Eredi Craxi perdono la causa sul conto svizzero di Bettino

Il fisco arriva anche dove la giustizia penale arranca o fallisce. Succede negli Usa, ma a volte capita perfino in Italia. La Corte di Cassazione ha emesso ieri una sentenza che rischia di costare cara agli eredi di un leader politico indagato da Mani Pulite: Bettino Craxi. Il fisco italiano da anni pretende oltre 10 miliardi di lire di sanzioni, riguardanti gli avvisi di accertamento per tasse evase negli anni 1992 e 1993, riguardanti conti all’estero. Per anni si sono opposti gli eredi, cioè i figli Stefania e Vittorio, detto Bobo, con loro madre Anna. Ora la Cassazione ha respinto il loro ultimo ricorso e li ha condannati a pagare oltre 20 mila euro di spese legali.

Discussa il 7 luglio e depositata il 12, la sentenza della Cassazione conferma la decisione della Commissione tributaria regionale della Lombardia che nel 2014 “ha minuziosamente elencato gli esiti dei procedimenti penali paralleli (al processo tributario) che punteggiavano il suo percorso argomentativo” e “con dovizia di elementi ha composto un quadro probatorio (in cui spiccano le dichiarazioni rese agli inquirenti da Giorgio Tradati) che conferma la pretesa erariale e pone in rilievo il ruolo cruciale di Craxi, il quale almeno a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta (del secolo scorso) aveva fatto aprire all’estero a suoi prestanome, movimentava e gestiva, tramite terze persone, un conto corrente (il conto International Gold Coast) al quale affluivano i denari che qualche persona doveva far arrivare all’onorevole Craxi”. È rimasto “privo di riscontro l’assunto difensivo” della famiglia, secondo cui Craxi “avrebbe retrocesso le somme al partito”. La Cassazione, sulla scorta di quanto accertato dall’Agenzia delle Entrate e dai giudici tributari lombardi che hanno esaminato il caso per due volte, ribadisce che quel conto svizzero era “materialmente riconducibile al Craxi e non al partito”. Dei soldi versati sul conto estero “aveva la disponibilità esclusiva, come si confà al proprietario”. Negata “in radice” l’eventualità del “possesso” o del “compossesso” del denaro da parte del partito politico.

La storia di quei soldi inizia negli anni Ottanta. Giorgio Tradati, amico d’infanzia di Craxi, ha raccontato: “Bettino mi pregò di aprirgli un conto in Svizzera. Io lo feci, alla Sbs di Chiasso, intestandolo a una società panamense (Constellation Financière). Funzionava così: la prova della proprietà consisteva in una azione al portatore, che consegnai a Bettino. Io restavo il procuratore del conto”. Su quel primo conto iniziano ad arrivare “somme consistenti” che, con gli interessi, nel 1986 ammontano già a 15 miliardi di lire. A quel punto il deposito si sdoppia: arriva un’altra società panamense (la International Gold Coast, appunto), con conto presso la American Express di Ginevra. Anche in questo caso, l’azione al portatore della società viene consegnata a Craxi, vero proprietario, mentre Tradati continua a fare il procuratore speciale, incaricato di operare per conto di Bettino.

A fare da schermo, per rendere difficile risalire al reale proprietario, c’è un conto di transito, il Northern Holding, messo a disposizione da un funzionario dell’American Express, Hugo Cimenti.

Come distinguere i soldi di Cimenti da quelli di Craxi? Lo spiega Tradati al processo Enimont: “Per i nostri soldi”, spiega, “si usava nei versamenti il riferimento Grain. Che vuol dire grano”. L’allarme rosso scatta nel gennaio 1993: Tradati legge sui giornali, nelle cronache di Mani pulite, che i magistrati di Milano hanno chiesto una rogatoria in Svizzera a proposito dei movimenti del conto Northern Holding, con riferimento “Grain”. Il cassiere riservato di Craxi entra in fibrillazione. Va dal segretario socialista a chiedere che cosa fare. Craxi gli dice di stare calmo, di ricorrere contro la rogatoria e, soprattutto, di svuotare entrambi i conti a valle del Northern Holding, cioè Constellation Financière e International Gold Coast. Chiede, insomma, di mettere al sicuro i soldi. Tradati, impaurito, rifiuta. E Craxi è costretto a chiedere aiuto a un altro amico, Maurizio Raggio, ex barista di Portofino e fidanzato della contessa Francesca Vacca Agusta, che chiude i conti e fa sparire i soldi all’estero. Ora, 28 anni dopo, alla porta degli eredi bussa il fisco.

Figliuolo-lumaca: pochissime prime dosi

Mentre purtroppo tornano a crescere il tasso di positività e i ricoveri, si continua a puntare a marce forzate sulla vaccinazione, unica via per uscire dalla pandemia ma a preoccupare è il fatto che i numeri dei nuovi vaccinati sono sempre più esigui: ieri le prime dosi sono state solo 54 mila; domenica erano state somministrate solo 52.851 dosi come prima vaccinazione, su un totale di 402.531 vaccini distribuiti nell’arco delle 24 ore.

