Mail Box

 

Cingolani cancella i fondi per le aree protette

Mentre ci diamo il “buongiorno”, scorriamo gli articoli sui giornali e leggiamo gli ultimi rapporti ufficiali: le notizie son a dir poco sconfortanti. Il lapsus freudiano di un quotidiano, qualche giorno fa, è rappresentativo di questa “transformazione ecologica” (transizione ndr) . Un passaggio sventagliato come vessillo, come redenzione di un intero passato italico fatto di cemento e terre del fuoco, che intende redimersi in una mera trasformazione da illusionista. La cornice è quella del Pnrr, cui il governo ha destinato un misero 0,04% dei fondi per le aree protette e la biodiversità, disattendendo apertamente alle indicazioni dell’Ue, dove si chiede tra l’altro, la protezione di almeno il 30% di zone marino-costiere entro il 2030.

Il Piano Nazionale riserva un’attenzione del tutto marginale al mare, per l’Italia fondamentale, con i suoi quasi 8000 kmk di costa e una vasta zona che comprende anche gli spazi rientranti nella nuova Zona Economica Esclusiva, che può estendersi fino a 200 mn, quindi parecchio a largo. Il Mite, dal canto suo, ha appena cancellato uno stanziamento di 80 milioni destinato alle aree protette per il contenimento delle emissioni per favorire l’utilizzo di fonti fossili. Dovremmo almeno avere il coraggio di ribattezzare il Green Deal europeo in Grey Deal italiano, con buona pace di chi ancora crede in una transazione economica positiva.

Daniela Addis (Associazione Donne di Mare)

 

Un nuovo soprannome per “l’innominabile”

Premesso che non seguo i social (non sono su Facebook, Instagram, Twitter, ecc…) devo però dire che la risposta di Fedez a Renzi è veramente calzante: “Continua a fare la pipì sugli italiani e digli che piove”… invece di apostrofarlo come “l’Innominabile”, da oggi in poi potremmo nominarlo “il Pisciatore”.

Prezioso Correale

 

Libia e ddl Zan: diritti per tutti e ovunque

Gentile direttore, sono da sempre favorevole a tutelare i diritti umani senza discriminazioni di alcun genere. Anche quest’anno ho partecipato al pride della comunità Lgbt+ e mi ha accompagnato mio figlio Francesco di 13 anni, che seguiva ogni cosa incuriosito. Francesco mi ha detto: “è una grande festa!” e io ho aggiunto “per la dignità e libertà di tutti”. Oggi la rabbia è incontenibile. Negli stessi giorni, in Parlamento i deputati e senatori del Pd e di Leu da un lato tenteranno di approvare il ddl Zan e, al contempo, turandosi il naso approveranno la conversione in legge del dl che rifinanzia le missioni militari all’estero e tra queste, la più oscena ed incostituzionale: la missione in Libia. Si tratta di collaborare a respingere i migranti nel deserto libico, dove si muore senza lasciare traccia, i lager che abbiamo esternalizzato e la sedicente Guardia costiera libica che ha il compito di riacciuffare chi fortunosamente riuscisse a scappare da quell’inferno. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha dichiarato che il finanziamento della Gcl è “funzionale alla formazione del personale (libico) nella gestione delle situazioni di emergenza, nel rispetto dei diritti umani e di genere”. No ministro, non si gioca con i diritti umani! Se difendete i diritti umani, approvate la legge Zan e, allo stesso tempo, bloccate i finanziamenti alla Guardia costiera libica, o comunque quelli finalizzati al respingimento di donne e uomini che cercano salvezza in Italia. I diritti sono tali se valgono per tutti e se valgono ovunque.

Mauro Carlo Zanella

Emilio Zecca

 

Il “Fatto” mi crea dipendenza positiva

Stamattina non sono riuscito ad aprire l’app di Mia per la quotidiana lettura del giornale (spero non vi siano problemi). Dopo diversi tentativi, sono entrato nella fase di astinenza, come quella del fumo, ne so qualcosa come ex fumatore: il malessere generale ti pervade e fa crescere sempre più la frenesia, ti manca qualcosa. Ebbene, alla fine son saltato in auto per andare in edicola e, finalmente, ho avuto tra le mani l’agognata “droga” mattutina. Questa è una “droga” buona, terapeutica, fa bene alla mente e la consiglio a tanti, anche se molti sono fusi da “droghe” pericolose ormai, persi per sempre.

Ermes Zilli

 

Stato, religione e i tabù usati come ricatto

Tutte le religioni sono accomunate da un odio verso il corpo e i suoi bisogni. Tra i bisogni il più odiato è quello sessuale. Anche il rapporto con il cibo viene vissuto come problematico. Infatti, in molte religioni ci sono giorni di digiuno. Ma da cosa nasce questo disprezzo per il corpo?

