebbe la porta sbarrata a qualsiasi modifica, ma soprattutto un modo per portare sul ciglio del burrone Conte. Perché i ministri del M5S dal governo non hanno alcuna voglia di uscire, questo ormai è chiaro a tutti. Ma come farebbe l’avvocato a dire sì senza cambiare una virgola del testo della ministra Cartabia, che stravolge una riforma del suo governo? “Conte deve evitare che si arrivi alla fiducia, ma non può lasciare gli emendamenti della Cartabia così come sono, è evidente” conferma una fonte che segue il dossier.

Tradotto: deve evitare che lo si costringa a una scelta, definitiva. Secondo i 5Stelle di governo, già evocata da Draghi a ridosso del Cdm di giovedì, quando avrebbe minacciato le dimissioni in caso di astensione dei quattro ministri (ma è una versione dei fatti molto discussa). Quindi, “in questi giorni bisogna lavorare per cambiare il testo, ma con intelligenza, serve una battaglia a bassa intensità” dicono sempre dal M5S. Insomma serve Conte, avvocato e mediatore, che la sua carriera l’ha costruita sugli arbitrati. Nei prossimi giorni incontrerà i parlamentari grillini della commissione Giustizia, per scambiare idee. Ma gli altri partiti sono già agitati. Tanto che in commissione parlano di pressioni delle altre forze di maggioranza per cambiare la relatrice del disegno di legge delega che ha in pancia la riforma del processo penale, la 5Stelle Giulia Sarti: contrarissima alle nuove norme della Cartabia, tanto da aver “strapazzato” i ministri domenica in assemblea (“Dovete chiedere scusa, la mediazione non è una vittoria”). E dall’aver ventilato l’uscita dal governo Draghi. Ma ora a gestire la palla dovrà essere innanzitutto Conte, che ha già pronte le sue proposte di mediazione. “Le aveva già inviate ai ministri del Movimento prima del Cdm di giovedì, ma non sono mai state prese in considerazione” sostiene una fonte vicina all’ex premier.

Ora l’avvocato potrebbe ripescarle per mostrarle, o quanto meno farle arrivare, al presidente del Consiglio. Ma la strada è stretta, anzi di più. “Se forziamo in Parlamento il rischio concreto è che il testo possa addirittura peggiorare” sospira un veterano vicino a Conte. E d’altronde, anche lo stesso ex premier sa di non poter sfidare Draghi sulla permanenza nel governo. “Giuseppe sa che ora l’uscita dalla maggioranza non la capirebbe nessuno” continua il 5Stelle di rito contiano. Soprattutto, non lo seguirebbero i big.

A partire da Luigi Di Maio, centrale nella mediazione con Grillo, che lo ripete ogni volta che può: “Questo governo deve arrivare al 2023”. La stessa opinione degli altri maggiorenti, come quel Roberto Fico che è stato l’altro perno della trattativa con il Garante. In questo scenario, Enrico Letta lo ha sentito per telefono e gli ha manifestato sostegno.

Invece in settimana, tra mercoledì e giovedì, l’ex premier incontrerà Grillo, per sancire anche di persona la pace. Non è ancora chiaro se sarà il garante a scendere a Roma, ma di certo i due si vedranno. Subito dopo, verrà convocata la votazione per il nuovo Statuto, che si dovrà tenere dopo 15 giorni. Ci vorrà quindi qualche altra settimana, prima di avere Conte come capo formale del M5S. Ma questa non è più una preoccupazione per l’avvocato: che ne ha ben altre.

“Le discoteche muoiono mentre bar e ristoranti ci ‘rubano’ la musica…”

“Lei si metta nei panni di chi ha una discoteca, è chiuso dal 23 febbraio 2020 e vede la gente in piazza che festeggia. O i bar trasformati in discoteche senza che nessuno dica niente. Immagini la frustrazione”.

Filippo Regis, presidente del Sils (Sindacato Italiano dei Lavoratori dello Spettacolo) è amareggiato per le ambiguità e i messaggi contraddittori in fatto di prevenzione del Covid a cui si sta assistendo in questi giorni. Ed è difficile dargli torto. Da una parte eventi sporadici quali le piazze stracolme per gli Europei, dall’altra il far west di ristoranti, bar e stabilimenti balneari trasformati in gigantesche sale da ballo all’aperto o al chiuso.

Lo scorso anno siete stati nell’occhio del ciclone per la mancanza di buonsenso di gestori di note discoteche, quest’anno il governo ha deciso che rimarrete chiusi. Ve la siete un po’ cercata.

