Berrettini è già nella storia: primo italiano in finale a Wimbledon

Adesso che Matteo Berrettini ha conquistato la finale del torneo di Wimbledon, si complica la domenica di Mattarella che ha annunciato la sua presenza al Wembley Stadium per assistere alla finale degli Europei 2020 tra Inghilterra e Italia. Per par condicio, il capo dello Stato non può snobbare l’impresa storica di Matteo, primo tennista italiano finalista in 134 edizioni del torneo più antico e prestigioso del mondo. Nicola Pietrangeli la sfiorò, sconfitto in semifinale nel 1960 da Rod Laver, leggenda della racchetta.

Berrettini ha rotto l’incantesimo. Mattarella al Central 1 di Wimbledon sarebbe un gran bel segnale, e un vigoroso atout psicologico per Berrettini. Poi, a Wembley, gli toccherà un ruolo delicato, non solo perché affronta il numero 1 al mondo: Novak Djokovic. C’è pure chi carica la partita di insidiosi significati politici: gli Azzurri, alfieri dell’Unione europea; i Three Lions, messaggeri di Boris Johnson, per il quale vige il paradosso di una Brexit inflessibile su tutto, tranne che sul football…

C’è da dire che il venticinquenne romano Berrettini ha disputato con autorevolezza la semifinale, battendo in quattro set il polacco Hubert Hurkacz numero 18 del mondo (6-3, 6-0, 6-7, 6-4), che pure aveva liquidato in tre set il decano Roger Federer. Non ha sofferto, come l’Italia contro la Spagna, ma si è offerto la finale dopo avere sfoggiato un tennis spettacolare ed esibito l’arma micidiale della prima battuta. Matteo ha bombardato il disorientato Hurzack con 22 ace, portando a 101 quelli ammanniti durante tutto il torneo. Tuttavia, ogni tanto ha commesso errori banali, dovuti probabilmente a cali di concentrazione. Il quarto e decisivo set ha visto un Matteo implacabile giustiziere. L’ultimo game, una sentenza: due ace, uno smash, una legnata a 215 km/h.

Nell’intervista rituale di fine match, in impeccabile e spigliato inglese, ha confessato di non aver parole, “avrò bisogno di un paio d’ore per realizzare quel che è successo, un sogno troppo grande, invece eccomi qui, ci sono”. Subito dopo (in italiano), “grazie!”. Applausi anche da David Beckham, il più elegante in tribuna (di nuovo calcio-tennis…). “Quando ho ceduto al tie-break il terzo set, ok, mi sono detto, bisogna reagire, devo crederci. Due anni fa venni qui per la prima volta, subito mi è toccato Roger, mi sono divertito lo stesso anche se ho perso. Ma quell’esperienza mi ha aiutato a essere qui, a vincere. Domenica io e l’Italia del calcio in finale? Porterò il tricolore, speriamo sia una grande giornata, devo crederci”. Roberto Mancini gli ha twittato “Domenica col cuore!”. Dal tempio del tennis s’intravede l’arco del tempio calcistico. Vorrà pur dire qualcosa…

Scarpe della Lidl, “voci dentro” e traslochi: uno Strega da bere

Ci sono appuntamenti con la Storia per cui le firme del giornale farebbero a gara pur di essere inviati: non è questo il caso del Premio Strega. Ciononostante il caporedattore pretende “tutti i retroscena”, e infatti al Fatto – al Museo Etrusco di Villa Giulia (Roma) – è assegnato il tavolo n. 40 su 40: più retroscena di così si arriva al piazzale, non di Villa Giulia ma direttamente a Piazza Navona per il party del vincitore Emanuele Trevi, party a notte fonda in Terrazza Borromini, organizzato già da giorni “a prescindere dal risultato”. Seee.

Dal tavolo n. 40 su 40 non si vede né si sente niente: tocca guardare la serata sul maxischermo. Come a casa, ma senza aria condizionata. Consoliamoci, le colleghe del Corriere della Sera e dell’Ansa sono solo a un tavolo da noi – il 39esimo –, mentre i colleghi di Tv 2000 siedono al 38esimo: hanno più Santi in paradiso.

La cerimonia del 75esimo Strega è sobria quanto soporifera e il premio a Due vite di Trevi (Neri Pozza) meritato e fin scontato: con 187 voti surclassa di oltre 50 preferenze Donatella Di Pietrantonio e il suo Borgo Sud (Einaudi). I maligni lo danno vincitore anche grazie ai voti degli amici di Teresa – Ciabatti, per i nemici –, grande esclusa del 2021. In ogni caso, Due vite, saggio/romanzo sugli amici (di Ema) Rocco Carbone e Pia Pera, morti prematuramente, è notevole, il migliore dei cinque finalisti: più che meritata è anche la prima vittoria di Neri Pozza, piccola e pregevolissima casa editrice che non se la tira come Adelphi e sforna titoli più interessanti di Feltrinelli. Ponte alle grazie/Gems, intanto, rosica per essersi lasciata scappare Trevi, secondo nel 2012 con Qualcosa di scritto. La vita quasi vera di un incontro con Pier Paolo Pasolini a soli due voti da Alessandro Piperno (Inseparabili: il fuoco amico dei ricordi, Mondadori).

