Disarmo. Gesù non è mai garanzia di vittoria, bisogna saperlo ascoltare

Gesù chiama a sé i discepoli, ma non perché è una calamita che attira e accentra. Li chiama per inviarli. La sua chiamata non è a sé, ma al mondo. E non è una chiamata in solitaria: prese a mandarli a due a due, scrive l’evangelista Marco (Mc 6,7-13). C’è bisogno di sostenersi, di accompagnarsi: c’è bisogno di una comunità, insomma. Il Vangelo non è mai proprietà privata né possesso di un leader solitario. Bisogna avere sempre una compagnia, un’amicizia, che è l’opposto di una leadership individualista, come oggi si usa. Questa missione ha una capacità speciale e davvero specifica: il potere sugli spiriti impuri. Ecco: questa è la vera potenza del Vangelo.

La missione evangelica non è propagare una ideologia, o un contenuto intellettuale o politico-sociale, per quanto nobile. È invece essenzialmente una chiamata ruvida, scabrosa: richiede necessariamente il contatto col male. Chi si illude che il Vangelo sia “peace&love” si inganna. I buoni sentimenti sono evangelicamente tali solamente se sono stati provati dal confronto diretto con il male. Il Vangelo è dramma, confronto serrato col male del mondo. E la missione dà direttamente un potere su ciò che ammala o aliena l’essere umano. Il potere che Gesù conferisce, infatti, non è affatto quello di convincere le menti o avvincere i ragionamenti. Non è un potere infallibile perché irresistibilmente seduttivo. Anzi! Il Messia annuncia l’insuccesso come una possibilità del tutto aperta. Dice, infatti, ai discepoli: “Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi”. Accoglienza e ascolto non sono affatto assicurati. Gesù, insomma, non è mai garanzia di vittoria. E la sua Chiesa non è l’invincibile armata. Non ci sono campagne mediatiche efficaci, né battaglie culturali o ideologiche, che possano godere del successo assicurato. Il potere che i discepoli ricevono è ben altro: è quello di guardare in faccia il male per vincerlo. La parola è davvero evangelica se è in grado di guarire, sanare, curare. Ogni annuncio evangelico che si misura non con la guarigione, ma con la vittoria di alcune idee su altre è spurio. Se il Vangelo vince convincendo ma non guarendo, allora non è Vangelo. E così, infatti, i discepoli scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. È quel che papa Francesco chiede alla Chiesa: di essere “ospedale da campo”, capace di curare e guarire.

Ma perché questa efficacia terapeutica si realizzi ci sono condizioni precise. È necessario essere liberi, nudi, spogli. Affrontare il male richiede il disarmo, il candore, la semplicità. Gesù è estremo: chiede ai suoi discepoli di non avere né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. È permesso avere soltanto un bastone, un paio di sandali e una tunica: tutto ciò che è in diretta funzione del cammino, del percorso, dell’essere per strada. E senza riserva o cambio. La sacca invece è l’emblema opposto, tutto sommato: indica l’accumulo. Si può riempire – anche grazie alla generosità della gente –, e dunque finisce per appesantire. Così non si deve avere neanche la cintura piegata in due piena di spiccioli. La richiesta è davvero impegnativa: l’abbandono totale che esclude in radice ogni apparato, ogni sicurezza, ogni trionfalismo. Resta, dunque, la semplicità assoluta davanti al maligno. Questa e solo questa è la vera potenza: la semplicità, la mancanza di difese. E già questo disarmo, questa resa radicale smaschera il male, che è complicato orpello, maschera, macchina scenica, peso.

*Direttore de “La civiltà Cattolica”

 

Grandine a Milano e +34° in Lapponia: Pianeta alla deriva

In Italia – L’estate 2021 è cominciata con un giugno 2,2 °C sopra media secondo il Cnr-Isac, quarto tra i più caldi a livello nazionale dal 1800 dopo i casi del 2003, 2017 e 2019. Inoltre ha piovuto troppo poco, specie sul versante adriatico: appena 1 mm d’acqua all’osservatorio “Valerio” di Pesaro, peggio di così in giugno andò solo nel 1879 (neanche una goccia) e nel solito 2003 (0,8 mm). A inizio luglio la calura è proseguita al Centro-Sud, domenica c’erano 41,7 °C a Siracusa, e una nuova vampata nord-africana è culminata mercoledì-giovedì con quasi 41 °C nel Cosentino, ma ben più a Nord non ha scherzato pure Bologna con 37,4 °C. Negli stessi giorni il Settentrione viveva nubifragi distruttivi all’avvicinarsi di un fronte freddo atlantico. Tetti scoperchiati dal vento e colture azzerate tra Vercellese e Novarese, e grandine grossa in varie località, dall’Astigiano ad Asiago: giovedì pomeriggio a Milano-Sud il bombardamento di chicchi larghi fino a 10 cm, tra i più grandi mai visti in Italia, ha sfondato finestre e vetri delle auto.