L’anno scorso alcuni hanno commesso degli errori, ma posso dire che non rappresentavano tutto il mondo dei gestori. Rifiuto l’immagine cafonesca, zampettiana che il Flavio Briatore della situazione può trasmettere perché non rappresenta me, ma anche la maggior parte di chi fa questo mestiere.

Però non avete preso le distanze con forza da quel mondo. Da quelle scene al Praja di Gallipoli, per esempio…

Avreste avuto leggere le nostre chat interne, erano chat di fuoco. Detto ciò, quelli sono stati pessimi esempi, ma non siamo stati gli untori del Paese.

Fatto sta che ora si ha paura di farvi riaprire.

Guardi, io capisco tutto. Capisco che il ministro Speranza si trovi in una situazione complessa, capisco la situazione epidemiologica, non credo neanche a congiure giudaico-massoniche, ma immagini chi è chiuso dal 23 febbraio e ha visto quelle immagini di festeggiamenti per la Nazionale. Non sono assembramenti?

Direi di sì. Immagino che generi ancora più frustrazione assistere alla conversione di molti bar e ristoranti in discoteche, pur senza le licenze che sarebbero necessarie per far ballare i clienti.

Ho incontrato Federico Fornaro, il capogruppo di Leu alla Camera. Ci ha detto: ‘Noi abbiamo dato il permesso di aprire a chi aveva licenza per ristorazione e bar’. Gli ho risposto: ‘Guardi che non ci ha fatto un favore, state foraggiando tutti quelli che io combatto da 20 anni’.

Ovvero?

La terra di nessuno, quella di chi fa discoteca senza gli obblighi e le spese che sosteniamo noi che abbiamo le licenze apposite.

E perché loro non prendono le licenze apposite?

Perché è anti-economico. Un pub, per dire, mette un deejay e fa entrare chi vuole perché non ha una capienza prestabilita, non ha obbligo di certificato prevenzione incendi, orari, la Siae e così via.

Non hanno neppure lo spazio che hanno le discoteche, quindi creano assembramenti più pericolosi. E di fronte alle numerose testimonianze video di locali in cui si balla non protestate col governo?

Io mando sempre comunicati al ministro Speranza e a ogni singolo parlamentare.

Tra l’altro, le sanzioni sono ridicole, cinque giorni di chiusura, di solito.

Io revocherei direttamente la licenza, pensi. Con sanzioni così blande, chi ha uno spazio estivo dice “chi se ne frega, quando mi chiudono il locale sarà già inverno e sarei chiuso lo stesso”.

I controlli poi sono nel fine settimana, se chiudono 5 giorni di fatto consentono di riaprire il fine settimana successivo. Un escamotage?

Eccome.

Cosa vuole dire a questi gestori di locali?

Che sono la vergogna della categoria, non ho problema a dichiararlo.

Cosa chiedete al governo?

Teneteci chiusi, però dateci due cose: la prima è una data d’apertura. Un orizzonte temporale sarebbe la luce in fondo al tunnel. Secondo: abbiamo proposto un protocollo di sicurezza per i locali al chiuso che sono il 90 per cento, vorremmo poterne discutere, sentirci dire se va bene o no. Parliamo di sanificazione, sicurezza, chiediamo l’utilizzo della app Mitiga, la capienza del 50 per cento.

Nessuno vi risponde?

Sul protocollo non c’è dialogo al momento. Vorremmo anche proporre delle serate evento nelle piazze per promuovere la vaccinazione tra giovanissimi e farli vaccinare, saremmo pronti a mettere a disposizione i nostri testimonial più famosi fra i deejay.

Cosa vorrebbe dire a Draghi?

Che sa di economia e che non possono sfuggirgli le ragioni di 3500 piccole e grandi aziende con migliaia di dipendenti. Che siamo meno numerosi dei ristoranti ed è logico che la categoria dei ristoratori sia stata più ascoltata, ma il 40% dei locali senza spazi estivi probabilmente chiuderà. Stiamo morendo.

Addirittura il 40%?

Il titolare del Cocoricò ha investito 2 milioni e mezzo e non ha aperto un giorno. Lui viene da una famiglia solida, ma non è così per tutti. Ci sono famiglie intere che hanno discoteche dagli anni 70, con gli stessi baristi, con dipendenti che quelle famiglie hanno continuato a pagare perché dicono “quello che ho, l’ho costruito anche grazie anche a loro, non ho i piedi freddi e metto mano alla mia riserva”. Ma gli altri? Guardi che noi abbiamo un percepito pessimo, non siamo tutti Santanchè, Briatore…

Si dice che paghiate poche tasse.

