Tra Slovenia e Croazia. L’europa a Est nasconde una bomba radioattiva

È nella caserma dismessa di Erkezovac, al confine con la Bosnia-Erzegovina, che la Croazia prevede di stoccare a partire dal 2023 i suoi residui radioattivi di “bassa e media attività” della centrale nucleare di Krško, in Slovenia, co-gestita da Lubiana e da Zagabria. Ovvero 4.800 metri cubi di materiali radioattivi, detriti, filtri, strumenti o indumenti contaminati. Secondo le autorità di Zagabria, la regione collinare di Trgovska Gora è “l’area più stabile del paese”. Ma, il 28 e il 29 dicembre scorsi, due terremoti di magnitudo 5.2 e 6.3 sulla scala Richter sono stati registrati nella regione di Sisak, radendo al suolo metà della cittadina di Petrinja, a una quarantina di chilometri da ČErkezovac. “I terremoti sono causati dalla convergenza della placca africana con quella eurasiatica”, spiega Snježana Markušić, direttrice del dipartimento di geofisica della Facoltà di scienze di Zagabria.

Negli anni 70, le autorità jugoslave, stimando che il rischio sismico fosse contenuto nella regione, avevano avviato la costruzione della prima centrale nucleare della Federazione socialista, affidandone la gestione condivisa alle due repubbliche di Slovenia e Croazia, che ne sono rimaste comproprietarie anche dopo l’indipendenza del 1991. La centrale di Krško, entrata in servizio nel 1983, è di dimensioni modeste: il suo unico reattore Westinghouse ha una potenza di 700 MW, quattro volte inferiore alle più piccole centrali francesi in esercizio. “Gli impianti sono stati costruiti su una piattaforma di cemento armato, posata su strati di argilla e sabbia”, precisa Snježana Markuši. Ciò dovrebbe permettere all’impianto, che si trova lungo il corso del Save, un affluente del Danubio, di resistere a scosse fino a nove gradi della scala Richter. L’impianto è gestito dalla società Nuklearna elektrarna Krško (NEK), detenuta al 50% dalla compagnia pubblica slovena Gen Energija e al 50% dall’azienda pubblica croata Hrvatska elektroprivreda (HEP). Questo sistema di governance, unica al mondo, ha creato forti attriti fra i due paesi dalla scissione della Jugoslavia, che non hanno impedito però ai rispettivi parlamenti di votare nel 2015 una legge per prolungare la vita dell’impianto fino al 2043. Le scorie nucleari più pericolose, come il combustibile esaurito, sono stoccate sul sito di Krško, probabilmente fino al 2065, forse anche al 2105. Se lo stoccaggio a secco, deciso dopo l’incidente di Fukushima, permette di evitare fughe di sostanze radioattive in caso di terremoto, questa tecnica solleva seri interrogativi sulle condizioni di conservazione del prodotto, riposto in silos di cemento sigillati con saldatura a tenuta stagna. “Il problema è che non conosciamo abbastanza la resistenza di questo materiale nel tempo”, si preoccupa Tomislav Tkalec dell’ONG slovena Focus. Il combustibile esaurito inoltre dovrebbe essere conservato proprio sotto il reattore. Per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi di bassa e media attività la situazione è già critica. “La centrale è al limite della sua capacità, è già piena al 99%” riconosce Miran Stanko, sindaco di Krško. Il rischio è che emergano problemi di sicurezza. Secondo l’attivista Karel Lipič, “non ci sarà più spazio prima della fine del 2021“. Come spiegare una tale mancanza di preparazione? Nel luglio 2020, dopo undici anni di dibattiti, Zagabria ha definitivamente respinto la proposta slovena di costruire un sito di stoccaggio vicino all’impianto.

“La soluzione slovena, con silos di cemento a 80 metri di profondità, sotto la falda freatica, non è ottimale – spiega il professore croato Davor Grgić -. C’è il rischio di inquinare le acque della Sava, a monte di Zagabria”. Tuttavia, i motivi del rifiuto croato sembrano essere soprattutto legati a interessi finanziari. “Le autorità croate non vogliono che la Slovenia assuma la gestione dei rifiuti radioattivi croati e possa così monetizzare i suoi servizi”, spiega il giornalista Daniel Prerad. Dalla soppressione dell’Istituto di sicurezza nazionale e nucleare, il primo gennaio 2019, solo competente in materia di energia nucleare in Croazia è il Fondo di smantellamento della centrale di Krško. “Il legislatore ha lasciato piena libertà di azione agli investitori: non c’è più alcun organismo di controllo”, spiega l’attivista Toni Vidan. Il direttore di questo Fondo è Hrvoje Prpić: “Il deposito è un edificio in superficie, le cui fondamenta poggiano su una piattaforma di cemento spessa 60-70 cm. Non ci possono essere infiltrazioni – osserva Prpić -. Queste scorie non sono pericolose. Non abbiamo un piano B, ma non ce n’è bisogno”. A Krško, lo Stato sloveno non ha esitato a mettere mano al portafogli per assicurarsi il sostegno delle popolazioni locali. “Solo di tasse, l’impianto versa 8,5 milioni di euro all’anno alla città”, ha detto il sindaco Miran Stanko. Il dinamismo economico generato dalla centrale attira molte persone. La questione dello stoccaggio dei rifiuti si pone sin dalla costruzione dell’impianto. Nel 1998, tra le diverse località prese in conto nel nord del paese, Zagabria ha scelto le colline della Trgovska Gora, quasi disabitate dall’offensiva croata del 1995. È su questo vasto territorio che si trova la caserma di Čerkezovac. Secondo Hrvoje Prpić, i 15.000 abitanti del luogo dovrebbero ricevere 45 milioni di euro di risarcimento su 45 anni. “Ogni anno, lo Stato croato risparmierà 15 milioni di euro evitando di pagare gli sloveni per la custodia dei suoi rifiuti e verserà solo un milione ai residenti”, si indigna Daniel Prerad. Eppure la regione meriterebbe investimenti seri. In un raggio di quattro chilometri intorno alla caserma, nessuna casa è collegata all’elettricità. “La questione della compensazione finanziaria non è mai stata discussa ufficialmente. Le informazioni che abbiamo arrivano dai media”, precisa Nikola Arbutina. Il sindaco di Dvor è membro del Partito Democratico Indipendente Serbo (SDSS), che sostiene il governo conservatore di Andrej Plenković e in genere non esita a denunciare le violazioni dei diritti nella regione. Ma che, stranamente, questa volta tace. Il deputato verde Tomislav Tomašević denuncia la mancanza di trasparenza dello Stato. Secondo lui, “un tema così delicato richiede un vero dibattito pubblico e l’organizzazione di un referendum”.

