Gesù chiama a sé i discepoli, ma non perché è una calamita che attira e accentra. Li chiama per inviarli. La sua chiamata non è a sé, ma al mondo. E non è una chiamata in solitaria: prese a mandarli a due a due, scrive l’evangelista Marco (Mc 6,7-13). C’è bisogno di sostenersi, di accompagnarsi: c’è bisogno di una comunità, insomma. Il Vangelo non è mai proprietà privata né possesso di un leader solitario. Bisogna avere sempre una compagnia, un’amicizia, che è l’opposto di una leadership individualista, come oggi si usa. Questa missione ha una capacità speciale e davvero specifica: il potere sugli spiriti impuri. Ecco: questa è la vera potenza del Vangelo.
La missione evangelica non è propagare una ideologia, o un contenuto intellettuale o politico-sociale, per quanto nobile. È invece essenzialmente una chiamata ruvida, scabrosa: richiede necessariamente il contatto col male. Chi si illude che il Vangelo sia “peace&love” si inganna. I buoni sentimenti sono evangelicamente tali solamente se sono stati provati dal confronto diretto con il male. Il Vangelo è dramma, confronto serrato col male del mondo. E la missione dà direttamente un potere su ciò che ammala o aliena l’essere umano. Il potere che Gesù conferisce, infatti, non è affatto quello di convincere le menti o avvincere i ragionamenti. Non è un potere infallibile perché irresistibilmente seduttivo. Anzi! Il Messia annuncia l’insuccesso come una possibilità del tutto aperta. Dice, infatti, ai discepoli: “Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi”. Accoglienza e ascolto non sono affatto assicurati. Gesù, insomma, non è mai garanzia di vittoria. E la sua Chiesa non è l’invincibile armata. Non ci sono campagne mediatiche efficaci, né battaglie culturali o ideologiche, che possano godere del successo assicurato. Il potere che i discepoli ricevono è ben altro: è quello di guardare in faccia il male per vincerlo. La parola è davvero evangelica se è in grado di guarire, sanare, curare. Ogni annuncio evangelico che si misura non con la guarigione, ma con la vittoria di alcune idee su altre è spurio. Se il Vangelo vince convincendo ma non guarendo, allora non è Vangelo. E così, infatti, i discepoli scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. È quel che papa Francesco chiede alla Chiesa: di essere “ospedale da campo”, capace di curare e guarire.
Ma perché questa efficacia terapeutica si realizzi ci sono condizioni precise. È necessario essere liberi, nudi, spogli. Affrontare il male richiede il disarmo, il candore, la semplicità. Gesù è estremo: chiede ai suoi discepoli di non avere né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. È permesso avere soltanto un bastone, un paio di sandali e una tunica: tutto ciò che è in diretta funzione del cammino, del percorso, dell’essere per strada. E senza riserva o cambio. La sacca invece è l’emblema opposto, tutto sommato: indica l’accumulo. Si può riempire – anche grazie alla generosità della gente –, e dunque finisce per appesantire. Così non si deve avere neanche la cintura piegata in due piena di spiccioli. La richiesta è davvero impegnativa: l’abbandono totale che esclude in radice ogni apparato, ogni sicurezza, ogni trionfalismo. Resta, dunque, la semplicità assoluta davanti al maligno. Questa e solo questa è la vera potenza: la semplicità, la mancanza di difese. E già questo disarmo, questa resa radicale smaschera il male, che è complicato orpello, maschera, macchina scenica, peso.
*Direttore de “La civiltà Cattolica”