Mysecretcase, un affare che non funziona

Di tutto, di più. L’antico slogan autopromozionale della Rai s’adatta perfettamente anche alle poliedriche attività di Marinella Soldi, la nuova presidente della tv pubblica. Nel ricchissimo curriculum vitæ della manager di Figline Valdarno (Firenze), cresciuta a Londra dove ha ottenuto la laurea in Economia alla London School of Economics e perfezionatasi con un master in Business administration in Francia all’Insead di Fontainebleau, non ci sono solo i passati incarichi come amministratrice di Mtv Italy e Senior Vice President di Mtv Networks Europe, fondatrice di Soldi Coaching, managing director di Discovery Networks International, o quelli attuali di presidente della Fondazione Vodafone Italia e consigliere indipendente di Salvatore Ferragamo, Nexi, Italmobiliare e Ariston Thermo. Il suo palmares comprende anche piccole quote in alcune imprese.

Soldi possiede lo 0,8% di Engagigo Srl, una start-up che ha sviluppato la piattaforma Endu dedicata agli sport di endurance e outdoor che offre servizi di cronometraggio, segreteria e marketing e soluzioni software per la gestione degli eventi sportivi, dagli accrediti alle iscrizioni, della biglietteria al controllo accessi. Alla manager fa capo poi lo 0,22% di Weroad, una Srl che organizza viaggi di gruppo on the road in 90 destinazioni nel mondo.

Tra le partecipazioni di Soldi c’è poi una piccola quota, lo 0,51%, della milanese Mysecretcase Srl. La manager è una dei 53 azionisti del sexy shop online “numero 1 in Italia”, noto per il claim “Vieni a scoprire i nostri sex toys, ti garantiamo il 100% di privacy!”, che “da oltre cinque anni aiuta donne, uomini e coppie a soddisfare i propri desideri”. Secondo il sito, “nato nel 2014, MySecretCase è il primo sexy shop online per il piacere delle donne e delle coppie. Vendiamo i migliori sex toys e lo facciamo in modo diverso al grido, anzi al sussurro, di ‘vogliamo un mondo in cui le donne non sono oggetti sessuali ma possono averli tutti’. Il nostro sogno? Aiutare le donne a sentirsi sexy e ad abbattere i tabù sul sesso facendo educazione sessuale tramite il nostro blog e il nostro team di sessuologi e psicologi, con rubriche sui più importanti magazine femminili” anche grazie al “Dopolavoro dell’Amore, il nuovo hub di cultura sessuale”.

L’e-commerce sarà pure “il numero 1 in Italia”, ma i suoi conti non sono sexy: il bilancio al 31 dicembre 2019, l’ultimo disponibile, si è chiuso con una perdita di 1,4 milioni, la metà del fatturato. Soldi ha partecipato “collegata mediante mezzi di telecomunicazione” all’assemblea del 29 maggio 2020 di Mysecretcase. Ora però la manager dovrà fare una scelta: la campagna di spot di Mysecretcase di recente è passata anche sulle reti della tv pubblica.

Fuortes e Soldi al vertice Rai. Pd e Iv fanno la ola a Draghi

Sarebbero dovuti uscire lunedì all’assemblea dei soci. Invece erano pronti e, per evitare fughe di notizie, sono stati comunicati ieri. Carlo Fuortes e Marinella Soldi sono i due nomi che Mario Draghi piazzerà ai vertici della Rai. Fuortes come amministratore delegato e Soldi alla presidenza. Anche se, nel rispetto della legge, la parola presidente non c’è, perché formalmente la scelta tocca al Cda. Che ancora non esiste, visto che mancano i 4 consiglieri di nomina parlamentare, che saranno votati mercoledì prossimo dopo il rinvio di una settimana (le ultime sono che il meloniano Giampaolo Rossi rischia per un asse Lega-FI che porterebbe in cda Simona Agnes). Insomma, ancora una volta Draghi è andato avanti per conto suo, dando le carte e imponendo i suoi tempi alla politica, senza attendere la risoluzione delle fibrillazioni nei partiti.