Nel mondo – Stando al servizio “Eu-Copernicus”, giugno 2021 è stato il quarto più caldo a livello globale, dall’intera serie storica, con il concorso della calura eccezionale in Nord America, zona russo-baltica e Siberia, e secondo in Europa dopo il giugno 2019 in cui per la prima volta si erano toccati 46 °C in Provenza. Passata la canicola epocale tra Usa nord-occidentali e Canada, che a detta del gruppo di ricerca “World Weather Attribution” sarebbe stato impossibile sperimentare senza il riscaldamento globale, negli ultimi giorni è toccato alla Lapponia con gli incredibili 34,3 °C del 5 luglio a Banak, mai capitato nel continente europeo a 70° di latitudine Nord. Ma si soffocava pure nei Balcani e in Asia Centrale con 41 °C in Bosnia e 47 °C in Turkmenistan, e ulteriori episodi roventi sono in corso in Marocco, Spagna e California (54,4 °C nella Valle della Morte venerdì 9, se confermato sarebbe un nuovo record mondiale, e un ulteriore surriscaldamento è atteso!). In Giappone si scava ancora alla ricerca di una ventina di dispersi nella violenta colata di fango del 3 luglio ad Atami, sulla costa 100 km a Sud-Ovest di Tokyo, mentre il bilancio delle vittime è salito a nove; piogge da 313 mm in 48 ore hanno innescato l’evento (perfino 790 mm in 72 ore nei dintorni). “Elsa”, prima tempesta tropicale atlantica ad aver raggiunto lo stadio di uragano nel 2021 (ovvero con venti oltre 118 km/h), ha causato almeno quattro vittime nel tragitto dai Caraibi alla East Coast. Prima ancora del suo arrivo, un acquazzone da 40 mm in un’ora giovedì ha già allagato la metropolitana di New York ribadendo la fragilità delle zone urbane di fronte a estremi meteorologici sempre più frequenti. Gli eccezionali temporali del 17-25 e 28-30 giugno in Europa centro-occidentale sono stati i più costosi nella storia del continente, con perdite di beni assicurati per colpa di alluvioni, vento e grandine pari a circa 3,8 miliardi di euro, metà dei quali nella sola Germania secondo l’Associazione tedesca delle assicurazioni (Gdv). Hanno rincarato la dose i nubifragi del 6-8 luglio in Canton Ticino, dove sono straripati torrenti che non lo facevano dalla grave alluvione dell’agosto 1987. La banchisa artica è ai minimi di estensione per questo periodo in 43 anni di osservazioni satellitari, in linea con lo studio sino-americano “A Holistic Assessment of 1979–2016 Global Cryospheric Extent”, su Earth’s Future, secondo cui la superficie planetaria coperta da neve e ghiaccio – che aiuta a riflettere la radiazione solare e contenere il riscaldamento globale – si sta riducendo di 87.000 km2 all’anno, più di tre volte l’area della Sicilia. Stiamo perdendo il condizionatore del Pianeta, peccato che ci sarebbe tornato utile, anzi vitale.

 

Quei “picchiatori liberi” e l’eco dei regimi dell’est

Ci sono emozioni e paure che sono più forti dei fatti, e io mi scuso con i lettori se mi permetterò di unire o collegare eventi gravi ma apparentemente diversi e separati.

Da quando ho visto in televisione e sui giornali le immagini del pestaggio estremo dei detenuti di una prigione italiana, si è fissata l’idea che uomini e valori del mondo di Orbàn e di Kaczynski siano già presenti e attivi alleati dei sovranisti italiani, privi di ogni scrupolo e pronti a tutto pur di restare nel cerchio (a cui sono legati da documenti scritti e firmati dai leader italiani Meloni e Salvini) del libero e arbitrario uso del potere. Gli uomini dei calci all’inguine e colpi di bastone liberamente somministrati sulle schiene e le teste (tre-quattro aggressori per ogni persona indifesa, spesso con ripetizione immediata degli stessi colpi sulla stessa persona lanciata da un picchiatore all’altro) non sono frutto di una esplosione di rabbia o di un progetto disciplinare sia pure sfuggito di mano. Sono la messa in opera di una persuasione politica. È vero che la carta che impegna vari governi e partiti europei a negare ogni diritto ai cittadini non era ancora stata firmata dai colleghi di mattanza italiani, ma la deliberata manifestazione di legame e di accordo tra picchiatori liberi italiani e portatori di un’altra, contagiosa infezione fascista era già cominciata. Del resto l’Italia, a opera delle stesse persone legate da un patto scritto e firmato a Orbàn e Kaczynski, aveva già le sue centinaia di morti in mare dall’inizio dell’anno, di sparatorie e speronamenti di barchini stracarichi, a opera di navi italiane verniciate da Libia.

