Il girone infernale delle aste schianta famiglie e creditori

Terminato il blocco delle esecuzioni, nelle prossime settimane arriveranno sul mercato circa 120.000 prime case di famiglie che non ce l’hanno fatta a pagare le rate del mutuo o le altre spese quotidiane arrivando a sovraindebitarsi. Immobili che si cercherà di vendere alle aste, con un risultato evidente: le vendite andranno deserte con i prezzi costantemente abbassati ad ogni nuova asta. Già pre-Covid le case in media erano svendute al 45% del loro valore di mercato ma, detratte le spese per i consulenti del creditore, si scendeva addirittura al 33%. Una modalità con cui le famiglie perdono la loro casa e restano indebitate a vita: il ricavato non basta a estinguere il prestito, gran parte del debito resta sul groppone, impacchettato e scagliato nel girone infernale del recupero crediti. “L’incapacità della politica di predisporre soluzioni eque al problema del debito, in vigore in tutti gli altri Paesi europei, sta preparando un massacro sociale”, spiega Giovanni Pastore, uno dei fondatori dell’associazione Favor Debitoris che aiuta le famiglie indebitate. L’ultimo anno e mezzo di pandemia, con lo stop forzato delle esecuzioni immobiliari, non è stato sfruttato per trovare un piano condiviso che possa affrontare l’emergenza abitativa partendo dal continuo ribasso dei valori di vendita alle aste. Ribasso spinto dalla legge 132/2015 voluta dal governo Renzi con lo scopo di abbreviare l’iter delle aste e facilitare così il recupero dei crediti delle banche. Questo però solo su carta. Nella realtà, le aste ingolfavano prima i tribunali e lo fanno anche oggi. Aver accelerato l’iter, applicando da subito uno sconto, non solo non ha risolto il problema ma ha fatto svalutare ancora di più gli immobili. Negli ultimi 6 anni, la stessa casa che valeva 100 mila euro è passata da 55 mila euro agli attuali 35 mila. Il governo ora punta ad approvare un ulteriore modifica alla procedura di espropriazione immobiliare e imporre almeno tre aste in un solo anno. Ma questo porterà a un ulteriore abbassamento dei prezzi. “Se le aste si tengono con maggior frequenza, senza adeguamento pubblicitario e lasciando invariata la legge 132/2015, si lederanno paradossalmente soprattutto gli interessi dei creditori”, continua Pastore. Con un ulteriore aggravante: dallo scorso dicembre, con l’entrata in vigore della nuova legge sul sovraindebitamento (d.l. n. 137/2020), le famiglie possono ricorrere all’esdebitazione dell’incapiente. Quindi, pur perdendo il loro unico bene (la casa), gli esecutati possono sdebitarsi e tutte le perdite di valore dell’immobile restano in capo al creditore che non può recuperare il resto del suo credito con ulteriori azioni esecutive. I dati statistici rilevano poi che il 75% delle esecuzioni immobiliari riguarda i condomini per le rate non pagate e i professionisti, come idraulici o muratori, per le fatture non saldate. Ma per evitare di avviare l’esecuzione “basterebbe che per le somme inferiori al 50% del valore di perizia dell’immobile si optasse per pignoramenti presso terzi o ipoteche giudiziali sull’immobile”, conclude Pastore.

Sfratti, dietro il blocco zero idee e si riparte da 70 mila sgomberi

“Siete del tribunale?”. Al quartiere Satellite di Pioltello, edilizia privata alle porte di Milano popolata da stranieri, le giornate passano in attesa “del tribunale”. Nel 2018 risultavano almeno 400 pignoramenti in corso. Con Unicredit a fare la parte del leone dopo aver ceduto gli “incagli” alla società di recupero DoValue. Il 10 giugno è entrata nella partita Intesa Sanpaolo, comprando i primi 50 appartamenti all’asta nel lotto di via Cimarosa 1, giusto in tempo per la ripresa degli sfratti precedenti al 29 febbraio 2020 dallo scorso primo luglio. Il blocco delle esecuzioni immobiliari nel 2021? “Incostituzionale”, ha detto la Consulta sei giorni prima che fosse rimosso. Un messaggio alla politica. Sospesi in pandemia per ragioni sanitarie, non economiche, ora i sindacati stimano 80 mila sentenze di sfratto che andranno in esecuzione. A Roma il prefetto ha parlato di 4.500 sfratti da eseguire dal primo luglio. Per i proprietari è stata eliminata l’Imu 2021 su case affittate. Atto dovuto. “Si sono visti requisire il loro immobile”, ha spiegato Giorgio Spaziani Testa, il presidente di Confedilizia, definendo la misura una “goccia nel mare”.