Per quanto riguarda la prima dose, si tratta di numeri particolarmente esigui, con un livello che non si registrava da febbraio scorso. Analizzando i dati ufficiali è evidente il calo delle prime vaccinazioni da giugno a oggi: si è passati da oltre 400 mila in 24 ore, a una media quotidiana sotto le centomila negli ultimi tre giorni. La corsa è quindi a convincere gli scettici e gli indecisi.

A Napoli è partito infatti un servizio con operatori alla ricerca delle motivazioni del no al vaccino con l’obiettivo di convincere i “renitenti” a cambiare idea. Dal call center viene contattato chi aveva fatto l’adesione, poi è stato convocato anche tre, quattro volte, ma non si è mai presentato. “Se una donna mi dice che non è venuta perché non ha visto l’sms, non si sentiva bene, non era convinta, ma vuole farlo, diamo subito la convocazione. Ma se alla fine dicono che non vogliono farlo io smetto di convocarli fino a quando non ce lo chiederanno loro”, spiega Ciro Verdoliva, il direttore generale dell’Asl Napoli 1. Il sindacato Anief invece annuncia che è di queste ore la notizia che “davanti alle scuole siciliane ci sarà una unità mobile, un presidio per vaccinare quel 30%” del personale scolastico non ancora coperto. Eppure, rispondendo a un sondaggio, sei docenti su dieci sono contrari all’obbligo vaccinale per il personale della scuola e la percentuale sale tra i presidi e il personale Ata.

“Abbiamo dato mandato alle Asl di verificare i motivi per la mancata vaccinazione” degli over60 in Puglia, come “già fatto per gli over80”, fa sapere l’assessore alla Sanità della Regione Puglia, Pierluigi Lopalco. Il ministro della Salute Roberto Speranza lo ribadisce: “Quello che è certo è che la vera arma per chiudere questa stagione è la campagna di vaccinazione, dobbiamo insistere sulla vaccinazione”. A oggi sono 24 milioni gli italiani completamente vaccinati, pari al 40,5% della popolazione totale e al 45% della platea vaccinabile dai 12 anni in su. Intanto Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova, mette in guardia: “La variante Delta, purtroppo, è a un passo dal diventare resistente ai vaccini e quindi meno si trasmette e meglio è. Per questo penso che bisognerebbe combinare la campagna vaccinale, vaccinando più persone possibili e allo stesso tempo rafforzare la nostra capacità di tracciamento, perché diminuire la trasmissione potenzia l’effetto dei vaccini”.

“Nuovi ricoveri sono certi, ma non come in inverno”

“In questo momento al Gemelli abbiamo da diversi giorni nove, dieci malati di Covid in terapia intensiva e non riusciamo a scendere sotto questa soglia”. Massimo Antonelli, direttore dell’unità di Anestesia e rianimazione del grande ospedale romano ed ex membro del Comitato tecnico-scientifico di supporto al governo Conte, conserva ottimismo nonostante i dati che vengono dalla Spagna: in Catalogna in particolare i contagi sembrano di nuovo fuori controllo e cominciano a gravare sulle ospedalizzazioni. “Qui non siamo ancora di fronte a una decisa risalita ma un po’ di preoccupazione c’è tra quel che è successo nel Regno Unito e che sta succedendo in Spagna”.

Rispetto allo scorso anno sembra di rivivere lo stesso incubo con due mesi d’anticipo? Ieri i ricoverati in reparti ordinari sono ritornati a salire nel saldo quotidiano: +15. E il saldo delle terapie intensive è “solo” -3.

Nel Regno Unito c’è da dire siamo di fronte a un Paese che è arrivato al 70% di vaccinati, ma di questi la stragrande maggioranza soltanto con la prima dose. Nel Lazio ad esempio siamo vicini al 70% di immunizzazioni complete e questo è un bel risultato. Poi, il punto è che il virus circola e per fortuna è molto probabile che chi è già immunizzato non si ammali se non con pochi sintomi, ma in casi rari. Rispetto allo scorso anno le vaccinazioni fanno e faranno la differenza. Poi è difficile capire ora cosa potrà succedere a ottobre, però dovremo imparare a convivere con questo virus, anche perché mezzo mondo è molto lontano da serie campagne di vaccinazioni, penso all’India o al Sudamerica; il che significa che SarsCov2 e le sue varianti continueranno a circolare. Insomma, continueremo a ricoverare pazienti Covid, anche in terapia intensiva, ma credo che qui non avremo più le percentuali dello scorso anno.

Speravamo nella stagionalità del virus respiratorio per una tregua estiva, ma non c’è più questa certezza…

Però la stagione calda aiuta, poi è chiaro ci sono stati diversi fattori e in assembramenti e festeggiamenti vari sarebbero comunque sempre valide le precauzioni di mascherine e distanziamento. Però mi rendo conto che sia anche cambiata la psicologia delle persone dopo tanto tempo tra maggiore sicurezza, paradossalmente, per la campagna di vaccinazione e voglia di ritornare alla normalità.