Veniamo dagli anni 90 in cui c’era molta ignoranza e desiderio di soldi facili. Posso garantire che non è più così. Non siamo santi, ma oggi la Siae ci sta addosso come un avvoltoio e gli scontrini da 100.000 euro in bottiglie che fanno vedere al Billionaire, nelle discoteche normali – la maggioranza – non si vedono.

Cosa farete adesso?

Quando ci hanno chiusi la prima volta mandai una pec a Conte, dicendo che capivo. Ora mando pec ai nuovi e dico che continuo a capire, ma stiamo urlando con educazione, devono ascoltarci.

“Opere di carità del Papa” I bonifici-truffa in Vaticano

“Opere di carità del Santo Padre”. È con i bonifici con questa causale che, secondo gli inquirenti vaticani, il cardinale Angelo Becciu ha eluso i controlli del fisco italiano finanziando, attraverso la Segreteria di Stato vaticana, la cooperativa bianca del fratello Antonino, la falegnameria dell’altro fratello, Francesco, e – in minima parte – anche una nipote, dipendente di una casa farmaceutica (tutti e tre estranei all’inchiesta). C’è una nuova informativa della Gendarmeria di Papa Francesco, del 21 giugno 2021, che inguaia l’ex terza carica d’Oltretevere e che avrebbe spinto il Pontefice a dare il suo nulla osta definitivo al processo per abuso d’ufficio e peculato che inizierà il 27 luglio. Gli investigatori sono andati a verificare le dichiarazioni rese a verbale dal grande accusatore di Becciu, il suo ex braccio destro monsignor Alberto Perlasca, rese a verbale il 15 marzo 2021. Secondo Perlasca, “un giorno mons. Becciu mi disse che bisognava fare un bonifico di 100.000 euro a una cooperativa in Sardegna (…) mi disse quindi di pensare a come si sarebbe potuto fare (…) io non sapevo né di che cooperativa si trattasse (…), né che c’era di mezzo il fratello”. Quindi “la soluzione”: “trasmettere – si legge nel verbale – l’importo alla Caritas diocesana di Ozieri con casuale: opere di carità del Santo Padre”.

Dalle verifiche della Gendarmeria, è emerso che i finanziamenti alla coop di famiglia furono più elevati di quanto ammesso da Becciu stesso in occasione delle sue dimissioni pubbliche del 25 settembre 2020. A fronte dei 100mila euro dichiarati, gli inquirenti hanno trovato ben 225mila euro “donati” alla Caritas di Ozieri fra il 2013 e il 2018 e altri 600mila euro elargiti in due tranche dai conti della Cei. In sostanza, il Vaticano pagava la Diocesi, che a sua volta eseguiva “prestiti mai restituiti” alla coop, fra cui spicca un bonifico da 49.140 euro per l’acquisto di “pane e spianate per i poveri”. L’ultimo bonifico della segreteria vaticana risale dunque al 13 aprile 2018: 11 giorno dopo, hanno ricostruito gli investigatori, dal conto della coop Spes (di Antonino Becciu) avviene un prelievo con causale “Per messa a disposizione a favore di Becciu Antonino”.

Nelle ultime informative della Gendarmeria, agli atti dell’inchiesta, sono state depositate anche le chat del 23 novembre 2018, estratte dal telefono di Gianluigi Torzi, il broker molisano accusato di aver truffato e ricattato il Vaticano in seguito alla vicenda del Palazzo di Londra, da cui sono nate le indagini oltretevere. Torzi sta studiando il sistema con cui prendersi 1000 azioni con diritto di voto della Gutt Sa, lasciando al Vaticano le 30.000 “carta straccia”. Così scrive su whatsapp a Lorenzo Maria Gianello, consulente in Lussemburgo, estraneo all’inchiesta. “Ma essendo unico io con diritto di voto, li revoco quando voglio giusto?”, chiede Torzi in riferimento ai rappresentanti della Santa Sede. “Sì perché gli atti devono avere una firma director classe A (solo tu) e una firma directors classe B”, gli risponde Gianello. “Ok, andiamo in Vati”, gli dice Torzi. Pochi giorni dopo arriva l’ok, via sms, di Mons. Perlasca.

Giordano addio, ha presieduto il maxiprocesso a Cosa Nostra

È morto ieri a Palermo il giudice Alfonso Giordano, 93 anni. È stato il presidente della Corte d’assise che celebrò il maxiprocesso, primo atto d’accusa alla Cupola di Cosa nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A darne notizia è stato figlio Stefano, avvocato penalista. Giordano, che all’epoca del “maxi” era giudice civile, accettò di presiedere la corte dopo il rifiuto di diversi colleghi.

