5S, accordo prima del burrone: Conte è il capo “senza diarchia”

È accordo, all’ultimo tornante prima del dirupo. È intesa sullo Statuto, tra il rifondatore Giuseppe Conte e il garante Beppe Grillo. Un compromesso chiuso ieri dal “comitato dei sette” per provare ancora a tenere assieme il Movimento. Così ora il M5S avrà un capo con piena agibilità politica, o meglio un “presidente” secondo la definizione ufficiale. Cioè Conte, che ha ottenuto ciò che voleva, ampi poteri senza la diarchia con Grillo. E infatti in serata l’avvocato celebra: “Sono pienamente soddisfatto, ora c’è netta distinzione tra ruoli di garanzia e di azione politica”. I maggiorenti, con Luigi Di Maio e Roberto Fico decisivi per la quadra finale, avevano fatto nottata per limare i dettagli. Poi ieri nel primo pomeriggio c’è stata una telefonata tra Conte e Grillo. Il colloquio decisivo, quello del disgelo. Arrivato anche per evitare la resa dei conti nell’assemblea congiunta di ieri pomeriggio, con i quattro ministri che dovevano rendere conto dei loro sì alla controriforma della ministra Cartabia. Una ferita, per il Movimento. Ed è stata comunque una riunione agitata, ma l’essenziale è che alle 17 il reggente Vito Crimi annuncia ai parlamentari riuniti via Zoom l’accordo. “Grillo e Conte – recita la nota del M5S – hanno definito concordemente la nuova struttura di regole del Movimento. Una chiara e legittimata leadership del M5S costituisce elemento essenziale di stabilità e di tenuta democratica del Paese”.

E il cuore del testo è quel riferimento alla chiara leadership, cioè a Conte. Il suo ruolo nel nuovo Statuto sarà cristalizzato così: “Unico titolare e responsabile della determinazione e dell’attuazione dell’indirizzo politico”. E va letto in controluce con il perimetro lasciato a Grillo, al garante: “Custode dei valori dell’azione politica”. Colui che dovrà vigilare sul rispetto dei principi del Movimento, ultimamente spesso sacrificati. Ma senza nuovi poteri: “Funzioni inalterate”, precisano. E all’obiezione, ovvia, sulle incursioni di campo che – da sempre – Grillo ha avuto nella vita dei Cinque Stelle e che è probabile torneranno a ripetersi, i contiani replicano: “Ora c’è uno Statuto che dice nero su bianco che l’unica e ultima parola spetta al presidente”. Perfetto così per l’ex premier, che avrà tutte le leve principali. Conte sarà il rappresentante legale e il responsabile unico della comunicazione del M5S. E potrà scegliersi i membri degli organi di natura politica, a partire dalla segreteria. Con due vicepresidenti, con ogni probabilità Di Maio e Patuanelli. E un comitato ristretto in cui dovrebbero esserci la sindaca di Torino Chiara Appendino, la viceministra al Mise Alessandra Todde e Alfonso Bonafede. Grillo invece sceglierà il collegio dei probiviri e il comitato di garanzia (tutte le nomine verranno ratificate sul web). “Lo Statuto di Conte è rimasto quasi inalterato” tengono a sottolineare da ambienti contiani.

Come a ribadire il successo dall’avvocato, che ha adoperato come una sponda anche l’ultimo scontro sulla prescrizione. In assemblea i ministri – come già anticipato dal Fatto – hanno provato a sminuire la portata dell’intervento di Grillo prima del Cdm di giovedì. Di Maio ha parlato di “fantomatiche pressioni”, mentre per il capodelegazione Stefano Patuanelli “da Conte e Grillo c’è stato solo richiesta di informazioni”. Ma la sostanza è che sabato l’avvocato ha rilanciato al tavolo della trattativa, citando proprio le pressioni del garante a favore del sì (sollecitate da Draghi), come ennesima prova dell’insostenibilità di una diarchia. Fino ad alzare la posta. “Giuseppe ha fatto capire che non si poteva più aspettare” raccontano. Ora deve far ripartire il Movimento. In settimana potrebbe esserci un evento di presentazione dello Statuto.

Di sicuro, norme alla mano, ci vorranno almeno 15 giorni per partire con le votazioni degli iscritti sulla nuova piattaforma. “È il momento di lasciarci alle spalle le ombre di giorni difficili” scrive Conte.

I big battono tutti le mani. Ma c’è chi anche chi ricorda quanto sia accidentato il terreno, come l’ex ministra e contiana doc Lucia Azzolina: “In un governo con Salvini, Renzi e Berlusconi non possiamo ottenere 100, ma il problema nasce se otteniamo 10. Una verifica andrà fatta”. E sarà il principale dei nodi, per il rifondatore.

Intanto trionfa pure la variante Delta

Londra

Non è stata una finale, per l’Inghilterra, è stata una follia collettiva. In cui dimenticarsi di tutto, del Covid, dell’anno da cui veniamo e di quello che ci aspetta, ma anche delle più basilari regole del vivere civile. Immaginate un popolo che si sente a torto o ragione inventore del football, non vince nulla per mezzo secolo e poi si ritrova la partita della vita in casa. Londra è impazzita. Non c’era persona, donna uomo o bambino, che non avesse una sciarpa, bandiera, cappello, parrucca, maglietta. I luoghi della City, – BrickLane, Trafalgar Square, Wembley ovviamente -, teatro di atti che in qualsiasi altro Paese occidentale sarebbero stati bollati come pure vandalismo e qui sono goliardia. La english madness si è presa tutto, senza freni inibitori, quasi senza dignità. Sicuramente senza controlli, perché la polizia ha praticamente rinunciato in partenza ad intervenire.