A 25 anni dalla fine del conflitto, la Banovina, dove si trova ČErkezovac, resta un territorio martoriato. “La regione fatica a risollevarsi. È come se fosse stata dimenticata – osserva il regista Daniel Pavlić -. Non ci sono investimenti, non c’è lavoro, le persone si esiliano. Finirà per assomigliare a Chernobyl”. Pavlić ricorda che Čerkezovac si trova a meno di un chilometro da un sito Natura 2000. La città di Dvor, sulla sponda occidentale dell’Una, è al centro di una regione rurale. Gli abitanti vorrebbero sviluppare l’agricoltura biologica e il turismo sostenibile, sperando di uscire dalla crisi economica, ma l’arrivo delle scorie radioattive uccide le loro prospettive. Negli ultimi anni migliaia di persone hanno manifestato contro il progetto, ma gli abitanti del luogo ormai sono pessimisti. Il consiglio comunale di Dvor è riuscito solo a approvare una delibera che vieta l’installazione di un deposito di rifiuti radioattivi sul territorio del comune, ma non è vincolante.

A Novi Grad, in Bosnia-Erzegovina, sull’altra sponda dell’Una, è nato un collettivo di cittadini militanti, con il sostegno delle autorità locali: “Se i rifiuti radioattivi vengono stoccati nella Trgovska Gora, non sarà solo la popolazione di Novi Grad a essere colpita, ma i 300.000 abitanti che vivono lungo il fiume Una – osserva il sindaco Miroslav Drljača -. I pozzi utilizzati dal comune, infrastruttura per la quale abbiamo investito 5,5 milioni di euro, si trovano a 900 metri dal sito. Alla minima infiltrazione, l’acqua potabile sarà contaminata”. I residenti di Una hanno il sostegno del governo di Sarajevo. “Se la Croazia decide di stoccare rifiuti radioattivi in Trgovska Gora, faremo appello alle convenzioni internazionali”, sottolinea il presidente del Parlamento, Denis Zvizdić.

(Traduzione di Luana De Micco)

L’Italia dei movimenti, delle donne. La costruzione di un futuro che nega i confini

La parola “ movimento” per indicare l’arrivo in politica di un nuovo gruppo, è molto frequente. Serve negare a lungo di essere un partito perchè giustifica la mancanza di regole e le contraddizioni. Nel nuovo libro di Grazia Barbiero la descrizione dell’attivismo culturale e politico che il libro racconta (Scenari in movimento, gli anni settanta e ottanta in alto Adige / Sudtirol, Raetia editore) è quella giusta, con un doppio risultato. Il primo è una rigorosa rappresentazione dei fatti, con paziente e attenta verifica dell’autrice che non si accontenta di una vigorosa memoria ma chiama in causa i documenti. Il secondo è di coinvolgere i lettori in fatti apparentemente lontani e quasi dimenticati, che invece hanno cambiato in molti punti la nostra storia contemporanea e mostrano la vacuità di molti eventi che oggi si definiscono “movimenti” e si sentono nuovi nel ritornare al passato (quello della nazione, delle trincee, dei sacri confini, dei celebrati assalti all’arma bianca, delle cataste di giovani morti).

Il movimento di cui parla Grazie Barbiero è quello di un mondo che viene dalla Resistenza e si occupa di scuole e di bambini, di memoria recente di liberazione italiana dalla occupazione tedesca e fascista, che sta creando da subito il lavoro insieme, la fiducia comune, la voglia di pace. Non la “pacificazione” di cui a volte si parla come se la storia non fosse passata, e tutto il male fosse rimediabile, ma la pace di un futuro che nega la nazione, ignora i confini, e cerca quel che si può e si deve fare insieme. Volendo, potete leggere questo libro come una testimonianza di quello che tante donne, di una frontiera e dell’altra, possono e sanno fare insieme. Non è la “nazione” a guidarle, ma l’interesse comune per la vita degli altri. L’autrice, con singolare agilità nell’uso dei fatti e della memoria porta il lettore non solo a capire ciò che gruppi culturali diversi possono fare se si esclude che uno dei gruppi venga prima degli altri. Ma anche lo straordinario contributo che da a questa cultura del non confine la sinistra italiana e specificamente il Pci. Dalle donne della Resistenza (che alcuni di noi hanno avuto la fortuna di conoscere e di frequentare) e di personaggi totalmente orientati al nuovo e al dopo come Enrico Berlinguer.

Come si vede, Grazia Barbiero non si è data un compito facile, e ha saputo affrontarlo con bravura. Per esempio, quando parla del come la sinistra politica italiana ha saputo partecipare a quel grande momento di pace, lo fa senza celebrazioni. Semplicemente racconta, e questo racconto era necessario nel momento confuso e pieno di cancellature che stiamo attraversando. Ma vorrei segnalare un fatto raro ed esemplare in questo libro che d’ora in poi conta molto nella memoria italiana. Molti narratori di eventi storici dedicano la ricerca a se stessi. Grazia Barbiero è l’unica autrice che abbia incontrato in molti anni, che racconta e ricorda sopratutto le vicende e i nomi degli altri (delle altre) in modo scrupoloso, così che nessuno resti fuori dai fatti, quasi sempre belli e fraterni e di diverse lingue e culture. In questo senso il libro non solo narra un movimento che non deve andare perduto. E’ anche un libro generoso che dedica una grande attenzione al contributo e alla vita degli altri.

 

Un grande murale sul carcere può ridare a Firenze la libertà

“Le mura mi parean che ferro fosse /. … vermiglie come se di foco uscite / fossero …”. Lo sapevamo, certo: ma la storia enorme, sconvolgente di Santa Maria Capua Vetere (una storia su cui giustizia va fatta, fino ai massimi livelli) ci ha sbattuto ancora una volta in faccia che quelle mura, le mura delle carceri italiane, sono troppo spesso di ferro e di fuoco, come appaiono a Dante e a Virgilio quelle della città infernale di Dite. Mura che separano i vivi e i morti, i diritti dall’arbitrio, il mondo degli umani e quello della carne da cannone.

La sorte del corpo del reo – il corpo di chi è affidato, ormai inerme, al potere dello Stato – permette di misurare il grado della dignità che riconosciamo alla persona umana: e dunque della nostra umanità. E basta visitare una prigione della Repubblica per capire che è qua che si decide cosa siamo, e cosa saremo. Perché le carceri riguardano innanzitutto “noi, che ci interroghiamo sui caratteri della società in cui vogliamo vivere e sui principi ai quali diciamo di essere affezionati” (Gustavo Zagrebelsky).