Si è detto tante volte in questi mesi: la sanità va ripensata?

La medicina territoriale va rafforzata e va creato un contatto più stretto tra territori e ospedali. Tutte tematiche sui tavoli del ministero della Salute di cui si è ampiamente discusso in questi mesi: speriamo si arrivi presto al dunque.

Pensava di poter andare in ferie più tranquillo? Teme, al rientro, di ritrovare la terapia intensiva del Gemelli piena di malati Covid?

Credo che troverò senz’altro più pazienti di quanti ce ne sono adesso, ma penso che non arriveremo a ondate di cento malati in rianimazione come nell’inverno passato, lo escluderei.

Londra ora piange la vittoria mancata e si sveglia razzista

Più che come una sconfitta, quella di Wembley viene raccontata in Inghilterra come una vittoria mancata. Il nemico non è nemmeno l’Italia: è il proprio passato, i propri demoni non esorcizzati nemmeno stavolta. È l’eredità tossica di settimane di esaltazione calcistica attorno alla squadra di Gareth Southgate, innestata su anni di retorica nazionalista, la stessa che ha coltivato l’ostilità verso l’Europa, favorito la Brexit e portato al governo un mix di conservatorismo classico e populismo.

Londra si è svegliata pesta come per una sbronza infelice, dopo il climax da trionfo scontato. Ma la frustrazione è profonda e si è dovuta sfogare: non, per fortuna, nella caccia all’italiano che pure si era temuta, ma nei bivacchi violenti nel centro di Londra, tollerati dalla polizia: nei fischi all’inno italiano, durante il match; nel tentativo di sfondamento dei tornelli di Wembley dei fan inglesi senza biglietto; nell’abbandono degli spalti in anticipo sulla premiazione. E nel bombardamento di abusi online contro i tre giocatori che hanno sbagliato, decidendo la finale: Rashford che ha colpito il palo; Saka e Sancho per i tiri parati da Donnarumma. Tre giocatori di colore oggetto dell’odio in Rete. Il razzismo nel calcio inglese è molto più pervasivo che in quello italiano: ad aprile scorso federazioni, club e campioni si sono uniti in quattro giorni di boicottaggio dei social media per fermare livelli record di abuso. Segnale forte, ma non risolutivo.

Molti quotidiani pubblicavano in prima la foto di Southgate che conforta Bukayo Saka, 19 anni, al suo primo rigore in Nazionale. Una immagine di grande simbolismo per chi ricorda il precedente di Southgate che sbaglia un rigore decisivo contro la Germania a Euro 1996. Ma quella foto è più di una storia che si avvita su se stessa: mostra la inossidabile posizione antirazzista di Southgate, che ha sempre sostenuto tutti i suoi ragazzi ed è il campione del messaggio cosmopolita di una squadra forte perché multietnica. Ieri, commentando gli abusi, lo ha ribadito: “Il razzismo è contrario a tutto quello in cui crediamo”. E anche: “I tiratori li ho scelti in base al rendimento in allenamento” ha detto, prendendosi tutta la responsabilità. Forse sperava di mettere a tacere gli attacchi razzisti, di mettere quei ragazzi al sicuro. Forse sarebbe stato diverso con un trionfo da dare in pasto agli hooligans del calcio e della politica. Invece si è precipitati nell’orrore sui social.

Boris Johnson che tuona “questa Nazionale inglese merita di essere lodata come si fa con gli eroi, non di essere abusata sui social media. Chi li ha insultati dovrebbe vergognarsi”. Il ministro degli Interni Priti Patel che twitta: “Mi disgusta che i giocatori della squadra che ha dato tanto alla nostra nazione siano vittime di vigliacchi abusi razzisti sui social media. Il razzismo non appartiene a questo Paese e sostengo la polizia nel trovare i responsabili”. Eppure, solo poche settimane fa, aveva definito il gesto di inginocchiarsi in campo contro il razzismo gesture politics, esibizionismo politico, e dichiarato che i fan inglesi avevano il diritto di fischiarlo. Johnson ha rifiutato di condannare quei fischi. Vince la realpolitik, quando a fischiare sono i propri elettori.

Mancini al centro del villaggio. Ma che barba tutta la retorica

In questi casi è ai giudici “terzi” che bisogna rivolgersi. E se persino L’Équipe ci celebra attraverso il “trionfo delle idee”, be’, non rimane che fare la ola.

Nella mia griglia, l’Italia figurava tra i quarti e le semifinali. Difficile scegliere una faccia, un simbolo, che non sia Roberto Mancini. Non aveva una rosa eccelsa, l’ha protetta, l’ha scremata, l’ha migliorata. Pennello e scalpello. Da allenatore, uno dei tanti. Come selezionatore, oltre la media. Decisamente. Non più succube di presidenti e procuratori, ma manager di sé stesso, al centro di un “mondo” che ha portato a coincidere con l’Europa. E a Wembley, per giunta. Contro l’Inghilterra.