Tutte le volte che reprimiamo un bisogno sviluppiamo un disagio. E le religioni sono organizzazioni che nascono per risolvere il disagio. L’energia che dovremo esprimere nel sesso crea una tensione fisica: tutto ciò è la premessa della malattia.

Non solo, il disagio fisico disturba la mente che perde di lucidità. Così diventiamo facili prede di chi vuole approfittarsi della nostra debolezza. In prima linea ci sono le organizzazioni religiose, seguite da quelle statali. Stato e Chiesa sono alleati nello sfruttare il disagio umano per estorce soldi e lavoro gratuito. Ai vertici di Stati e religioni ci sono persone che vivono il disagio della repressione, ma lo compensano sfruttando sudditi e adepti, innescando un circolo che non finisce mai.

Paolo Mario Buttiglieri

Facebook. Post bloccati o censurati: i colossi social siano più trasparenti

 

Gentile redazione, vorrei sottoporvi quanto sta capitando in queste ore a molti utenti di Facebook, che si vedono bloccati repentinamente la possibilità di condividere i propri post che non contengono contenuti razzisti, né sessisti, né omofobi, né di odio e quant’altro e la “punizione” dura per circa ventiquattro ore. Questa si può definire libertà di espressione o c’è sotto qualcos’altro come paventano molti utenti colpiti da questa ”censura”?

Gaetano La Manna

 

Gentile Gaetano, è sempre più chiaro che la moderazione dei contenuti sulle piattaforme social sia spesso materia davvero oscura agli utenti. In pochissimi leggono le policy e sovente viene difficile comprendere che – considerandosi di fatto privati – le piattaforme pretendono che si rispettino le regole che impongono. Quel che manca, però, è la comprensione di cosa ci sia dietro cancellazioni, blocchi, sospensioni. Purtroppo senza conoscere i singoli casi a cui lei fa riferimento e finanche il contesto, è difficile poter valutare il fenomeno. Stiamo però lavorando a una inchiesta proprio su questi temi, quindi le consiglio di rimanere sintonizzato. Intanto posso dirle che questi processi sono molto più complessi di come appaiono. A volte i post vengono “sospesi” se segnalati da qualche utente e dopo la verifica di un moderatore. Ma magari capita che a prendere questa prima decisione siano processi automatizzati ai quali magari viene insegnato a reagire a determinati input. Le segnalazioni, le questioni controverse, finiscono in una coda che può richiedere del tempo per essere analizzata e smaltita e così le 24 ore di un utente possono essere nella pratica un tempo minimo per la piattaforma. O ancora, ci possono essere errori in questo processo, umani e meccanici, che restano inconoscibili per chi è dall’altra parte dello schermo. Potrebbe addirittura capitare di essere “censurati per errore”. Il problema, a mio parere, è che la trasparenza sia carente in questa fase: per chi subisce le decisioni di queste piattaforme (che anche se private assumono sempre più un valore pubblico, soprattutto nel dibattito) non c’è adeguato confronto, manca uno spazio di discussione con qualcuno che semplicemente possa rispondere alla legittima domanda: “Posso sapere perché mi avete silenziato?” .

Virginia della Sala

Figliuolo alle grandi manovre. In ritirata pure su Astrazeneca

Ci scuserete se da un po’ non commentavamo le notizie dal fronte delle Figliuoliadi, la maratona di vaccinazioni a tappeto portata avanti dal Governo dei Migliori sul suolo nazionale, ma eravamo occupati a stringerci a coorte, come da ingiunzione del Generale Figliuolo, e non volevamo disturbare la cavalcata verso il milione di somministrazioni al dì promesse per giugno dal Gen. stesso, specie dopo la ritrovata chiarezza su AstraZeneca (prima indicato solo sotto i 55 anni, poi bloccato per tutti, poi riautorizzato fino ai 65 anni, poi indicato solo sopra i 60, quindi autorizzato senza limiti d’età, indi iniettato ai giovani negli Open Day, infine sospeso sotto i 50 anni).