Quest’anno per la finale hanno votato 589 persone su 690: fa l’85 per cento, non l’89 sbandierato dal Premio. Ma pazienza: siamo tra letterati e la calcolatrice è rotta. Terza, con 123 preferenze, è Edith Bruck con Il pane perduto (La Nave di Teseo); seguono Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani), 78 voti, e Andrea Bajani, Il libro delle case (Feltrinelli), 66 voti.

A Trevi va anche il Premio Eleganza, scippato di poco al signore in ultima fila con calzini rossi en pendant con la cravatta e la tinta per capelli della moglie, ma Emanuele indossa le scarpe da ginnastica della Lidl: imbattibili. È il nostro Houellebecq; anzi no, sembra Carrère per stile (letterario, non di abbigliamento), verità inautentiche e nome di battesimo. “Tutto lo Strega è autoconservazione e io ne sono il maestro”, dichiara sornione. “I libri sono riparazioni”. Boh, poi dedica la vittoria al fotografo Lorenzo Capellini, in ospedale, e alla madre, “mancata durante questo periodo infernale: lei di sicuro si sarebbe divertita tantissimo, perché amava tutte le gare, da X-Factor a Sanremo”. Di Pietrantonio, invece, racconta le sue “voci dentro” e ha il ddl Zan in pugno, scritto sul palmo della mano come promemoria non si sa per chi. Bajani, poi, iperbolico, parla del “tentativo di rivoluzione che chiunque ha vissuto”. In pandemia? Macché, durante il trasloco di casa: “Ne esci traumatizzato a vita”. Certo. Chiedere alla signora Bruck e ai suoi traslochi da Auschwitz, Dachau e Bergen-Belsen. Il suo Pane perduto, fino a ieri il più venduto dei cinque, “non è letteratura. Ma perché dovrebbe esserlo?”, commenta l’autrice, memore della lectio di Adorno post Shoah.

Età media della platea: 81,7 anni. Tutti vaccinati. I vip sono i soliti habitué: Gian Arturo Ferrari; Clemente Mastella e consorte; Vittorio ed Elisabetta Sgarbi; Chiara Gamberale, che tifa per l’ex marito Emanuele; Dacia Maraini; Francesco Piccolo; Niccolò Ammaniti… Anche Geppi Cucciari, che conduce la serata su Rai3, è sottotono, mentre l’ultimo vincitore Sandro Veronesi si meraviglia di “questo amore per la letteratura anche tra le persone comuni!”. Apperò, chi avrebbe mai detto che le persone comuni leggono. Chiude le gaffe il presidente della Fondazione Bellonci, Giovanni Solimine, che invita a “ritrovare dentro i libri se stessi”. Solo se si è smilzi, piccoletti e piuttosto quadrati.

Cosa rimane, dunque, di questo 75esimo Premio Strega? Mal di testa per 18 ore, una boccetta di liquore in fondo alla borsetta e il dubbio di aver pagato troppo il taxi.

Ognuno ha la sua Raffa. Fiori gialli, canti e paillettes

Capelli nero corvino, corpo atletico nonostante l’anagrafe, mascherina bianca con paillettes a nascondere una bocca rosso fuoco, un casqué solitario, tra le mani un vecchio numero di Gente e la fotocopia in bianco e nero di una foto sbiadita formato A3: “Ero la sosia di Raffaella a La Corrida, tu di quale emittente sei?”. Nel giorno in cui l’Italia dà l’ultimo saluto alla “regina della televisione”, lo spettacolo prosegue fuori dalla grande Basilica di Santa Maria all’Ara Coeli, luogo scelto per i funerali. In piazza del Campidoglio una folla coraggiosa sfida a mezzogiorno i 32 gradi di Roma – ma il termometro al sole ne segna 38 – e nessuno ha pensato ad alcuna forma di copertura temporanea, l’acqua distribuita dalla Protezione civile finisce dopo poco ed è un miracolo che non si siano registrati svenimenti.