Capo al lavoro dal 14 maggio 2018, ha realizzato un capolavoro anche se in un momento di effervescenza tattica non proprio straordinaria. Liberi, tutti, di approfittarne: bravo il Ct, bravi noi, a bruciare la concorrenza. Non so cosa cambierà. So che, in un mese, è cambiato molto. Troppo comodo, oggi, dimenticare che al Mondiale russo l’Italia non c’era. D’ora in poi, e questa è la normalità dell’anormalità, potremo dedicarci per gradi, con i gradi di campioni d’Europa, alla fase finale della Nations League, che ospiteremo a ottobre, e del Mondiale in Qatar, previsto fra novembre e dicembre del 2022.

Sette partite, cinque vittorie e due pareggi. Tre supplementari, due rate di rigori. Curiosamente, in una squadra fondata sull’amicizia, l’allegria e il coraggio, l’Oscar del miglior giocatore del torneo è andato a un portiere: Gigio Donnarumma. Corsi e ricorsi: nel 2006, campioni del mondo sotto il cielo di Berlino e quasi mai catenacciari, il Pallone d’oro venne assegnato a un difensore, Fabio Cannavaro, davanti a Gigi Buffon. E così: da Gigi a Gigio. La storia siamo noi: grazie, Francesco De Gregori.

Le basi ci sono. Non siamo i più forti. Per un mese (e non solo, come certificano le 34 gare senza sconfitte), siamo stati i più bravi. Il centrocampo, che era l’anello debole, è diventato il punto di forza. E presto torneranno Lorenzo Pellegrini e Nicolò Zaniolo. La difesa, come reparto e come concetto, non si tocca. Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini hanno ribadito la modernità di una tradizione senza tempo. Il problema è l’età: 34 anni il libero, 37 ad agosto lo stopper. E dietro, in attesa che sbocci Alessandro Bastoni (classe 1999), non molla Francesco Acerbi, di anni 33.

L’attacco, infine. Manca un centravanti di peso. Ciro Immobile – scarpa d’oro, non di legno – e Andrea Belotti, anima del Toro, sono stati generosi, non incisivi; Ciro solo a Roma, nella fase a gironi. La convocazione di Giacomo Raspadori, 21enne di scuola Sassuolo, non fu una civetteria: fu un riconoscimento. Il Mancio, a proposito di visioni, precettò Nicolò Zaniolo prima che Eusebio Di Francesco lo lanciasse nella Roma. Pure la Spagna, l’unica ad averci messo sotto, è ferma ad Alvaro Morata e Gerard Moreno. Idem la Germania, alla perenne ricerca del Müller perduto. Il Belgio non morde mai, Cristiano Ronaldo ne ha 36, Leo Messi, fresco di Coppa America, 34, Robert Lewandowski 32. La mia favorita era la Francia di Kylian Mbappé. In prospettiva resta la più agguerrita, ma l’arroganza è una colpa, non un’attenuante. Non è una colpa, viceversa, la fortuna che ci ha soccorso alla riffa dei penalty, penso al palo di Marcus Rashford, destino che con Leonardo Spinazzola proprio cinico e “caro” non era stato.

Enzo Bearzot, soprattutto, e Marcello Lippi potevano contare sul blocco della Juventus. Ce n’erano sei, addirittura, la notte del Bernabeu. Domenica, a Wembley, titolari erano tre: Bonucci, Chiellini e Federico Chiesa, poi sostituito da Federico Bernardeschi. Chiesa, già: a 23 anni incarna il prototipo dell’attaccante europeo, veloce, piccone che spacca le partite. Deve imparare a governare le zolle intasate, là dove lo spazio è un filo d’erba, e uscirne vale una borraccia nel deserto.

Si parla di rivoluzione culturale. Magari. Di sicuro, Mancini ha creato uno spirito, lo spirito Sampdoria, che si specchia nell’abbraccio con Gianluca Vialli, testimonianza di un passato che non passa mai e di un presente che passerà (forza Gianluca).

Nazione e Nazionale, filosofia e demagogia: che barba. L’anno del Cagliari campione, un inviato della Rai chiese a un pastore sardo cosa gli sarebbe venuto in tasca dallo scudetto. Il pastore lo sbirciò, seccato: “Scusi, cosa mi verrebbe se non lo vincesse?”.

Ripartiamo da qui.

Mario, Mancio&C. per ripartire. Date il Recovery a Gigio

L’Italia del Mancio da sovrapporre a quella di Mario Draghi. Il mainstream in auge su tv e giornaloni che dapprima premette “questa non è retorica” e poi sbrodola nella felicità da luogocomunismo, senza alcun guizzo originale. Tutti uguali. Non solo. Ieri si sono sentite persino queste domande: “Qual è il significato geopolitico di questa vittoria?”, “Come cambia la posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale”. Giusto. Tocca mandare a trattare in Cina (dossier 5G) e poi alla Nato le nostre due colonne d’Ercole, Bonucci & Chiellini.