In un anno e mezzo i due governi che si sono succeduti non hanno preparato una exit strategy mollando la patata bollente a Prefetture e Comuni, molti dei quali vanno al voto. I soldi stanziati nel 2020 per il “contributo affitto” e la “morosità incolpevole” non sono stati utilizzati in larga parte, così come non sono nemmeno stati ripartiti alle Regioni i 260 milioni di euro della legge di Bilancio 2021. Questo in un Paese che in tempi normali conta tra 50-60 mila sentenze di sfratto all’anno e oltre 100 mila richieste di esecuzione anche se poi se ne fanno meno: nel 2019 sono state allontanate 25.930 famiglie. “Giustizia lenta” e “Paese dei furbetti” attaccano i proprietari. “Troppi sfratti, affitti alti”, replicano gli inquilini. La realtà? La lentezza è una forma di welfare. Se si fosse efficienti ogni anno ci sarebbero 300 mila persone in più in mezzo alla strada. Lo ha detto anche l’assessore alla Casa del Comune di Milano, Gabriele Rabaiotti, cercando di stemperare i timori di chi crede che ora arrivi lo “tsunami”. Poi ci sono gli altri numeri. Nero su bianco li mette l’Istat del presidente Gian Carlo Blangiardo: nel 2020 c’erano 5,6 milioni di persone in povertà assoluta tra cui il 18% delle famiglie in affitto (866 mila nuclei). Di queste il 25% con minori. Situazione esplosiva al Nord dove le famiglie in povertà pagano 378 euro al mese di affitto su una spesa di 969 euro.

C’è un numero che non cambia mai: 650 mila famiglie italiane attendono una casa popolare nelle graduatorie comunali. Accade mentre si litiga sui vertici di Federcasa, la federazione degli enti gestori. Il 18 giugno il centrodestra si è preso la presidenza con il fedrighiano (nel senso di Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli-Venezia Giulia) e salviniano Riccardo Novacco, numero uno dell’Ater di Trieste, che ha scalzato il presidente uscente, Luca Talluri, vicino al centrosinistra. Di destra o di sinistra che siano, le case popolari però non ci sono nel Recovery Plan del governo Draghi. Nemmeno una. Chi si attiva in tempo avrà il Superbonus al 110%, ma di aumentare il patrimonio pubblico dagli attuali 900 mila alloggi, di cui 100 mila inutilizzati, non se ne parla proprio. I tecnici hanno preferito destinare le risorse altrove: rigenerazione urbana green, i piani urbani integrati, l’housing sociale. Ma dal 2009 a oggi in housing sociale sono stati realizzati meno di 10 mila appartamenti, le cui finalità non sono nemmeno chiare. Per le fondazioni bancarie è un “abitare collaborativo” offrendo soluzioni a buon mercato al ceto medio impoverito. Per Cassa depositi ti e prestiti, che spesso lo finanzia, è un discreto investimento con un ritorno del 3%.

Il guaio. “Firmo i referendum, è dal ‘92 che i pm condizionano la politica. Il guaio non è Salvini, ma certa magistratura coperta dalla sinistra” (Sergio Staino, Giornale, 7.7). Ma la legge Bacchelli l’hanno abolita?

Sofritto. “Davigo, Bonafede, Travaglio, il Dap sono dediti alla dimostrazione che nelle carceri italiane non esiste alcun sovraffollamento” (Adriano Sofri, Foglio, 5.7). Veramente abbiamo sempre sostenuto il contrario, proponendo per questo la costruzione di nuove carceri. Però, se dovesse tornare dentro lui a scontare finalmente il resto della sua pena, potremmo fare un’eccezione.

Pisalecca. “Ecco cosa pensa Giuliano Pisapia ed ecco perchè non si fa abuso di retorica, o come scrive qualche scemo, di ‘lecca lecca’, quando si ripete che la riforma della giustizia è un altro bellissimo regalo di (questo) governo: ‘È la prova che anche in Italia si può avere una giustizia celere’” (Carmelo Caruso, Foglio, 10.7). Basta scrivere che i processi devono durare 2 anni e dureranno tutti 2 anni. A pensarci prima, si poteva scrivere 2 giorni.

I più bei nomi. “Il fatto che non ci siano più Arcuri, Bonafede, Costa, Boccia, Provenzano e che al loro posto ci siano persone più capaci come Figliuolo, Cartabia, Cingolani, Gelmini, Carfagna mi sembra una svolta positiva” (Renzi, Giornale, 2.7). E le meravigliose Bellanova, Bonetti e Scalfarotto, dove le mettiamo?

Foa Gras. “Cambiare la Rai è impossibile. La politica interviene tutti i giorni” (Marcello Foa, presidente della Rai in quota Lega, Verità, 11.7). E a lui l’ha portato la cicogna.

Da Roma a Bergamo. “Quella di Roberto Gualtieri è l’unica proposta politica che oggi si presenta alla città cercando di rappresentare e fare la sintesi di tante idee ed esperienze diverse” (Luca Bergamo, ex vicesindaco della giunta Raggi, Fanpage, 7.7). “Bergamo tifa Gualtieri” (Repubblica, 8.7). “Bergamo ora collabora con Gualtieri” (Corriere della sera, 9.7). È una bella soddisfazione lavorare con chi definisce la giunta di cui fino a sei mesi fa eri il numero 2 “un disastro come Alemanno”.

Il titolo della settimana/1. “Dall’uno vale uno al si salvi chi può” (Roberto Formigoni, pregiudicato per corruzione, Libero, 11.7). All’uno ruba più di tutti.

