“Ci stanno arrivando ora processi conclusi in primo grado nel 2015-16”. Parola di Giuseppe De Carolis, presidente della Corte d’Appello di Napoli. Con la riforma della giustizia varata giovedì dal Cdm questi procedimenti potrebbero non iniziare mai. Il testo, infatti, stabilisce per il processo di secondo grado una durata massima di due anni, periodo che decorre dall’ultimo giorno in cui è possibile impugnare la sentenza di primo grado. Se solo per calendarizzare la prima udienza ne servono 5, il processo nasce già morto. È solo uno degli effetti della riforma firmata dalla ministra Marta Cartabia, che va a impattare su una macchina della giustizia che nei procedimenti di 2° grado in Italia dà il peggio di sé.
I dati nazionali dicono che prevedere 2 anni per l’Appello, pena l’improcedibilità, è un’impresa nella gran parte dei casi impossibile per la montagna di arretrati e per la durata media di un procedimneto in Italia: quasi 3 anni. I dati che arrivano dalla Campania confermano quelli nazionali: “Una sola sezione su 6 di Corte d’Appello a Napoli ha più processi dell’intera Corte d’Appello di Milano – prosegue il presidente De Carolis –. Riuscire a fare un processo di 2° grado in due anni, con le attuali risorse umane, è praticamente impossibile”. I numeri partenopei sono spaventosi: 57mila processi pendenti, affrontati da 15 collegi coperti solo grazie alle applicazioni di magistrati del Tribunale”. C’è, poi, una specificità tutta napoletana: quella dei processi e maxi-processi di camorra che arrivano direttamente dall’ufficio Gip con il rito abbreviato e finiscono per travolgere una Corte d’Appello costretta a dare priorità a un numero enorme di dibattimenti con detenuti, da accelerare per evitare il rischio di scarcerazione dei boss per decorrenza dei termini. E così i processi senza detenuti, compresi quelli per concussione e corruzione, marciano a passo d’uomo. Molti di questi, con la nuova riforma sarebbero improcedibili da tempo.
In italia processi di 2° grado sono in aumento da 6 anni
Che il procedimento di secondo grado sia il tallone d’Achille del sistema emerge anche dall’osservazione che le estinzioni sono in continuo aumento da 6 anni. Il dato negativo della durata viene indicato persino dalla relazione della commissione tecnica voluta dalla ministra Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi, ex presidente della Corte costituzionale. Ma cosa fa il governo? Invece di prevedere misure per disincentivare le impugnazioni pretestuose e proporre per alcuni tipi di processo il giudice monocratico, liberando risorse preziose, applica la ghigliottina, stabilendo tempi impossibili perché non scatti l’improcedibilità che garantirà l’impunità. Scrive la commissione Lattanzi, rifacendosi a dati 2018 del rapporto europeo sull’attività giudiziaria nei diversi Paesi: “Il giudizio di Appello si connota per una durata media ben al di sopra delle statistiche europee (secondo l’ultimo Rapporto CEPEJ, la durata stimata è pari a 851 giorni, a fronte della media europea di 155 giorni) e per il progressivo accumulo di un arretrato assai preoccupante, pari a 260.946 fascicoli, ndr nel 2019”.
Secondo i dati della relazione presentata dal presidente della Cassazione Pietro Curzio all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, in Corte d’Appello le cose vanno sempre peggio: nel 2019-2020, la durata media nazionale è di 1.038 giorni, ben più dei 2 anni previsti dalla riforma. E il trend è peggiorato: nel 2018-2019 ne servivano 840 e nel 2017-2018 ce ne volevano 861.
I 265mila arretrati bloccano il sistema
A ciò va aggiunto il dato sull’arretrato, fondamentale per capire come con la cancellazione della legge Bonafede che blocca la prescrizione dopo il 1° grado si rischia una sorta di amnistia mascherata. Nel periodo 2019-2020 i processi iscritti in Appello erano 97.481, quelli definiti erano 93.299 e i pendenti, al 30 giugno 2020, erano 265.293 cioè un po’ più di quelli pendenti al 30 giugno 2019: 263.914.
Secondo dati del ministero del 2019, sono Napoli e Roma i distretti dove gli appelli durano più a lungo: 730 giorni, ben oltre i 2 anni. Nella Capitale un processo dura 1.128 giorni, nel capoluogo partenopeo si arriva a 1.495.
A Reggio Calabria ne servono 1.013. Gli uffici giudiziari della Regione devono fare i conti con i maxi-processi alla ‘ndrangheta e quelli sul traffico di droga che spesso hanno imputati detenuti. Questo, a causa del rischio scarcerazioni, hanno la priorità rispetto agli altri processi d’appello e i tempi si allungano ben oltre i due anni. A ciò deve aggiungersi la carenza di magistrati che comporta difficoltà nella composizione dei collegi. Non solo: le due sezioni penali “registrano un incremento delle pendenze: la prima passa da 2.948 al 1 luglio 2019 a 2.980 al 30 giugno 2020, avendo definito 687 processi rispetto ai 719 sopravvenuti; e la seconda sezione aumenta il carico da 3.610 a 3.774 procedimenti, avendone definiti 556 rispetto ai 720 di nuova iscrizione”, scrive il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria Luciano Gerardis nella relazione dell’ultimo anno giudiziario.
Se a Firenze ne servono 878, la Corte d’Appello di Genova ne impiega 780, ovvero 2 anni e 2 mesi abbondanti. Il dato va ponderato: alcuni fascicoli sono definiti in meno di un anno, altri finiscono prescritti (specie omicidi colposi e infortuni sul lavoro). I casi pendenti nel 2020 erano 7.784: in un anno sono aumentati del 10%; i fascicoli iscritti sono cresciuti del 5% e quelli definiti sono calati del 22%. All’orizzonte, inoltre, ci sono processi imponenti, come quello del Ponte Morandi. “Molti procedimenti, anche grossi, vanno a rilento perché manca il personale di cancelleria”, spiega Alvaro Vigotti, presidente facente funzione.
Torino, con i suoi 665 giorni di media, così come Milano, 345, sono distretti dove anche con la norma dell’improcedibilità potrebbero essere celebrati i processi d’Appello senza sforare i 2 anni. “Noi siamo del tutto in linea con i tempi voluti dalla Riforma”, spiega Carla Romana Raineri, presidente della prima sezione civile della Corte D’Appello di Milano. Ma “non posso essere favorevole ad una accelerazione che sacrifichi la qualità e la coerenza del prodotto giudiziario”.