Ma Raffaella Carrà vale tutti i sacrifici, lo abbiamo visto in questi giorni dopo l’annuncio triste della sua morte. In chiesa ci sono i familiari, gli amici più cari, qualche volto noto – Carmen Russo ed Enzo Paolo Turchi, Michele Cucuzza, Massimo Lopez, Milly Carlucci, Alessandro Greco – e qualche politico: oltre alla sindaca Raggi e al ministro dei Beni culturali Franceschini, il candidato del Pd al soglio capitolino, Gualtieri, e altri primi cittadini. “Raffaella si è solo spostata un po’ più in là”, suggerisce dall’altare uno dei frati cappuccini arrivati da San Giovanni Rotondo, la città di Padre Pio dalla quale l’urna transiterà prima della destinazione definitiva, all’Argentario. Accanto alla bara di legno, la foto di Raffa sovrastata da tanti bambini e un grande cuore di rose rosse, omaggio di Sergio Japino. A mandare corone di fiori, gialli in prevalenza, non sono stati però solo i “grandi” – la Rai, la Sony, la Ballandi, Lorella Cuccarini, la famiglia Bacardi: ci sono “I ragazzi del balletto” o Rita ed Elvira di Ragusa. Persone che l’hanno amata per la semplicità e l’umiltà che la “romagnola dal cuore tenero” incarnava, come si legge sui registri dei ricordi presenti all’uscita: “Ti scelsi come madrina per la mia Cresima, ma non fu possibile. Ho continuato a portarti nel cuore per tutta la vita”; “Sei stata un esempio per le donne. Hai creduto nel tuo destino, hai perseguito i tuoi sogni senza calpestare nessuno. Hai vissuto da signora e te ne sei andata da signora”; “Dalla Russia con amore”. Parole sincere, come sincere sono le lacrime di Giulia, una ragazza di 19 anni che è venuta qui – ma è rimasta fuori, al sole della piazza – con la nonna di 70: “La consideravo una mamma, pur non avendola mai conosciuta. Sono venuta anche ieri, le ho portato una civetta di peluche. È stato un addio straziante”. O come le donne in prima fila contro le transenne che espongono la bandiera peruviana, ne rammentano la “sensibilità” e cantano A far l’amore comincia tu. O ancora, come Angela, un’anziana in carrozzina: “Raffaella assomigliava tanto a una mia cara amica, che è la gioia in persona. E poi l’ho conosciuta una volta, in una libreria. Gioia non vuol dire superficialità”.

Poi, certo, ci sono anche coloro che stazionano qui da mercoledì, da quando è stata aperta la camera ardente, e si fanno intervistare a ripetizione da tutti i giornalisti presenti, magari mostrando i prodotti artigianali creati con le proprie mani per l’occasione. Ci sono quelli venuti apposta per farsi un selfie con lo sfondo del maxischermo sintonizzato sulla diretta di Rai1, e magari nella foto becchi pure l’immagine del feretro. Ci sono cronisti e fotografi, costretti come spesso accade in una sorta di recinto mediatico, e ci sono i corrispondenti esteri armati di telefonino, asta e cuffie per le dirette dal Sudamerica.

Ma ha ragione la signora Angela: proprio come voleva Raffaella, in piazza c’è soprattutto gioia. La si legge sulle magliette che riportano il “Tuca tuca”, così come nel pupazzo gigante col caschetto biondo che sovrasta i partecipanti, o nel bacio di una coppia omosessuale, commossa. La si legge, anzi la si ascolta, negli applausi spontanei che interrompono le parole che giungono dall’interno della Basilica, così come nelle canzoni, intonate a ripetizione nel momento in cui il feretro viene fatto scendere a spalla.

È come se ognuno dei presenti abbia portato con sé un’immagine, un ricordo, una proiezione della persona Raffaella e del personaggio Carrà. Una sensazione magica che consenta di poter dire: era (anche) mia. E pure – sempre per citare “Ballo, ballo” – la voglia di restare qui, proprio come quell’anziano che, a funerale finito, sale faticosamente la scalinata del Campidoglio appoggiandosi a una stampella e con un girasole nell’altro braccio. Perché, visto che è arrivato in ritardo, sarebbe un disastro se Raffaella se ne andasse davvero.