Per questo è davvero importante ciò che accadrà a Firenze la settimana prossima. Sul muro esterno della Casa Circondariale “Mario Gozzini”, primo carcere italiano a tutela attenuata, verrà inaugurata una grande pittura murale: una “scritta che buca”. Poche cose quanto l’arte riescono ad abbattere, almeno simbolicamente e culturalmente, mura e cancellate: ed è esattamente questo il progetto voluto dalla direttrice Antonella Tuoni e dalla professoressa Camilla Perrone, dell’Università di Firenze (insieme al Garante dei diritti delle persone detenute del comune di Firenze, alla Fondazione Michelucci e al Quartiere 4, con il supporto della CAT – Cooperativa Sociale, e il finanziamento della FCRF e del Comune di Firenze).

Gli artisti dell’associazione Elektro Domestik Force hanno incontrato a più riprese i detenuti, per decidere insieme cosa e come dipingere all’esterno del muro che li separa e li unisce alla città: “Sono uscite idee molto distanti tra loro, anche molto personali. Il gruppo di lavoro però si è trovato d’accordo su alcuni aspetti sia tecnici che ideologici. È stato definito che il murale debba portare colori e messaggi positivi. Il target di pubblico (gli utenti che vedranno il murale) saranno principalmente i figli e le famiglie dei detenuti, i quali passano molto tempo di fronte a quel muro nell’attesa di poter entrare nel carcere per le visite. Un desiderio comune è quindi stato quello di non rattristare maggiormente le famiglie, che già subiscono un forte disagio per via dei familiari in stato d’arresto. Pertanto, hanno espresso la volontà che il murale fosse molto colorato e avesse un look adeguato ai bambini. Durante questi momenti di scambio, un detenuto con più di 40 anni di carcere sulle spalle ci ha deliziato regalandoci una sua poesia, scritta appositamente come ringraziamento per gli incontri fatti. La poesia riportava queste parole: “La libertà è un miraggio”. Alla fine, si è deciso di rappresentare un “‘uomo di muro’ (di mattoni e cemento) che si toglie i mattoni di dosso e li trasforma in assi di legno, per poi usarle nella costruzione di una nave ed iniziare un nuovo viaggio”: l’idea è che la parola ‘detenzione’ muti progressivamente in quella, distante solo due consonanti, di ‘redenzione’. Questo il viaggio della nave, questo il viaggio che i detenuti vogliono intraprendere: e la Costituzione della Repubblica è dalla loro parte, non da quella dei capi politici che delle carceri predicano di buttar via le chiavi.

L’incontro inaugurale si terrà nel Giardino degli Incontri di Sollicciano, l’ultimo capolavoro architettonico, urbanistico e politico di Giovanni Michelucci: che giudicava quell’opera, nata da uno straordinario processo di partecipazione con i detenuti e le loro famiglie, “tra le più belle e significative” della sua vita. L’architetto sapeva che sarebbero stati “soprattutto i bambini, oltre le nostre intenzioni, che scopriranno il senso dello spazio e i tanti loro modi di poterlo usare”: ed è questo filo di futuro, questo “miraggio di libertà”, a tenere insieme il progetto michelucciano e questo nuovo intervento artistico che contesta l’impermeabilità di quel terribile muro di ferro e fuoco.

C’è da sperare che Firenze si accorga di quel che succede su quel muro. Perché è da lì che può venirle aiuto, intelligenza, senso della giustizia: non sono i cittadini a soccorrere i carcerati, sono invece questi ultimi che possono rompere l’assedio che i fiorentini hanno posto a se stessi, dimenticando cosa sia una città. Mentre si progettano cancellate per chiudere piazze e chiese, mentre ordinanze del sindaco vietano di sostare in parti importanti dello spazio pubblico monumentale, mentre la “bellezza” di Firenze è sempre più disumana e mercificata, è proprio dai margini e dai marginali che potrebbe venire quella parola di liberazione che rompa l’incantesimo di una città senza più anima.

Il G8 fu un fallimento di tutti (costato 1,2 miliardi di dollari)

Quanto costò il G8 di Genova, quello della città devastata dai black bloc, tollerati e lasciati fare da uno straordinario spiegamento di forze dell’ordine protagoniste della “macelleria messicana”: prima alla Scuola Diaz e poi nella caserma di Bolzaneto? Quello della parata dei grandi della Terra, da George W. Bush a Vladimir Putin, da Tony Blair a Gherard Schroeder e Jaques Chirac. Con Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, inebriato dal sentirsi onnipotente tra gli onnipotenti, in una grandeur che per l’Italia aveva condotto ai piedi della Lanterna anche il presidente Carlo Azeglio Ciampi e l’avversario politico del Cavaliere, Romano Prodi, presidente della Commissione Europea. Quello, infine, del movimento della più grande manifestazione noglobal della storia, 300 mila persone in piazza per tre giorni, dal 19 al 21 luglio 2001, trascinate poi da una regìa fatta di precise volontà politiche in una brutale repressione del dissenso. Culminata, il 19 luglio, con la morte in piazza Alimonda di Carlo Giuliani e, nella notte tra il 21 e il 22, con l’assalto alla Diaz e le torture a Bolzaneto.

Parte proprio da qui, dai soldi spesi per organizzare una “carnevalata” del mondo del dopo Guerra Fredda, il libro Genova, vent’anni dopo. Il G8 del 2021, storia di un fallimento (edizioni People, pp. 176, euro 15,00) scritto da Giovanni Mari, giornalista del quotidiano Il Secolo XIX, in quei giorni giovane cronista nelle strade dell’inferno genovese.

Un lato spesso tralasciato, quello dei costi, certo secondario rispetto alle vicende giudiziarie che cercarono di far luce (ma con risultati parzialissimi) sui terribili fatti della “macelleria messicana”, ma che serve a Mari per avviare la sua analisi sul “fallimento” che, per lui, coinvolge tutti gli attori di quell’evento. Furono, secondo stime della stampa statunitense, spesi 1,2 miliardi di dollari: per l’organizzazione politica del vertice dei Grandi, per imbellettare lo spicchio di Genova destinato ad accoglierli, per i danni provocati alla città, per alloggiamento e il vitto delle sole forze di polizia italiane.

A che cosa corrispose tutto questo, prima ancora e oltre la “sospensione della democrazia” di 20 anni fa? “Il G8 di Genova – scrive Mari – non servì a nulla. Sembrò esistere solo per celebrare il nuovo equilibrio mondiale, ormai maturo, impreziosito dall’apertura alla Russia”. Di qui, però, l’autore si avvia nell’allargare il suo giudizio, quello del “fallimento” appunto, a tutti i protagonisti, singoli e plurali, di quel luglio. Con una scelta, soprattutto riguardo ai protagonisti del dissenso, che non mancherà di suscitare proteste.