Ma l’altro giorno abbiamo letto sulla Stampa questo titolo: “La svolta di Figliuolo. AstraZeneca e J&J anche agli under 60”. Prego? Eravamo rimasti che sotto i 60 anni Az non si faceva più e si usava per i richiami solo se uno ci era affezionato e non voleva passare a Pfizer per coerenza; mentre sopra i 60 si faceva la seconda dose di Az, a meno che non foste Mario Draghi e non aveste fatto indagini anticorpali vostre tali da giustificare il mix con Pfizer, anche detto cocktail. È che, si apprende, “Pfizer taglia del 30% le dosi previste a luglio”, quindi “il commissario approva la linea della Regione Lazio”, dove l’assessore D’Amato ha “proposto il richiamo con Az agli under 60, allettandoli con lo sconto sui tempi del richiamo salva-vacanze”. Da farsi venire l’acquolina in bocca: in sostanza chi deve morire si leva il pensiero qualche settimana prima, così da consentire a chi sopravvive di partire serenamente per i bagni. Così – dopo il cambio di passo, la spallata, il fuoco alle polveri, il fiato alle trombe e altre immagini marziali – ciò che tecnicamente si direbbe un ri-ri-ri-mangiarsi la parola sorvolando sui rischi appena confermati, nel lessico dei Migliori è una svolta (ditelo ai vigili quando fate inversione a U in autostrada: dovevate svoltare). Che arriva dopo queste dichiarazioni di Figliuolo a Domenica In del 27 giugno: “I nostri cittadini hanno dimostrato di essere migliori di tutta questa confusione che si è creata”, a causa di qualcuno che ha pensato bene di farsi venire una trombosi cerebrale in piena campagna vaccinale; “su Az ci sono state oltre 10 indicazioni diverse, ma questo è figlio (sic, ndr) di un virus che è mutevole, di un rapporto rischi-benefici che cambia e di quello che fa la farmacovigilanza”. E sia. Quindi un cittadino confuso cosa doveva fare, a partire dal 27 giugno? “Andarsi a vaccinare: a un certo punto si fa fatica a trovare i vaccinandi”, tanta è l’abbondanza di vaccini sicuri. Te li tirano dietro: “Di vaccini a Rna (Pfizer e Moderna) ne abbiamo a sufficienza, a luglio solo poco meno di giugno. Ora usiamo Az solo per la seconda dose agli over 60”. Ok, tutto chiaro: pure se non sono mai state 1 milione come garantito, ma sempre poco sopra o sotto le 500 mila, le vaccinazioni d’élite procedevano spedite. È o non è, questo, il Governo del Merito? Appena dieci giorni dopo, “la svolta”. E l’abbondanza di vaccini a mRna? Come funziona: le case farmaceutiche mentono a Figliuolo? O lo avvisano un giorno prima? E se è così, il Gen. non ha ancora imparato a mantenersi prudente e fare annunci meno sbruffoni? Naturalmente né Draghi (che pare essersi disinteressato della questione, da quando s’è vaccinato) né Figliuolo hanno pensato di dire: “Scusate, questi altri cialtroni di Pfizer ci fanno mancare le dosi e siamo costretti a rifilarvi di nuovo Az, che è meno sicuro sotto i 60 anni e protegge meno dalla variante Delta, in crescita. Vedete voi”. No, macché, si torna a somministrare “di tutto”, come prima della morte della diciottenne. La foto del Gen. che inaugura un hub vaccinale con le mostrine in petto e il cappello piumato parla chiaro. Migliori, Straordinari, Campioni, Timonieri del Titanic Italia, The Best; quando basterebbe essere seri.

 

L’ultima barzelletta di Sua Emittenza che va al Quirinale

 

“Di solito al Quirinale vanno persone meno controverse, proprio perché la funzione del nostro presidente della Repubblica è quella di aiutare una convergenza e non una polarizzazione del sistema”

(da un intervento di Romano Prodi a Rai News 24, 26 gennaio 2021)

 

Nel regno incantato del regime televisivo, dove domina il partito-azienda di Sua Emittenza e un ex comico “garantisce” il partito di maggioranza relativa, non c’è da meravigliarsi che sia un altro comico – come il mio “conterrone” Lino Banfi – a candidare Silvio Berlusconi alla presidenza della Repubblica. “Da quarant’anni mi chiama per il mio compleanno”, ha rivelato il popolare protagonista di Vieni avanti cretino, pronunciando la formula dell’investitura per l’ex Cavaliere.

Degni comprimari di questa compagnia da avanspettacolo, i due Matteo hanno assunto il ruolo della coppia da barzelletta. Accomunati da un insolito destino, il capo della Lega e l’ex segretario del Pd fanno a gara per elevare sul Colle il padre-padrone di Forza Italia e spartirsi la sua ormai magra eredità elettorale e soprattutto la quota più consistente del suo potere mediatico. Non ci resta che piangere, per dirla con il titolo di un film diretto e interpretato da Roberto Benigni con l’indimenticabile Massimo Troisi.