Linciato per un sospetto da una folla di 600 invasati

Con pietre, bastoni, machete e ferocia. E “con l’evidente intenzione di ucciderlo”, ha riferito la polizia con un comunicato ufficiale: ieri 600 persone hanno assalito Giorgio Scanu, un italiano che da anni abitava in Honduras e lì si era sposato e aveva famiglia. Il massacro è avvenuto nel paesino meridionale di Santa Ana de Yusguare, distante circa 80 km dalla capitale Tegucigalpa, ed è stato ripreso da telecamere di sorveglianza e cellulari: le immagini del linciaggio sono diventate presto virali su social e siti dei maggiori media del Paese, ora scosso dalla barbarie dell’accaduto. Originario di Oristano ed ex calciatore, l’italiano, 66 anni, non è riuscito a nascondersi quando la folla lo ha raggiunto nella sua residenza, che è stata poi data alle fiamme. Dopo aver tentato inutilmente di scappare dall’aggressione, Scanu, ormai privo di sensi, è stato trasferito in ospedale dove è morto per le ferite. Attivate la Farnesina e l’ambasciata italiana in Guatemala, referente per il Paese sudamericano, per fare chiarezza sulla tragedia e assicurare i colpevoli alla giustizia. Secondo le prime ricostruzioni, Scanu sarebbe diventato vittima della rabbia degli honduregni perché ritenuto colpevole di aver ammazzato un suo vicino di casa, Juan de Dios Flores, un anziano di 74 anni che viveva in condizioni di indigenza, responsabile di aver tagliato un albero nel suo giardino. Nonostante la presenza di una pattuglia della polizia, la folla non si è fermata, ignorando ordini e avvertimenti. Secondo altre fonti riprese dal quotidiano El Heraldo, l’italiano era già finito al centro di alcune diatribe con altri cittadini del villaggio in passato. Si parla di una lite con una donna che poi era stata ferita a una mano. Nulla che possa “giustificare” un linciaggio bestiale.

L’Ucraina sanziona Viktor, il figlio erede del despota

Gli uomini grigi del comitato generale del Kgb, il direttorato dei servizi segreti che a Minsk, dopo il crollo dell’Urss, non è mai stato smantellato. L’ex ministro degli Interni, il procuratore generale, molti consiglieri e assistenti personali di Aleksandr Lukashenko. Infine la Commissione elettorale bielorussa, che ha favorito la frode delle ultime urne presidenziali che hanno fatto scoppiare le proteste della scorsa estate. Dopo le 78 sanzioni emesse dall’Unione europea lo scorso giugno per il dirottamento dell’aereo dove volava il giornalista e oppositore Roman Pratasevich insieme alla sua fidanzata Sofia Sapega, l’Ucraina ha deciso ieri di sanzionare 52 volti noti del regime bielorusso, colpendo però anche il prediletto dello zar: il figlio maggiore del presidente, Viktor.

Le misure restrittive ad personam, che prevedono divieto di transito e congelamento dei beni, sono state decretate dopo l’annuncio dell’intelligence di Minsk che ha ordinato un’operazione di “ripulitura del Paese” da tutti i “radicali”. Mentre la Polonia accoglie migliaia di bielorussi ribelli che hanno cercato rifugio nel Paese dall’inizio delle proteste, l’Europa continua a chiedere il rilascio immediato di tutti gli attivisti, dissidenti e giornalisti che rimangono da mesi dietro le sbarre. Nelle sature carceri bielorusse oggi ci sono 530 prigionieri politici, e sono state almeno 35 mila, riferisce l’ultimo report delle Nazioni Unite, le vittime di detenzioni arbitrarie. A Minsk però Lukashenko continua a pensare solo a una cosa: se stesso. Alterando l’emendamento costituzionale secondo cui i poteri dovevano essere trasferiti al primo ministro Roman Golovchenko, con il decreto “Per la protezione della sovranità e ordine costituzionale” firmato a maggio scorso in diretta tv, il presidente ha deciso di cedere, in caso di assassinio o attentato terroristico ai suoi danni, tutti i poteri al Consiglio di sicurezza, nucleo ristrettissimo di una decina di ufficiali autorizzati a imporre immediatamente la legge marziale, dove l’uomo ombra che detiene il vero controllo è il suo discendente: Viktor. Prima di essere membro del Consiglio di Stato, Viktor è stato un uomo d’affari come il fratello Dmitry, il meno noto della troika della famiglia dello zar.

Dopo gli studi in Relazioni internazionali e uno stage al ministero degli Esteri, Viktor ha finito per occupare una posizione dominante nel Comitato olimpico bielorusso, adesso escluso dalle competizioni. Al bruno, stempiato e nerboruto 45enne Viktor, Lukashenko ha spesso preferito però Nikolai, il terzogenito biondo nato, dicono i corridoi del palazzo, non dalla moglie Galina come i primi due figli, ma da Irina, medico personale del presidente. Nikolai, che a 11 anni posava già a petto in fuori nelle foto con Michelle e Barack Obama dopo aver assistito alle riunioni dell’Assemblea generale Onu, ha stretto la mano negli ultimi anni a Putin, Chavez e Xi Jinping. Il ragazzo ha sfilato in mimetica alle parate dell’esercito tra il sorriso tronfio di suo padre e l’imbarazzo dei vertici militari bielorussi. Insieme al fratello maggiore, è il probabile successore del presidente: nella Repubblica dei pupilli, dopo Lukashenko, ci potrà essere solo un altro Lukashenko. A succedere all’uomo che ha già emesso ordini su come governare il Paese dopo la sua morte ci sarà uno dei due: Viktor o Nikolai, che ora ha 16 anni, un’età in cui non è ancora consentito bere una birra. Né essere colpito da una sanzione.