Vi sembra così assurdo vedere un legame fra le botte libere degli agenti di custodia di Santa Maria Capua Vetere (le sole di cui sappiamo e di cui misteriosamente abbiamo i documenti) a persone abbandonate dallo Stato, e le messe a disposizione di un regime che non c’è ma ha già iniziato a imporre la sua ideologia? Prendo in prestito quanto ha scritto Tonia Mastrobuoni (La Repubblica, 8 luglio): “Se non saranno arginate subito le lesioni sistematiche dello Stato di Diritto e le violazioni dei diritti umani, l’Ungheria e la Polonia rischiano di essere solo l’inizio. Non è un caso che la carta sottoscritta di recente da Matteo Salvini e Giorgia Meloni (con Ungheria, Polonia e altri quattordici schieramenti fascisti, ndr) individua la famiglia come unità fondamentale delle nostre nazioni e promette di metterla al centro della propria agenda, come risposta all’immigrazione di massa.” L’inganno della famiglia cristiana serve per identificare il capo branco che ha piena autorità sulle donne. Serve per cancellare tutti i diritti che non siano l’autorità del capo nominato da Dio tramite i regimi che hanno il potere e di cui sono gli assoluti depositari. La cultura LGBT va stroncata perché distribuirebbe diritti che non devono esistere e libertà che bisogna sopprimere. Trasformare tutto ciò in manifesto politico è essenziale per avviare i sudditi alla piena e indiscussa obbedienza. Di qui il legame con i liberi tentativi di affondare i migranti e le spaventose scene di punizione dei detenuti. Il regime vuole che ci siano strati inferiori di semi-popolo da trattare in modo adeguato (vedi CasaPound quando i suoi uomini sono incaricati di sorvegliare i traslochi forzati dei rom) in modo che i sudditi sappiano di quali privilegio godono attraverso disciplina, obbedienza e fede nel Dio politico del partito, un Dio medievale che decide il futuro con leggi che esigono obbedienza immediata persino se sono contro la scienza, l’opinione di tutti e la cultura del tempo.

L’esercitazione militare di tipo punitivo deve essere molto violenta perché la lezione si imprima con chiarezza su corpi e menti. E diventi paura. L’intollerabile massacro è identico a ciò che era accaduto contro le manifestazioni di pace al G8 di Genova del 2001, che portò alla morte del ragazzo Carlo Giuliani, e a processi e punizioni modeste, e addirittura a promozioni e carriere. Non sappiamo come saranno puniti gli organizzatori ed esecutori di quest’ultima aggressione, ma sappiamo che i feriti non hanno ricevuto la visita di nessuno, che il governo è rimasto impassibile, il Parlamento doveva regolare una quantità di conti politici fra leader e partititi, e il vertice del Paese si è astenuto. Si aggiunga che un leader della maggioranza, per quanto screditato, ha portato il suo grazie ai massacratori di cittadini italiani in carcere. Si sente, in questa Italia, il fiato cattivo della Polonia e dell’Ungheria. Ed è impossibile non ricordare che il fascismo argentino e cileno, con le sue centinaia di migliaia di desaparecidos non ha mai smesso in questi decenni di ricordare cosa sa fare il fascismo e con che crudeltà, se trova porte aperte. La responsabilità di tutti gli antifascisti è grandissima.

 

Ciaccio Montalto non va dimenticato

“Ciaccinu arrivau a stazione” : frase attribuita al capo mafia di Mazara, Mariano Agate, mentre era detenuto. Una settimana dopo, Giangiacomo Ciaccio Montalto, magistrato della Procura di Trapani fu ucciso davanti a casa sua a Valderice.

Perché Trapani, la società civile, i giovani, le scuole, la magistratura, le forze dell’ordine, i cittadini tutti non dedicano, presto, una giornata al ricordo di Giangiacomo Ciaccio Montalto, il piccolo, grande giudice caduto trentotto anni fa sotto i colpi dei killer di Cosa nostra? Perché in una piazza della città non si organizza la visione della puntata di “Cose nostre” (programma di Emilia Brandi) dal titolo “Un giudice solo”, che racconta i mandanti e i moventi, non solo mafiosi, che hanno emesso e fatto eseguire la sentenza di morte di una toga coraggiosa, di un uomo per bene, di un padre di famiglia molto amato? Giovedì notte, su Rai1, il racconto di una vita interamente spesa a difesa della legalità in un territorio impregnato di corruzione e violenza è stato visto da quasi 400mila spettatori. Senza contare che Netflix Europa ha comprato dalla Rai per la distribuzione in 18 paesi (caso non proprio frequente) la storia di “Cose nostre” su Antonia Maria Iannicelli a cui fu ucciso il figlio di tre anni, il piccolo Cocò, e il padre Giuseppe. Dunque, perché in quello stesso territorio tutti coloro che continuano a condividere i valori che hanno ispirato l’azione di Ciaccio Montalto, che conservano fiducia nelle istituzioni, che non temono la piovra della politica collusa con il crimine organizzato (“L’ha ucciso Trapani, non solo la mafia”, dice il collega Rino Giacalone), perché non approfittano dell’occasione per scuotere una città, e la Sicilia, dall’indifferenza della rassegnazione? Celebrare Ciaccio Montalto, il giudice che indagava sui traffici di droga e armi, sulle frodi comunitarie, sugli appalti per la ricostruzione del Belice dopo il terremoto del 1968, raccontare quell’uomo privo di scorta che non temeva di “arrivare alla stazione”, non sarebbe un segnale alto e forte di sostegno ai magistrati che impegnati a fare il proprio dovere rischiano ogni giorno la vita? Trapani per Giangiacomo Ciaccio Montalto sarebbe un andare in direzione ostinata e contraria nel momento in cui la sindrome Palamara descrive l’esercizio della giustizia in Italia come una marmellata tossica di manovre, congiure e carrierismo. Agevolando i poteri che nel governo Draghi cercano di smontare la stagione della legge uguale per tutti.