Povero Camus. La sera del dì di festa è passata e adesso l’imperativo morale è trasfigurare la gioia provata da tutti noi in un programma di governo, incluso il nuovo Salvaladri della Guardasigilli Marta Cartabia. Alcuni saccheggiano il povero Camus buonanima per via di quella frase sul “calcio metafora della vita”. Vero, ché la vita è qualcosa che va oltre Draghi. Cosa c’entrano il governo dei Migliori e gli interessi dei partiti?

I cognati. A proposito di vita. L’enfasi fantozziana di Fabio Caressa, telecronista Sky, è stata un continuo invito ad abbracciarsi, baciarsi e festeggiare senza precauzioni, rivolto persino a Bergamo, la nostra città martire del Covid, dove sindaco è il cognato di Caressa. “Uno stadio pieno ci riporta alla vita”. E a nuovi focolai a causa della variante Delta, probabilmente.

Dollarumma. Gigione da Pompei (lì abitano i suoi, benché nativo di Castellammare di Stabia) ha affrontato gli Europei sotto una fitta coltre di critiche e stroncature per la sua scelta di privilegiare i soldi (il Paris Saint-Germain) anziché la maglia del cuore (il Milan). Da domenica sera è giustamente l’Eroe, con le sue parate decisive nei rigori contro la Spagna e l’Inghilterra (Morata, Sancho e Saka). Il Re Leone di Wembley. Epperò adesso è un pilastro del Recovery Plan. Titolo dalla Stampa di ieri: “Donnarumma una parata da dodici miliardi. L’Europeo spingerà Made in Italy e turismo”. È diventato di nuovo Dollarumma.

Rimpasto. Dunque, Donnarumma ministro dell’Economia, quantomeno del Turismo (comunque meglio dell’anonimo leghista Garavaglia). Indi Bonucci & Chiellini per Viminale, Difesa ed Esteri. Dopo la passerella un po’ cheap di ieri a Palazzo Chigi (non bastava quella al Quirinale, peraltro più sobria?) non è da escludere un rimpasto.

Tridente. L’uso politico e retorico del calcio nella fuoriuscita dalla pandemia, in ordine sparso: “Il tridente Mattarella-Draghi-Mancini”, “Il segno della rinascita”, “Lo spirito di un Paese”, “L’orgoglio per ripartire”, “Italia campione, effetto Draghi dal calcio al tennis”, “Da Mancini a Draghi e l’Italia cambiò”, “La concordia nazionale”, “L’unità nazionale”, “La forza per ripartire”.

Complottismo. Dagli ottavi con l’Austria in poi c’è stata una campagna preventiva sugli arbitri “venduti” al filo-albionico Ceferin (presidente Uefa), al premier inglese Boris Johnson e alla Britannia intera. Domenica sera, invece, l’arbitro olandese Kuipers è stato ineccepibile.

In ginocchio. L’unico messaggio “politico” dato dalla Nazionale in questi Europei è stato quello di “non condividere la campagna Black Lives Matter” e quindi di inginocchiarsi solo per solidarietà con gli avversari. È accaduto col Belgio. E se avessimo incontrato l’Ungheria che magari faceva il saluto fascista?

Ciro a vuoto. L’uomo in più, Donnarumma, e l’uomo in meno, Ciro Immobile. Una storia tutta tra Pompei, Castellammare di Stabia e Torre Annunziata.

Porca puttèna. Ispirati da Lino Banfi, gli Azzurri l’hanno gridato dopo la prima vittoria contro la Turchia. Ed è stato l’ultimo, euforico urlo di Bonucci l’altra notte: “Porca puttana”.

Siam pronti alla morte

Siam pronti alla morte, l’Italia chiamò. Una festa di popolo per celebrare una vittoria sportiva si trasforma in un delirio collettivo di violenze mentre la variante Delta del SarsCov2 dilaga da Londra a Barcellona e, chissà, fra qualche giorno come sarà la situazione di contagi e ospedalizzazioni in Italia viste le scene della notte e di ieri attorno all’autobus scoperto della Nazionale di calcio in trionfo per le strade di Roma.

I campioni d’Europa guidati da Roberto Mancini ieri sono stati prima ricevuti dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dal premier Mario Draghi. Il pullman azzurro procedeva a passo d’uomo per farsi largo tra la folla festante, distanziamento inesistente, pochissime mascherine ben indossate. Come se il Covid fosse solo un lontano ricordo. E alla fine viene tirato fuori anche un autobus scoperto, già bello e pronto, ovviamente azzurro che, nonostante in un primo momento fosse vietato, ha percorso le strade di Roma con i calciatori a esibire la Coppa Europa per nazioni. A scortare i campioni decine di agenti. L’autorizzazione è arrivata all’ultimo momento, ma né a Palazzo Chigi né al ministero della Salute, sostengono, ne erano al corrente.