Omicidio Moïse: il commando di soliti sospetti senza movente

“La missione era di arrestare il presidente nell’ambito di un mandato giudiziario, non di ucciderlo”: questa la versione di James Solages, 35 anni, uno dei due americani arrestati a Haiti per l’omicidio del presidente Jovenel Moïse. Lo “squadrone della morte” che, mercoledì, ha fatto irruzione nella residenza presidenziale di Port-au-Prince aprendo il fuoco contro Moïse e la moglie – ricoverata in Florida in gravi condizioni – era costituto da almeno 28 mercenari: ventisei colombiani e due americani originari di Haiti.

Di loro, ha riferito il capo della polizia Leon Charles, ne sono stati presi 17, tre sono stati uccisi mentre gli altri otto sono ancora ricercati. Undici si erano rifugiati nel cortile dell’ambasciata di Taiwan. La tv locale ha mostrato gli assalitori ammanettati e le armi che avrebbero utilizzato per l’assalto. Il governo di Bogotà ha riferito che almeno sei erano ex soldati dell’esercito colombiano. Tra loro El Tiempo cita un certo Manuel Antonio Grosso Guarín, 41 anni, che “aveva ricevuto una formazione speciale da istruttori americani” e fino al 2019 aveva fatto parte delle “forze speciali antiterroriste”. L’altro americano è Vincent Joseph, 55 anni. Il giornale Le Novelliste di Porte-au-Prince riporta che, quando la polizia ha chiesto a Solages chi è stato a commissionare l’omicidio, ha risposto: “Non lo so, ho trovato il lavoro su internet”. Sostiene che lui e Joseph lavoravano come interpreti del commando, e che era arrivato ad Haiti dagli Stati Uniti un mese fa e Joseph da tre. Alcuni giornali, tra cui il Washington Post, hanno ricostruito il suo profilo. Ha casa a Fort Lauderdale, in Florida, ed è imprenditore. Nel 2019 ha creato un gruppo no profit ad Haiti a favore dei bambini della sua città natale, Jacmel. Ha anche lavorato come guardia del corpo per l’ambasciata canadese di Haiti. Gli altri membri del commando, i colombiani, erano entrati ad Haiti per lo più passando per la Repubblica dominicana. Resta senza risposta la domanda principale: che movente aveva questo gruppo armato? Moïse aveva diversi avversari politici. Ma si sospetta anche un regolamento di conti legato al narcotraffico. Intanto gli inquirenti stanno cercando di capire come è stato possibile per il commando introdursi con tanta facilità nella villa del presidente. I responsabili della sicurezza sono stati convocati.

I Talebani sono al governo. Mullah, missione a Mosca

I Talebani non aspettano che gli americani completino il ritiro dall’Afghanistan: proclamano d’avere già preso il controllo dell’85% del territorio, mentre crescono i timori per la situazione umanitaria. Per vent’anni la presenza militare occidentale ha tenuto in piedi governi incapaci – perché minati da rivalità interne e corrotti – di gestire il Paese, senza consolidare né la democrazia né i miglioramenti sociali, specie sul fronte dei diritti delle donne: i più compromessi, ora, dal ritorno al potere degli studenti islamici. Le organizzazioni umanitarie stimano che oltre la metà della popolazione afghana, oltre 18 milioni di persone, fra cui oltre tre milioni di bambini, abbiano bisogno di assistenza e non abbiano cibo a sufficienza.

Il presidente Usa, Joe Biden, non fa, però, marcia indietro: conferma che il ritiro, realizzato al 90%, sarà completato entro fine agosto – prima, cioè, della scadenza annunciata dell’11 settembre 2001, l’anniversario dell’attacco all’America di al Qaeda –; nega che Washington abbia mai voluto accollarsi una missione di nation building; e ammette di non volere, né potere, alterare “il corso degli eventi” nel Paese. È però confermata l’evacuazione degli interpreti e di quant’altri abbiano, a vario titolo, collaborato con le truppe Usa, per non esporli al rischio di rappresaglie. La fine della più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti coincide, di fatto, con l’innesco di un’ennesima guerra civile afghana, che s’annuncia breve: le forze governative si squagliano davanti all’offensiva dei talebani. E già si registrano episodi di ritorsione: Dastagir Zamaray, 41 anni, sette figli, maggiore dell’aeronautica militare, è stato assassinato in centro a Kabul, mentre cercava di vendere la casa per trasferirsi in un quartiere della capitale dove sentirsi più sicuro. Nelle ultime ore, i talebani hanno preso il controllo di sei distretti della provincia del Badekhshan, che confina con il Tagikistan, dove, da maggio, cioè da quando gli insorti jihadisti hanno iniziato l’offensiva, molti militari afghani hanno già cercato rifugio. E, tra giovedì e venerdì, oltre mille soldati dell’esercito afghano hanno varcato il confine tagiko, cercando riparo dopo uno scontro armato con i talebani nel Nord dell’Afghanistan. Il Tagikistan, secondo quanto si legge in un dispaccio dell’agenzia di stampa Khovar, “ha loro consentito” l’ingresso “in base al principio di buon vicinato e in ossequio alla posizione di non interferenza negli affari interni afghani”.