Centinaia di agenti, ad ogni angolo, ma nelle strade migliaia di tifosi imbizzarriti e completamente ubriachi. Nessun divieto di vendita di alcol, nemmeno in vetro, persino nel piazzale di Wembley. Fiumi di birra, un tappeto di cocci dal centro fino allo stadio e bottiglie che volano ovunque. Impossibile anche solo pensare di fare qualcosa così. I pochi che ci hanno provato ogni tanto sono stati respinti con perdite, al grido “Are you italians?”. Già, e gli italiani? Introvabili, mimetizzati, quasi nascosti. Dentro Wembley una piccola macchia azzurra. I mille privilegiati arrivati con la FederCalcio dall’Italia (a circa 700 euro a persona) sono stati portati direttamente allo stadio. Gli expat che sono riusciti a procurarsi un biglietto invece alla fine sono stati ancora meno del previsto. Neppure 7mila in totale, a fronte di una muraglia inglese di 58mila persone.

Era già successo durante la semifinale contro la Danimarca, in cui si era vociferato di qualche fuga di troppo ai tornelli. Non erano sono leggende metropolitane. Nell’impazzimento generale, le forze dell’ordine non sono riuscite a tenere sotto controllo nemmeno gli ingressi.

Figuriamoci i controlli su tamponi, distanziamento, mascherine. Inesistenti. Ma d’altra parte è come se non esistesse il Covid. Non a Londra almeno, non ieri. L’Europeo ha anticipato il liberi tutti che Boris Johnson ha annunciato per il 19 luglio. Eppure la variante Delta continua a correre: anche ieri, mentre si giocava, si festeggiava, oltre 30mila nuovi contagi, nonostante 80 milioni di dosi di vaccino tengono bassi ricoveri e morti. Tutti buoni motivi per tenere alta la guardia. E invece assembramenti, baci e abbracci ovunque. Zero mascherine, nemmeno sui trasporti pubblici, stipati all’inverosimile. Quanto al tampone negativo necessario per entrare allo stadio, bastava sventolare il telefono di fronte ai malcapitati steward per passare.

Il Covid, l’alcol, l’ordine pubblico: per un giorno intero la finale ha cancellato tutto. Fino alla partita. Domani, al risveglio, ci si ricorderà del resto. La terribile sbornia da smaltire, i danni da pagare, gli strascichi politici dei rapporti sempre più logorati con l’Ue, l’inevitabile impennata dei contagi di un Paese che veleggia senza apparenti preoccupazioni verso un autunno da 100mila casi al giorno. Il conto di questo Europeo.

Europei, scacco alla Regina Gli azzurri vincono ai rigori

Scacco alla regina. L’Italia è campione d’Europa per la seconda volta, in uno stadio che gronda leggenda, dopo aver rimontato e dominato gli inglesi, fino al tiebreak dei rigori, ancora una volta azzurro, grazie a un super-Donnarumma. Uno a uno, Shaw subito e poi Bonucci. Quindi i penalty: 3-2 (per un totale di 4-3). Bello, bellissimo perché, alla vigilia, pochi ci avrebbero scommesso. E poi perché, soprattutto, Roberto Mancini l’ha portata fin lì con il sorriso del gioco e non con il giogo dei soliti, pedanti, slogan (lacrime e sangue). Dall’urlo di Tardelli (era l’11 luglio anche la notte del Bernabeu) all’urlo di tutti.

Wembley, a noi. Il boato, i canti e un po’ di tafferugli, tanto per rinfrescare la tradizione. Mancini va via liscio, i soliti undici del post Spinazzola. Southgate, in compenso, rinuncia a Bukayo Saka, sceglie la difesa a cinque, “stringendo” Walker, e libera Trippier. In parole povere: si copre. La pagherà.

Piove. Subito in pressing, subito un angolo. Ma in gol ci vanno loro. Kane rovescia il fronte, cross di Trippier da destra, drop mancino di Shaw laggiù a sinistra. Due minuti. Non proprio un contropiede: quasi. Kane svaria e confonde, il nove di fatto è Sterling, ci prendono (e ci tagliano) in velocità. Piove. Piano piano, il risultato porta a uno scambio di ruoli: gli inglesi aspettano, rannicchiati, gli italiani gli palleggiano in faccia. Brutta tegola, la botta a Jorginho (22’, ginocchio): è la bussola, non ne abbiamo altre. Resiste. È una guerra di territorio, con il torello di Jorginho, Verratti e Barella a mendicare varchi. Il duello fra Shaw e Chiesa accende il loggione. Di Lorenzo si occupa di Mount e, quindi, ciao Pep. Bonucci e Chiellini presidiano i varchi centrali, così come Maguire e Stones soverchiano Immobile.

Brivido al 34’: Chiesa scappa a Rice, di forza, e stanga a fil di palo. Phillips si fa un mazzo tanto, al fraseggio di Emerson e Insigne manca la scintilla, merce rara. La ripresa si apre con un contatto Bonucci-Sterling, in area: meno vago, a essere sinceri, del rigore-strenna anti Danimarca. Non siamo abituati a essere sotto, qua e là i nervi bollono. È il 54’, quando Mancini richiama Barella e Immobile: dentro Cristante, più ciccia, e Berardi, più scatto. Chiesa slitta a sinistra, la chicca è Insigne falso “nueve”. L’Italia moltiplica il possesso palla, la sfida si ciba di pathos, al diavolo le rime baciate. Sempre più avari i contropiedi di Kane e Sterling.