 

Donna Francesca e la sua propensione ai passatempi erotici

Dalle novelle apocrife di Guido da Verona. Nella città di Firenze, al tempo in cui una legge decretava il rogo per la donna scoperta in adulterio dal marito, donna Francesca, nota in città per le fattezze stupende, e per la sua straordinaria propensione ai passatempi erotici, fu sorpresa una notte dal marito, messer Manfredo, fra le braccia di un certo Duccio, un giovane che tutte trovavano indimenticabile. Manfredo, uno di quegli uomini quadrati, autoritari, dai peli neri sulle dita, che con una spallata demolirebbero un muro maestro, solo grazie al proprio autocontrollo si trattenne dall’uccidere la coppia sul posto. Rimandò dunque l’atto precipitoso e depositò in tribunale la propria accusa, con tanto di testimone (la cuoca burrosa, con cui si prendeva spesso delle libertà). La moglie, convocata a processo, decise di difendersi da sola, nonostante le amiche l’avessero sconsigliata. Indomita, scelse di confessare la verità, e morire, invece di fuggire e vivere da fuorilegge, atto con cui si sarebbe dimostrata indegna dell’amante fra le cui braccia era stata scoperta, e dell’amore. Si rivolse al magistrato con voce ferma e piglio sicuro, domandandogli cosa le venisse contestato. Il giudice, colpito dall’avvenenza della donna, ne provò pietà, temendo che potesse confessare abbastanza da costringerlo a condannarla a morte; e, non avendo altra scelta, le disse: “Signora, come vede c’è qui suo marito, messer Manfredo. Giura di averla scoperta in adulterio con un altro uomo, e chiede che questo tribunale la condanni al rogo. Ha testimoni, ma dubbi; non posso condannarla, se lei non confessa. Per cui faccia attenzione a come risponde, e mi dica: è vero quanto sostiene suo marito?” Senza sgomento alcuno, donna Francesca rispose: “Signor giudice, è vero che Manfredo è mio marito, e che mi ha trovata la notte scorsa fra le braccia di Duccio, dove finisco spesso, a causa dell’attrazione che provo per lui. Non lo nego. Ma una legge dovrebbe essere equa, altrimenti è crudele: come la legge invocata da mio marito, la quale si accanisce sulle donne infelici che potrebbero, molto meglio degli uomini, essere disponibili a soddisfare molti.” E qui guardò il giudice in un certo modo. “Tanto più che, nel redigere la legge, non solo mancò il consenso delle donne, ma non fu loro neppure richiesto. Per cui sostengo che questa legge sia irragionevole, ingiusta e spietata. Comunque, nel caso lei decida, con pregiudizio del mio corpo e della sua anima, signor giudice, di applicare questa legge sbagliata, proceda. Ma prima, la prego, mi conceda un favore: chieda a mio marito se io gli abbia mai negato l’uso e il piacere di me stessa e del mio corpo ogni volta che gli garbava.” Manfredo replicò che sua moglie in effetti aveva sempre dato corso a ogni sua richiesta, accordandogli ogni piacere da lui desiderato. Al che, donna Francesca aggiunse: “Allora, signor giudice, se mio marito ha avuto tutto quello che gli era necessario, mi dica: cosa devo fare con tutto l’ardore che eccede le sue richieste e i suoi bisogni? Devo forse gettarlo ai cani? Non è meglio che lo usi per gratificare gentiluomini che mi amano più di se stessi, invece di sprecarlo?” Il processo di una donna così bella e famosa aveva attirato in tribunale una folla che, a queste domande sensate, reagì con molto trambusto. In parecchi urlarono che la donna aveva ragione. Quando l’ordine fu ristabilito, il giudice, che la pensava allo stesso modo, sentenziò che la legge andava applicata solo alle donne che tradivano il marito per soldi, e messer Manfredo uscì dal tribunale scornato. Meno male che un pizzico di sale non è una misura stabilita dalla legge, o bisognerebbe obbligare tutte le cuoche ad avere le mani di identiche dimensioni.