Due nomi, Fuortes e Soldi, che hanno sorpreso un po’ tutti perché non erano considerati in pole position. Secondo Palazzo Chigi, la scelta è stata fatta unicamente da Draghi con il suo staff insieme al ministro dell’Economia, Daniele Franco, su una lista di nomi che non è quella che gli è stata presentata dai cacciatori di teste. E, sempre secondo Chigi, prima della decisione finale, ci sarebbe stata un’interlocuzione con tutte le forze politiche, da cui non sarebbero giunte obiezioni. Cosa che pare strana, almeno a vedere le reazioni a caldo. Gli unici a esultare sono un pezzo di Pd e Italia Viva. Da tutto il resto arrivano mugugni o silenzi. Clamoroso, addirittura, quello dei 5Stelle, che nella partita sembrano non aver toccato palla. La nomina dei nuovi vertici Rai oltretutto arriva il giorno dopo la mazzata su giustizia e prescrizione, un amaro rospo che Draghi e Cartabia hanno fatto ingoiare ai pentastellati e che ha fatto riesplodere la guerriglia interna. Un passaggio politico in cui M5S è ancora senza guida, come ha dimostrato il pasticcio sulla Rai di martedì scorso, con lo stop imposto da Vito Crimi ad Antonio Palma, nome proposto dai pentastellati della Vigilanza. L’unica a parlare è stata Virginia Raggi, che si è congratulata con Fuortes, con cui ha collaborato per il rilancio del Teatro dell’Opera di Roma. “La sua competenza e passione saranno preziose per la tv pubblica”, dice Raggi. Dal 2013, infatti, Fuortes è sovrintendente della fondazione del Teatro dell’Opera (dove è stato anche molto contestato dai lavoratori), che ha contribuito a risanare nei conti. Ma è un nome, il suo, che a Roma è passato indenne sotto diverse amministrazioni: dall’ultimo Veltroni a Gianni Alemanno, da Ignazio Marino a Raggi, appunto. Un nome targato Pd che però è andato bene a tutti: ha guidato Auditorium, Cinema per Roma, Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale. Un manager culturale che però, obiettano alcuni, è completamente digiuno di televisione, senza considerare che si tratta di una corazzata con 13mila dipendenti.

Le obiezioni politiche, invece, arrivano da Lega e Forza Italia. “Una scelta sorprendente e non certo super partes, ma molto legata al Pd”, attacca Lucia Borgonzoni. “Ci sentiamo spiazzati”, dicono altri leghisti. “Siamo molto perplessi”, sussurrano i forzisti. Mentre dal Pd è un coro di commenti positivi. Su tutti, Goffredo Bettini. “La figura di Fuortes assicura alla Rai una professionalità di grande valore”, osserva l’ex deputato.

Addirittura esultanti i renziani: le parole di Michele Anzaldi, Maria Elena Boschi e Davide Faraone sono un tripudio di soddisfazione per le scelte di Draghi. Anche e forse soprattutto per la futura presidente, quella Marinella Soldi che Matteo Renzi voleva al vertice Rai già nel 2015, per poi preferirle Antonio Campo Dall’Orto. Nata a Figline Valdarno (Firenze) e cresciuta a Londra, ha iniziato in McKinsey, per poi fondare una sua società di coaching aziendale e arrivare a Discovery, dove è stata ceo per 10 anni, fino al 2018, mentre ora è presidente della fondazione Vodafone Italia. E proprio alla guida di Discovery decise di acquistare il documentario Firenze secondo me, realizzato da Renzi e Lucio Presta, rifiutato da Rai e Mediaset. Poi arrivò in soccorso Discovery e il programma andò in onda nel dicembre 2018. Per la soddisfazione di Renzi, che per quella prestazione incassò 450mila euro (da Presta).

La destra vuole ancora più impuniti

La riforma Cartabia, che sulla prescrizione e sulla sottomissione dei pm all’esecutivo ricalca quelle di Silvio Berlusconi, accontenta il centrodestra. Ma non troppo. Per il motivo opposto a quello del M5S: per la destra la riforma approvata in Consiglio dei Ministri è ancora troppo “giustizialista” e “manettara”. Un sentimento che ieri era ben presente sulle prime pagine dei giornali di centrodestra. Il quotidiano di casa Berlusconi, Il Giornale, infatti titolava: “Giustizia riforma a metà”. Sommario: “Passa il ricatto del M5S sui tempi lunghi per la corruzione. Tensioni in Cdm, Draghi vuole unità. Il centrodestra: sgradevole, modifiche in aula”.

Disappunto manifestato anche da La Verità di Maurizio Belpietro secondo cui quella di giovedì è stata “un’altra occasione persa”. Ergo: “Non ci resta che firmare i referendum”. Che la riforma stia provocando qualche mal di pancia nel centrodestra lo dimostrano anche le reazioni di ieri dei leader. Matteo Salvini, che sta girando l’Italia per promuovere i sei quesiti referendari in chiave anti-pm, dice che “la riforma della giustizia approvata in Cdm è un primo passo, ma la vera e importante riforma la fanno gli italiani firmando i referendum”. Anche Antonio Tajani chiede che vengano fatte delle “modifiche” in Parlamento soprattutto su due punti: no all’allungamento della prescrizione per i reati contro la P.A (a partire dalla corruzione) e le richieste dei sindaci sull’abuso d’ufficio. La leader di Fd’I Giorgia Meloni invece punge la coalizione: “La montagna ha partorito il topolino, è un compromesso al ribasso”. Silvio Berlusconi invece sulla questione ha preferito non esprimersi, ma chi ci ha parlato nelle ultime ore lo definisce “soddisfatto” per una riforma che su alcuni passaggi ricorda le “storiche battaglie di Forza Italia” anche se la norma dovrà andare di pari passo con i referendum che “saranno la vera riforma della giustizia del centrodestra”.