Ci si aggrappa a Chiesa, il più incisivo, il più diretto: che parata, Pickford, al 62’. Difficile riconoscere, da lontano, i duellanti: il catenaccio lo fa l’Inghilterra, non l’Italia. Maguire salva su Cristante, ma premono troppo, gli azzurri, e dall’ennesimo corner nasce, al 67’, il pareggio. Strameritato. Lo firma Bonucci, in mischia, dopo rocambolesche carambole fra Verratti, ancora Pickford e il palo.

Bukayo Saka avvicenda Trippier, Henderson rileva Rice, stremato. Non è che il 4-4-2 di Southgate scuota i suoi. Berardi, in acrobazia, sfiora il gol della vita. Le sportellate di Cristante sono preziose, mai vista una Nazionale così padrona a Wembley, e inglesi così sudditi. Emerson imperversa, Chiesa sembra un diavolo in mezzo a una plotone di energumeni, ma speronato a una caviglia cede (85’). Era stato il migliore. Tocca a Bernardeschi. Si lotta per ogni zolla, di puro spirito, visto che la carne è debole. Gli ultimi minuti sono tutti nostri, un lungo bivacco al limite delle loro tende. Supplementari, dunque. Come con l’Austria, come con gli spagnoli. C’è Belotti, e non più Insigne. E Locatelli al posto di Verratti. fra i più lucidi. E Grealish per Mount. Chiellini salva su Sterling, Pickford su Bernardeschi. L’England, sbilanciata, ci spinge alle corde. Un tackle di Jorginho su Grealish sarebbe da rosso, ma Kuipers, l’arbitro, non era al soldo di sua maestà? Staffetta tra Emerson e Florenzi, Henderson e Rashford, Walker e Sancho. Rigori, “again”. Una lotteria, una tortura. Berardi spiazza Pickford, 1-0. Kane fulmina Donnarumma, 1-1. Belotti, parato. Maguire, impeccabile: 1-2. Bonucci non perdona, 2-2. Rashford scheggia il palo. Bernardeschi, freddo e chirurgico: 3-2. Sancho, adesso: Donnarumma lo strega. Ora, Jorginho. L’ultimo: cambia angolo (rispetto alla Spagna) e Pickford ci arriva. Bukayo Saka: Donnarumma, gran balzo.

Come avrebbe scandito Nando Martellini: campioni d’Europa, campioni d’Europa.

La (mala)fede di Salvini e l’uso ignorante e strumentale dei due Papi

Come suona falsa la risposta sbrigativa che ieri Matteo Salvini ha dato in un’intervista al Corriere della Sera in merito al suo sodalizio clericale con l’altro Matteo, Renzi, per affossare il ddl Zan sui diritti civili (l’appuntamento è domani al Senato). “Entrambi ascoltiamo il Santo Padre”, ha detto.

Ora, il leader leghista pilastro del governo dei Migliori semplifica in due righe una questione complessa, esplosa tre settimane fa con la divulgazione della Nota della Segreteria di Stato Vaticana – contemplata dal principio concordatario all’articolo 7 della Costituzione – e che evidenziava a giudizio della Santa Sede i rischi del ddl sulla libertà d’espressione. Il dibattito successivo è stato intenso e divisivo anche nella Chiesa: da una parte i sostenitori di Francesco, in ogni caso forti del silenzio del papa; dall’altra i vescovi italiani arruolati sic et simpliciter dalla destra anti-bergogliana.

Ma il punto è un altro. Cioè: l’uso strumentale e talvolta ignorante dei due papi. Nel senso che il “credente” Salvini, quello che sventola il rosario mariano nei comizi di partito, sinora si è sempre proclamato ratzingeriano, costruendosi un Benedetto XVI nemico dei migranti e dell’Islam e ignorando quindi il pensiero completo del papa emerito (che comunque sempre conservatore rimane, ma certamente non sovranista). Ecco un paio di slogan salviniani in questi otto anni di misericordia francescana: “Il mio Papa resta ancora Benedetto XVI” (2016); “Auguri di cuore nel giorno del suo compleanno a Joseph Ratzinger, non solo indimenticata guida della Chiesa come Papa Benedetto XVI ma finissimo filosofo e teologo, i cui insegnamenti ancora oggi vivificano le nostre menti e le nostre coscienze” (2020).

“Il mio papa” e “indimenticata guida”. Non solo. Ché il “credente” Salvini è anche discepolo del pasciuto cardinale americano Burke, alfiere dell’arido tradizionalismo in nome della dottrina e della liturgia, tutto formalismo e apparenza, e che in passato ha evocato l’Anticristo per stroncare il pontificato “eretico” di Bergoglio, ritenuto una sorta di Lutero a capo della Chiesa di Roma. Premesso tutto questo, adesso in modo strumentale Salvini inverte la rotta e presenta se stesso come un attento e zelante “ascoltatore” di Francesco. Che ipocrisia! Una finta conversione, sia chiaro, solo in materia di diritti civili, tenendo presente la complessità della Nota citata prima.

Ecco, per esempio, la parte finale della speciale preghiera dei fedeli raccomandata ieri, anche festa di San Benedetto patrono d’Europa, dai vescovi italiani durante la messa: “Lo Spirito Santo aleggi sulle acque, affinché siano fonte di vita e non luogo di sepoltura, e illumini le menti dei governanti perché, mediante leggi giuste e solidali, il Mare Nostrum, per intercessione di san Benedetto, patrono d’Europa, sia ponte tra le sponde della terra, oceano di pace, arco di fratellanza di popoli e culture. Preghiamo”. Chissà se ieri Salvini era a messa e ha risposto come tutti i fedeli alla preghiera dei vescovi.