Le fonti governative smentiscono i proclami talebani, ma le notizie che giungono dal terreno paiono confermarli. Galvanizzati dal ritiro delle truppe Usa e dei loro alleati, i ribelli s’impadroniscono, giorno dopo giorno, di nuovi distretti: nella provincia di Herat, dove, al confine con l’Iran, vivono decine di migliaia di sciiti, e lungo il confine con il Turkmenistan. A Ovest, centinaia di militari e poliziotti governativi, talora accompagnati dalle loro famiglie, varcano il confine con l’Iran, dove, a Teheran, sono in corso negoziati tra il governo e i talebani. Mosca e Pechino esprimono la preoccupazione che, in questo contesto, integralisti islamici possano infiltrarsi in Asia centrale; paiono ansiose di riempire il vuoto d’influenza nell’area lasciato dall’Occidente. Una delegazione di talebani è a Mosca per stemperare questi timori: “Prenderemo tutte le misure necessarie perché i miliziani dell’Isis non operino in territorio afghano e non lancino operazioni contro i nostri vicini dal nostro territorio”. I rapporti tra talebani e Isis non sono eccellenti, anche se, nell’ultimo anno, le loro azioni sono state in qualche modo complementari in Afghanistan: i talebani compivano azioni militari, i miliziani attacchi terroristici. Fonti del Pentagono non confermano che i talebani controllino gran parte del territorio afghano. Alla Cnn, il portavoce John Kirby fa un distinguo: “Dire di avanzare e di controllare un territorio non significa poterlo gestire a lungo… I governativi hanno l’addestramento e i mezzi per difendere il loro Paese, la loro gente. Ora devono averne la volontà”. Usa e Turchia hanno intanto concordato le modalità generali della missione delle truppe turche che dovrebbero garantire la sicurezza all’aeroporto internazionale Hamid Karzai di Kabul: 500 uomini circa, con il supporto logistico, strategico e finanziario Nato e Usa. C’è stata, giovedì, una telefonata tra il ministro della Difesa turco Hulusi Akar e il capo del Pentagono, Lloyd Austin.

Grillo Jr, la guerra delle chat. S. all’amica: ‘Mi hanno usata’

La prima udienza preliminare del caso sulla presunta violenza sessuale in cui sono indagati Ciro Grillo e i suoi tre amici – Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria – è diventata subito terreno di scontro fra gli avvocati dei ragazzi e i difensori delle parti offese, le due amiche, Silvia e Roberta, che ieri hanno chiesto di costituirsi parte civile. All’uscita del Tribunale di Tempio Pausania, Gennaro Velle, legale di Capitta, anticipa una linea difensiva dura: “Ci sono elementi che possono essere molto rilevanti, anche nel cellulare delle due ragazze, materiale che andrà valutato con attenzione”. Il riferimento è ad alcuni audiomessaggi, che per i difensori degli indagati potrebbe ribaltare il senso di quella serata: si tratterebbe di frasi che potrebbero supportare la versione di Grillo jr e degli altri tre ragazzi, e cioè che tra loro e Silvia (nome di fantasia) c’è stato un rapporto consenziente e non uno stupro di gruppo.

Un’interpretazione contrastata in modo netto da Giulia Bongiorno, avvocato di Silvia: “Una denuncia è un grido di dolore, che in questo caso è stato trasformato in denuncia. La sede naturale è l’udienza preliminare che finalmente è arrivata. Ed è quello che mi ha detto la mia assistita. Per noi è importante che ci sia una verifica giudiziaria. Silvia non ha mai fatto calcoli, se lo avesse fatto non avrebbe neppure denunciato. È una persona schietta, una persona qualunque, una di noi”.

Ma cosa ci sarebbe esattamente in questi audio? Secondo i difensori dei quattro indagati, potrebbero nascondersi elementi per tenere insieme l’ipotesi della consensualità e quella di un successivo ripensamento. Silvia, in alcuni messaggi, si mostrerebbe infatti preoccupata delle possibili conseguenze della diffusione di notizie relative a quella notte. Mentre Roberta sembrerebbe mettere in dubbio parte della sua versione.

Era il 16 luglio 2018. Silvia e Roberta erano andate a dormire nella casa vacanze di Porto Cervo in cui il figlio di Beppe Grillo soggiornava insieme agli amici, dopo una serata passata al Billionaire. All’alba, secondo quanto raccontato di Silvia, sarebbero avvenuto lo stupro. Prima solo con Corsiglia, e successivamente, quello di gruppo con gli altri tre, che hanno anche girato alcuni video con il cellulare, immortalandone alcuni momenti.