 

Scontri in città. Misure comuni contro il Covid e per il clima

È stato un summit dei ministri delle Finanze e dei governatori delle Banche centrali all’insegna delle proteste, con Venezia teatro di scontri in città fra polizia e manifestanti ambientalisti. Le forze dell’ordine in tenuta antisommossa hanno disperso i manifestanti rispondendo al lancio di bottiglie, fumogeni e fuochi artificiali da parte di un migliaio di persone che si erano radunate nel primo pomeriggio alle Zattere. Nelle intenzioni degli organizzatori, la protesta avrebbe dovuto raggiungere l’Arsenale, dov’era in corso il G20, per dire no alle grandi navi, allo sfruttamento turistico della città lagunare e allo “strapotere della finanza fossile”. Per quasi due ore la folla è rimasta ferma sotto il sole cocente, sorvegliata sia da agenti a piedi che dagli equipaggi di alcune imbarcazioni che hanno evitato la possibilità che qualche natante aggirasse il blocco via acqua. Poi i manifestanti si sono mossi e ci sono stati i primi tafferugli con le forze dell’ordine. Il gruppo in testa al corteo ha cercato di sfondare la fila di poliziotti al Ponte dell’Accademia. Sono volate bottiglie e molti arredi esterni degli hotel lungo il percorso. La Polizia ha risposto con due cariche, riuscendo a far indietreggiare i manifestanti.

Ma oltre che dalle proteste l’incontro è stato contrassegnato anche dalle proposte. Tra queste l’introduzione di un meccanismo di fissazione del prezzo delle emissioni di CO2 e di incentivi per ridurle, come pure quello di una task force contro il Covid fra le organizzazioni internazionali. Il documento finale al termine della riunione dei ministri delle Finanze e dei governatori centrali del G20 segnala infatti che “la ripresa è caratterizzata da grandi divergenze tra i Paesi e rimane a rischio a causa della diffusione di nuove varianti del Covid-19 e alle diverso trend delle vaccinazioni”. Motivo per il quale è stata riaffermata “la determinazione a utilizzare tutti gli strumenti disponibili per il tempo necessario per far fronte le conseguenze negative della pandemia”. Sul fronte del clima il summit ha deciso un approccio più omogeneo tra le autorità con un maggiore coordinamento interno per avere standard di dati i più uniformi possibili.

Al G20 ok alla tassa globale ma l’intesa può beffare l’Italia

Sono passati dieci anni da quando il 24 giugno del 2011 a Glastonbury, il festival musicale più famoso al mondo, un gruppo di attivisti lanciò un pallone gonfiabile durante il concerto degli U2 con su scritto “U pay tax 2” – anche tu paghi le tasse – una critica diretta alle strutture fiscali utilizzate dal cantante Bono Vox ma più in generale da ricchi e multinazionali per spostare redditi e profitti a piacimento al fine di eludere il fisco, togliendo risorse ai governi per finanziare il welfare. Dieci anni cadenzati dal susseguirsi di rivelazioni (Lux Leaks, Paradise Papers, Panama Papers) sugli schemi scelti da miliardari o da giganti come Google, Amazon, Apple e Starbucks per spostare i profitti nei paradisi fiscali, dall’Olanda a Bermuda.

Queste rivelazioni hanno smosso l’opinione pubblica e dato il via ad un processo iniziato al G-20 del 2013 per riformare il sistema fiscale e mettere fine all’elusione che costa agli Stati 240 miliardi di dollari l’anno. Sette anni e almeno 1.500 miliardi elusi dopo, ieri il G20 di Venezia, coordinato dalla presidenza italiana dal ministro Daniele Franco, ha messo il cappello sull’accordo firmato un mese fa al G7 di Londra per introdurre un’aliquota globale minima di almeno il 15% sui profitti delle multinazionali e un sistema di tassazione per i giganti con margini di profitto di almeno il 10%, che in futuro vedranno tra il 20% e il 30% di tutti gli utili al di sopra di tale soglia riallocati e tassati nei paesi dove sono realizzati.

Un’aliquota minima globale mette un freno alla competizione fiscale tra paesi, che ha portato a una riduzione drastica dell’imposta sui redditi delle imprese (la nostra Ires). Dal 2000 al 2020, l’aliquota media in Ue è scesa dal 32 al 22%. Risultato: effetto sugli investimenti e occupazione pari a zero, secondo l’ultimo studio pubblicato dagli economisti Gechert and Heimberger. Una gara al ribasso in cui nessun paese esce vincitore.