 

“Il gay di destra teme di doversi disvelare. E dice no al ddl Zan”

Perché un omosessuale che vota a destra dovrebbe incupirsi della legge Zan e uno che vota a sinistra invece esultare? E un transex con simpatie a sinistra vive la sua nuova identità in modo molto differente di chi sposa la destra?

Marino Niola, che con Elisabetta Moro ha appena dato alle stampe per Einaudi Baciarsi, il sigillo umano “unisex” del contatto amoroso o solo affettuoso, indaga l’uomo e le sue molteplici identità.

“Il bacio è il destino insopprimibile del genere umano, è scelta irreparabile e non tiene conto dell’identità. Lui? Lei?”

Lui o lei. O anche l’altro.

O l’altr senza desinenza finale.

Professore, un po’ di confusione viene, lo ammetta anche lei. Io non so cosa capiscano gli italiani quando ascoltano queste aspre discussioni sulla transfobia.

Un linguaggio che sorvola la loro testa. Subiscono in silenzio. Però nelle loro vite, nella loro comunità conoscono casi concreti di amici, parenti, colleghi o colleghe omosessuali e anche di chi si è sentito donna invece che uomo, o viceversa. Nella società sono scelte largamente rispettate, consumate e digerite. Il villaggio è sempre più avanti del Palazzo.

E allora perché tutto questo sommovimento?

Sembra roba di puro potere partitico, discussioni che hanno secondi e terzi fini, questioncine politiciste. Ed è certo che all’apparenza e anche un po’ oltre sia così. Ma al fondo c’è un grande distinguo ideale, civile e naturalmente anche politico che viene taciuto. Ed è singolare, non trova?

La destra è la coalizione in testa ai sondaggi. Essendo la più numerosa in Italia ospita dentro di sé i differenti orientamenti sessuali dei suoi elettori che in proporzione saranno numericamente maggiori.

Non c’è alcun dubbio.

L’omosessuale di destra pensa che la sua scelta debba riguardare solo lui?

La destra è ideologicamente contraria a mettere becco sotto le lenzuola. L’intimità va vissuta individualmente, e ogni scelta non può avere un destino collettivo. Infatti il gay di destra è parecchio scocciato di questa legge.

Ma perché, se la norma rafforza le tutele a presidio delle sue libertà?

Perché lo costringe a una scelta di campo, a iscriversi nel partito arcobaleno, a farsi vedere in piazza.

L’opposto di chi vota a sinistra.

Già, perché il teorema a sinistra è capovolto: il personale è politico. E ogni avanzamento dei costumi è inderogabilmente assistito dalla scelta di fare movimento. Si chiamano appunto movimenti di liberazione e questi non hanno cittadinanza nella politica di destra.

L’omo o il trans di destra che fa?

Vive un liberismo sessuale. È lui e lui solo e non ambisce a nessun riconoscimento pubblico della propria opzione sentimentale. La scelta sessuale, dunque privata, subisce per costoro spesso una compressione rispetto alle altre libertà, soprattutto a quelle economiche. Perciò rimane in ombra, quasi nascosta, comunque alimentata solo da scelte intime.

Ma i diritti civili non sono principi negoziabili.

Tutto per la destra è negoziabile.

Ma costringe i più deboli alla marginalità.

L’omosessuale che vota a destra vive ogni norma che inquadra e regolamenta il suo privato come stigma. La teme quella norma. La legge intruppa.

Il Gay Pride.

Che spesso quelli di destra odiano decisamente.

La destra ha bisogno di mimetizzarsi.

Vive l’intimo nell’intimo.

Ipocrita.

Una buona dose di ipocrisia c’è.

Ma così non aiuta le scelte di chi è magari più fragile.

La destra è individualista e non socializza queste questioni.

Si pensa che parlare tanto dei diritti civili e poi far poco per quelli sociali sia un modo per scegliere la strada storta contro le diseguaglianze.

Invece non c’è conflitto più politico, più ideologico di questo. Al fondo ci sono mondi perfettamente capovolti.

E anche imbarazzi differenti, vergogne differenti.

Anche.

Fare tutto nell’ombra.

Lei vede l’ombra, loro lo chiamano diritto a gestire ciascuno per conto suo una scelta.

L’identità di genere è una costruzione culturale?

Il genere è una costruzione sociale, non ce l’ha dato mica la natura?

Berrettini è già nella storia. Ma vince il marziano Nole

Quando il venticinquenne romano Matteo Berrettini, detto il canguro del Nuovo Salario, lascia lo spogliatoio (di lusso, quello destinato alle teste di serie) e s’incammina lungo i corridoi della palazzina, attraversando la South West Hall realizza quanto l’All England Croquet and Lawn Tennis club di Wimbledon incarni l’essenza del tennis, e i suoi diciotto courts, i campi di gara, tutti rigorosamente in erba, ne siano i custodi. Non a caso il club viene soprannominato “Wimbledon Cathedral”. Un giorno, pensa Matteo, forse ci sarà anche il mio ritratto appeso a queste pareti sfiorate dal suo borsone a tracolla, accanto ai quadri, alle stampe, alle bacheche. Ci sono persino i valletti in polpe rigorosamente verde a presidiare questo percorso che racconta il mito di Wimbledon, un’epopea che dura da 144 anni. Per gli inglesi, il torneo di Wimbledon è molto più di un prestigioso evento sportivo, è un rito, in cui lo spirito aristocratico e tradizionalista rappresenta lo stile di vita british, quanto il tè delle cinque, o lo sherry dopo cena, o la famiglia reale che infatti è presente nel patronage di Kate, la duchessa di Cambridge moglie del principe William, e ha come presidente del club Edward, duca di Kent, primo cugino della regina Elisabetta.