I filmati sarebbero stati visti, nei giorni successivi, da amici del gruppo dei genovesi. Un’ipotesi emersa da alcune interviste andate in onda sulla trasmissione Non è l’arena di La7 e che hanno portato all’apertura di un nuovo fascicolo per revenge porn, a carico di ignoti. “I ragazzi non c’entrano niente con la diffusione di quel materiale”, ha dichiarato ieri Alessandro Vaccaro, difensore di Corsiglia.

Ciò che si vede nei filmati ha valenza opposta per le due parti. Per gli avvocati degli indagati sono la dimostrazione che c’era il consenso, per le parti civili il contrario. Insieme a Silvia, ieri, ha chiesto di costituirsi parte civile anche Roberta: dai cellulari di alcuni dei ragazzi sono emerse foto oscene, scattate – è l’ipotesi – mentre la giovane dormiva ignara sul divano, comportamento qualificato dai magistrati come un ulteriore episodio di violenza sessuale.

Durante l’udienza è stata chiesta anche una perizia sulla traduzione di un audio in inglese che Silvia aveva mandato a un’amica nei giorni successivi al presunto stupro: “Per me il sesso è qualcosa che voglio fare con qualcuno che amo, e non vendermi così, come molti altri dei miei amici anche qui in Italia. Mi sono sentita usata”.

Sul caso adesso grava un’altra incognita: quanto potrebbe pesare sulla vicenda la nuova riforma della giustizia voluta dal ministro Marta Cartabia, che reintroduce una forma di prescrizione nel caso in cui non fossero conclusi entro due anni il processo d’Appello e in un altro anno quello di Cassazione? Nel testo la violenza sessuale, considerata un “reato grave”, prevederebbe una deroga della durata del secondo grado a 3 anni. C’è da considerare tuttavia che la Corte d’appello di Sassari è una di quelle più in difficoltà in Italia: un processo viene smaltito in 1.028 giorni (2 anni e 10 mesi), cioè una media non troppo lontana dalla tagliola che, anche in caso di una condanna, potrebbe decretarne l’improcedibilità per i quattro indagati.

Sanità extra-Covid in stallo. La Calabria è maglia nera

L’anno scorso, durante la prima ondata, anche nelle Regioni colpite marginalmente dalla pandemia si è assistito alla paralisi delle prestazioni non legate al Covid, senza risparmiare l’area oncologica. L’emergenza ha fatto saltare oltre il 45% degli interventi chirurgici per il tumore alla mammella in Calabria, il 35,88% in Basilicata, oltre il 25% in Molise, il 16,44% in Puglia. In pratica, a eccezione della Sardegna, quasi tutto si è bloccato anche al Sud. Mentre nelle regioni del Nord, travolte dai contagi, si sono rilevate situazioni molto differenziate. Rispetto al 2019, sono diminuiti del 35,15% gli interventi per la stessa patologia in Lombardia, percentuale che è schizzata al 52,31% nella provincia di Trento. Più contenuto l’impatto sul Veneto (14,1% in meno), sull’Emilia-Romagna (quasi il 14%), sul Piemonte (24,17).

L’analisi arriva da Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, e dalla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Nella seconda parte dell’anno, i servizi sanitari, nonostante la pandemia fosse ormai diffusa su tutto il territorio nazionale, sono riusciti a dare complessivamente una risposta più efficace alle necessità di cura, contenendo il rinvio di ricoveri programmati e di operazioni chirurgiche. Anche se la semi-paralisi si è protratta in molte aree. Sempre per il tumore alla mammella, nella provincia di Trento gli interventi durante la seconda ondata sono crollati del 46%, del 36,3 in Calabria, del 31 in Basilicata e del 20,49 nel Lazio. Anche la Lombardia, pur facendo passi avanti, ha visto un calo significativo (13,07) mentre l’Emilia-Romagna ha ricominciato a correre con un aumento degli interventi superiore al 41%. Lo studio ha messo a confronto le prestazioni erogate nel 2019 con quelle del 2020, con la consultazione delle schede di dimissione ospedaliera e dei dati relativi ai programmi di screening oncologici. Non è stata però solo l’eccezionale emergenza a far saltare le prestazioni non Covid. Ha inciso anche la paura dei cittadini di un ricovero in ospedale. “Parte delle prestazioni non erogate – dice Sabina Nuti, rettrice della Scuola superiore Sant’Anna –, dipendono dalla mancata richiesta da parte dei cittadini stessi, e quindi da una riduzione dell’offerta. Non tutto sarà possibile e opportuno recuperare nel 2021. In ogni caso, sarà necessaria un’attenta analisi dei dati per mettere in campo azioni di rilancio e sostegno di servizi quali quelli di prevenzione, come gli screening oncologici”.