Per ridurre gli incentivi a spostare i profitti dall’Italia ad altri Paesi, però, un’aliquota del 15% non basta. Gli Stati Uniti, che avevano proposto un’aliquota del 21% si son trovati isolati al G7, senza l’appoggio di Germania e Francia e con l’opposizione del Regno Unito, che chiude gli occhi sui suoi paradisi oltremanica come Bermuda, Gibilterra, Isole Cayman, Isole Vergini Britanniche. Oggi i colossi del web fatturano in Olanda e in Irlanda invece che in Italia, spostando profitti che vengono tassati ad aliquote molto basse, fino al 9% in Olanda, 12,5% in Irlanda. Un’aliquota minima permette sia al paese dove la multinazionale ha la casa madre (per molti big del web gli Stati Uniti) sia al paese a cui vengono tolti, come l’Italia, di tassare i profitti spostati nei paradisi fiscali per la differenza tra l’aliquota effettiva pagata nei paradisi e l’aliquota minima globale.

L’aliquota è dunque determinante in termini di gettito. Quello addizionale previsto per l’Italia è di 2,7 miliardi, che sale a 7,6 miliardi con un’aliquota al 21%, 5 miliardi di differenza. Per capire la portata, basti considerare che i margini di manovra per la riforma fiscale dell’Irpef, che ha l’obiettivo di ridurre le tasse sul ceto medio, sono di 2-3 miliardi. L’accordo lascia però aperta la possibilità di adottare un’aliquota più alta, e gli Stati Uniti si apprestano a farlo. È quindi necessario che l’Italia faccia lo stesso e usi il proprio peso per convincere altri paesi del G20 a farlo perché rappresentano più del 90% del Pil del mondo e più del 90% dei profitti delle multinazionali. Un’aliquota al 21% adottata al G20 (o meglio al 25% come indicato dalla Commissione per la riforma della fiscalità delle multinazionali, Icrict) avrebbe un impatto enorme. Il ministro francesce Le Maire ha lasciato intendere che si possa arrivare a un’aliquota più alta del 15% da qui a Ottobre, data prevista per la fine del negoziato. Messico, Argentina, Stati Uniti, Sud Africa, Germania spingono per un accordo più ambizioso, serve che l’Italia faccia altrettanto.

Fin qui, il bicchiere mezzo pieno, sperando si arrivi al 21%. Il bicchiere mezzo vuoto riguarda invece l’altra misura di riallocazione di una parte residuale di profitti globali delle 100 più grandi aziende al mondo in base a dove effettuano le proprie vendite, e non in base a dove queste vendite vengono oggi fatturate, distribuendoli tra i paesi utilizzando una formula. Con questa misura i colossi del web non potranno più eludere il fisco italiano, perché sarà irrilevante dove vengono contabilizzate le vendite. Un sistema di tassazione così esiste già oggi negli Usa per allocare i profitti dei colossi tra i singoli stati ed è una proposta che già nel 1997 il governo italiano aveva presentato in Europa ma che finora si è scontrata con il veto dei paradisi fiscali dell’Ue (Irlanda, Malta, Luxemburgo, Olanda). Putroppo la misura riguarderà solo multinazionali con più di 20 miliardi di fatturato e solo tra il 20-30% dei profitti sopra la soglia del 10% di profitto globale saranno distribuiti utilizzando questa formula. Risultato: meno di 10 miliardi di dollari di gettito, minuscolo se confrontato con i 200 miliardi che possono arrivare da un’aliquota globale al 21%. Considerando che l’accordo su questa misura chiederà come contropartita all’Italia di togliere la Web Tax (gettito di 233 milioni per il 2020), il rischio è che i profitti dei colossi digitali siano finalmente tassati almeno ad un’aliquota minima, ma non in Italia. Serve dunque migliorarla.

Dieci anni dopo Glastonbury, serve più coraggio.

Caos licenziamenti. L’asse Salvini-Renzi contro il Reddito

Matteo Renzi attacca il Reddito di cittadinanza, Matteo Salvini lo appoggia: in mezzo, ci sono le prime ondate di licenziamenti arrivate dopo la fine del blocco. Il contesto: venerdì il leader di Italia Viva aveva lanciato la raccolta firme per un referendum abrogativo del Rdc, l’unico tra i provvedimenti cardine del governo Conte a non essere stato toccato da quello di Draghi. In parte caduta nel vuoto, la proposta ha invece sollecitato il prevedibile endorsement del segretario della Lega che ha rincarato la dose: “Invece di creare lavoro – ha detto – sta creando problemi”, riproponendo la leggenda degli introvabili lavoratori del turismo e dimenticandosi degli stipendi da fame.

In entrambi i casi, di fatto, le uscite servono pure a deviare l’attenzione dalle conseguenze dello sblocco dei licenziamenti. Nelle ultime 24 ore sono arrivati appelli da ogni parte per la decisione della Gkn di lasciare Campi Bisenzio (Firenze) e mettere alla porta 422 persone. “Si tratta di modalità che non possono essere accettate e su cui bisogna trovare tutti gli elementi per scongiurarle” ha detto ieri il ministro del lavoro, Andrea Orlando. Il segretario Pd Enrico Letta ha ammonito: “L’intero sistema paese, governo, Confindustria, imprese, deve rendersi conto che se questo è l’andazzo del dopo 30 giugno, allora va cambiato”.