Pure per Berrettini, questa prima e storica finale di Wimbledon è un rito. Di iniziazione. È la consacrazione nel ristretto club dei migliori tennisti. Sa anche di non avere molte speranze. Anzi, quasi nessuna: Novak Djokovic, il rivale, è il più forte del mondo. Può solo sperare in una resa onorevole. Sfruttando a fondo il servizio martello, la sua arma. Forse il più potente in circolazione. Ma Novak, nonostante i 34 anni, è agile come un gatto, forte come un toro, furbo come una volpe. È maniaco delle diete. Come Ronaldo, si allena maniacalmente. È teso, Matteo. Non gli va d’essere considerato l’under dog della partita, il perdente. Djokovic è un cannibale. Sta stracciando ogni record. Ha conquistato i due Wimbledon precedenti. Il vegano Novak divora – agonisticamente – gli avversari. Matteo ne sa qualcosa, due volte l’ha incontrato, due volte ha perso secco. Djokovic ha già trionfato in diciannove Grandi Slam, uno in meno di quelli vinti da Nadal e Federer. Ha vinto 84 tornei, Matteo solo 5 (nessun Grande Slam). Ha incassato premi per oltre 126 milioni di dollari, Berrettini poco più di sei.

Un grande applauso accoglie Berrettini, il primo a metter piede sul Centre Court. I 15 mila spettatori lo incoraggiano, per antica consuetudine si tifa il più debole. L’erba dei fondolinea è spelacchiata, a Wimbledon anche la manutenzione dei prati è parte del rito: il rullaggio è più marcato che in passato, per adeguarsi al gioco moderno dove i colpi e la stazza dei giocatori sono assai più “pesanti”. Berrettini è alto un metro e 96 e pesa 95 chili, Djokovic è un metro e 88 per 77 chili. Matteo tira bordate che superano i 235 kmh. L’erba è rasata all’altezza di 8 millimetri. Matteo ha appena vinto il Queen’s, torneo anch’esso su erba, molto amato dagli inglesi. Ha quindi una buona referenza. Ma Djokovic è il padreterno dell’erba. Sorry, Matteo.

L’onore della prima battuta è di Djokovic. Ma è Matteo che segna il primo punto. Poi, però, sbatte in rete la risposta. L’avvio di entrambi è alternato da grandi colpi e da errori inaspettati. Berrettini va sotto, perde il servizio, però resuscita sul 5 a 2 per il serbo. Fa controbreak, con scambi interminabili riesce a recuperare a pareggiare 6 a 6. Il tie break del romano è perfetto, concluso 7 a 4 con un folgorante ace. Vince così – a sorpresa – il primo set, dopo 70 minuti accaniti. Djokovic scuote la testa. Piglia il largo nel secondo set, in venti minuti è avanti 4-0. Matteo di nuovo recupera. Risale a 4-5. Il sorpasso non gli riesce, Novak si deve impegnare come non mai per liquidare Matteo 6-4. Poi, il serbo punta l’indice alla tempia, come a dire “Usa la testa”. A sé o a Matteo? L’incontro ormai è segnato. Dura quasi quattro ore. Djokovic per la terza volta consecutiva è il campione di Wimbledon. Quest’anno, però, non ha vinto da dominatore. Infatti riserva parole d’ammirazione per Berrettini. Il futuro è suo, dice, ma non fin quando ci sono io. Wimbledon, confessano entrambi, è un sogno. Quello del serbo è realtà ormai da anni. Quello di Matteo è ancora riposto nel cassetto. Ma ha preso confidenza. Ha giocato con grande coraggio, mai rassegnato. L’Italia del tennis esce a testa alta. Sconfitta, non umiliata.

L’effetto smart working affonda i prezzi: -3,2%. Ma i fondi comprano

I lockdown causati dalla pandemia hanno portato all’esplosione del lavoro e della didattica a distanza, oltre ad aver rappresentato un forte impulso per l’e-commerce. Sul fronte dello smart working, un terzo del personale impiegatizio delle grandi imprese è di fatto sempre al lavoro fuori ufficio, ovviamente a rotazione. La diffusione di queste nuove modalità di vita e di lavoro ha modificato la mobilità delle persone e andato in crisi le attività legate al pendolarismo. Ne è scaturita una crescita della domanda – per chi se le può permettere – di abitazioni più ampie e più connesse alle reti digitali, e per contro una contrazione del terziario, con il calo non omogeneo della richiesta di nuovi spazi che ha riguardato negozi e uffici. Proprio il mercato degli spazi per il lavoro dei “colletti bianchi”, pur pesantemente penalizzato, continua però a rappresentare l’asset class preferita dai grandi investitori, primi fra tutti i fondi immobiliari. Il futuro resta complesso, ma secondo gli analisi si andrà verso una segmentazione della domanda che premierà solo gli spazi di qualità.

Nel 2020 la domanda di uffici in affitto è stata duramente colpita dalla pandemia in tutto il mondo, ma i singoli mercati hanno reagito in maniera diversa, anche all’interno di aree omogenee. Nell’area Europa – Medio oriente – Africa il 2020 si è chiuso con una diminuzione del giro d’affari di circa il 40% rispetto al 2019. Gli operatori del settore sperano nella definitiva fine della pandemia che inneschi una ripresa duratura. Se si guarda alle statistiche nazionali raccolte ed elaborate da Scenari Immobiliari sull’andamento medio del mercato del real estate nell’annus horribilis della Covid, l’impatto del coronavirus è stato fortissimo. In Italia la contrazione dei canoni nel patrimonio gestito per dilazione della locazione, concessioni gratuite o revisione dei contratti non ha però superato il 15% sul patrimonio complessivo ed è stata inferiore al 5% per gli immobili di ottima qualità.