Le tensioni erano iniziate proprio giovedì durante il Cdm quando, dopo l’incontro tra Cartabia, Draghi e i 4 ministri del M5S che avevano trovato un accordo sull’allungamento della prescrizione per i reati dei colletti bianchi, i capidelegazione del centrodestra Giancarlo Giorgetti (Lega), Mariastella Gelmini (Forza Italia) e la renziana Elena Bonetti avevano chiesto al premier una pausa per studiare il nuovo testo ponendo dei dubbi sull’allungamento della prescrizione. “Così com’è scritto non è chiaro” ha preso la parola Giorgetti che poi ha telefonato prima a Salvini e poi alla responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno.

Alla fine, dopo il richiamo all’ordine di Draghi, il centrodestra ha segnato un punto: dal testo finale è sparito qualsiasi automatismo che preveda l’allungamento fino a 3 anni in Appello e 1 anno e 6 mesi in Cassazione per i reati contro la Pa. Nessuna regola prestabilita: deciderà il giudice in base alla “complessità” del procedimento, al “numero delle parti” e “delle imputazioni”. Un compromesso che tutto sommato va bene al centrodestra, ma Lega e FI proveranno comunque a modificare la riforma dal 23 luglio in Parlamento. Obiettivo: eliminare l’allungamento dei tempi della prescrizione per la corruzione.

I dem “anti-berlusconiani” inghiottono la riforma di B.

Era il 16 dicembre 2004. Dentro il Palazzo, i deputati della Casa delle Libertà votavano per la prima volta la legge Cirielli, detta “salva Previti”. Fuori, Nanni Moretti scendeva in piazza coi Girotondi per protestare contro lo “scempio” sulla giustizia voluto dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per salvare se stesso e il suo storico avvocato (che poi uscì dal carcere). Fu quella la prima riforma della prescrizione del ventennio berlusconiano. Grazie a un emendamento di Luigi Vitali, oggi senatore di Forza Italia, il decorso della prescrizione veniva ridotto per ogni reato. Compresi quelli del premier. L’ennesima legge ad personam.

Mentre fuori dalla Camera scendeva in piazza la società civile, l’Ulivo dimostrava almeno a parole di voler opporsi a quella norma e di volerla cancellare. “La Camera è diventata un luogo di erogazione di assoluzioni ad personam –­ diceva il segretario dei Ds, Piero Fassino – il Paese è in crisi e la Cdl si occupa di Previti”. “Un provvedimento scandaloso che dimezza i tempi di prescrizione per i reati di usura, corruzione, mafia –­attaccava il leader della Margherita Francesco Rutelli –­per dare una scappatoia a un deputato molto vicino al premier, si rimetteranno usurai e mafiosi in libertà”. Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione, invocava addirittura lo stop alla legge da parte del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e della Corte costituzionale, mentre il capogruppo Ds Luciano Violante definiva la Camera un luogo “a gettone che decide secondo gli interessi penali e criminali di questo o quell’esponente della maggioranza”. Tanto rumore per nulla. Negli anni a venire prima i partiti dell’Ulivo e poi il Pd hanno sempre dichiarato di voler cancellare le leggi ad personam e modificare quelle sulla prescrizione volute da Berlusconi. Ma poi niente è stato mai fatto. Fino a giovedì, con i dem che hanno avallato senza muovere foglia la riforma Cartabia che cancella la legge Bonafede che bloccava la prescrizione dopo la sentenza di primo grado.

Dopo l’approvazione definitiva della legge Cirielli, 30 novembre 2005, il centrosinistra era pronto alla battaglia per cancellarla. Il vicepresidente del Csm, eletto in quota Margherita, Virginio Rognoni a Repubblica diceva che il governo Berlusconi aveva “elevato la soglia dell’impunità”, mentre Giuliano Pisapia, penalista e deputato di Rifondazione annunciava: “Non perderemo tempo a cancellare la norma”. Il progetto di cancellazione della legge ex Cirielli si trovava anche nel programma dell’Unione di Romano Prodi del 2006 “Per il bene dell’Italia” ma anche in quello del 2013 di Pier Luigi Bersani “Italia Bene Comune”. Niente di fatto. Ma oltre alla prescrizione i leader del centrosinistra si sono sempre opposti anche alle norme ad personam sulla giustizia che favorivano l’ex premier come la legge Pecorella del 2006 e i progetti di Berlusconi di sottomettere i pm al volere dell’esecutivo rientrati nella riforma odierna con la relazione del Parlamento che deciderà a quali reati dare la priorità. “Leggi spudorate” le definiva Romano Prodi nel 2006, Massimo D’Alema parlava di “leggi inutili e dannose” e Bersani nel 2013 annunciava: “Le cancelleremo”. Debora Serracchiani, che oggi sostiene la riforma Cartabia, nel 2009 evocava addirittura “l’impeachment” nei confronti dell’ex premier.

Il primo intervento sulla ex Cirielli è stato fatto dal Pd nel 2017 con la legge Orlando durante il governo di Matteo Renzi: una riforma che lasciava identiche le soglie della Cirielli ma interrompeva il decorso della prescrizione solo per 36 mesi. E dire che nel 2014 l’ex rottamatore era sulle stesse posizioni del M5S: “Va cambiata la prescrizione, c’è domanda di giustizia”. Nel 2016 i senatori demFelice Casson e Giuseppe Cucca presentarono un emendamento per abolire la prescrizione dopo il primo grado. La stessa proposta che poi diventò legge con Bonafede. Ma a quel punto il Pd e i renziani avevano già cambiato idea. E ieri hanno applaudito la riforma Cartabia. Nonostante i 20 anni di anti-berlusconismo.