I vertici dell’azienda non intendono fare passi indietro, neanche sui tempi dell’operazione, comunicati venerdì con una mail: chiuderà subito e manderà tutti a casa a fine settembre, scaduti i 75 giorni di rito. Non ci sarebbero “le condizioni di ricorrere all’utilizzo di ammortizzatori sociali”, hanno scritto in una nota. “Ci sarebbero in realtà a disposizione molte settimane di cassa ordinaria, oltre alle tredici concesse dall’ultimo decreto del governo e l’eventuale anno e mezzo di cassa per cessazione” fa invece i conti Daniele Calosi della Fiom. Si tratta di una scelta, insomma, non di un impedimento. La Gkn non si atterrà poi neanche all’avviso comune firmato il 29 giugno da governo, sindacati e Confindustria, nel quale si “raccomanda” alle imprese di usare gli ammortizzatori sociali in alternativa ai licenziamenti. Il documento non è vincolante: chi lo ignora non rischia conseguenze. E infatti anche la Gianetti, in Lombardia, appena caduto il divieto di licenziare per motivi economici, ha avviato la procedura per liberarsi di 152 persone. Le crisi maggiori, dal 30 giugno a oggi arrivano dall’automotive, il settore – oltre al tessile – sul quale i sindacati si erano detti preoccupati prima di incontrare l’esecutivo e accettare l’accordo “volontario”. La Gkn ha giustificato il taglio con il previsto calo di fatturato. Fino al 2018, quando è stata acquisita dal fondo Melrose, superava i 150 milioni e realizzava utili. Nel 2019 è sceso a 134 milioni, 102 milioni nel 2020 (secondo anno in perdita). La proiezione per il 2025 parla di 71 milioni, scenario che la multinazionale vuole prevenire facendolo pagare ai suoi lavoratori. In Italia resterà solo lo stabilimento di Brunico, la Gkn Driveline Firenze sarà chiusa. Proprio perché si tratta formalmente di una cessazione (quindi indipendente dalla fine del blocco dei licenziamenti), il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha fatto capire che si smarcherà dalla “moral suasion” per la quale si era impegnato con l’accordo del 29 giugno.

Eni ci riprova e chiede al Mite di iniettare CO2 nel sottosuolo

Finora abbiamo assistito solo alla narrazione di un grosso progetto in cantiere, condito da una buona dose di tentativi istituzionali per farlo realizzare. Ora, invece, è ufficiale: nel bollettino sugli idrocarburi di giugno c’è, nera su bianco, la richiesta di Eni al ministero della Transizione ecologica per autorizzare il “programma sperimentale di stoccaggio geologico di anidride carbonica nei livelli esauriti del campo Porto Corsini Mare”. In pratica, il Cane a sei zampe chiede di poter iniettare la CO2 nei pozzi di estrazione ormai esauriti a largo di Ravenna. Un progetto da cui ha tutto da guadagnare ma che presenta più di un aspetto critico sia dal punto di vista ambientale sia della sicurezza. Ecco di cosa parliamo.

Nell’ambito della ricerca di fonti energetiche che siano green ma anche potenti abbastanza da reggere, ad esempio, la produzione industriale, l’idrogeno è il candidato migliore. Negli ultimi mesi, il dibattito si è però diviso tra due tipi di idrogeno: quello verde, che arriva da fonti rinnovabili e quindi ha emissioni inquinanti tendenti allo zero, e quello blu che invece impiega il metano e inevitabilmente genera emissioni di CO2 che devono essere abbattute. È questo il progetto di Eni, in soldoni: produrre idrogeno con il suo stesso gas e sviluppare sistemi di Ccs, ovvero “carbon capture storage” immettendo la CO2 di scarto nei pozzi esauriti, in questo modo allontanando l’obbligatorio decommissioning delle piattaforme a fine vita. Due vantaggi, a cui se ne aggiunge un terzo: è un procedimento molto più economico rispetto a eventuali investimenti sull’elettrolisi (produzione di idrogeno dall’acqua). Proprio sul Fatto, un po’ di tempo fa, avevamo fatto qualche conto: una quantità di metano equivalente al 45% dei consumi attuali avrebbe bisogno di ‘catturare’ ogni anno 460 milioni di tonnellate di CO2 e di immagazzinarla in circa 150 impianti di stoccaggio. Nel caso dell’idrogeno da rinnovabili servirebbero investimenti fino a 410 miliardi di euro negli impianti di elettrolisi oltre a 1.300 miliardi investiti nelle tecnologie di alimentazione. Nel secondo caso, bastano investimenti fino a 140 miliardi, principalmente attraverso impianti Ccs e 47 miliardi di gas.