Nei due segmenti del terziario, gli uffici e il commerciale (piccole e medie superfici), i prezzi di vendita nel 2021 sono calati su base annua rispettivamente del 3,2 e del 4%. Più colpiti i canoni di affitto, anche a causa delle morosità causate dalla recessione, calati rispettivamente del 9,8 e del 15,1%, sempre sulla distnza dei 12 mesi. A soffrire di più sono stati i piccoli centri: nel segmento degli uffici le variazioni di prezzo e di canoni sono state pari a -43 e -10,8%. Meglio è andata nelle medie città (-3 e -10), mentre i grandi capoluoghi che hanno segnato invece “appena” -2,4 e -8,6%. A giocare a favore delle città di dimensioni maggiori sono le aspettative di un recupero più veloce del mercato.

Gli immobili direzionali rimangono comunque il core business della maggior parte dei fondi immobiliari attivi in Italia. Attualmente il patrimonio ammonta a oltre 100 miliardi detenuto da 63 Sgr e 535 fondi immobiliari. Le prime venticinque Sgr per numero di fondi immobiliari gestiti possiedono oltre 480 veicoli, oltre il 90% del totale. L’anno scorso gli uffici hanno rappresentato oltre il 42,5% delle superfici immobiliari gestite da questa categoria di strumenti di investimento. Milano è rimasta la città che ha calamitato la maggior parte delle operazioni, con circa 2,7 miliardi investiti in uffici.

Sono tre, secondo Scenari Immobiliari, le principali criticità degli immobili esistenti portate a galla dalla crisi sanitaria. La prima è la dimensione insufficiente degli spazi, sia abitativi che di lavoro. La seconda è la sostenibilità dei canoni di locazione. La terza elemento è la lentezza dei percorsi di trasformazione degli spazi.

Secondo Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, “è calata la domanda complessiva di uffici, ma non in modo uniforme: la richiesta di ambienti più funzionali, spaziosi e salubri è invece aumentata. Sta finendo l’epoca dell’open space con appena due o tre metri quadrati disponibili a persona, della rotazione parossistica degli spazi e della necessità di prenotarsi una postazione”. L’analista afferma che “anche sul fronte dei canoni di locazione, l’impatto è tutto sommato sinora stato contenuto dalla durata dei contratti, specialmente pe gli spazi affittati dalle aziende di maggiori dimensioni. Le morosità per gli investitori, in gran parte fondi immobiliari, sono dovute soprattutto ai piccoli clienti”. Quanto al futuro, “l’effetto smart working potrà rientrare nel tempo se si renderanno disponibili spazi adatti”, conclude Breglia. Per l’ufficio, insomma, servirà la qualità.

Il Covid fa ballare il mattone. Tiene solo Milano, il resto cala

La casa post Covid? Più grande. Con una stanza in più per fare smart working. Anzi no. Con due stanze in più per la didattica a distanza dei ragazzi. Anzi no. È l’ora delle micro-case, dice la società svizzera Artisa. Che a Milano annuncia un piano da 2 mila alloggi nella seconda periferia entro il 2025. Per fare concorrenza agli affitti brevi di Airbnb con le locazioni a medio termine per i city user delle città: da 4 settimane a un anno, destinati a manager, turisti, pazienti di ospedali e cliniche, studenti. Li chiamano city-pop. Per la modica cifra di mille euro al mese sui Navigli. Spazi piccoli perché si vive all’esterno. Con i servizi – pulizie, lavanderia, parcheggio, cantina, palestra, spazi comuni, car sharing, monopattini elettrici – in condivisione. Come del resto la postazione di lavoro nei coworking per freelance. Per molti segmento remunerativo del mercato real estate. Sarà. Ci puntano WeWork e Covivio. Ma la più famosa fra le società italiane, la pluripremiata Talent Garden – start-up fondata da Davide Dattoli e con azionisti come Dompé, Angelini, Intesa Sanpaolo, manager delle start-up e fiduciarie – nel 2019 pre-pandemia perdeva 6 milioni. Chissà che botta il bilancio 2020, figlio di lockdown e distanziamento sociale.

“Non abbiate paura”, scrive ai colleghi il presidente e fondatore del think-tank Scenari Immobiliari, Mario Breglia, all’inizio del Covid. Per Breglia “aver vissuto per settimane in case vecchie o senza balconi, cambierà le prospettive di investimento della famiglia. Piuttosto che il nuovo modello di Suv, meglio una casa con una stanza in più”. La morale? Casa che vuoi, esperto che trovi. Così orientarsi nei dati del mercato real estate diventa un test di logica.

Ma il 2020 si è chiuso con un calo generale delle compravendite: sono passate di mano circa 558 mila abitazioni, 46 mila in meno (-8%) rispetto al 2019, interrompendo l’aumento degli scambi che proseguiva dal 2014 con un tasso di crescita medio annuo del 7,5%. La superficie media delle case vendute è stata di 107,5 metri quadrati, in crescita di 1,3 sul 2019. Il valore delle vendite è ammontato a poco più di 89 miliardi, in calo di 8,5 miliardi (-8,7%) su base annua e concentrato per il 58% al Nord. La pandemia ha segnato l’andamento dei prezzi delle case: a fronte del reddito disponibile delle famiglie calato del 3% per effetto della recessione, il prezzo delle case nel primo semestre era cresciuto in media del +4% per poi calare del -2,2% nella seconda metà dell’anno.