Soltanto in un Paese sventurato come il nostro qualche buontempone può immaginare di elevare alla presidenza della Repubblica un uomo di 84 anni che – a Dio piacendo – terminerebbe il mandato ultranovantenne; provato nel fisico, tanto da disertare le udienze del processo Ruby-ter per ricoverarsi a più riprese all’ospedale San Raffaele; pregiudicato e pluri-amnistiato con tutti i suoi procedimenti giudiziari alle spalle; concessionario pubblico televisivo e massima incarnazione del più macroscopico conflitto d’interessi. Anche se fosso solo una boutade, sarebbe assurda. Ma, come si sa, non c’è limite al peggio. Se dalla tregua istituzionale introdotta dal “Governo dei Migliori” dovesse sortire un esito del genere, assisteremmo a un golpe mediatico, una fiction, un horror televisivo, l’anteprima assoluta del “Governo dei Peggiori”. Con Berlusconi al Quirinale e poi Matteo Salvini o Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, sarebbe uno scenario da incubo. La Penisola si sposterebbe, di colpo, a Est; la Repubblica italiana sarebbe balcanizzata, sul modello sovranista e autoritario dell’Ungheria di Viktor Orbán; e l’Europa interromperebbe verosimilmente l’erogazione dei fondi assegnati al nostro Paese dal Next Generation Eu, ottenuti dall’ex premier Giuseppe Conte e gestiti ora da Mario Draghi & C. In base ai numeri attuali, mancherebbero una cinquantina di “grandi elettori” per portare a termine l’Operazione Katastrofe. Tutto dipenderà dalla tenuta del centrosinistra, che sulla carta ha ancora la maggioranza in Parlamento, e in particolare dal futuro dei Cinquestelle: sarebbe già un motivo sufficiente per risolvere la diatriba fra Grillo e Conte per la leadership del Movimento, ricompattandolo prima che si sciolga come la calotta polare. Ma i voti dei transfughi di Italia Viva, eletti a suo tempo nelle liste del Partito democratico, potrebbero risultare determinanti. Non a caso l’attività diplomatica è già in corso, come lascia sospettare il voltafaccia dei renziani sul ddl Zan contro l’omofobia: inconcepibile quanto incoerente la pretesa di stravolgere al Senato una legge che loro stessi avevano già approvato alla Camera, tanto più da parte di una forza politica che voleva abolire il cosiddetto “bicameralismo perfetto”. Questo, sul terreno dei diritti civili, sarebbe lo “strappo” più grave dell’ex rottamatore dallo schieramento e soprattutto dall’opinione pubblica di centrosinistra.

 

La “nuova” prescrizione allungherà i processi

L’emendamento sulla prescrizione approvato (senza votare) nel Cdm dell’8 luglio ricorda il meccanismo che porta a definire “escort” chi, accompagnando un cliente, è disponibile a rapporti sessuali (Treccani). La parola è più soft di altre, ma la sostanza è la stessa: un po’ come l’emendamento, che a prescrizione aggiunge improcedibilità, termine meno… impegnativo. Ma torniamo alla sostanza.

La prescrizione c’è dappertutto, ma nel nostro Paese con alcune differenze notevoli. Primo: da noi decorre da quando è stato commesso il reato e non – come altrove – dal giorno in cui il presunto colpevole è stato individuato o dal primo atto di accusa. Un notevole vantaggio per l’indagato. Secondo: il nostro sistema, disgraziatamente basato su un processo lunghissimo, ogni anno causa centinaia di migliaia di prescrizioni. Per cui, mentre altrove la prescrizione è circoscritta a pochi casi limite, da noi è una voragine gigantesca che inghiotte senza ritorno un’enormità di processi. Tant’è che la percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11%, contro quella dello 0,1/0,2% degli altri Paesi europei. Terzo: negli altri ordinamenti, il decorso della prescrizione si interrompe definitivamente o nel momento del rinvio a giudizio o con la condanna in primo grado; invece in Italia, da sempre e per un lunghissimo tempo, non c’è mai stato un blocco definitivo, ma solo sospensioni temporanee, con una prescrizione di fatto “infinita”.

Si cambia registro – allineandosi agli altri Paesi – il 1° gennaio 2020: una nuova norma interrompe la prescrizione con la sentenza di primo grado. Neanche il tempo di festeggiare il Capodanno, ed ecco scatenarsi una bagarre con formule (sarà una bomba atomica!) note solo ai giuristi più raffinati. Peccato che nessuno sia in grado di stabilire con un minimo di affidabilità quali saranno davvero gli effetti della riforma del 2020 (comunemente definita “Bonafede”, il ministro che ha il merito di averla voluta). Prova ne sia che nella relazione del 24.5.21 di Giorgio Lattanzi, presidente della Commissione istituita dalla nuova ministra, Marta Cartabia, per elaborare proposte innovative sul processo penale, a pagina 51 si legge testualmente che tali effetti “si produrranno a partire dal 1° gennaio 2025 per le contravvenzioni e dal 1° giugno 2027 per i delitti”, per cui “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente anticipare (una nuova) riforma della prescrizione”, lasciando peraltro “impregiudicata ogni valutazione politica”. Dunque, che fretta c’era di intervenire? Sul piano tecnico nessuna, se non privilegiando il piano politico con un occhio di riguardo a coloro che han sempre visto nella prescrizione (e nelle leggi ad personam) la soluzione più comoda ai loro problemi giudiziari. E basta sfogliare le cronache di questi anni per “scoprire” di chi si tratta.