Mari sceglie di chiamare in causa ciascuno. Il governo italiano (quello di Berlusconi, ma anche il precedente guidato da Massimo D’Alema, il primo a scegliere di ospitare il G8 in Italia e a Genova, un evanescente ministro dell’Interno, Claudio Scajola, di fatto esautorato, nella gestione della piazza e nella deriva violenta delle forse dell’ordine, dal vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini e dal capo della Polizia Gianni De Gennaro. Le forze di polizia, poi, “ferocemente inabili a governare la piazza e sospinte da un’invisibile mano a colpire il movimento… e a gettare sul banco degli imputati i singoli, chiamati a pagare le colpe dei loro capi”. Con loro, i nostri servizi segreti e quelli internazionali, in capaci di cogliere “i segnali da Seattle, Goteborg e Napoli, dove la piazza era già esplosa”. Infine, la responsabilità dei teoremi e delle prove false della Diaz, per giustificare la vendetta contro ragazze e ragazzi inermi.

Da quel momento in poi, il verdetto dei 20 anni dopo si fa implacabile, talora sul filo dell’azzardo controcorrente: e queste sono forse le pagine destinate più di ogni altra alla polemica. La politica tutta: “La destra, soltanto sguinzagliata contro le ‘zecche violente’, la sinistra cosiddetta radicale ansiosa di cooptare parte del movimento, la sinistra moderata che – come al solito – si presenta inerme e contraddittoria”. La magistratura, “che ha salvato quasi nel complesso la cinghia di comando… Indagando i manifestanti anche quando era chiaro che fossero innocenti, anzi vittime. E lasciando impuniti i saccheggiatori”.

Parla anche del suo mestiere Mari, “quasi una confessione”, quello di chi lavora nei mass media: “Hanno fallito, già pervasi da quel distacco dalla realtà che poi li avrebbe travolti sul mercato, goffamente concentrati sulla spettacolarizzazione degli scontri… inchiodati su un equilibrio scaleno che li obbligava a stigmatizzare sempre e comunque le carenze del movimento”.

Con un finale estremo, proprio perché tocca i noglobal, quelli pestati e lasciati infiltrare dai black bloc. “Precipitati nella trappola perfetta, dello Stato securitario e dei provocatori… Un movimento annichilito dal dolore e dalla disfatta” e, dopo, “concentrato sulla memoria e sul lutto, ma distrutto sul presente e sulle nuove istanze sociali”.

Ogni tesi, ogni contestazione sono intrecciati, capitolo per capitolo, a una ricostruzione indipendente e quasi pignola dei fatti e dei protagonisti. Con un sentimento continuo che, sovente, riesce a spiegare persino le posizioni più ardite e più discutibili: un infinito e triste amore per quella Genova ferita e oltraggiata, allora e poi nella memoria. Come dice un verso di Fabrizio De André, in Sédun: “Fino a quando il sangue selvatico non gli ha spento la voglia”.

“Tre piani” in affitto. Il film di Moretti a Cannes

“Scansati e fammi vedere il film”, veniva da pensare al compianto Dino Risi del cinema di Moretti. Forse stavolta Nanni si è scansato troppo: Tre piani pare un Moretti in affitto. Dimezzato, comunque minore.

In Concorso al Festival di Cannes, annovera il primo soggetto non originale in carriera, il romanzo omonimo dell’israeliano Eshkol Nevo. Il dubbio è sensibile, e il regista e sceneggiatore con Federica Pontremoli e Valia Santella lo fuga: “Trent’anni fa non saprei, oggi non mi sento diminuito quale autore, da subito sono stato strafelice di aver trovato nel libro temi universali che mi interessavano, quali giustizia, colpa e responsabilità dei genitori”.

Traslocato da Tel Aviv a Roma Prati, cambiato nella struttura – nel romanzo tre storie separate, qui intrecciate – e sottratto dall’aderenza esplicita alla categorie intrapsichiche freudiane, Es, Io e Super-Io, inquadra nei tre piani di una palazzina altrettante famiglie: al primo vivono Lucio (Riccardo Scamarcio), Sara (Elena Lietti) e la loro bambina di sette anni, Francesca, che si perde nel parco con un vicino affetto da demenza senile: Lucio sospetta sia un pedofilo, e ne fa un’ossessione; al secondo Monica (Alba Rohrwacher), che da neomamma sperimenta la solitudine – il marito Giorgio (Adriano Giannini) è sovente via per lavoro – e teme di fare la fine della madre, paziente psichiatrica; al terzo i giudici Dora (Margherita Buy) e Vittorio (lo stesso Moretti), il cui figlio ventenne Andrea (Alessandro Sperduti) ubriaco investe e uccide una donna: Vittorio vuole giustizia sia fatta, e intima alla moglie di scegliere tra lui e il ragazzo. Se Nanni non nutre preferenze per l’uno o per l’altro, la differenza è di genere: “Sono i personaggi femminili che cercano di sbloccare i grovigli, i nodi, di aprirsi al mondo, mentre quelli maschili sono più inchiodati al ruolo che hanno in famiglia, rimangono fermi, incistati nella rigidità e nello schematismo, non concedono spazio all’altro”.

La pandemia ha condizionato pesantemente il percorso di Tre piani: sulla Croisette l’avremmo dovuto vedere l’anno scorso nell’edizione poi cancellata, in sala lo troveremo dal 23 settembre con 01 Distribution, e confessa Nanni “conoscendomi non pensavo avrei reagito così sportivamente a un film tenuto in freezer per due anni e mezzo”. Sul versante ideologico, viceversa, “il Covid è come se avesse smascherato una bugia, che noi potessimo fare a meno di sentirci una comunità. Ma che esistessero gli altri, il mio prossimo, e che ci fossero forti diseguaglianze sociali, che la morte facesse parte della vita, e che fortuna e caso giocassero un ruolo importante nelle nostre vite, io lo sapevo già prima della pandemia”. Sono constatazioni anche importanti, ma per chi è stato capace di profezie quali Il Caimano e Habemus Papam l’invito a lasciare i propri appartamenti per incontrare il mondo di Tre piani pare una diminutio, appunto, un levarsi di torno, e nei fatti lo è, intenzionalmente: “Personaggi, sentimenti, relazioni hanno portato a una scelta netta, evitare qualsiasi protagonismo, il protagonismo soddisfatto ed esibizionista di sé in regia, interpretazioni, musica, montaggio, scenografia, arredamento”. Invero, un po’ più di protagonismo avrebbe giovato.