Le immagini dei festeggiamenti in Italia già dalla notte precedente sono state trasmesse in tutto il mondo e la prima bacchettata è arrivata da Maria van Kerkhove, responsabile dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’emergenza Covid-19: “È un devastante contagio in diretta tv. E dovrei divertirmi a guardare il contagio avvenire davanti ai miei occhi? La variante Delta non si ferma per una partita di calcio”.

Passa solo qualche ora e l’Ecdc, il Centro europeo per il controllo della malattie, emette una nota ufficiale: “Dall’inizio del campionato europeo di calcio all’8 luglio scorso ci sono stati 2.535 casi di Covid riconducibili direttamente alla partecipazione alle partite di Euro2020”. Si tratta di dati parziali.

Nel frattempo, dall’ultimo rigore parato da Gigio Donnarumma all’alba è successo di tutto, come in un film distopico di qualche regista visionario.

A San Severo, nel Foggiano, la criminalità ha approfittato dei festeggiamenti per compiere un delitto odioso nella confusione degli spari: un 42enne è stato ucciso a colpi di pistola mentre viaggiava su uno scooter, con lui c’era un bambino di sei anni, colpito all’addome e ricoverato: grave, ieri sera ancora in prognosi riservata.

Dal profondo Sud alla laguna di Venezia. Cadavere in acqua. Giovane, senza documenti, non identificato. Segnalato intorno alle due e quaranta nel mezzo dei festeggiamenti.

Milano, piazza Duomo affollata. Si sente un botto. Paura. Almeno dodici feriti per una bomba carta. A Caserta, qualche ora prima, mentre Italia e Inghilterra ancora si sfidavano a Wembley un 27enne sottoposto all’affidamento in prova ai servizi sociali andava in giro minacciando di farsi esplodere con un ordigno pirotecnico allacciato alla cintura: questo e altri episodi non c’entrano magari nulla con la notte dei festeggiamenti ma s’iscrivono in un delirio collettivo che contabilizza anche morti per incidenti stradali, strade devastate, risse e fioriere lanciate, a Napoli, contro poliziotti in assetto antisommossa. C’è anche chi si è tuffato nella Fontana di Trevi, a Roma, senza essere Anita Ekberg. Accoltellamenti e botte tra ubriachi da Empoli a Genova e spari un po’ ovunque.

Intorno alla mezzanotte parte un bengala, siamo a Nuoro, collina di Biscollai. Si alzano le fiamme, l’incendio divampa per oltre cinque ore: tanto hanno dovuto lavorare i vigili del fuoco per domare un rogo che si faceva sempre più minaccioso.

Massimo Galli, celeberrimo virologo del “Sacco” di Milano, chiude i giochi: “La gioia per la vittoria degli azzurri è condivisa e condivisibile, ma il fatto che strillarsi addosso in moltitudine aumenti il rischio di trasmettere l’infezione da coronavirus è un assioma. Auguriamoci che ci vada il meglio possibile, contando sul fatto che a festeggiare in piazza sono stati soprattutto i giovani i quali, in genere, hanno meno rischi di malattia grave. Comunque l’incubazione di questa infezione è abbastanza breve e in capo a una settimana, dieci giorni al massimo, vedremo gli effetti sui contagi”.

Base per altezza

La pigrizia mentale mista a bile e altri liquidi organici che caratterizza tutte le analisi sui 5Stelle ha impedito all’“informazione” di cogliere un fatto piuttosto rilevante di quello strano movimento nato quasi 12 anni fa e ancora, nonostante tutto, incredibilmente vivo. Anche perché l’“informazione” è troppo impegnata a raccontare come Draghi abbia vinto gli Europei a distanza, con la sola imposizione delle mani. Il fatto è questo: una comunità di centinaia di migliaia di italiani ha costretto a furor di popolo Grillo a fare ciò che aveva annunciato e poi disdetto: candidare Conte a leader in base a un nuovo Statuto che gli conferisse i poteri necessari per assumerne l’esclusiva guida politica e poi farlo votare dagli iscritti. Perché a febbraio Grillo avesse pensato a Conte si sa: la popolarità che gli viene dal buon giudizio che un’ampia fascia di cittadini, molti più degli elettori grillini, dà della sua persona e dei suoi governi, sopravvissuta contro ogni previsione al Conticidio. Perché, a giugno, Grillo avesse bruscamente cambiato idea col ri-Conticidio, è più difficile spiegarlo. I processi alle intenzioni diventano spesso processi alle invenzioni. Chi evoca il timore di perdere il controllo della sua creatura, chi le telefonate di qualche capetto geloso dell’ex premier o timoroso della sua linea meno appiattita sul governo, chi il patto d’acciaio siglato da Grillo con Draghi (che lo fa apparire “garante” più del governo che del M5S), chi le sorti giudiziarie del figlio (che però sarà giudicato dai magistrati di Tempio Pausania: Draghi non ha il potere di dettare o emettere sentenze, non ancora almeno).