Un incarico complesso, non facile da accettare in anni in cui la battaglia alla mafia era aspra e sanguinosa. Fu presidente del maxiprocesso a Cosa Nostra tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987, accettando l’incarico di condurre il dibattimento con 475 imputati. La Corte presieduta da Giordano con giudice a latere Pietro Grasso, poi presidente del Senato, concluse il processo superando anche gli ostacoli procedurali sollevati dai difensori degli imputati. Nei confronti dello stesso presidente venne avanzata la ricusazione. Il verdetto, emesso dopo una camera di consiglio durata 35 giorni, sancì condanne a 19 ergastoli e 2.665 anni di reclusione. Nel 1993 Giordano accettò di presentarsi candidato come sindaco di Palermo per l’unione di centro, risultando terzo dopo Leoluca Orlando e Elda Pucci.

“Restano indimenticabili la fermezza e l’aplomb con cui affrontò le tensioni, le scene scomposte, le urla dalle gabbie dell’aula bunker dell’Ucciardone, l’arroganza dei boss e le minacciose parole del boss Michele Greco prima della sentenza”, ha commentato Maria Falcone, sorella di Giovanni. Iconica è diventata la lettura del dispositivo con cui dopo 349 udienze e 35 giorni di camera di consiglio la Corte inflisse 346 condanne – 19 ergastoli e 2265 anni di carcere – a capimafia, colonnelli, gregari e uomini d’onore.

Bollette a 28 giorni, il Tar del Lazio annulla la maxi-multa alle compagnie telefoniche

Altro che pietra tombale sul più grande inganno nel mercato della telefonia dei tempi recenti: la fatturazione a 28 giorni. Il Tar del Lazio ha annullato le maxi-sanzioni da 228 milioni di euro inflitte nel gennaio 2020 dall’Antitrust a Tim, Vodafone, WindTre e Fastweb perché colpevoli di aver stretto un’intesa anticoncorrenziale nel passaggio delle bollette da mensili a quadrisettimanali. Praticamente avevano imposto una tredicesima mensilità in più all’anno che ha causato un aggravio dei costi per i consumatori dell’8,6% e un guadagno di un miliardo per i gestori. Ma ieri il Tar ha accolto i ricorsi presentati dalle compagnie per contestare il provvedimento dell’Antitrust che è intervenuto sulla pratica per la prima volta nel 2018. Ma per il Tribunale amministrativo l’intesa tra i gestori di telecomunicazioni non è mai stata segreta ed era relativa ad un periodo diverso da quello in cui si sarebbe svolta questa intesa. Lunga e complessa la storia. Si parte nel 2015, quando Tim, Vodafone, WindTre e Fastweb modificano il periodo di rinnovo e di fatturazione portandolo da mensile a quadrisettimanale. L’Agcom interviene stabilendo che le bollette vanno fatturate ogni mese, ma i gestori non si adeguano alle prescrizioni e si rivolgono al Tar. Scatta, allora, l’avvio dei procedimenti sanzionatori da parte dell’Antitrust che intima le compagnie a tornare alla fatturazione mensile. I big Tlc a forza si adeguano ma la telenovela si arricchisce di un nuovo capitolo: i rimborsi per i clienti che hanno pagato un mese in più all’anno. L’Agcom dice che i rimborsi sono automatici, ma le compagnie si appellano al Consiglio di Stato che respinge i ricorsi ribadendo che gli indennizzi sono automatici con varie modalità (promozioni, storni o rimborsi). Ma i gestori si adeguano solo a metà 2019 “nascondendo” i moduli per le richieste nelle aree online riservate dei clienti. Ed ora la decisione del Tar secondo cui le compagnie al più avrebbero attivato una pratica scorretta ai sensi del Codice del Consumo e non una concordata per aumentare i prezzi, ammazzando la concorrenza. “Sulla vicenda delle bollette a 28 giorni non c’è pace. Mentre milioni di italiani attendono ancora oggi di ricevere i rimborsi automatici disposti dall’Agcom, la sentenza Tar pesa come un macigno sui diritti dei consumatori, perché cancella una sanzione sacrosanta che accertava i comportamenti anticoncorrenziali degli operatori telefonici”, commenta il presidente di Assoutenti Furio Truzzi.