In campo “l’inno alla vita, l’umanità e la pietà, non la tristezza”, non manca l’ambizione, quella di ritrarre il dolore senza la cornice drammatica, ma è un tentativo che nei toni, nei colori, negli umori rivela timidezze, fragilità, scarsa incisività. Qualche scena di dubbia riuscita (il sesso, i migranti), qualche sfasamento temporale (i personaggi non invecchiano in dieci anni, né cambiano vestiti), il rischio è della soap d’autore, lo spettro di un Moretti poco ispirato e poco pugnace, quasi remissivo, almeno per i suoi standard: l’immagine del futuro che Tre piani proietta sarà pure, in netta divergenza col romanzo, ottimistica, ma con Nanni davvero ci si può accontentare del “vestiti e usciamo”? La corrente è quella formato famiglia, intimista de La stanza del figlio, Palma d’Oro nel 2001, e Mia madre (2015), l’esito inferiore.

Moretti guarda al Paese che l’ama, “sono grato a Cannes e alla Francia perché il cinema è preso molto sul serio come fatto industriale e artistico, e perché hanno deciso da tempo di essere generosi con me”, e a Il sole dell’avvenire, titolo provvisorio del nuovo film scritto con Pontemoli, Santella e Francesca Marciano e previsto sul set a febbraio 2022. Nel frattempo, ribadisce la sua concezione registica totale: “Da ragazzo desideravo molto fare questo lavoro, e quindi onoro la fortuna cercando di fare al meglio, stando attento a ogni dettaglio in ogni fase lavorazione: mi stupisco dei colleghi che non fanno altrettanto”. E ancor più l’ortodossia cinefilia: “Io non sono per la sala per un fatto nostalgico, ma da spettatore felicemente ancorato: non riesco a fare a meno di vedere i film degli altri al cinema. Tre piani è pensato per il grande schermo, il rischio con Netflix e le piattaforme è che non si facciano più film personali, ma prodotti standard”.

 

Chi me l’ha fatto fare. Una cena tra amici è un groviglio di scelte. Meglio il frigo vuoto

Stasera ho invitato degli amici a cena. Apro il frigorifero e mi appare un’immagine tristissima: un uovo, un pomodoro ammaccato, un cartone di latte scaduto, forse, della seconda guerra mondiale. Un vero disastro. Mi precipito per una spesa dell’ultimo momento. In lontananza mi appare una visione: la Standa! Miraggio e realtà. Entro nel supermarket piacevolmente refrigerato e trovo tutti gli ingredienti di cui ho bisogno. Tra gli scaffali traboccanti di merce trovo anche dei cd degli Squallor che mi fanno simpatia, così le risate del dopocena sono assicurate! Il problema nasce nel come mettere insieme uno straccio di cena che però vada bene per tutti. Le persone, si sa, hanno gusti diversi, per esempio: c’è chi ama il pepe nero e chi il peperoncino e viceversa. Chi predilige i tortellini alla panna, ma non tutti apprezzano la panna, allora forse le pennette alla vodka, ma a me fanno schifo. Ho deciso: una bella spaghettata alle cozze. Eh, però c’è chi ha paura, le cozze se non freschissime possono essere pericolose. E se facessi una bella pasta al pomodoro? No, è banale, è un piatto ovvio. Io invece sono nota per organizzare delle cene originali, con dei menu particolari, eccentrici, che so, ravioli al profumo di qualcosa, no il profumo non basta, la gente vuole mangiare e non annusare. Forse qualcosa di sardo: casu frazigu il formaggio coi vermi, no, non va bene. Coglioni di mulo. Considerando che ho 10 invitati, ognuno ha diritto a due coglioni a testa, quindi dovrei cucinare 20 coglioni e 10 muli resterebbero senza attributi, diventerebbero mule, che a Trieste vuol dire ragazze, ma questo non c’entra. Non ne posso più, non cucino niente. Una tavola spoglia, tutt’al più un po’ di pane e un po’ di vino, anzi, pane e acqua. È inutile, io le cene non le devo fare, e poi per chi? Per quei 10 coglioni incontentabili che ho invitato?

 

A Londra c’è tanta Italia per una domenica bestiale

Da Matteo Berrettini a Giorgio Chiellini, da Novak Djokovic a Harry Kane, da Wimbledon a Wembley. Tennis e calcio, ore 15 e ore 21: c’è tanta Italia, in questa domenica bestiale. Matteo deve scalare un re; la Nazionale, una regina che frigge nella sua storica ambiguità. Era il 1863, quando a Londra, nella taverna dei Framassoni, venne alla luce la modernità di uno sport che ha accompagnato le nostre età, travolgendole. Ci si gioca l’Europa, l’Europa che fu e che sarà. Tutto in una notte: a braccio di ferro. “Arbitri”, Boris Johnson e Sergio Mattarella.

Sogno contro ossessione. L’Inghilterra è ferma a quell’unico titolo e a quell’unica finale del 1966, 4-2 alla Germania Ovest, il mondo in tasca e i tedeschi furibondi per un gol di Goeff Hurst che il Var avrebbe smascherato e annullato. Da allora, mai più in cattedra: sempre dietro la lavagna, a rivendicare un censo che gli avversari le negavano, comunque e dovunque. Da qui la pressione, enorme. La rosa è giovane, e le spine, subdole. Roberto Mancini ha costruito un’idea, lui che ereditò le macerie di un fiasco biblico, niente Russia e un Paese intero agli arresti domiciliari come nel 1958, l’anno dei “ricchi scemi”, a essere Onesti. Domare uno stadio smaccatamente di parte: non gli si chiede poco.

Campioni d’Europa lo siamo stati nel Sessantotto, stagione di grandi fermenti e non meno spasmodici tormenti. A Roma, con Gigi Riva e Pietro Anastasi, 2-0 alla Jugoslavia nella finale bis dell’Olimpico. Citì, Ferruccio Valcareggi: “papà” saggio, tessitore pacato. La staffetta messicana fra Sandro Mazzola e Gianni Rivera lo consegnò al dibattito popolare in un clima di feroci estremismi: scuola breriana di qua, primo non prenderle, e scuola napoletana di là, primo darle.

La cronaca incalza, carte scoperte e nervi in fiamme, gli inglesi non sono più i famelici “corridori” del passato remoto e monotono. Hanno seppellito la “palla lunga e pedalare”, Pep Guardiola li ha sedotti e convertiti a geometrie più raffinate, meno tribali. Solidi, restano: non a caso, vantano la miglior difesa. Alla settima partita in un mese, la differenza potrebbero fissarla i serbatoi. L’Italia si è sbarazzata della Spagna al tie-break dei rigori; l’England ha eliminato la Danimarca su rigore: non proprio la stessa cosa e, soprattutto, non proprio un atto di giustizia. Ma non parliamo di complotti, sarebbe il colmo: noi, bordello di Calciopoli e non certo convento di orsoline.