Il titolo della settimana/2. “Shock per la giustizia. Perchè anch’io firmo” (Augusto Minzolini, Giornale, 5.7). Perchè ti hanno condannato per peculato?

Il titolo della settimana/3. “I paladini dell’amore libero minacciano di morte Renzi” (Libero, 6.7). “Draghi arresta Bonafede e Travaglio” (Libero, 9.7). Non so voi, ma io non riesco a smettere di leggere questi due titoli.

Ma mi faccia il piacere

Minaccia o promessa? “’O la votate così o si va tutti a casa’. Draghi costringe alla resa i 5S” (Riformista, 9.7). “La telefonata del premier a Grillo. Draghi minacciò: mi dimetto” (Stampa, 10.7). Abbiamo rischiato grosso, eh?

Cos’è il genio?/1. “Amnistia: solo così si può chiudere la vergogna di Capua Vetere” (Piero Sansonetti, Riformista, 6.7). Giusto, così la fanno franca pure i picchiatori.

Cos’è il genio?/2. “Ci vediamo alle 12 per una diretta Facebook… La politica non è Instagram: al Senato servono i voti, non i like” (Matteo Renzi, leader Iv, Twitter, 5.7). La politica è Facebook e Twitter, ma non Instagram perchè certe facce è meglio non vederle.

Cos’è il genio?/3. “Gkn, la vergogna dei licenziati via mail. Letta: ‘Se è così rivediamo la norma’” (Stampa, 11.7). Ricapitolando: il Pd, col suo ministro del Lavoro Orlando, vuole prorogare il blocco dei licenziamenti, poi Confindustria ordina di non farlo, Draghi si mette sull’attenti, Orlando e il Pd si calano le brache, i sindacati pure, le aziende iniziano a licenziare e Letta dice che “se è così rivediamo la norma”. Ma va’ a ciapa’ i ratt.

Papi e mamma. “Berlusconi ha un tratto profondo di umanità, è stato il politico più vicino per l’arresto di mia mamma” (Renzi, Giornale). Mette lui una parola buona per i servizi sociali a Cesano Boscone.

Inquinamento acustico. “Ultima seduta di registrazione dell’audiolibro. Ne vedremo (e sentiremo) delle belle. Avevo proprio bisogno di raccontare la verità su ciò che è accaduto in questi anni” (Renzi, Twitter, 9.7). Beati i non udenti.

La lunga attesa. “Letta: questa riforma della giustizia era attesa da 30 anni” (Stampa, 10.7). E dire che bastava lasciarla fare 20 anni fa a Berlusconi.

Normalità. “Ora processi più normali” (Giovanni Maria Flick, Stampa, 70.7). Morti.

Ma anche. “Md: ‘Bene il nuovo processo penale. Ma serve anche un’amnistia’” (manifesto, 10.7). Ma serve anche abolire proprio i tribunali.

L’ideona. “Costruire nuove carceri: altro che tabù, è la solita risposta fallimentare…” (Dubbio, 8.7). Facciamo così: le carceri costruiamole vecchie.

Orsoline. “Non sembro una che ha studiato dalle osroline con Marco Travaglio” (Alba Parietti, Corriere della sera, 4.7). Per il semplice motivo che non hai mai studiato dalle orsoline con Marco Travaglio.

Il guaio. “Firmo i referendum, è dal ‘92 che i pm condizionano la politica. Il guaio non è Salvini, ma certa magistratura coperta dalla sinistra” (Sergio Staino, Giornale, 7.7). Ma la legge Bacchelli l’hanno abolita?

Sofritto. “Davigo, Bonafede, Travaglio, il Dap sono dediti alla dimostrazione che nelle carceri italiane non esiste alcun sovraffollamento” (Adriano Sofri, Foglio, 5.7). Veramente abbiamo sempre sostenuto il contrario, proponendo per questo la costruzione di nuove carceri. Però, se dovesse tornare dentro lui a scontare finalmente il resto della sua pena, potremmo fare un’eccezione.

Pisalecca. “Ecco cosa pensa Giuliano Pisapia ed ecco perchè non si fa abuso di retorica, o come scrive qualche scemo, di ‘lecca lecca’, quando si ripete che la riforma della giustizia è un altro bellissimo regalo di (questo) governo: ‘È la prova che anche in Italia si può avere una giustizia celere’” (Carmelo Caruso, Foglio, 10.7). Basta scrivere che i processi devono durare 2 anni e dureranno tutti 2 anni. A pensarci prima, si poteva scrivere 2 giorni.

I più bei nomi. “Il fatto che non ci siano più Arcuri, Bonafede, Costa, Boccia, Provenzano e che al loro posto ci siano persone più capaci come Figliuolo, Cartabia, Cingolani, Gelmini, Carfagna mi sembra una svolta positiva” (Renzi, Giornale, 2.7). E le meravigliose Bellanova, Bonetti e Scalfarotto, dove le mettiamo?

Foa Gras. “Cambiare la Rai è impossibile. La politica interviene tutti i giorni” (Marcello Foa, presidente della Rai in quota Lega, Verità, 11.7). E a lui l’ha portato la cicogna.