“5S vi siete calati le braghe”, “Grillo ricattato per il figlio”

La riforma della giustizia Cartabia devasta il M5S. E provoca la furia della base. Dopo il voto favorevole dei ministri 5S nel Cdm, i militanti e gli iscritti hanno preso d’assalto i social con insulti e proteste. Ecco le reazioni arrivate via mail al Fatto, sul nostro sito e nelle pagine social degli esponenti del M5S.

 

Ormai è chiaro anche a un bambino che Grillo si è venduto a Draghi e quindi ha svenduto tutti i valori portanti del fu Movimento 5 Stelle. Grillo sei un grande… ma cog…ne!

Domenico B.

 

La riforma della giustizia l’aveva già delineata Bonafede e andava nel senso di quanto ci chiede l’Europa. Solo che alle consorterie “mafiopoliticoimprenditoriali” non stava bene e si è arrivati alla salvaladri della Cartabia, complice Grillo. L’Europa farebbe bene a non darci o a ridurre sensibilmente le somme del Recovery, perché è lampante che finiranno solo a ingrassare i membri delle consorterie di cui sopra.

Andrea B.

 

La prescrizione? E dire che a gennaio 2020 la vendevate come cosa fatta… le solite palle a cinque stelle… roba di lusso, eh?

Claudio G.

 

Ridicoli, ma pensate davvero che le persone siano sceme? E quel che dice Bonafede? E quel che dice Conte? Buffoni in un governo di cialtroni indigeribili. Altro che transizione ecologica e Draghi grillino. Psico Beppe è il vostro problema.

Luigi F.

 

Forse non ci eravamo capiti. Il sì a Draghi era per difendere la riforma Bonafede. Difendere significa mantenere intatta. Non prendeteci in giro, non vi credo più.

Giulia S.

 

Avete perso il lume della ragione. Non è così che si rispetta l’elettorato. Un po’ di vergogna non la provate almeno?

Irene P.

 

Non c’è limite alla vergogna (politicanti della peggior specie), avete preso in giro 11 milioni di persone oneste.

Marco R.

 

Dopo il “decreto dignità” (che ho apprezzato ma che sembra si stia smantellando), potevate perdere solo la dignità e lo avete fatto pubblicando questo post.

Silvano Cricca

 

Ma pensate che siamo deficienti? Bonafede ha preso le distanze da questo oltraggio. La realtà è una sola, Grillo è sotto ricatto per le note vicende del figlio e avalla qualunque cosa.

Gianluca M.

 

Signor Bonafede, faccio immensa fatica a immaginare quello che sta provando. Lei ha lavorato duramente per portare avanti quello in cui credeva. Adesso che tutto si sta dissolvendo, esca da questo governo infame, lo faccia anche per noi che abbiamo sempre creduto in lei.

Nunzio B.

 

La vera questione è: cosa fanno al governo i 5Stelle? Cosa sono diventati? Cosa vuole difendere Grillo? Quanti come me non li voteranno più? Qualche domanda ve la fate? Io me ne faccio tante, voi?

Giusi F.

 

Siete nel governo e mi sembra che l’immagine delle braghe calate sia quella tra le più eloquenti. Manca solo il reddito di cittadinanza e siamo ritornati all’inizio. Hai detto bene Bonafede: “Si è inevitabilmente e oggettivamente annacquata una battaglia durata dieci anni”.

Gianni B.

 

Alle prossime elezioni sparirete e di voi non resterà nemmeno più il ricordo, posto che stanno cancellando tutto quello che avete partorito in questi tre anni. La colpa non è loro, ma vostra che con acquiescenza sospetta, state permettendo tutto questo.

Paolo B.

 

In questo modo Grillo salverà suo figlio e voi avete tradito la nostra speranza.

Luciano L.

 

Grillo è riuscito nell’impresa di mandare definitivamente “in vacca” tutto ciò che aveva costruito. Era un bravo comico che, purtroppo, nel tempo si è trasformato in un tragico buffone. Non resta che sperare in Conte e nei pochi, veri 5S, come Bonafede e Di Battista, ai quali auguro di riuscire a creare un nuovo movimento che faccia presto dimenticare i 5S di oggi.

54Spring

 

Dopo la Caporetto sulla Giustizia del Movimento, non ho più dubbi: non voterò più il M5S e come me credo anche la stragrande maggioranza degli elettori che gli avevano dato fiducia alle elezioni del 2018.

Danilo C.

 

Se fossimo un Paese appena appena normale e non ostaggio di ladri, corrotti, mafiosi e zoccole non si parlerebbe di prescrizione più o meno lunga, ma di processi che devono comunque finire con assoluzioni o condanne. Ma poi, perché me la prendo? Se un partito con il 32% viene messo in disparte per giochi politici di vergognosi omuncoli.

Claudio M.

 

A che ora è il vostro funerale?

Alberto C.