Sta di fatto che nel Cdm dell’8 luglio, da un lato si conferma che la prescrizione si interrompe con la sentenza di primo grado, ma nel contempo dopo l’interruzione si introduce… una sospensione, nel senso che se non si arriva alla sentenza d’Appello entro due anni e a quella di Cassazione entro un anno dall’Appello, tutto finisce in niente, dovendosi dichiarare la non procedibilità del reato. Il che significa che i colpevoli restano impuniti e all’innocente viene negata l’assoluzione. In pratica, se non è zuppa (prescrizione) è pan bagnato (improcedibilità).

Dunque, un ritorno al passato che ricicla la convenienza ad allungare il brodo finché prescrizione+improcedibilità non intervengano inghiottendo ogni cosa. Con la conseguenza, ancor più grave, di perpetuare una anomalia del nostro sistema: la coesistenza di due codici distinti. Uno per i “galantuomini” (che in base al censo o alla collocazione politico-sociale sono considerati “perbene” a prescindere); l’altro per i cittadini “comuni”. I primi possono permettersi difensori costosi e agguerriti, in grado di utilizzare ogni spazio per eccezioni dilatorie. Per loro, il processo può ridursi all’attesa che il tempo si sostituisca al giudice con la prescrizione o improcedibilità che tutto cancella. Mentre per gli altri il processo – per quanto di durata biblica – riesce più spesso a concludersi, segnando in profondo vite e interessi. Un’intollerabile asimmetria incostituzionale, fonte di disuguaglianze, che nega elementari principi di equità. Dovuta al fatto che proprio il binomio prescrizione+improcedibilità può contribuire fortemente a far durare all’inverosimile certi processi. E ciò proprio grazie a un emendamento che vorrebbe essere garantista!

 

“Odissea nello spazio” tra la Nona di Beethoven, Fred Flintstone e Barney

Sky Cinema Uno, 23.15: 2001: Odissea nello spazio, film fantascienza. Questo colossal incomprensibile, realizzato da Kubrick due anni prima del suo capolavoro, l’allunaggio dell’Apollo 11, costò 12 milioni di dollari e ne incassò 250, perché, quando il cinema sventola la carota, tutti gli asinelli arrivano trotterellando. L’apertura, sulle note di una sinfonia di Strauss, la Nona di Beethoven, ci riporta all’alba dell’uomo, quando un misterioso monolito nero fa capire a Fred Flintstone e a Barney Rubble che usando femori di carcasse animali possono prendere a mazzate gli scimpanzé provenienti dal set accanto (Il pianeta delle scimmie) e impadronirsi dei loro cestini del catering. Fred, massacrato con gusto anche Barney, esulta lanciando in aria l’osso insanguinato, che dopo alcune evoluzioni al rallentatore diventa un’astronave Pan Am pilotata da George Jetson, alquanto stupito che un osso gli abbia appena colpito il parabrezza. Secondo capitolo: siamo nel 1999, e il dottor Spock raggiunge gli astronauti impegnati in una missione segreta sulla luna: il misterioso monolito nero, appena dissepolto, si è messo a trasmettere un programma di Radio Maria. Per coprire la notizia, le autorità hanno parlato di una strana epidemia influenzale. “Ha fatto buon viaggio, dottore?” “Non mi abituerò mai all’assenza di gravità. Ho vomitato lo stesso vomito dentro e fuori dieci volte! E come se non bastasse hanno smarrito di nuovo le mie valigie. Come faccia la Pan Am a non fallire è un mistero”. Terzo capitolo, 18 mesi dopo: siamo a bordo dell’astronave Discovery One, guidata dal supercomputer Hal 9000, uno stronzo imbattibile a scacchi. L’equipaggio, fornito di iPad (nel 1967!), è composto da due astronauti (Armstrong e Aldrin) e da tre scienziati ibernati (Einstein, Hawking e Gasparri). Una notte, l’infallibile Hal segnala un’avaria inesistente. Armstrong e Aldrin, allora, si chiudono dentro una capsula, in modo che Hal non possa sentirli (“Vieni, Buzz, voglio mostrarti le mie mutandine di pizzo”. “Verso l’infinito… e oltre!”), e contattano la Terra per comunicare quella stranezza di Hal, che ritengono ormai inaffidabile, per cui vogliono disattivarlo. Ma Hal, attraverso il buco della serratura, legge il loro labiale, e uccide i membri dell’equipaggio annoiandoli a morte con la proiezione del film. Mentre l’unico superstite, Aldrin, perde tempo a disinserire le sue unità di memoria, quando basterebbe staccargli la spina, Hal cerca di commuoverlo affinché desista: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. È ora di morire. Giro giro tondo…”. Spento Hal, Aldrin riesce finalmente a batterlo col matto del barbiere, al che parte un filmato sul vero obiettivo della missione: il segnale radio del monolito lunare impone un’indagine sui deliri di padre Fanzaga (“Il coronavirus è un progetto criminale delle élite mondiali per instaurare una dittatura sanitaria e ridurci come zombie”. Testuale). Ultimo capitolo: Aldrin vede su Giove un monolito nero. Si avvicina con il Lem, e d’un tratto lo spazio-tempo accelera: Aldrin si ritrova in una stanza arredata Versace, dove ci sono un letto e una tavola imbandita, interpretati da Peter Sellers. Aldrin vede un se stesso anziano che sta cenando, poi a letto, in agonia (ah, questi cestini del catering!), dopodiché si trasforma in un enorme, raccapricciante feto cosmico. Fine (ve l’avevo detto che era incomprensibile). Fra i brani usati da Kubrick, oltre a Bartali di Beethoven, ben quattro pezzi di Ligeti, che però non venne pagato da Kubrick. Ligeti: “Stanley è spilorcio, ma geniale. Ma spilorcio”.