Da Roma a Bergamo. “Quella di Roberto Gualtieri è l’unica proposta politica che oggi si presenta alla città cercando di rappresentare e fare la sintesi di tante idee ed esperienze diverse” (Luca Bergamo, ex vicesindaco della giunta Raggi, Fanpage, 7.7). “Bergamo tifa Gualtieri” (Repubblica, 8.7). “Bergamo ora collabora con Gualtieri” (Corriere della sera, 9.7). È una bella soddisfazione lavorare con chi definisce la giunta di cui fino a sei mesi fa eri il numero 2 “un disastro come Alemanno”.

Il titolo della settimana/1. “Dall’uno vale uno al si salvi chi può” (Roberto Formigoni, pregiudicato per corruzione, Libero, 11.7). All’uno ruba più di tutti.

Il titolo della settimana/2. “Shock per la giustizia. Perchè anch’io firmo” (Augusto Minzolini, Giornale, 5.7). Perchè ti hanno condannato per peculato?

Il titolo della settimana/3. “I paladini dell’amore libero minacciano di morte Renzi” (Libero, 6.7). “Draghi arresta Bonafede e Travaglio” (Libero, 9.7). Non so voi, ma io non riesco a smettere di leggere questi due titoli.

Se 25 anni di “Wannabe” per la musica non sono ancora abbastanza

I can’t get no self-isolation Mick Jagger ha violato la quarantena per andare a vedere la partita, mercoledì a Wembley, dove Inghilterra e Danimarca si disputavano l’ingresso alla finale degli Europei di calcio. Lo ha rivelato il tabloid britannico “Daily Mail”, che ha pubblicato su Twitter delle foto che immortalavano Jagger mentre entrava allo stadio con una mascherina nera. Dopo aver passato mesi in Sicilia, il frontman dei Rolling Stones aveva fatto tappa in Francia, ma martedì ha preso un volo alla volta di Londra. Secondo le regole, avrebbe dovuto rispettare un periodo di autoisolamento di 10 giorni. Invece si trovava tra i 60 mila spettatori che hanno assistito al match. Adesso rischia una multa di diecimila sterline. La giustificazione data dal suo staff non è particolarmente originale: “ha fatto il tampone prima del volo, credeva di essere coperto”. Quante volte l’abbiamo sentita?.

voto 3

 

A volte reunion Giovedì scorso ha compiuto 25 anni “Wannabe”, il singolo che ha consacrato le Spice Girls al successo mondiale. Ed è stato subito inno al “femminismo avant-la-lettre” della girl band formata da Geri Halliwell, Victoria Adams (ora in Beckham), Emma Bunton, Melanie Brown e Melanie Chisholm. La notizia di una riunione “a sorpresa” per le nozze d’argento circola da un po’, in realtà. “Ne stiamo parlando”, diceva Mel C già a fine anno scorso. Solo che le Spice girls sono “tornate” già nel 2012 e nel 2019, secondo uno schema ormai inveterato nella musica pop mondiale. In realtà, questa volta, complice la pandemia ma anche la divergenza di interessi tra le Spices (che hanno carriere ormai autonome e diverse) il ritorno è posticipato del 2022, e non è neanche detto. Così l’anniversario tondo lo festeggiano più che altro le case discografiche, con l’uscita di un ep con una demo “vintage” e un remix contemporaneo, e le piattaforme soprattutto, che propongono le canzoni a ripetizione. Spotify fa sapere che Wannabe è a quota 590 milioni di stream nel mondo, e che sul portale esistono oltre 26 milioni di playlist dedicate alle Spice Girls, mentre le persone che le ascoltano avrebbero principalmente tra i 18 e i 24 anni. In questi casi non si sa mai se nasce prima l’offerta o la domanda.

voto 5

 

La passione di Benedetta Capita che i prodotti culturali entrino in risonanza con l’attualità a prescindere dalle intenzioni. Capita anche con un film in concorso al Festival di Cannes, di cui si è parlato e si parlerà molto per (discussi) meriti cinematografici, ma che forse in Italia darà da dibattere per un motivo in più. Si tratta di “Benedetta” di Paul Verhoeven. Con una certa continuità diricerca sull’intreccio tra violenza e sesso (“Basic Instinct”, “Elle”…) il cineasta olandese racconta la storia, vera, di una suora italiana del 600, Benedetta Carlini, che diventò badessa e si fece conoscere sulla scena religiosa dell’epoca per le sue visioni mistiche, che le suscitavano discorsi appassionati. Finché non venne fuori che aveva una relazione con una suora del suo convento. La vicenda è stata scoperta negli anni 80 dalla storica britannica Judith Brown (“Atti impuri”, 1986), ma ora il film la renderà popolare. Suor Benedetta è interpretata da Virginie Efira, che è un’attrice che si porta la figlia sul set per contrastare, sostiene, “il concetto di maternità come sacrificio”. E una che ha commentato il ruolo dicendo che aveva realizzato “il suo sogno più selvaggio”.
Impossibile, in questo periodo, non farsi toccare dal tema su cui si arrovellano i personaggi: la libertà dell’amore omosessuale sotto la benedizione di Dio (oltre che degli esseri umani). La questione è infatti di un’attualità inevitabile in Italia, dove a sentire il dibattito sulla legge Zan sembra che certe cose, o meglio certe identità e certi desideri, siano nati ieri, e invece sono così tradizionalmente umani.