Reazione timida per l’Anm: sono lontani i tempi di Silvio

Non ci sono più i tempi di Silvio Berlusconi presidente del Consiglio, quando l’Associazione nazionale magistrati, in tempo reale, alzava le barricate del diritto contro progetti di riforma punitiva per la magistratura e contro le leggi ad personam in tempo reale. Dalla Giunta Anm fino a ieri sera in silenzio sulla riforma approvata dal governo giovedì. Nonostante provocherà la morte della maggior parte dei processi. Questo silenzio è anche un segno della debolezza del sindacato delle toghe sempre più in difficoltà per le critiche che le arrivano dalla base e per il deficit di credibilità che sta vivendo la magistratura a causa dello scandalo nomine.

Sulla riforma Cartabia ha parlato, a titolo personale, solo il presidente Giuseppe Santalucia che, sia pure con toni prudenti, ha espresso delle riserve sul sistema della improcedibilità, che manda al macero i processi se non si celebra l’Appello in 2 anni e la Cassazione in uno (in alcuni casi, ma non in automatico, si arriva a 3 anni e a 18 mesi per reati come corruzione e concussione). La mattina di giovedì, a Radio anch’io, Santalucia, specificando che parlava solo sulla base delle anticipazioni, auspicava “una buona disciplina transitoria. Servirebbero dei meccanismi di maggiore flessibilità” perché “due anni per un processo d’Appello sono pochi, soprattutto per processi complessi”. Dopo il varo della riforma, Santalucia dichiarava: “Sono impressioni a caldo e non ne abbiamo discusso in Anm. Come opinione personale, però, questa prescrizione processuale mi sembra un po’ un concetto astratto. Ci sono casi in cui i processi non si riescono neppure a fissare per il carico di lavoro di alcuni uffici, lo riconosce anche la ministra. Alcune Corti di Appello sono virtuose, altre sono un po’ più in sofferenza. Allora calare questo principio dall’alto mi sembra motivo di perplessità”.

I processi d’appello? Nascono già morti

“Ci stanno arrivando ora processi conclusi in primo grado nel 2015-16”. Parola di Giuseppe De Carolis, presidente della Corte d’Appello di Napoli. Con la riforma della giustizia varata giovedì dal Cdm questi procedimenti potrebbero non iniziare mai. Il testo, infatti, stabilisce per il processo di secondo grado una durata massima di due anni, periodo che decorre dall’ultimo giorno in cui è possibile impugnare la sentenza di primo grado. Se solo per calendarizzare la prima udienza ne servono 5, il processo nasce già morto. È solo uno degli effetti della riforma firmata dalla ministra Marta Cartabia, che va a impattare su una macchina della giustizia che nei procedimenti di 2° grado in Italia dà il peggio di sé.

I dati nazionali dicono che prevedere 2 anni per l’Appello, pena l’improcedibilità, è un’impresa nella gran parte dei casi impossibile per la montagna di arretrati e per la durata media di un procedimneto in Italia: quasi 3 anni. I dati che arrivano dalla Campania confermano quelli nazionali: “Una sola sezione su 6 di Corte d’Appello a Napoli ha più processi dell’intera Corte d’Appello di Milano – prosegue il presidente De Carolis –. Riuscire a fare un processo di 2° grado in due anni, con le attuali risorse umane, è praticamente impossibile”. I numeri partenopei sono spaventosi: 57mila processi pendenti, affrontati da 15 collegi coperti solo grazie alle applicazioni di magistrati del Tribunale”. C’è, poi, una specificità tutta napoletana: quella dei processi e maxi-processi di camorra che arrivano direttamente dall’ufficio Gip con il rito abbreviato e finiscono per travolgere una Corte d’Appello costretta a dare priorità a un numero enorme di dibattimenti con detenuti, da accelerare per evitare il rischio di scarcerazione dei boss per decorrenza dei termini. E così i processi senza detenuti, compresi quelli per concussione e corruzione, marciano a passo d’uomo. Molti di questi, con la nuova riforma sarebbero improcedibili da tempo.

 

In italia processi di 2° grado sono in aumento da 6 anni

Che il procedimento di secondo grado sia il tallone d’Achille del sistema emerge anche dall’osservazione che le estinzioni sono in continuo aumento da 6 anni. Il dato negativo della durata viene indicato persino dalla relazione della commissione tecnica voluta dalla ministra Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi, ex presidente della Corte costituzionale. Ma cosa fa il governo? Invece di prevedere misure per disincentivare le impugnazioni pretestuose e proporre per alcuni tipi di processo il giudice monocratico, liberando risorse preziose, applica la ghigliottina, stabilendo tempi impossibili perché non scatti l’improcedibilità che garantirà l’impunità. Scrive la commissione Lattanzi, rifacendosi a dati 2018 del rapporto europeo sull’attività giudiziaria nei diversi Paesi: “Il giudizio di Appello si connota per una durata media ben al di sopra delle statistiche europee (secondo l’ultimo Rapporto CEPEJ, la durata stimata è pari a 851 giorni, a fronte della media europea di 155 giorni) e per il progressivo accumulo di un arretrato assai preoccupante, pari a 260.946 fascicoli, ndr nel 2019”.