 

Un’amnistia di fatto che non riduce il carico sui tribunali

In un precedente articolo (pubblicato sul Fatto Quotidiano del 10 giugno 2021 con il titolo “La perversione della prescrizione”) citavo la relazione della Commissione ministeriale di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale che affermava: “La Commissione muove dalla premessa che lentezza del processo e prescrizione del reato sono due problemi diversi, che si alimentano reciprocamente. Processi lenti favoriscono la prescrizione; la prospettiva della prescrizione favorisce processi lenti”. La stessa Commissione rilevava che, a oggi, l’arretrato delle Corti d’appello è pari al doppio dei processi definiti ogni anno, sicché tali Corti impiegherebbero due anni solo a smaltire l’arretrato se non arrivasse loro più nessun processo. Questa, essendo la situazione (non secondo me, ma secondo la Commissione ministeriale) prevedere, come sembra voler fare il disegno di legge di iniziativa governativa, un termine di due anni (salve eccezioni) per la fase di appello, dopo i quali scatta l’improcedibilità, significa far prescrivere (o meglio dichiarare improcedibili, ma l’effetto è lo stesso) quasi tutti i processi in cui sia proposto appello.

Infatti, poiché i nuovi processi che arriveranno in appello andranno in coda a quelli pendenti (salvo quelli con imputati detenuti), per quasi tutti scatterà l’improcedibilità. Sostanzialmente si avranno gli effetti di un’amnistia senza neppure i benefici che le amnistie avevano di eliminare i processi, perché comunque dovranno essere celebrati tutti i giudizi di primo grado.

In un precedente articolo (pubblicato sempre su questa testata il 3 giugno 2021 con il titolo “Non sono riforme, ma cure palliative”) ricordavo che la stessa Commissione aveva scritto: “È noto da sempre che la chiave del successo di un impianto accusatorio è rappresentata da un efficace compendio di riti alternativi, in grado di assorbire un’elevata percentuale di procedimenti, per riservare il dibattimento, articolato e ricco di garanzie, a un numero circoscritto di casi. È altrettanto noto che questa previsione – espressamente formulata dal legislatore del 1988 – è quella risultata maggiormente inattuata negli oltre trent’anni di applicazione del nuovo codice di procedura penale, nonostante i numerosi interventi che hanno tentato di potenziare l’appetibilità dei procedimenti speciali”. Proprio per incentivare i riti alternativi era stato cambiato l’art. 79 della Costituzione (con legge costituzionale 6 marzo 1992, n. 1) prevedendo per le leggi di amnistia e indulto la maggioranza dei due terzi. Era ed è evidente che un imputato sceglierà di “patteggiare” solo se gli conviene, altrimenti no. Se, aspettando, arrivava l’amnistia o l’indulto (in media nei 50 anni precedenti l’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988 i provvedimenti di quel tipo si erano susseguiti al ritmo di uno ogni anno e mezzo) nessuno patteggia, perché nessuna pena è sempre preferibile a una pena ridotta. Ma una improcedibilità generalizzata in Appello otterrà gli stessi effetti di disincentivare i riti alternativi con la conseguente impossibilità di far funzionare il processo accusatorio. Se approvata, questa riforma ci esporrà a rilievi dell’Unione europea, già desumibili da pronunzie della Corte di Giustizia.