Portieri: Gigio Donnarumma è un conto in banca, Jordan Pickford una banca senza antifurto. Centravanti: Kane è in fuga, Ciro Immobile in gruppo. Decideranno le fasce, Giovanni Di Lorenzo a destra con Luke Shaw, Emerson Palmieri a sinistra con Kyle Walker. Cruciali, inoltre, si annunciano i cozzi di centrocampo: Jorginho, la bussola, fra i blitz di Nicolò Barella e i ricami di Marco Verratti. Di fronte, Kalvin Phillips e Declan Rice a presidiare i valichi, Mason Mount a stappare manovre, Bukayo Saka a garantire bombole e munizioni.

Ricordi, Lorenzo Insigne, la massima di Jim Morrison: “A volte basta un attimo per scordare una vita, ma a volte non basta una vita per scordare un attimo”. Traduzione: ora o mai più. Leonardo Bonucci e Chiellini, la “old firm”, la vecchia ditta; Harry Maguire e John Stones, la coppia di fatto: così lontani, così dentro il destino dell’ordalia.

Gli strappi di Raheem Sterling e Federico Chiesa tengono in pugno il risultato. Le ricette crepitano: pressing alto, possesso rapido e, se messi al muro, difesa e contropiede. Il basket torna all’Olimpiade dopo aver demolito la Serbia a Belgrado. Berrettini ha bisogno di un miracolo, Mancini di un’impresa. The italian job: uomini di molta fede, credeteci.

Povero Nanni, oggi il debutto: “Tre Piani” corre il rischio di essere il “Piano C”

Allez les italiens! Gli azzurri in finale agli Europei, Berrettini in finale a Wimbledon, ma anche gli italiani in cartellone a Cannes: di quelli passati finora possiamo essere se non fieri, soddisfatti. Chissà, viceversa, come sarà stata la notte prima degli esami di Nanni Moretti, il cui Tre piani debutta oggi alle 19.15 al Grand Théatre Lumière: non per la prova in sé – della Croisette il regista è un habitué e l’ultimo connazionale a essersi aggiudicato la Palma d’Oro, vent’anni fa con La stanza del figlio – ma per essere il terzo incomodo della domenica tricolore, stretto tra Wembley e volée. Insomma, più che Tre piani il Piano C. Nell’attesa di Nanni, applausi vanno a Jonas Carpignano, corpo estraneo e luminoso del nostro cinema, che conclude la trilogia di Gioia Tauro battezzata da Mediterranea (2015) e proseguita da A Ciambra (2017) con A Chiara, un altro coming of age stavolta con protagonista femminile, la brava Swamy Rotolo, che scopre di avere un padre ‘ndranghetista. Carpignano conferma talento nello sporcarsi le mani, nel non cedere al genere e al generico, nel contaminarsi nella forma cinematografica e nella sostanza umana: la coincidenza di famiglia e Famiglia qui scardina ogni certezza, e apre al dilemma morale. Anch’essi italoamericani, anch’essi alla “Quinzaine des Réalisateurs”, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, classe 1986, esordiscono alla finzione con Re Granchio, che dalla Tuscia alla Terra del Fuoco di fine Ottocento racconta le gesta del temerario e ubriacone Luciano, costretto all’esilio per essersi ribellato al principe. Con echi di Paolo Benvenuti e Straub e Huillet, eleva a potenza immaginifica sapere e tradizione del cantastorie – ottimo lavoro del compositore Vittorio Giampietro – e apre una via fascinosa, coraggiosa e a tratti ostica: che qualcuno lo distribuisca, fa fino. Alla “Semaine de la Critique” corriamo con il debutto di Laura Samani, Piccolo corpo, che tallona, in un’isoletta del nord est a inizio ‘900, la giovane Agata che perde la figlia alla nascita: in assenza di respiro, la bambina non può essere battezzata, sicché la sua anima sarebbe condannata al Limbo… Sguardo antropologico, assonanze da Vergine giurata e professione femminista, rivela talento e identità in costruzione. A “Cannes Classics” c’è gloria per il più anglosassone dei nostri documentaristi, Francesco Zippel, che con Oscar Micheaux – The Superhero of Black Filmmaking inquadra la risposta afroamericana a Nascita di una nazione (1915) di D. W. Griffith, riscoprendo con ardore e rigore un regista-attivista fondamentale per John Singleton, Kevin Willmott e Chuck D. Questi gli italiani, in concorso – ancora tramortito dalla boiata pazzesca di Paul Verhoeven, Benedetta, che sguazza tra dildo ricavati da statue della Madonna e amplessi mistico-pecorecci – non entusiasma Flag Day di Sean Penn, che si ritaglia il ruolo del rapinatore e falsario John Vogel e assegna alla figlia Dylan l’omologa Jennifer in un narcisistico gioco di specchi tra persona e personaggio: una seduta di terapia familiare avrebbe meglio risolto. Comunque meglio del precedente, fischiatissimo The Last Face (2016), che avrebbe mutato il sistema di proiezioni del festival francese, ma sorpassa Penn anche il treno per Murmansk del finlandese Juho Kuosmanen, Compartment no. 6: una studentessa finnica, un minatore russo, una destinazione analoga e le differenze da accettare, funziona pure da ansiolitico.

“Villaggio e le infinite bugie. Poli e i film di Moana Pozzi. Le ‘canne’ di Patty Pravo”

Paolo Poli alle prese con gli scocciatori, Franca Valeri con il suo desiderio assoluto di vivere. Paolo Villaggio e le crisi di fame (“ero complice delle bugie alla moglie per evitare le diete”); Patty Pravo, Ornella Vanoni o Gabriella Ferri (“a 18 o 19 anni le ho citofonato e sono salito a casa sua, dietro Campo de’ Fiori. L’ho conosciuta così”).

Pino Strabioli è come uno spettatore in prima fila che un giorno viene invitato sul palco per vedere meglio lo spettacolo, e da lì ammira, annusa, capisce, sintetizza, fa propri i segreti dei più grandi artisti, e li custodisce per tramandarli ai posteri.

Ora è in scena a Roma con un monologo dedicato proprio a Paolo Poli, mentre ad agosto sarà su Rai3 con Maurizio Costanzo con Io li conoscevo bene: quattro serate per raccontare Villaggio, Vaime, Mastroianni e Bene.

C’è chi l’ha definita “tele-Inps”.

Forse la mia è una patologia, ma credo nel valore della memoria: non ci rendiamo conto dei buchi neri lasciati da certe persone quando se ne vanno, ultima Raffaella Carrà, ma nel 2020 sono morti anche Gigi Proietti e Franca Valeri. Con Franca mi manca un pezzo di quotidianità.

Il suo segreto davanti a questi maestri…

Conosco la storia del Novecento, e se uno di loro cita un nome, non sto lì a chiedergli chi è? Tipo Ermete Zacconi, Alfredo Bianchini o Alberto Moravia. Secondo Poli abbiamo il vizio della rimozione, e noi dobbiamo combatterlo.