Secondo i dati della relazione presentata dal presidente della Cassazione Pietro Curzio all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, in Corte d’Appello le cose vanno sempre peggio: nel 2019-2020, la durata media nazionale è di 1.038 giorni, ben più dei 2 anni previsti dalla riforma. E il trend è peggiorato: nel 2018-2019 ne servivano 840 e nel 2017-2018 ce ne volevano 861.

 

I 265mila arretrati bloccano il sistema

A ciò va aggiunto il dato sull’arretrato, fondamentale per capire come con la cancellazione della legge Bonafede che blocca la prescrizione dopo il 1° grado si rischia una sorta di amnistia mascherata. Nel periodo 2019-2020 i processi iscritti in Appello erano 97.481, quelli definiti erano 93.299 e i pendenti, al 30 giugno 2020, erano 265.293 cioè un po’ più di quelli pendenti al 30 giugno 2019: 263.914.

Secondo dati del ministero del 2019, sono Napoli e Roma i distretti dove gli appelli durano più a lungo: 730 giorni, ben oltre i 2 anni. Nella Capitale un processo dura 1.128 giorni, nel capoluogo partenopeo si arriva a 1.495.

A Reggio Calabria ne servono 1.013. Gli uffici giudiziari della Regione devono fare i conti con i maxi-processi alla ‘ndrangheta e quelli sul traffico di droga che spesso hanno imputati detenuti. Questo, a causa del rischio scarcerazioni, hanno la priorità rispetto agli altri processi d’appello e i tempi si allungano ben oltre i due anni. A ciò deve aggiungersi la carenza di magistrati che comporta difficoltà nella composizione dei collegi. Non solo: le due sezioni penali “registrano un incremento delle pendenze: la prima passa da 2.948 al 1 luglio 2019 a 2.980 al 30 giugno 2020, avendo definito 687 processi rispetto ai 719 sopravvenuti; e la seconda sezione aumenta il carico da 3.610 a 3.774 procedimenti, avendone definiti 556 rispetto ai 720 di nuova iscrizione”, scrive il presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria Luciano Gerardis nella relazione dell’ultimo anno giudiziario.

Se a Firenze ne servono 878, la Corte d’Appello di Genova ne impiega 780, ovvero 2 anni e 2 mesi abbondanti. Il dato va ponderato: alcuni fascicoli sono definiti in meno di un anno, altri finiscono prescritti (specie omicidi colposi e infortuni sul lavoro). I casi pendenti nel 2020 erano 7.784: in un anno sono aumentati del 10%; i fascicoli iscritti sono cresciuti del 5% e quelli definiti sono calati del 22%. All’orizzonte, inoltre, ci sono processi imponenti, come quello del Ponte Morandi. “Molti procedimenti, anche grossi, vanno a rilento perché manca il personale di cancelleria”, spiega Alvaro Vigotti, presidente facente funzione.

Torino, con i suoi 665 giorni di media, così come Milano, 345, sono distretti dove anche con la norma dell’improcedibilità potrebbero essere celebrati i processi d’Appello senza sforare i 2 anni. “Noi siamo del tutto in linea con i tempi voluti dalla Riforma”, spiega Carla Romana Raineri, presidente della prima sezione civile della Corte D’Appello di Milano. Ma “non posso essere favorevole ad una accelerazione che sacrifichi la qualità e la coerenza del prodotto giudiziario”.

I diktat di Grillo e l’ira di Draghi. Così i 5S hanno tradito gli eletti

È ancora Beppe Grillo a indicare la via. E ancora, in un modo o nell’altro, alla fine nel Movimento si fa come dice lui: via libera in Consiglio dei ministri alla riforma della giustizia voluta dalla Guardasigilli Marta Cartabia.

Il retroscena, svelato ieri da ilfattoquotidiano.it, conferma la centralità del Garante, le cui telefonate sono state decisive – insieme agli ultimatum di Mario Draghi – per far cambiare rotta ai quattro ministri 5Stelle, convinti fino all’ultimo di astenersi sulla legge. E oggi gli eletti, che di quelle telefonate non ne sapevano nulla, sbottano: “Nessuno ci ha avvisati che i ministri avrebbero approvato la riforma”.

La rabbia ruota intorno a quello che succede tra la fine delle varie riunioni interne e l’inizio del Consiglio dei ministri di giovedì sera, a cui i ministri erano arrivati con un mandato preciso: se non è possibile votare No, perlomeno astenetevi.

E invece, nel giro di un paio d’ore, i quattro M5S di governo – Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Federico D’Incà e Fabiana Dadone – confermano al premier Mario Draghi e alla ministra della Giustizia l’ok del Movimento, accettando il piccolo ritocco ai tempi dell’improcedibilità per i reati contro la Pubblica amministrazione. Dietro al cambio di rotta, secondo quanto risulta al Fatto, c’è l’intervento del fondatore, ormai convintosi che Draghi abbia le stimmate del grillino. I parlamentari, però, si sentono presi in giro: “Come mai siamo stati scavalcati?”.