Perché una scelta in plateale contrasto con i presupposti stessi da cui la Commissione muove? Forse si pensa a una normativa transitoria che renda applicabili le nuove disposizioni solo dopo la drastica riduzione delle pendenze in Appello (come del resto già suggerito dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati). Può anche darsi che, essendovi una larga maggioranza, si pensi a un’amnistia per azzerare la pendenza delle Corti d’appello. Così però si radicherà ancora di più l’idea che chi non cerca di guadagnare tempo è uno sciocco e quindi si affosserà definitivamente le possibilità di funzionamento del processo penale.

In ogni caso, un’eventuale amnistia e il rinvio dell’entrata in vigore di queste disposizioni presuppongono l’idea che nel frattempo vi sia un forte calo delle impugnazioni, in modo da ridurre la pendenza delle Corti d’appello. Allo stato, però, questa rimane un’illusione, dal momento che le proposte di modifica dell’Appello non sembrano tali da ridurre in modo considerevole il numero degli atti di Appello. Forse la reale spiegazione può essere ricercata nella convinzione (ovviamente non dichiarabile) della classe dirigente che l’Italia non possa reggere una giustizia seria, cioè – in altri termini – che non possa essere un Paese serio. Credo invece che questo nostro Paese sia anche pieno di persone perbene, che rispettano la legge e che prima o poi potrebbero pure seccarsi di vedere che chi invece le leggi le viola se la cava quasi sempre.

Dl Dignità, arriva la mini-toppa

Dopo il blitz dell’altroieri in commissione Bilancio della Camera che all’unanimità (salvo poi il pentimento di M5S e Leu) ha approvato un emendamento che ha smantellato il decreto Dignità, ieri pomeriggio i 5 Stelle, che paiono essersi accorti solo dopo di quel che avevano approvato, hanno cercato di aggiustare il tiro con un un nuovo emendamento al dl Sostegni bis che proroga almeno fino a settembre 2022 l’impianto della norma entrata in vigore nel 2018, quando era ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che ha imposto una stretta all’uso dei contratti precari. Un salvataggio in extremis di uno dei cavalli di battaglia dei grillini che resta, però, un pannicello caldo. In quattro righe, il nuovo emendamento interviene sull’articolo 19 del dlgs 81 del 2015, prevedendo che solo “fino al 30 settembre 2022, qualora si verifichino specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di lavoro, al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata superiore ai 12 mesi ma comunque non eccedente i 24 mesi”. Superata questa fase emergenziale, il decreto Dignità tornerà poi alla sua formulazione originaria. Forse.

A conti fatti, per oltre un anno sarà in vigore la modifica che di fatto consente di derogare ai vincoli del decreto dignità permettendo ai contratti collettivi – di qualsiasi tipo, nazionali, territoriali e perfino aziendali, stipulati dai sindacati – di introdurre nuove ipotesi di ricorso ai contratti a termine. Fino a questo emendamento il decreto Dignità era stato appena scalfito dagli ultimi provvedimenti emergenziali, che consentono i rinnovi per una sola volta senza causali fino a dicembre. Ora arriva un liberi tutti. I contratti dovranno essere stipulati dai sindacati, ma non sarà difficile trovare un sindacato pronto a dire sì in cambio di nuove assunzioni (precarie). Insomma, un nuovo schiaffo ai 5 Stelle dopo che hanno già ingoiato il rospo della riforma della prescrizione e della sospensione per 6 mesi del cashback; un successo per la destra e Confindustria, che ha da sempre messo nel mirino il decreto Dignità (insieme al Reddito di cittadinanza). Da mesi il presidente Carlo Bonomi chiede di smantellarlo per dare via libera all’uso dei contratti a termine senza doverne giustificare il ricorso con le “causali” reintrodotte dal dl Dignità, dopo che erano state eliminate dal decreto Poletti del 2014, governo Renzi, facendo esplodere il precariato.

La Gkn chiude e manda a casa (con una email) 422 lavoratori

Saltato il blocco, si moltiplica da giorni il numero di imprese che ignorano l’avviso comune firmato da Confindustria e sindacati e licenziano. Ieri mattina il caso più clamoroso: la Gkn di Campi Bisenzio (Firenze), che produce componenti per il settore automobilistico e aerospaziale, ha deciso di chiudere e lasciare a casa 422 dipendenti. Anche questa è iscritta alla Confindustria e questo dimostra quanto il documento firmato dalle parti sociali il 29 giugno, in presenza del governo, non abbia alcun valore. Il primo luglio è terminato il divieto di licenziamenti economici per l’industria e per l’edilizia. Come toppa, le parti sociali hanno stretto un accordo che, pur presentato come un successo, non è vincolante: “Si impegnano – dice il testo a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro”. La Gkn avrebbe a disposizione la cassa ordinaria, quella per cessazione e le 13 settimane concesse dal governo proprio a corredo dell’accordo, eppure vuole staccare la spina subito. “Comportamento intollerabile”, ha detto la Fiom ricordando l’avviso comune. La Confindustria Firenze ha assicurato “impegno a fare il possibile per giungere a una soluzione nel pieno rispetto dell’accordo”. Il leader nazionale Carlo Bonomi si è invece smarcato: “Le aziende che stanno procedendo a chiusure potevano licenziare anche prima – ha detto – perché la cessazione di attività era una delle clausole esimenti anche in presenza del blocco dei licenziamenti”. Ciò che Bonomi non dice, però, è che l’avviso comune si riferisce a tutte le aziende, anche perché tutte possono usare la cassa integrazione, pure quelle che chiudono. Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, ha ricordato tra l’altro che “Gkn ha beneficiato dei soldi della legge per il sostegno all’industria aeronautica; nel 1986 aveva acquistato la Westland Aircraft, per poi guidarne la fusione con l’italiana Agusta e poi rivendere intascando oltre un miliardo di sterline”.