Poi, investito da un’onda anomala di insulti e commenti negativi, Grillo deve aver capito di averla fatta grossa; che non è Conte ad avere bisogno di lui, ma il M5S di Conte; e che la sua creatura l’avrebbe persa col no a Conte, mentre col sì può recuperarla. E s’è inventato una sceneggiata da teatrante consumato: il Comitato dei Sette, per mascherare la ritirata sotto le mentite spoglie di una mediazione dei big, a cui l’Elevato si è magnanimamente inchinato. Sia come sia, dopo due mesi persi inutilmente (e con danni incalcolabili) prima per Casaleggio e poi per Grillo, il nuovo Movimento sembra pronto a partire. Salvo nuovi stop che, dopo tanti Conticidi, nessuno può escludere. E proprio da quel fatto sorprendente – per un movimento da tutti dipinto come verticistico e antidemocratico – dovranno partire Conte&C. per non fallire: a issarlo alla leadership non sono stati né Grillo, né i Sette, ma le centinaia di migliaia di persone che l’hanno voluto contro tutto e contro (quasi) tutti. Accontentare qualche big è facile. Non scontentare una bella fetta di popolo sarà molto più complicato.

“Macchè processi più brevi: è un’amnistia che li getta al macero”

Procuratore Nicola Gratteri, le piace questa “riforma della Giustizia” della ministra Marta Cartabia approvata all’unanimità dal Consiglio dei ministri?

Concordo pienamente con quel che ha detto il professor Coppi. Il sistema non solo è destinato ad andare in tilt, ma in questo modo non viene assicurata alcuna “giustizia”. Stabilire che la prescrizione si interrompe dopo la sentenza di primo grado, ma al contempo imporre termini “tagliola” per il processo di appello e per quello successivo di Cassazione, senza intervenire sui sistemi di ammissibilità degli appelli o dei ricorsi per Cassazione, significa solo preoccuparsi di “smaltire carte”, non di assicurare una decisione giusta. Noi magistrati dobbiamo fare giustizia, non smaltire carte: noi abbiamo a che fare con la vita delle persone. I giudici di appello e di Cassazione devono, all’esito di un’analisi ponderata, rimediare – se esistono – a errori commessi nel grado precedente. Con questa “riforma”, invece, da una parte si gettano al macero migliaia di processi, e dall’altra si accentua la tendenza a trasformare le corti in “sentenzifici”, che badano solo ai numeri, con buona pace della qualità delle decisioni.

Coppi ha aggiunto che la “riforma” Cartabia è “un groviglio” incomprensibile e che a questo punto era meglio la riforma Bonafede.

Concordo pienamente anche su questo. Al di là dei proclami di “riforma costituzionalmente orientata”, a me pare che si vada esattamente in senso contrario. Scusi, ragioniamo: si celebra un processo che si conclude con una condanna; l’imputato condannato fa appello nel quadro di un sistema su cui non si è intervenuti a livello legislativo; il giudizio di appello, o quello successivo in Cassazione, non si chiude nei tempi indicati; che fine fa la condanna di primo grado? Diventa improcedibile con un prestampato? E le persone offese? Le vittime del reato, le parti civili costituite nel processo? Assurdo. Quindi sì, era sicuramente meglio la riforma Bonafede.

Davigo, sul Fatto, ha definito questa trovata dell’improcedibilità “un’amnistia mascherata”. Condivide?

Assolutamente sì. Con un’aggiunta: questa “tagliola” colpirà anche processi delicatissimi, come omicidi colposi e violenze sessuali.

Lei ha sempre chiesto una riforma che non renda più conveniente delinquere, ma rispettare le leggi: quanto è lontana, con questa “riforma”, quel sogno?

Direi che è naufragato. Ma c’è altro: perché nessuno pensa alle vittime del reato? Perché nessuno pensa alla mortificazione di chi non solo viene umiliato da soprusi e angherie, ma poi viene anche praticamente abbandonato dallo Stato? È come pensare di risolvere il dramma delle liste d’attesa nelle Asl col bollino di scadenza: vai all’ospedale, prenoti una visita o un intervento chirurgico, aspetti pazientemente il tuo turno e poi, quando finalmente arriva, se non c’è posto o è passato troppo tempo, perdi ogni diritto: niente visita e niente intervento, anche se sei malato grave ti rimandano a casa. Ma davvero è questa la giustizia che gli italiani si meritano?

La ministra accusa alcuni uffici giudiziari per i tempi lunghi dei processi. Che cosa si può chiedere ai capi degli uffici come lei?

Sicuramente devono vigilare e intervenire, stimolando i magistrati – se ce ne sono – improduttivi e ottimizzando le risorse disponibili. Ma, lo ripeto, pretendere decisioni tempestive e nel contempo “giuste”, perché è questo l’obiettivo imprescindibile a cui dobbiamo puntare. E che, con questa riforma, diventa un’utopia.

Cosa si dovrebbe fare, o si sarebbe dovuto fare, per accorciare i tempi biblici della giustizia?