Diversa la situazione durante la seconda ondata, per quanto riguarda gli interventi ortopedici entro due giorni da una frattura. Flessione in Basilicata, Sardegna, Abruzzo, Lombardia. Mentre sono riusciti a recuperare la Puglia, la Sicilia, la Calabria. Anche per il tumore alla prostata durante la prima ondata si è arrivati quasi al collasso. Con crolli degli interventi che vanno dal 64,58% della provincia di Bolzano al 48,73% delle Marche.

Il virus ora riprende forza: inevitabili nuove chiusure

Tornano a salire i contagi in Italia: +30% nell’ultima settimana, un aumento consistente che avviene dopo ben 15 settimane di calo della curva epidemica. Aumenta anche il tasso di positività: +38% negli ultimi sette giorni, il che significa che a parità di tamponi effettuati si rilevano molti più infetti.

Continuano a scendere invece gli ospedalizzati e i deceduti, ma come sappiamo questi sono dati che hanno un ritardo temporale di 2 e 4 settimane rispetto alla notifica della positività. Sono 12 le regioni italiane in cui si registra un aumento dei contagi, al Nord-Est le situazioni più critiche: Marche, Veneto, Alto Adige le peggiori, a seguire la Sardegna. Infine, il Covindex, il parametro che riproduce Rt ma con dati più aggiornati, è di nuovo sopra 1, dato che non si verificava dal 15 marzo e che indica chiaramente che l’epidemia è di nuovo in una fase espansiva.

Cosa dovremmo aspettarci nelle prossime settimane? Per capirlo è utile guardare quanto accade nel Regno Unito, divenuta nell’ultimo anno un vero e proprio caso studio in Europa, prima per la diffusione della variante Alfa, poi per la Delta, infine per essere in vantaggio su tutti nella campagna vaccinale. E dopo un anno e mezzo di emergenza dovremmo aver imparato che in tempo di pandemia, quello che accade al tuo vicino presto capiterà anche a te. Non c’è modo di evitare l’onda, l’unica possibilità è anticipare le contromisure per ridurne gli effetti. In Uk i contagi sono ricominciati a salire a inizio maggio per poi impennarsi nelle ultime settimane con un tempo di raddoppio esponenziale di circa otto giorni, arrivando a superare quota 30 mila. Tutto questo sta accadendo a fronte di una popolazione adulta vaccinata all’86% con la prima dose e al 65% con entrambe, mentre le percentuali complessive sono del 67% e 50%. La cattiva notizia è quindi relativa all’efficacia dei vaccini contro la diffusione della variante Delta: i dati provenienti dal Regno Unito indicano che il virus circola tra i non vaccinati ma anche in quella parte di popolazione immunizzata.

Discorso diverso invece per quanto riguarda la percentuale di persone ospedalizzate e decedute sul totale dei casi registrati. Nell’ultima settimana – e tenendo conto degli scarti temporali necessari per effettuare calcoli di questo tipo – si è registrato un tasso di ospedalizzazione del 3,7% e una letalità dello 0,3%. Dati in netto calo se paragonati all’estate 2020 o all’ultimo inverno, quando la percentuale di ospedalizzati era tra il 10 e il 12% e la letalità oscillava tra il 4,5% e il 6%. In sostanza, se prima dei vaccini finiva in ospedale un positivo ogni 10, con i vaccini ne vengono ricoverati circa 4 su 100. E se prima ne morivano 5 ogni 100, adesso “solo” 3 ogni mille.

C’è però una variabile molto importante da considerare in questa analisi, il numero di tampone effettuati. Nel Regno Unito i test sono raddoppiati dal primo al secondo periodo considerato, e addirittura triplicati dal secondo al terzo. Ovvero, se l’estate scorsa si facevano in media 150 mila tamponi, oggi se ne fanno un milione. Questo inevitabilmente allarga il denominatore, ovvero i casi positivi rilevati, e di conseguenza le stime sull’efficacia dei vaccini nel ridurre casi clinici gravi potrebbero essere stimate al rialzo.

Cosa aspettarci dunque in Italia? Con la variante Delta che nel corso dell’estate diventerà dominante e l’eliminazione di ogni tipo di misura di contenimento, i contagi è certo che risaliranno, come sta già accadendo a livello complessivo in Europa. Inoltre l’Italia è indietro con le vaccinazioni, siamo solo al 42% di over 12 immunizzati con entrambe le dosi, e questo crea un problema in più di fronte alla crescita dei contagi. Bisognerà capire fino a che punto potremo permetterci di lasciare il virus libero di circolare. Ma prima o poi, nuove misure di contenimento saranno forse inevitabili.

*analista scientifico