Pilastri della cultura…

Quando sono scomparse Milva e Carla Fracci, le uniche interviste recenti erano le mie trasmesse sulla Rai.

Di Gabriella Ferri non si parla più.

Peggio con Laura Betti.

L’artista vive con angoscia l’oblio?

Anna Proclemer, negli ultimi anni di vita, si sentiva completamente spaesata, estranea, ma in generale non fanno troppo i conti con il dopo; (ci pensa) Franca Valeri una sera a cena mi gelò: “Non ho alcuna voglia di morire, sono aggrappata alla vita”. E io: “Sei eterna”. A quel punto prese una piccola pausa, poi mi guardò: “Forse. Ma io non ci sarò”. Vuole la traduzione empatica?

Magari…

Il sottotitolo era: “Che cazzo me ne frega, io voglio esserci”.

Pratica e dissacrante.

Lei viveva sul palco, il palco era la sua casa; (cambia tono) sono felice perché dopo l’appello di Maurizio Costanzo e il mio, Virginia Raggi ha deciso di intitolare il Teatro Valle (di Roma) a Franca, ed è un modo giusto di mantenere la memoria.

Il primo segnale di questa sua necessità…

Da bambino guardavo la televisione e volevo capire, desideravo sapere cosa c’era dietro lo schermo, chi era quella persona davanti a me; stessa sensazione provata anni dopo quando ho iniziato a uscire la sera per andare a teatro.

E così…

Nel 1982 partii da Orvieto, destinazione Roma, per sostenere l’esame di ammissione all’Accademia di Arte Drammatica. Bocciato.

Dolore.

Aldo Trionfo fece benissimo: allora ero solo un ragazzetto supponente con la cresta in testa; mi presentai davanti la commissione con un pezzo tratto da Il diavolo e il buon Dio (opera teatrale di Sartre) e dimostrai la mia ignoranza; Trionfo mi chiese: “Sa chi l’ha portato in scena?”. “So solo che mi piace”. E poi non soddisfatto della figuraccia recitai A Silvia mimando una sega.

Contento Leopardi.

Mi sentivo punk, così mentre declamavo “d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce, ed alla man veloce”, partiva il gesto della masturbazione; dopo il “no” me ne andai al Piper per una delle mie performance dedicate a Gené: mi buttavo a terra con la vernice in faccia.

Intraprendente.

In questo sì, come quando decisi di conoscere Gabriella Ferri: avevo 18 o 19 anni e, tramite un’amica, scopro che viveva a Campo de’ Fiori; arrivo sotto casa sua, citofono, apre, salgo.

Semplice.

La trovo di spalle mentre mangia una scatoletta di tonno. Si gira. Vede le mie bretelle e da brava romana mi apostrofa con un soprannome “A stracchalé. (in romano gli straccali sono le bretelle) Che voi da me?”.

Perché la Ferri?

Per lei avevo un’attrazione assoluta. Ero pazzo del suo essere maschio-femmina con la bombetta in testa; (ci pensa) mentre da Poli ci andai come collaboratore de L’Unità, gli chiesi un’intervista.

E?

Mi fece entrare nel camerino e iniziò a pormi domande: “Cosa vuoi fare?” “L’attore, ma sono anche iscritto a Lettere, sto preparando un esame su Pascoli”. A quel punto mi regalò una lezione divina sullo stesso Pascoli, per poi interrompere quel flusso di letteratura classica con un “basta, ora parliamo di Moana Pozzi”. E mi descrisse la trama di un porno, con lei nei panni della psicologa che curava i “pazienti dal basso”. Io folle di gioia.

Guardava i porno?

Si divertiva a sconvolgere; una volta eravamo in tournée e venne una giornalista un po’ saputella: ogni sua domanda prevedeva un giudizio di fondo, della serie “lei che è omosessuale”, “lei che si veste da donna”, “lei che vive in una condizione particolare”; alla fine arrivò a chiedergli “maestro ma lei, nonostante tutto, è mai stato felice?”. E Paolo: “La felicità non esiste, sereno a volte. Sa che le dico? Io sono Serenella”. E le ha sbattuto la porta in faccia.

Accanto a Poli cosa ha imparato?

Il distacco dalle convenzioni e dai compromessi; (sorride) Paolo odiava le cene con i direttori dei teatri, ma una volta, vicino Parma, siamo stati costretti ad accettare l’invito del presidente di un gruppo bancario. Costui si presentò con una moglie biondiccia, avvizzita, ingioiellata e rifatta. Paolo nella prima parte della serata parlò del Parmigianino, di Busseto, di Verdi, con la tavolata incantata dalla tanta cultura; poi, dopo due bicchieri di vino, lo assalì la noia, e a quel punto guardò la moglie del banchiere: “Signora, alla nostra età e ridotte così, chi ce lo mozzica più il culo”. Ho sputato quello che avevo in bocca e riso come un pazzo.

Niente imbarazzo.

Sono attratto dalle persone che hanno il coraggio di osare lì dove avrei voluto osare io; non a caso i miei amici sono e sono stati Paolo, Franca Valeri e Patty Pravo.

La Valeri come Poli?

Franca nelle situazioni di fastidio resisteva, resisteva, poi sistemava la persona; (ride forte) eravamo in un locale, si avvicina una signora e attacca una pippa infinita, infiniti complimenti e infinito cianciare. Franca in silenzio con accanto a sé il suo cagnolino. Il cagnolino a un certo punto fa la pipì sui piedi scoperti della signora, aveva i sandali, e Franca, con un tempo teatrale perfetto, guarda il cane, guarda lei, e chiosa: “Finalmente”.

Lei è lo spettatore in prima fila.

Sì, ed è un privilegio che mi sono guadagnato.

Non si è bruciato ad avvicinarsi troppo ai suoi miti?

Nella vita privata mai, lì non devono dimostrare nulla, si mettono al tuo livello e ti arricchiscono; al massimo qualche scottatura è arrivata sul palco: in scena so di andare in ombra, di mettermi in secondo piano, però mi piace guardarli. E mi è successo con Paolo, con Franca e con Villaggio.

Sul palco con Poli.

Non era facile, ero terrorizzato, e Paolo, come Gigi Proietti, è stato l’ultimo dei capocomici; tanto nella vita ti permetteva di ridere e godere, tanto sul palcoscenico chiedeva disciplina e attenzione a livello millimetrico: non ti potevi spostare di un passo. Ed è stata la mia vera accademia; (cambia tono) a Milano, alla trecentesima replica, ho avuto un vuoto di memoria.

Il terrore degli attori.

Non capivo più dove fossi, tanto da finire dal medico perché mi era arrivata l’ansia da memoria e da palcoscenico. Mi ha aiutato Paolo.