Per Unioncamere e Ance Lombardia il settore costruzioni ha chiuso il 2020 con un rosso del 5,7%, ma è già in pieno recupero con un incremento del 5% sui volumi pre-Covid. Salgono i prezzi medi richiesti per le abitazioni in vendita in Italia: +0,9% nel primo semestre 2021 secondo l’Osservatorio di Immobiliare.it.

Milano è la città più cara d’Italia con una media di 4.831 euro al metro quadrato e una crescita del 2,3%. Davanti a Firenze che apre l’anno con un trend negativo e a Roma (+0,5%). Tutti scommettono sul capoluogo lombardo. “Il mercato immobiliare di Milano regge all’urto della pandemia” (23 aprile 2021, EuroMilano, società di sviluppo immobiliare). “Milano: il mercato immobiliare tiene, nonostante il Covid” (4 marzo 2021, MutuiOnline). Secondo Idealista.it, l’evoluzione dei prezzi delle case in vendita mostra dei picchi inspiegabili: +31,2% in zona Cermenate, +17% a Corvetto e Rogoredo e il +20% in Certosa. Non è chiaro come sia possibile che questo avvenga nella città più colpita di un Paese il cui Pil segna -10% con un milione di occupati in meno, dove l’Agenzia delle Entrate nel report del 20 maggio 2021 segnala che c’è il calo di transazioni e compravendite più elevato d’Italia, -17,6%, davanti a Bologna e Firenze.

La legge della domanda e dell’offerta non funziona più? Funziona. Ma solo se si considera il “nuovo”. Dalla nota metodologica dello studio condotto dal portale spagnolo Idealista, si scopre che sono state scartate dalla ricerca le case in vendita da troppo tempo. Perché fanno parte del “mercato anomalo”. Tradotto: non vengono vendute, i prezzi scendono. Non è buono per gli affari.

L’importante è non fermare la giostra. Così la misura sui mutui agli under 36 del premier Mario Draghi spinge il mercato ma agli operatori non piacciono i limiti di 40 mila euro di Isee per potervi accedere. Il super bonus 110%? Traina il mercato ma bisogna snellire la burocrazia. Il mercato crea opportunità di rendimento anche nel disastro di pandemia e crisi economica. Gli studenti in fuga delle università vogliono poter continuare a svolgere gli esami a distanza tagliando i costi d’affitto? Serve lo student housing. A cui il Recovery plan del governo Draghi tende la mano: cofinanziamento dello Stato al 50%; primi tre anni di retta pagati dal pubblico; tassazione agevolata – quella dell’edilizia sociale – per strutture dove una stanza può costare anche 800 euro al mese.

Allora chi piange? Negozi e hotel. Gli investimenti di questi ultimi segnano -76% dopo l’anno d’oro 2019. Chi invece brinda alle trasformazioni pandemiche sono le logistiche. Non solo magazzini lungo le autostrade e infrastrutture dei trasporti: ora le frontiere sono il last mile (ultimo miglio) e la versione aggiornata del last touch, con i micro-hub dentro le città per la consegna delle merci al cliente finale. Se secondo Colliers, solo la logistica nel 2020 ha aumentato i volumi mentre il totale, con 8 miliardi, è inferiore del 33% rispetto al 2019 e il più basso (di poco) degli ultimi 6 anni.

Al via il nuovo incentivo di massa (100 euro e senza Isee) dal plafond limitato

AAltro giro, altro bonus. Ad allungare la già sterminata lista di incentivi messi in campo negli ultimi anni dai vari governi è la misura dedicata al passaggio, dal primo luglio 2022, dalla televisiva digitale ora in uso (Dvb-T) al digitale di seconda generazione (il Dvb-T2). In altre parole, senza un apparecchio acquistato dopo il 2018 o in mancanza di un decoder ad hoc, la tv si potrà tranquillamente buttare, perché non si riuscirà più a ricevere le nuove frequenze. Insomma, ci si ritroverà a vivere quello già accaduto nel 2012 quando la tv analogica ha cessato di esistere ed ha lasciato il posto al digitale terrestre.

Per agevolare questo passaggio è stato previsto uno sconto del 20% sul prezzo della nuova tv, fino a un massimo di 100 euro, che può essere richiesto da tutti gli italiani che hanno un vecchio televisore da rottamare e sono in regola con il pagamento del canone Rai. Un bonus che addirittura si può cumulare con un’altra agevolazione stanziata nell’ottobre 2019 che prevede l’erogazione di 50 euro solo per i possessori di Isee più bassi (fino a 20 mila euro). Bene ma non benissimo.

Il passaggio, imposto dall’Europa già dal 2017, va verso un risultato evidente: molta confusione, rischio di un aumento dei prezzi delle tv e, soprattutto, l’ennesimo utilizzo di stanziamenti pubblici che non risulteranno molto efficaci. E i motivi sono ben due. C’è un plafond limitato da 250 milioni di euro che potrebbe portare all’ennesimo click day dal momento che la cifra stanziata dovrebbe coprire circa un quarto delle potenziali richieste (si pensi a quello che è successo con il bonus bici). Mentre le grandi emittenti tv hanno fatto festa grossa: la liberazione della vecchia banda, richiesta per lo sviluppo del 5G, ha garantito loro nuove frequenze a discapito delle tv e radio locali. “Come sempre più spesso avviene (e l’emergenza economica Covid ha fatto scuola), lo Stato invece di ridurre le imposte per favorire gli amministrati, ha preferito elargire a pioggia soldi con – in questo come in altri casi – la frenesia dei singoli per cercare di non restare fuori del tetto di 250 milioni. Probabilmente è più semplice togliersi il pensiero dando soldi in questo modo che non modificare la macchina dell’imposizione fiscale”, ha commentato Vincenzo Donvito presidente nazionale dell’Aduc.