voto 8

 

Zan, retromarcia di Renzi e l’attacco della Ferragni. “La politica che fa schifo”

STORIES TELLING Chiara Ferragni è un’imprenditrice di successo e un’influencer da 24 milioni di follower. Chiara Ferragni potrebbe tranquillamente fregarsene dei temi sociali, come fanno molti di coloro che per piacere a tutti si guardano bene dallo scontentare qualcuno. Chiara Ferragni invece ama dire la sua, anche quando sa che un tema non è di sua diretta competenza e può essere divisivo: il punto di vista di un ‘cittadino privilegiato’ che arriva direttamente a più di 20 milioni di persone. E Chiara Ferragni non ha gradito la retromarcia d’Italia Viva sul ddl Zan, ovvero quegli emendamenti presentati dai renziani per modellare la legge sulle indicazioni del centrodestra e del Vaticano.
Così l’influencer ha postato su Instagram una storia in cui lascia intendere che la politica sta giocando sulla pelle delle persone, con la foto di Renzi d’accompagnamento, ed ha aggiunto la frase “Che schifo che fate politici”.
L’ex Rottamatore, grande fan dei social, degli hashtag, delle slide, degli influencer e di tutto ciò che fa tanto terzo millennio, non ha preso bene il vilipendio social e ha dato alla Ferragni della qualunquista, “dire che i politici fanno schifo è il mediocre ritornello di chi vive di pregiudizi”.
L’occasione però era troppo ghiotta e l’ex premier non ha resistito alla tentazione di offrire un confronto social all’influencer “se ha questo coraggio, naturalmente”, nella speranza che qualche decina di seguaci di Chiara vada a rinfoltire le file d’Italia Viva. Che l’esternazione della Ferragni possa apparire approssimativa non ci piove, ma basta impegnarsi un pochino per leggere tra le righe. L’ha fatto molto bene Chiara Geloni con un tweet: “La politica che si rimangia la parola data. La politica che vota in un modo alla Camera e un altro al Senato. La politica che fa ricatti. La politica che fa giochetti sui diritti. Beh sì, quella fa schifo. Di cosa vi stupite? #Ferragni”. Forse Chiara l’ha detto male, ma il senso era senz’altro questo

Voto 7

 

LORO L’AVEVANO DETTO Parlavano di economia sostenibile, disuguaglianze, cambiamenti climatici, allevamenti intensivi, ma venivano trattati come dei bastian contrari visionari e mai contenti; sostenevano che “un altro mondo è possibile” ma gli si rispondeva che quello d’allora era il migliore dei mondi che si potesse desiderare: ci sono voluti vent’anni ma oggi sembra che quei menagrami dei no global, tacitati a parole e zittiti anche a botte, avessero ragione. E non è qualche storico revisionista a dirlo, ma è l’agenda politica mondiale a individuare come priorità quelli che furono i cavalli di battaglia del Movimento. E il suggello postumo della loro ragione arriva proprio da chi allora si trovava dall’altra parte della barricata, al Fondo Monetario Internazionale, l’economista Carlo Cottarelli: “Quei movimenti guardavano in avanti e chi allora guidava l’economia e la finanza internazionale si rendeva solo in parte conto dell’entità dei fenomeni che stavano accadendo”. Ci sono voluti giusto vent’anni. Ma meglio tardi che mai.

Voto 6

 

I sette nani da giardino che all’improvviso divennero giganti

Nel gruppo dei 26 ragazzi di Mancini che ci hanno regalato quella che resta la splendida avventura di Euro 2020 ce ne sono alcuni che fino a ieri erano illustri Carneadi, mezze figure persino per gli allenatori che li guidavano. Nani da giardino, insomma. Non a caso ne abbiamo scelti sette. I sette nani che di colpo divennero giganti. In rigoroso ordine alfabetico.

Barella. È il 5 novembre 2019. In vantaggio di due gol a Dortmund, l’Inter di Antonio Conte subisce la rimonta del Borussia che vince 3-2 e inguaia i nerazzurri in Champions. Negli spogliatoi Conte è un pianto greco, la colpa è degli scarsi giocatori che il club gli ha messo a disposizione. “A parte Godin – frigna – nessuno ha vinto niente qui. A chi chiedo qualcosa in più? A Barella che arriva dal Cagliari? A Sensi preso dal Sassuolo?”. Avete letto bene: Barella. Costato 40 milioni più bonus. Forse il più forte centrocampista italiano.

Di Lorenzo. Adesso è un punto fermo del Napoli e della nazionale ma nel 2017, praticamente ieri, difendeva la porta non di Donnarumma ma di Bifulco; e in panchina a dargli ordini non c’era Roberto Mancini, ma Gaetano Auteri. La maglia? Quella del Matera, 3° classificato nel girone C di serie C. Giovanni Di Lorenzo: chi era costui?