Dl Sostegni bis, troppi dubbi: torna in Commissione

Il dl Sostegni bis è arrivato ieri mattina alla Camera ma, in pratica, non è mai entrato in aula tra intoppi, riformulazioni e la richiesta per ben due volte della Ragioneria dello Stato di fare diverse correzioni in ordine ad alcune coperture. Si va dallo stop al rifinanziamento permanente dei centri per l’impiego utilizzando i fondi del reddito di cittadinanza alla cancellazione della proposta salva-anno bianco per le partite Iva. Tra le modifiche ne spunta una anche aggiuntiva che prevede che ai componenti della commissione tecnica chiamata a “svolgere approfondimenti sulle misure di riforma per il riequilibrio finanziario della gestione previdenziale sostitutiva dell’Inpgi non spettino compensi, gettoni di presenza, rimborsi spese o altri emolumenti”. Il provvedimento dovrà ora marciare spedito perché va approvato entro il 24 luglio. Ma i tempi, sono strettissimi: va prima approvato in prima lettura alla Camere evitando poi qualsiasi modifica nel passaggio al Senato. Il ricorso al voto di fiducia sembra quasi scontato.

Suppletive a Siena. Alla Camera si candida Letta

Manca ancora il passaggio ufficiale, la direzione del Pd senese di questa sera, ma la decisione è presa: con ogni probabilità il segretario del Pd Enrico Letta in autunno si candiderà alle elezioni suppletive di Siena per prendere il posto di Pier Carlo Padoan alla Camera dei deputati. La Nazione ieri ha raccontato che Letta avrebbe telefonato a Simona Bonafè (segretaria del Pd toscano) e Andrea Valenti (Pd di Siena) per dare la sua disponibilità a candidarsi. Dal Nazareno si conferma che l’ufficialità non c’è ancora e “spetta al territorio” ma che l’obiettivo di Letta sia quello di rientrare in Parlamento. Letta sarà il candidato nell’uninominale sostenuto da tutto il centrosinistra e anche dal M5S contro l’imprenditore del Chianti Tommaso Marrocchesi Marzi, sostenuto dal centrodestra unito. Una sfida che avrà una risonanza nazionale sia per Letta ma anche perché il governo dovrà decidere presto sul futuro di Mps. Tant’è che Matteo Salvini proverà a fare lo sgambetto al segretario del Pd: arriverà a Siena il 19 luglio.

Regione Calabria, Pd e M5s ci riprovano: tocca alla neuropsichiatra Amalia Bruni

Il Pd e il M5S ci riprovano sperando che questa sia la volta buona. Dopo il forfait dell’imprenditrice Maria Antonietta Ventura, ritiratasi in seguito a un’interdittiva antimafia che ha colpito un’azienda di famiglia, il centrosinistra in Calabria punta sulla scienziata e docente universitaria Amalia Bruni. Sarà lei la candidata a presidente della Regione che affronterà l’aspirante governatore del centrodestra Roberto Occhiuto e il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Negli ambienti del Pd lo danno ormai per certo. Dopo mesi di trattative, di nomi che circolavano e poi smentiti dagli stessi interessati, pare che Pd e M5S abbiano trovato la quadra. Senza dubbio, il profilo di Amalia Bruni è alto e non si presta a polemiche extra-politiche. A 66 anni, la candidata può vantare di essere stata allieva di Rita Levi Montalcini che, con lei, ha inaugurato il Centro Regionale di Neurogenetica di Lamezia Terme, di cui è direttrice. Scienziata di livello mondiale, nel 2020 è stata nominata Cavaliere al merito della Repubblica italiana. Amalia Bruni è professore ordinario di Neurologia e di Genetica Medica all’Università di Catanzaro ed è nota per aver guidato il suo team di ricerca nella scoperta della nicastrina, la glicoproteina delle membrane intracellulari neuronali implicata nel meccanismo patogenetico della demenza precoce dell’Alzheimer. Presidente della Società italiana di neurologia delle demenze, negli anni Bruni ha sempre rifiutato di lavorare all’estero nei migliori centri di ricerca. Non ha mai voluto abbandonare la Calabria dove si è battuta sempre per mantenere intatti i finanziamenti regionali del centro di Neurogenetica. Un paio di mesi fa, Bruni in un’intervista al magazine Vita ha detto di averlo fatto in “un contesto culturalmente inadatto, che considera la parola ricerca come una pura perdita di tempo e non l’elemento chiave su cui costruire la sanità di cui tutti (ma in particolare i calabresi) hanno bisogno”. Dopo mesi in cui il centrosinistra ha bruciato molti candidati, come il consigliere regionale Nicola Irto, che si è ritirato dopo aver denunciato che il suo Pd è diviso in piccoli feudi, la scelta di puntare su Amalia Bruni sembra aver messo tutti d’accordo. Probabilmente anche il civico Carlo Tansi che, già candidato alle ultime Regionali, poche settimane fa ha rotto l’alleanza con Luigi de Magistris. Al netto di ripensamenti dell’ultima ora, forse adesso inizia la campagna elettorale.