E con Villaggio?

Persona assolutamente imprevedibile: ci incontravamo di pomeriggio a casa sua, provavamo a scrivere e, puntualmente, in scena, non rispettava nulla, recitava a braccio, anzi a volte sparava una frase assurda tipo “detesto madre Teresa di Calcutta”, poi usciva di scena per andare in bagno. Io restavo solo, imbarazzato, con il problema di come proseguire. Però era un uomo profondamente tenero e incredibilmente intelligente.

Bugiardo.

Bugiardissimo: alla moglie raccontava che avevamo una serata, e non era vero: la balla serviva per sederci a un ristorante ed evitare la dieta. Quanto mangiava. Di tutti gli spettacoli dichiarati alla famiglia, quelli veri saranno stati meno della metà.

Proprio al ristorante ha realizzato un libro con Poli…

E non voleva, sosteneva che era già stata scritta la Divina Commedia o Madame Bovary; quando mi sedevo a tavolo con lui, non voleva vedere il registratore, gli dava fastidio, così dovevo ordinare una salvietta in più per coprire il “misfatto”.

Pupi Avati e Bruno Voglino definiscono l’artista come un bambino in cerca di sicurezze.

Sono dei bambini furbi, smaliziati, addestrati alla vita; forse l’artista più bambino è Piera Degli Esposti, in lei c’è un lato bisognoso di protezione, rassicurazione e tenerezza; Poli era un bambino cattivo, Franca una bambina lucidissima, Nicoletta (Patty Pravo) invece azzera il tempo, non si riesce a collocarla: è un’adolescente sfrontata e desiderosa di sperimentare. (ci ripensa) Ornella Vanoni è bambina.

Anche lei amica.

Mi piacerebbe, è una persona incredibile, ma ci conosciamo meno; però mi ha regalato una chicca: è venuta in trasmissione da me e ha svelato di farsi ancora le canne e di desiderare una badante che gli rolli gli spinelli.

Il suo rapporto con le droghe?

(Ride) Di proiezione: ho preferito frequentare le persone che ne fanno uso piuttosto che farmi. Ovvio, escludo i citati…

Ovvio.

Da giovane le canne me le sono fatte, ma sono un maniaco del controllo, forse ho paura di lasciarmi andare, di esplorare parti di me, o solo di sentirmi male.

Il lei di oggi e il lei ragazzo: cosa vi dite?

Quel ragazzo di Orvieto mi sta particolarmente simpatico, anche perché era in cerca di un riscatto, cresciuto con una madre un po’ depressa perché da Roma era arrivata in provincia e solo per seguire il marito poliziotto; però oggi sono diventato un po’ egoista ed egocentrico, lascio poco spazio agli affetti e alle passioni.

Sempre di più?

Penso a me stesso, e non è una questione di soldi: non guadagno molto, il teatro è un disastro dal punto di vista economico, in tv non ho ottenuto contratti milionari, ma ho la mia libertà e conosco la misura delle cose: so quanto mi basta per stare bene, per questo non andrei mai all’Isola dei famosi o al Grande Fratello.

Sicuro?

Neanche sotto tortura: mi distrugge l’idea di mostrarmi in mutande o utilizzare il bosco per i bisogni. Non mi spoglio neanche al mare.

Un suo limite?

Che oramai, per me, tutto è mediato da grandi personalità artistiche; con le persone comuni mi annoio facilmente.

Chi è lei?

(Silenzio) Questa non è facile. (Altro silenzio)

Ci vuole pensare un po’?

No, meglio subito altrimenti ci rifletto troppo e mi viene un’ossessione.

Quindi?

Uno che ha raggiunto un suo equilibrio, che si sa difendere da certi meccanismi e che ha paura di restare solo anche se non fa nulla per evitare che ciò accada.

Walmart, niente carriera per gli afro

I manager afroamericani dei grandi magazzini Walmart, il colosso delle vendite al dettaglio negli Stati Uniti, non incoraggiano i giovani di colore a venire a lavorare da loro: la paga non è male, ma l’ambiente non è favorevole alle minoranze e le possibilità di carriera sono minime. Se sei nero, entri commesso ed esci commesso, è il sentimento diffuso. Per ottenere un riconoscimento, devi lavorare più degli altri ed essere più bravo degli altri; e il minimo errore non ti viene perdonato. Colpisce che a dirlo siano alcuni dei 56 direttori, manager e supervisor neri di Walmart, interpellati in un sondaggio interno di cui dà notizia la Bloomberg: gli afro-americani sono il 21% della forza lavoro della catena – contro il 13,4% della popolazione –, che con 1,6 milioni di dipendenti costituisce il maggiore datore di lavoro negli Stati Uniti. Spesso i neri hanno i compiti meno retribuiti e più precari: rappresentano il 28% delle assunzioni, ma solo il 13% di quanti passano da impieghi precari a posizioni più stabili; e solo l’8,4% di quanti ‘fanno carriera’, una proporzione rimasta immutata dal 2014.

Walmart è un’icona dell’America: i suoi negozi costellano tutta l’Unione e sono spesso il polo d’attrazione d’una cittadina, specie delle più piccole, dove non ci sono i Mall, i centri commerciali. Ed è uno specchio e un’interprete dell’America: è lì “dove batte il cuore”, recita il titolo d’un film del 2000 con Natalie Portman, ‘ambientato’ nel Walmart di Sequoyah in Oklahoma. Riflette dunque le difficoltà a superare le diseguaglianze razziali. E talora sa rispondere agli stimoli della società: nel marzo 2018, dopo le proteste degli studenti per la strage nel liceo di Parkland, Walmart decise di non vendere più armi e munizioni a chi ha meno di 21 anni (anche se ora quella decisione è stata ritirata e i fucili sono tornati in esposizione nei reparti sportivi) ; e, dopo l’assassinio, a Minneapolis, di George Floyd, il nero ucciso da un poliziotto bianco di recente condannato per quella morte che scatenò le proteste del movimento Black Lives Matter in tutto il Paese, destinò 100 milioni di dollari al fine di creare un centro per l’equità razziale.

I risultati del sondaggio, ancora parziali, vengono commentati con cautela da Walmart: “Teniamo alla diversità dei nostri dipendenti e cerchiamo di fare sempre meglio”. Lo spazio per migliorare – pare – non manca. La Walmart Stores Inc è una multinazionale fondata nel 1962 da Sam Walton e quotata dal 1972, ma tuttora controllata dalla Famiglia Walton, che mantiene oltre il 50% del capitale. Al 31 luglio 2020, aveva 11.496 negozi in 27 Paesi, il che ne fa la più grande catena al mondo della grande distribuzione organizzata.