Emerson Palmieri. Brasiliano naturalizzato italiano (è discendente di un Palmieri da Rossano Calabro, Cosenza), arriva in Italia 20enne al Palermo, via Santos, ma è nella Roma di Spalletti, l’anno dopo, che comincia a mostrare le sue doti. Si rompe però il crociato: e quando si riprende, con Kolarov non c’è più posto. Se ne va al Chelsea dove in 3 stagioni totalizza, in campionato, la miseria di 32 presenze: meno di 11 a stagione. E però vince da protagonista un’Europa League (con Sarri) e da comprimario una Champions (con Tuchel). Sempre seconda scelta di qualcuno: Kolarov, Marco Alonso, Spinazzola. E però, di livello.

Jorginho Luiz Frello Filho. Lui pure brasiliano naturalizzato (il trisavolo paterno, Giacomo Frello, era di Santa Caterina di Lusiana, Vicenza), a 18 anni muove i primi passi nella Sambonifacese, Lega Dilettanti del veronese. Nel 2012 sceglie di rappresentare l’Italia rispondendo alla convocazione del c.t. dell’Under 21 Mangia. Chi sia oggi Jorginho per il Chelsea (con cui ha vinto la Champions) e per la nazionale italiana è noto a tutti; ma solo qualche anno fa fu il c.t. Ventura a pronunciare la famosa frase: “Nella mia nazionale non c’è spazio per Jorginho”. Amen.

Locatelli. “Operazione da 2 milioni di prestito oneroso, 10 di obbligo di riscatto e 2 di bonus”. Sono i dettagli della trattativa di cessione di Locatelli, appena 20enne, dal Milan che lo aveva cresciuto al Sassuolo. Ora: Locatelli non è Ancelotti e nemmeno Albertini, ma i 14 milioni per cui è stato sbolognato gridano vendetta. O no?

Spinazzola. Una rottura del legamento crociato nel 2017-18 (era all’Atalanta), la lacerazione del tendine d’Achille in Italia-Belgio dieci giorni fa, addirittura un passaggio all’Inter (dalla Roma, in cambio di Politano) che sfuma dopo visite mediche che non convincono (gennaio 2020). E però, sempre più forte di tutto e di tutti. Per distacco, miglior terzino a Euro 2020.

Pessina. Se Locatelli è il grande incompreso di casa Milan, lui non viene nemmeno calcolato. Il 7 luglio 2017 il Milan comunica infatti di aver acquistato Andrea Conti dall’Atalanta per “24 milioni più il cartellino del giovane Pessina, valutato 3 milioni”. Ebbene: oggi Pessina vale tre volte Conti. Capita anche nelle migliori famiglie.

 

Una catena di solidarietà italiana per far rinascere le librerie distrutte di Gaza

Questa cosa delle librerie di Gaza aveva colpito anche me, lo confesso. Anche se quando si bombarda un ospedale, un asilo, un pozzo o una centrale elettrica i danni umani sono certo più grandi. Chissà perché l’immagine delle librerie sventrate mi aveva messo addosso una malinconia particolare, riflettendo su questa guerra cieca che mi accompagna dall’adolescenza. Finché ho scoperto che siamo stati più d’uno, almeno nella mia generazione, a provare questo irrazionale senso di smarrimento. E che guardando a Gaza è nata una nuova storia italiana. Sentiamola.

“Prima c’è stato un reportage del Corriere che il 21 di maggio ha raccontato la distruzione di una libreria di Gaza sotto i bombardamenti israeliani. Un missile e si è sbriciolato tutto. Era una libreria, diceva l’articolo, che faceva anche da casa editrice, la più grande della striscia di Gaza, un negozio a due piani frequentato dagli studenti universitari. L’articolo parlava anche di un tale Samin Mansour, il proprietario, figlio d’arte. Pure suo padre era editore. Aveva incominciato a lavorare con lui per diffondere cultura. E aveva accumulato migliaia di libri: tutti perduti. Quando il Manifesto ha segnalato che le librerie distrutte erano tre ci siamo chiesti che fare”. A raccontare questo invisibile e puntiforme percorso di resistenza civile è un settantenne pimpante e dinamico a dispetto del nome dell’associazione che ha fondato (“Vivere con lentezza”). Si chiama Bruno Contigiani, si è da tempo rifugiato in bellezza nelle colline piacentine, ha fatto l’insegnante, si è occupato di informatica nelle scuole, ma soprattutto da molti anni ha fatto della diffusione del libro la sua missione. Promuove settimane in cui ci si ritrova, in più città contemporaneamente, a discutere di libri in “quattro amici al bar”, aiuta la rieducazione dei detenuti proponendo in carcere testi e letture adatti alle più diverse sensibilità. “Con qualche amico ho pensato che avremmo dovuto dare una mano a riaprirle, le librerie, a fare di nuovo circolare i libri e la cultura a Gaza. Così abbiamo ottenuto i recapiti di quelle distrutte. Ne ho parlato con Nara Ronchetti, una bocconiana veneziana degli anni settanta, che oggi sostiene Assopace Palestina. E insieme abbiamo immaginato un’operazione ‘ripartenza’. Purtroppo uno dei librai non risponde, ma speriamo di recuperarlo. Si sta cercando di raccogliere dei fondi attraverso GoFundMe. Il meccanismo non è immediato, ma bisogna per forza rispettarlo: ossia passare per Gerusalemme”. Contigiani spiega che i contributi verranno girati sul conto corrente della Educational Bookshop di Gerusalemme, vecchio fornitore dei librai di Gaza, che a esaurimento invierà poi libri e materiali alle librerie.