Negli anni, però, la Commissione Ue ha già finanziato una decina di progetti simili, falliti uno dopo l’altro, tanto che nel 2018 la Corte dei Conti Ue ha denunciato lo spreco di denaro pubblico. Oggi, l’industria promette tecnologie molto avanzate, ma a ricorrervi sono soprattutto i paesi maggiori produttori di gas fossile, come la Norvegia. A loro rischio e pericolo. Ammesso che funzioni, infatti, il procedimento libera comunque nell’aria circa il 20% di metano e identificare spazi di stoccaggio resistenti nel tempo, e quindi sicuri, è difficilissimo. Molti esperti ritengono poi che ammassare fino a 300-500 milioni di tonnellate di CO2 – come nei piani di Eni – nel mare sia rischioso in caso di terremoto.

Il governo aveva pure provato ad avallare il progetto nel Pnrr, inserendolo nelle prime versioni del Piano destinate a Bruxelles, con annesse centinaia di milioni di euro dedicate, e indicandolo come “strategico” nelle bozze del dl Semplificazioni approvato a fine maggio. Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani aveva mostrato diverse aperture. In entrambi i testi, però, non ce n’è più traccia. Nella versione del Pnrr pubblicata sul sito della Commissione Ue e datato 22 giugno si specifica infatti che il gas non avrebbe ricevuto alcun tipo di finanziamento per i progetti legati all’idrogeno e che si deve sostenere lo sviluppo di idrogeno verde per elettrolisi e da rinnovabili, anche e soprattutto nel settore industriale. Al momento, insomma, per Eni resta in piedi solo la candidatura al Fondo per l’Innovazione Ue da un miliardo, salvo ulteriori sorprese. È anche per questo che diventa fondamentale il via libera del Mite.

“Se Eni fa il suo lavoro, il ministero della Transizione ecologica faccia altrettanto – sostiene Enrico Gagliano, co-portavoce del Coordinamento nazionale No Triv –. Tutto sembra essere stato pianificato sin dall’approvazione nel 2019, delle Linee Guida sul decommissioning delle piattaforme. Il Mite ha tutti gli elementi che la scienza ha messo a disposizione in anni di studi sull’impatto dello stoccaggio di CO2: basta per rigettare l’istanza”.

“Mille” a Londra: costi proibitivi, poi tamponi e quarantena

Due paesi interi a spingere due nazionali. L’Inghilterra tutta a Wembley, in barba alla variante Delta. L’Italia da casa sul divano, nelle piazze temendo il coronavirus, non negli stadi, nemmeno all’Olimpico che non è stato riaperto per l’occasione, figuriamoci a Londra, inaccessibile dall’Europa. Non avremo nemmeno il telecronista titolare, visto che la Rai ha dovuto sostituire Alberto Rimedio positivo al Covid: alla fine la scelta è caduta sul veterano Stefano Bizzotto.

È il gran finale di Euro2020, che doveva essere di tutti ed è diventato l’Europeo dell’Inghilterra, che ha giocato quasi tutte le partite in casa (questo si sapeva), e la semifinale pure con arbitraggio casalingo. Episodio che ha alimentato i complottismi, su cui per altro soffiava già la politica, col tentativo maldestro del premier Mario Draghi di scippare la finale a Londra e la reazione orgogliosa di Boris Johnson, mai cosi vicino all’Uefa di Ceferin. Così la partita con l’Inghilterra assume i contorni dell’impresa. Dietrologie a parte, i numeri dicono che la nazionale di Mancini giocherà davanti a 65mila spettatori, quasi tutti inglesi visto il divieto di ingresso in Uk, a parte un manipolo di expat e la spedizione dei mille “privilegiati” concessa dalla Uefa alla Figc. Prezzi non proprio modici: 600 euro di volo charter, 100 di biglietto, doppio tampone più 5 giorni di ferie per scontare la quarantena al ritorno. Praticamente costa come una vacanza: la finale è un lusso da ricchi.

Gli altri milioni di italiani dovranno organizzarsi da casa. Nelle piazze, coi controlli serrati, per l’ordine pubblico e soprattutto per il Covid. La sindaca Virginia Raggi aveva lanciato l’idea di aprire l’Olimpico, ma ha prevalso la prudenza. I maxi-schermi ci saranno un po’ ovunque in Italia, rigorosamente a numero chiuso. Che si vinca o si perda, in Italia come in Inghilterra la preoccupazione è comune: contenere gli assembramenti (e quindi i contagi). Dal ministro Speranza al presidente della Figc Gravina, alla polizia britannica, si sprecano gli appelli a festeggiare responsabilmente. “Pagheremo un prezzo”, avverte il virologo Pregliasco. In caso di trionfo, stanotte, chi vuoi che se ne ricordi.