Anche perché l’accordicchio su corruzione e concussione non è novità dell’ultima trattativa, quella del pomeriggio. La proposta arriva ai gruppi parlamentari già giovedì mattina, figlia delle prime interlocuzioni tra i ministri e il presidente del Consiglio. Il quale però ha un filo diretto col fondatore, con cui ogni tanto si sente anche perché ha capito di avervi trovato un insperato alleato. A poco servono allora le mille riunioni tra la mattina e il primo pomeriggio, quando i 5 Stelle – i ministri si riuniscono con i Direttivi delle Camere e qualche parlamentare di peso – discutono a lungo se sostenere la norma che straccia la Spazzacorrotti, arrivando poi alla decisione di astenersi in Cdm. E a poco servono anche i tentativi di Giuseppe Conte, che nel frattempo suggerisce ai suoi di non cedere su un totem come quello della Giustizia e si lamenta di come alcuni testi fondamentali continuino ad arrivare in Cdm all’ultimo minuto.

Non solo: in quelle riunioni si valuta già il compromesso finale, quello che allunga i tempi per i reati contro la Pa, e non il testo iniziale. Ciononostante, gli eletti si dividono tra chi è per un secco No alla riforma e chi consiglia l’astensione: “Il Sì alla riforma non era neanche in discussione”, si lamenta un parlamentare.

E invece, finita la riunione, la linea cambia. Le solite “fonti del M5S” fanno sapere all’Ansa che “nessuno ha dettato la linea ai ministri sul tema della prescrizione”, mancando però di smentire che Grillo abbia telefonato in maniera separata ai ministri, chiedendo di non mettersi di traverso. La versione che arriva dai ministeri grillini è che i quattro abbiano tutto sommato tenuto il punto dell’astensione col fondatore, ma che abbiano fatto un passo indietro di fronte a Draghi: “Si è infuriato, mettendo sul tavolo le dimissioni”.

L’ipotesi, si intende, è piuttosto astratta, ma in ogni caso il pressing di Grillo e la contrarietà del premier producono il dietrofront in Cdm. Il resto è noto: la destra e i renziani provano ancora a logorare i 5Stelle contestando l’accordo sulla corruzione, ma sanno benissimo di poter festeggiare. Quando Draghi domanda ai ministri se ci siano obiezioni sulla riforma, nessuno alza la mano. Persino i big del Movimento, come il capo reggente Vito Crimi e i capigruppo Ettore Licheri e Davide Crippa, si ritrovano spiazzati, avendo lasciato i ministri convinti che si sarebbero astenuti. Decine di eletti scoprono la giravolta dalla stampa e adesso chiedono delle spiegazioni, ottenendo la convocazione di un’assemblea congiunta per domani (era prevista per ieri, ma gli animi tesi hanno suggerito il rinvio). Ben sapendo che il Sì di giovedì indica la rinuncia a un altro pezzo della propria identità.

L’ex premier avverte: “Tutto ciò conferma i rischi della diarchia”

Il piano B ancora non c’è. Anzi, per Giuseppe Conte, lo “tsunami” che si è abbattuto ieri sul Movimento 5 Stelle – costretto dalla realpolitik ad ammainare la bandiera dello stop alla prescrizione – è la conferma che è il primo, di piano, a rimanere sulla strada maestra che aveva imboccato da subito: riscrivere l’architettura del partito che era stato chiamato a guidare, perché la giravolta di ieri in Consiglio dei ministri – ragiona con i suoi – “ha dimostrato in maniera plastica che cosa produce l’assenza di leadership” e soprattutto che cosa vuol dire “non avere ruoli chiari nella definizione della linea politica”. Tradotto: ministri della Repubblica che cambiano idea dopo una telefonata di Beppe Grillo – come rivelato ieri dal Fatto –, non se ne possono vedere più. E quindi, se sulla diarchia non si trattava prima, figuriamoci se si tratta adesso.

L’ex presidente del Consiglio non ha certo gradito che i ministri non lo abbiano avvertito del fatto che, diversamente da quanto concordato nella riunione del mattino, avessero “deciso” di non astenersi e di votare sì. Ma i suoi considerano il pressing esercitato ieri da Grillo sui ministri come una carta da giocarsi nella trattativa in corso: nessuno, insomma, potrà più negare che il Movimento a due teste funzioni benissimo così. Non i ministri, furibondi con il loro ex collega, quell’Alfonso Bonafede che ieri ha tirato fuori tutta la sua rabbia per il tradimento subito: “In riunione ci aveva detto ‘non dirò nulla in pubblico, ma tra di noi dobbiamo ammettere che questa riforma fa schifo’. E invece ha fatto quel post, come minimo inopportuno”. Non i parlamentari, che hanno chiesto immediatamente un’assemblea congiunta per avere spiegazioni dai ministri sul sì “senza mandato”. Vogliono capire, scrivono nelle chat, perché stanno vivendo “come se ci fosse la sindrome di Stoccolma e noi fossimo gli ostaggi”. Lì in mezzo c’è il più contiano dei contiani, il ministro Stefano Patuanelli: “Gli avevamo detto di astenersi, come si sono permessi?”. Ma dovranno prendere atto della “plastica inefficienza” della diarchia anche i sette saggi, impegnati a limare le divergenze tra Conte e Grillo sul nuovo Statuto. Si sono visti anche ieri e, giurano, il lavoro è andato avanti più spedito del solito. Della serie, consegnare tutto prima che succedano altri guai.