A Gaza, infatti, il denaro non può essere inviato direttamente. Racconta anche che in Italia i soci di Vivere con Lentezza e Assopace Palestina stanno cercando di creare una catena di librerie e biblioteche che sostengano l’iniziativa. “Sono piccole librerie di Milano, Piacenza e Venezia, oltre alla Biblioteca di Ziano Piacentino. Ci dà una mano anche Luca Ambrogio Santini, libraio storico che ha chiuso in corso San Gottardo a Milano e che adesso gira con un triciclo vendendo i libri porta a porta”. Insomma, in nome del libro, che spesso suscita movimenti di solidarietà verso città e paesi dopo catastrofi naturali, è nata dopo mesi di bombardamenti una piccola e disarmata rete di sostegno che si sta estendendo silenziosamente. Vere formiche da biblioteca, che non sembrano spaventate affatto dall’ipotesi di svuotare il mare con un cucchiaino “Il principio è che per ripartire non servono solo cantieri e ponti ma serve anche ristabilire un accesso alla cultura. Vede, c’è chi sostiene che la cultura non si mangia. Io non so se sia vero, ma certo con la cultura si respira”.

 

“Cacciata solo per una gravidanza” appena è finito il blocco dei licenziamenti

Ciao Selvaggia, sto passando qualcosa di terribile, so che ti piace dar voce a chi non ne ha e spero che troverai il modo di darla anche a me. Quel che ti sto per scrivere ho paura di esternarlo a mio nome perché quel che ti dirò è qualcosa di molto scomodo, qualcosa che noi donne non possiamo dire ad alta voce senza aver paura delle ripercussioni. Lavoravo in questo ufficio da qualche anno, dopo che il mio impegno e il mio duro lavoro aveva fatto sì che il mio contratto di sostituzione di maternità si trasformasse in un contratto a tempo indeterminato. “Tu resti con noi” mi disse il titolare. Ero felicissima, finalmente lavoravo per delle belle persone. E così dopo qualche anno mi sposai e il titolare – come battuta, eh – mi disse: “basta che non fai figli!” Tutti risero, finì lì.

Dopo qualche mese dal matrimonio aspettavamo il nostro primo figlio. Non ero giovanissima e, a maggior ragione, io e mio marito volevamo essere prudenti. Decidemmo di non dire niente a nessuno fino alla fine del primo trimestre. Lo dissi solo a mia madre. Un giorno di giugno, caldissimo, quando ero incinta di una manciata di settimane, sentii partire una forte emorragia. Chiamai mio marito in lacrime dicendogli: “sto avendo un aborto”.

E lì la corsa dalla mia ginecologa di fiducia e poi il responso: “hai avuto un distacco, devi stare a riposo da subito, ma il feto è ancora troppo piccolo per sentire il battito, torna qui tra 10 giorni dopo aver fatto la terapia di progesterone e vediamo se ha funzionato o siamo arrivati tardi”. E così per 10 giorni stetti a letto a piangere sperando di non averlo perso. I 10 giorni più lunghi e brutti della mia vita. In ufficio dissi una bugia, non mi andava di condivivere un dolore così grande. Dopo 10 giorni tornai finalmente dalla ginecologa: il battito c’era! Ma la situazione era ancora molto seria, dovevo stare ancora a letto e monitorare ogni due settimane con un’ecografia. Chiamai subito in ufficio per comunicare la gravidanza difficile che mi avrebbe portato ad assentarmi dal lavoro per un periodo imprecisato. Si navigava a vista.

Il mio titolare mi rispose che ero una persona scorretta, che avrei dovuto dirglielo subito, mi disse di tutto. Gli risposi: “guardi che stavo per perdere mio figlio” e lui borbottò qualcosa del tipo “eh vabbè, io dovevo saperlo. Non pensi alle tue colleghe”. Ci rimasi di ghiaccio, sia per quello che per l’atteggiamento dei miei colleghi. Quel giorno per me iniziò il trattamento del silenzio, quella chat di ufficio che serviva per mandarsi meme stupidi e comunicare se qualcuno non avesse sentito la sveglia morì per mesi. Alla fine del primo trimestre il mio distacco era finalmente rientrato. Ricordo bene quanto ero debole quando mi alzai, perché quando hai un distacco devi stare sdraiata, non puoi manco stare seduta. Una volta ottenuto l’ok del medico rientrai al lavoro. Non ho fatto gravidanza a rischio o altra mutua, mi sentivo bene, la mia ginecologa era d’accordo e così rientrai.