La politica non può pensare di abbreviarli con la tagliola dei termini di due anni in appello o un anno in Cassazione, che con questo sistema si sa già in anticipo che non potranno mai essere rispettati. Per avere processi più rapidi occorrono prima di tutto uomini (magistrati, personale amministrativo e di polizia giudiziaria) e mezzi adeguati rispetto a una mole di affari giudiziari elefantiaca. E poi si deve intervenire a monte, non a valle. Rendere più snelle le procedure è possibile, ma bisogna partire dal basso: limitare le ipotesi di appello, rendere inammissibili le impugnazioni vistosamente pretestuose (e sono molte); ridurre i ricorsi in Cassazione solo ai casi che realmente riguardano la legittimità. E ancora: limitare gli incarichi “fuori ruolo” solo a quegli Uffici dov’è veramente necessaria la presenza di magistrati; e rivedere la geografia degli uffici giudiziari. Ma ci sarebbero tanti altri interventi possibili, che realmente vanno nella direzione di una effettiva riduzione dei tempi, se davvero questo fosse l’obiettivo dei “riformatori”. Ma, con questa “riforma”, è un’utopia.

L’ex premier: “Riforma? Così noi non la votiamo”

Il primo nodo da sciogliere per Giuseppe Conte come nuovo leader del Movimento 5 Stelle è proprio quello a cui forse tiene di più. Quello della giustizia. Il “sì” dei quattro ministri 5 Stelle di giovedì alla riforma Cartabia che ha cancellato la “Bonafede” sulla prescrizione, per di più spinta da Beppe Grillo con tanto di telefonata al premier Mario Draghi, all’avvocato proprio non è andata giù. E così adesso l’intenzione dell’ex premier è quella di far modificare il testo alla Camera, a partire dal 23 luglio: Conte considera la riforma così com’è stata approvata in Consiglio dei ministri “inaccettabile” e, se il testo dovesse rimanere lo stesso, “non passerà con i voti del M5S”. Per l’ex premier, che ne ha parlato con i suoi nelle ultime ore e tiene un filo diretto con l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, la riforma non solo non va bene “come princìpio” ma ancora di più “alla luce della situazione dei tribunali italiani” che non garantirà di chiudere i processi nei tre anni stabiliti dopo la sentenza di primo grado. L’obiettivo quindi del nuovo leader M5S è di modificare notevolmente la riforma in aula. E se non sarà possibile? Per il momento, nessuno arriva ad ipotizzare l’uscita dal governo Draghi ma, in caso di muro contro muro con i partiti più garantisti, la maggioranza ballerà.

Anche Bonafede è sulla stessa linea di Conte. Ieri, durante l’assemblea con i parlamentari, ha parlato di “riforma sbagliata” che rischia di creare “isole di impunità”. I due si sono già messi a studiare alcune modifiche alla riforma che non la stravolgano completamente ma che permettano di recuperare parte del terreno perso. Il sogno è quello di eliminare la nuova “improcedibilità” à la Cartabia e tornare all’impianto della “Bonafede” con sconti di pena se il processo dura troppo. Più realisticamente, l’obiettivo è agire sul processo di Appello per evitare che scatti la prescrizione. Come? Inserendo modifiche processuali per far rispettare il limite dei due anni e abolendo il divieto di reformatio in peius – in secondo grado le pene non possono essere più alte del primo – così da fare da deterrente per i ricorsi. Inoltre, e questa è la battaglia su cui i 5S si batteranno di più, l’ex premier vorrebbe abolire la norma secondo cui il Parlamento (con una relazione annuale) può dettare alle procure la priorità sui reati da perseguire. Una riforma sognata per anni da Silvio Berlusconi – che voleva i pm alle dipendenze dell’esecutivo – e che ora il M5S vede come fumo negli occhi. Tra due settimane, quando a Montecitorio, arriveranno gli emendamenti di Cartabia, si porrà un problema politico interno al M5S e al governo. Il Movimento infatti sulla giustizia è spaccato in due: da una parte ci sono i ministri – Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Federico D’Incà e Fabiana Dadone – e i loro fedelissimi, dall’altra il corpaccione del gruppo parlamentare che annuncia le “barricate” in aula. Minacciare l’uscita dal governo significherebbe anche sconfessare i propri ministri.

Durante l’assemblea di ieri i grillini più ortodossi, da Giulia Sarti ad Alberto Airola passando per il senatore Marco Pellegrini e la vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni, hanno parlato di “schifezza” e chiesto “mani libere” in aula, mentre l’ala più governista dei gruppi – il capogruppo alla Camera Davide Crippa, Daniela Torto e Luca Migliorino – difende la scelta dei ministri. Il nuovo M5S di Conte proverà a modificare la riforma in Parlamento ma dovrà scontrarsi con i partiti – in particolare Lega, FI e IV – che la considerano addirittura troppo “giustizialista”. A quel punto si aprirà un problema politico nel governo.