Renzi all’assalto del Rdc. Ma i dati lo promuovono

Nell’illusione che – questa volta – qualcuno lo segua, Matteo Renzi ha promesso che nel 2022 lancerà un referendum abrogativo del Reddito di cittadinanza. Lo ha annunciato ieri, non a caso al convegno dei giovani imprenditori della Confindustria. Nuovo tentativo di picconare la misura approvata dal governo Conte, unica rimasta intatta malgrado la martellante opera di revisionismo in corso con il governo Draghi. Eppure quando le valutazioni sui risultati sono scientifiche e non politiche, il Reddito viene presentato non solo come efficace, ancora migliorabile, ma strettamente necessario vista la debolezza e la sterilità degli strumenti anti-povertà messi in campo negli anni precedenti, quando le famiglie indigenti aumentavano di numero ma non ricevevano aiuti statali.

A far emergere questo aspetto è il primo rapporto annuale Inapp, che venerdì 16 luglio sarà presentato – alle 11 alla Camera – dal presidente Sebastiano Fadda. Il Fatto può anticipare alcuni passaggi contenuti nel documento. In Italia, i trasferimenti sociali (al netto delle pensioni) hanno storicamente avuto un’efficacia dimezzata rispetto a quelli di Francia, Regno Unito e Germania, sia sull’incidenza sia sull’intensità della povertà. “I due indicatori – si legge – risentono, nella fase che ha preceduto l’avvio delle due misure nazionali (Rei e Rdc, ndr), della mancanza di uno schema di reddito minimo”. “Nel 2013 – aggiunge – quasi metà delle famiglie in povertà assoluta non riceveva alcun tipo di prestazione sociale di tipo monetario; ciò spiega, almeno in parte, l’esigenza (sociale) e l’opportunità (politica) che il contrasto alla povertà entrasse nell’agenda politica”. “Il 2019 – ricorda l’istituto – è stato il primo anno dalla crisi economico-finanziaria del 2008-2014 in cui l’indicatore (di povertà, ndr) è diminuito rispetto all’anno precedente (dal 7% al 6,4%)”.

Malgrado tanti detrattori ritengano che si stiano dando soldi a persone che restano sul divano, l’Inapp fa notare che “nel RdC viene rafforzata in maniera significativa la condizionalità della misura”. Il Rei – approvato dal governo Gentiloni a fine legislatura proprio per inseguire la proposta del Movimento Cinque Stelle – aveva raggiunto in quindici mesi 1,4 milioni di persone; il Reddito di cittadinanza, nell’anno della pandemia, ha raddoppiato questo target, andando a 2,8 milioni di individui.

Dopo la crisi del 2008, il numero di famiglie povere è rapidamente aumentato, anche durante il governo Renzi. Ma per molto tempo sono mancate misure nazionali e le risorse messe in campo dai Comuni per sostenere questi nuclei sono state insufficienti. Tra il 2011 e il 2013, mentre il disagio economico saliva repentinamente, la spesa è addirittura diminuita. “Successivamente – dice il rapporto – all’aumentare dell’incidenza del tasso di povertà assoluta corrisponde un aumento (non proporzionale) della spesa sociale: nel periodo considerato, infatti, la povertà assoluta aumenta di circa il 23%, la spesa sociale del 15%”. “La dinamica della spesa per quanto riguarda la dotazione strutturale – aggiunge – è in significativo aumento, aspetto che sommato alla cospicua dotazione monetaria a disposizione del Reddito di cittadinanza rappresenta un valore aggiunto nella costruzione di un sistema di welfare efficace”.

Questo non significa che il Reddito non abbia difetti. Anzi, sembra ancora troppo debole per le famiglie più numerose. Su questo aspetto, conclude l’Inapp, “appare un’opportunità non colta fino in fondo”. Ma è ovvio che per intervenire su questa falla bisognerebbe fare l’esatto opposto di quanto chiedono i critici, e cioè potenziarlo, non abolirlo.