Al mio rientro la stampante del mio ufficio era stata presa da una mia collega, la calcolatrice da un’altra. Poco male, mi dissi, due passi fino alla stampante centrale non mi uccideranno, anzi! Poi un giorno esternai il dispiacere per quel che avevo provato e una collega mi stoppò subito dicendomi che loro erano d’accordo col titolare, che avevo sbagliato io e che mentire sulla mia condizione per 10 giorni senza poi dare aggiornamenti sulla mia gravidanza avevano fatto di me una dipendente e una collega scorretta. Decisi di chiuderla lì e di non parlarne mai più. Poi andai in maternità comunicando anticipatamente che avrei preso qualche mese di facoltativa e sarei rientrata a settembre. Partorii poco prima dell’inizio della pandemia, ad agosto comunicai il mio rientro in ufficio. Hai due mesi di ferie, mi scrisse, ci vediamo tra due mesi. Ok.

Al mio rientro ero diventata invisibile, a malapena venivo salutata, ma coi colleghi riallacciai un rapporto cordiale. Avevo un figlio di neanche un anno e a me lavorare serviva. Ho mandato giù tanti bocconi amari e ho fatto finta di non vedere tante cose. Mio figlio ormai era al primo posto. Dovevo farlo per lui. Per non fargli mancare niente. E così i mesi passavano, lui a stento mi guardava in faccia, il computer che era stato cambiato a tutti tranne che a me, la stampante e la calcolatrice sparite. Le urla immotivate e il disprezzo che traspariva ogni qual volta mi parlasse. Anche lì feci finta di nulla.

Poi ecco il 30 giugno, il giorno dello sblocco dei licenziamenti mi consegnò la mia lettera di licenziamento. Chissà da quanto tempo aspettava quel giorno. Il motivo ufficiale è “riassetto aziendale”, ma io e lui sappiamo bene che questo era l’epilogo di una guerra aperta ben due anni prima. E così oggi mi ritrovo smarrita e spaesata senza un lavoro e con un bambino piccolo. Col terrore di affiancargli un fratellino in questo periodo di incertezza o abbandonare per sempre questo sogno. E sono avvilita perché i colleghi non mi hanno manco detto “mi dispiace”, facendomi intendere ancora una volta da che parte stiano.

Va bene così, ma è uno schifo. È uno schifo perché il mondo è pieno di donne a cui è successo qualcosa di molto simile a ciò che è accaduto a me e ormai non ci facciamo manco più caso perché fare un figlio è ancora oggi una colpa, figuriamoci avere una gravidanza problematica o addirittura a rischio.

P.s. Se te lo stai chiedendo sì, tutti i miei colleghi hanno figli.

Lucia

 

Cara Lucia, è una storia terribile. Fare figli, in certi luoghi di lavoro, è ancora uno stigma, uno sgarbo fatto al datore di lavoro, un lusso mal tollerato dai colleghi. Spero tu possa lavorare ancora, presto e in un posto sano, in cui un datore di lavoro si innervosisce, al massimo, perché hai versato il caffè sulla stampante, non perché sei così arrogante da desiderare una famiglia…

S. l.

 

Tutti in manette: è la direttiva di Abu Mazen

Un silenzio assordante avvolge quel che sta accadendo in Cisgiordania. I grandi giornali internazionali – come il New York Times o Le Monde – hanno dedicato poca attenzione alle violenta repressione che gli apparati di sicurezza dell’Anp stanno esercitando per tentare di soffocare il malcontento tra la popolazione palestinese contro il presidente Abu Mazen. L’ennesimo rinvio delle elezioni, le purghe contro i dissidenti, le espulsioni eccellenti da Fatah ma soprattutto la violenza nelle strade della Preventive Security contro le proteste. In un tragico crescendo si è arrivati poi agli arresti arbitrari – quelli portati a termine da agenti mascherati in borghese – per decine di persone, fino alla morte dell’ex candidato indipendente Nizar Banat, pestato nelle celle dell’Anp di Ramallah. Solo nell’ultima settimana gli arrestati – la cui scomparsa è stata denunciata dai familiari – sono quasi una settantina. Succede poi che parenti o avvocati che si recano al posto di polizia in cerca di informazioni vengano arrestati a loro volta. Se una volta rabbia e delusione erano affidati al web, oggi internet è la piazza più pericolosa di tutta la Cisgiordania. Basta una chat a un amico con qualche parola critica nei confronti del presidente Abu Mazen per vedersi la Preventive Security alla porta di casa entro un paio d’ore. Lo shock e lo stupore della gente palestinese è legato al fatto che gli arrestati sono attivisti di alto livello in organizzazioni di sinistra, o vicini a loro, e alcuni inclusi alcuni degli arrestati più giovani, erano stati precedentemente imprigionati in Israele per proteste contro l’occupazione. In altre parole, c’era l’aspettativa che il credito politico di questi manifestanti e l’ammirazione che hanno guadagnato nella società potesse proteggerli dall’arresto e dalla violenza della polizia palestinese. Affatto. La nomenklatura che ha nelle mani il potere a Ramallah per restare in sella non guarda in faccia a nessuno. Viene da chiedersi come mai i vertici dell’Ue, così attenti ai diritti negati nel mondo, tacciano sulla Palestina. Così come il presidente Usa Joe Biden. Evidentemente a Ramallah tutto va come deve andare.