Altro limite. Il decreto attuativo del bonus tv redatto dai ministeri dell’Economia e dello Sviluppo economico è stato firmato solo la scorsa settimana. Così per sapere da quando sarà possibile richiedere lo sconto, si dovrà aspettare la pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale. Tecnicamente, il bonus viene riconosciuto a ogni singola famiglia. Per richiederlo va presentata la domanda insieme alla copia di un documento d’identità e del codice fiscale.

Il bonus sarà disponibile fino al 31 dicembre 2022, sempre che le risorse non si esauriscano prima.

 

Ma la paralisi dei procedimenti ha costi sociali: aiuta più i furbi

Lon l’occasione della pandemia sono stati bloccati per circa un anno e mezzo i provvedimenti di sfratto. La misura sembra ispirata dal desiderio di tutelare gli affittuari, forse presumendo che siano tutti poveri e bisognosi, dai proprietari, forse presunti tutti ricchi ed avidi. Ci sono casi in cui può essere vero il contrario e sarebbe stato meglio intervenire in modi più articolati, distinguendo tra il residenziale ed il commerciale, delegando ai giudici il compito di valutare caso per caso il reale stato di necessità e introducendo sussidi per i più bisognosi.

Il blocco generalizzato degli sfratti si aggiunge invece alla ben nota lentezza della giustizia con l’effetto di ridurre di molto la tutela dei diritti di proprietà. Ciò che preoccupa non è solo il rischio che si penalizzino proprietari più poveri dell’affittuario quanto e soprattutto il diffondersi della percezione che si possano violare impunemente i contratti. I furbi non pagano e chi paga è deriso. Si erode così un bene molto prezioso, il “capitale sociale”, nello specifico la propensione a rispettare i contratti anche senza l’intervento della forza pubblica. Le conseguenze negative per la collettività sono che aumenta il costo medio degli affitti e si riducono gli investimenti.

Consideriamo il caso del locatario moroso di un negozio. Dopo alcuni mesi alla ricerca di un accordo il proprietario decide di iniziare la procedura di sfratto, ma, anche in un tribunale tra i migliori come quello di Milano, l’udienza viene fissata dal giudice dopo circa sei mesi. Essendo una causa molto semplice, che si può decidere rapidamente, non si capisce il motivo di così lunghi rinvii. Manca davvero l’organico o i giudici preferiscono dedicarsi a cause che diano loro maggiore visibilità?

Anche nel caso che la sentenza sia emessa alla prima udienza, per vari adempimenti possono passare 4-6 mesi prima che l’ufficiale giudiziario faccia la prima uscita, ed ancora altri 4-6 mesi, se tutto va bene, perché alla terza uscita l’ufficiale vada con la “forza pubblica”. In totale passerebbero “normalmente” un paio d’anni tra l’inizio dell’insolvenza e la liberazione del negozio, ma col blocco degli sfratti gli anni possono arrivare anche a tre-quattro. In questo periodo il proprietario deve pagare spese legali, spese condominiali e IMU. Se poi è una persona fisica deve pagare persino le imposte sul reddito dell’affitto “teorico” non percepito, sino alla sentenza di sfratto, né può dedurre queste spese dal reddito corrente o dai redditi futuri.

Ma si sa che il capitale è come i conigli: si difende fuggendo. Se il rischio di perdite sull’affittanza è elevato i proprietari “fuggono” aumentando il rendimento medio richiesto per investire in immobili (a Milano gli affitti sui negozi si aggirano sul 7-10%). I locatari ribaltano poi i maggiori costi dell’affitto sui prezzi dei loro prodotti o servizi: a livello di sistema le inefficienze della macchina giudiziaria, ed il blocco degli sfratti, finiscono per gravare su tutta la collettività. L’elevato rischio rende anche più difficile l’apertura di nuove attività da parte di chi non parta già da una base consolidata o non sia in grado di fornire adeguate garanzie. Si scoraggia così la mobilità e l’emergere di nuove iniziative.

L’erosione del capitale sociale è la più dannosa delle conseguenze. Il piccolo commercio è sempre più gestito da immigrati che non possiedono immobili e non hanno quindi da temere rivalse sul loro patrimonio. La percezione che in Italia si possa non pagare per anni, e poi spostare l’attività in altro locale, si va diffondendo. Diamo un pessimo messaggio a questi nuovi imprenditori. L’assenza di efficaci tutele giuridiche riduce la fiducia nei rapporti economici e la propensione a rispettare i contratti; le insolvenze si moltiplicano e la gestione della macchina giudiziaria diventa ancor più lenta e difficile, come un serpente che si morda la coda.

Mentre si invoca l’intervento dello Stato in sempre nuovi settori sarebbe auspicabile migliorare la gestione di uno dei suoi compiti fondamentali quale l’amministrazione della giustizia. In generale il nostro sistema prevede procedure volte ad assicurare la massima tutela per i debitori ma complessità, costi e tempi finiscono per negare nei fatti quella perfetta giustizia che si vorrebbe perseguire. Speriamo che le molte risorse stanziate nel Pnrr per la riforma della giustizia vengano dedicate anche a soddisfare le esigenze dei “piccoli”, introducendo, per importi modesti, procedure veloci e una rapida esecutività delle sentenze. Dal confronto di vari paesi si vede che esiste una forte correlazione tra capitale sociale e crescita economica, e una giustizia efficiente è essenziale per preservare o accrescere il capitale sociale.