Nessuno ha ancora ben chiaro cosa convenga fare a chi. Perché da un lato, la scomposta intromissione di Grillo, giovedì, ha rafforzato i sostenitori dell’ex premier, che ora vanta dalla sua anche un ex “pretoriano” dei cinquestelle come Bonafede, finora restio a prendere posizione nella diatriba tra il garante e l’aspirante capo. Dall’altro stanno facendo breccia nei gruppi anche molte delle motivazioni che hanno spinto i ministri a votare sì. Pesa la posizione della dimaiana Anna Macina, oggi sottosegretaria ma da sempre punto di riferimento dei deputati sui temi della Giustizia, che considera tutt’altro che un fallimento l’accordo raggiunto nel Cdm di giovedì.

La vecchia storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Solo che qui, in ballo, c’è la sopravvivenza di un governo e del partito di maggioranza che lo sostiene. “Alla Camera il partito di Conte non sfonda”, ripetono i più. Lui si è messo a capo della battaglia che – in Parlamento – dovrà rimettere assieme i cocci della riforma che i “suoi” ministri hanno appena rotto. Draghi, nella riunione con i ministri, ha fermato le proteste dei forzisti Renato Brunetta e Mariastella Gelmini dicendo che “senza il Movimento 5 Stelle il governo non esiste”. Resta da vedere quanti sapranno resistere alle lusinghe.

Conte e Bonafede furiosi: “Torna l’anomalia italiana”

Giuseppe Conte parla del “ritorno a un’anomalia italiana”. Alfonso Bonafede, che sulla legge Spazzacorrotti ha messo la faccia, accusa i ministri di aver “oggettivamente annacquato una battaglia durata dieci anni”. Le reazioni al via libera dei ministri M5S alla riforma della giustizia di Marta Cartabia fanno intendere che la questione sia identitaria, ancor più che politica. Sulla difesa dello stop alla prescrizione il Movimento ha rischiato più volte di far cadere i suoi governi, non a caso al centro di continue pressioni per rivedere la legge Bonafede del 2019. Adesso che la Controriforma c’è e ha persino l’ok dei quattro ministri del Movimento – Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli, Federico D’Incà e Fabiana Dadone –, tanti si sentono traditi.

E così, a inizio giornata, Giuseppe Conte, intervenendo a un evento di Confindustria Giovani, si sfoga: “Non canterei vittoria, non sono sorridente in particolare sull’aspetto della prescrizione, che rappresenta il ritorno a quella che è un’anomalia italiana”.

Stesso concetto rimarcato da Bonafede su Facebook: “Purtroppo, il M5S è stato drammaticamente uguale alle altre forze politiche nonostante fosse trapelata la volontà di un’astensione. Per ripartire, se si vuole veramente ripartire, bisogna avere la consapevolezza dei propri limiti: si è inevitabilmente e oggettivamente annacquata una battaglia durata dieci anni”. E ancora: “Mi dispiace che qualcuno non si renda conto che in un processo che si conclude nel nulla (che questo nulla si chiami prescrizione o improcedibilità poco importa) c’è il più grande e grave fallimento di uno Stato di diritto. La riforma rischia di trasformarsi in una falcidia processuale che produce isole di impunità e che allungherà i tempi dei processi”.

Parole cui il Movimento 5 Stelle prova a replicare nel pomeriggio di ieri, ribaltando il punto di vista: i ministri hanno salvato la ratio della Spazzacorrotti, la mediazione ottenuta è un buon compromesso. “I fatti dimostrano che è stato fatto un lavoro che ha consentito di salvare la riforma della prescrizione – scrive il M5S – che gli altri partiti avrebbero voluto cancellare del tutto. Da mesi si sfregavano le mani al pensiero di abbattere quella che ancora oggi è per il Movimento una battaglia di civiltà”. Il M5S giura di “aver combattuto di fronte a una proposta iniziale che smantellava tutto quanto fatto in questi anni” e festeggia per essere riuscito “a ottenere una serie di risultati”: “La nostra riforma della prescrizione vige fino al primo grado di giudizio, l’alternativa era cancellarla”. E poi altre rivendicazioni sulla possibilità per il pm di appellare l’assoluzione, sui criteri di priorità di indagine e sulla rapidità dei processi.

Ma la versione non convince quasi nessuno. Basta dare un’occhiata a quanti riprendono i toni di Conte e Bonafede, sbugiardando i ministri (peraltro adirati con l’ex Guardasigilli, che aveva assicurato che non avrebbe attaccato pubblicamente la riforma in caso di astensione). Lucia Azzolina, per esempio, secondo il Corriere si sarebbe spinta a chiedere “una verifica politica sull’azione del governo, che mostra grosse lacune”. Roberta Lombardi denuncia “il gioco dell’oca” sulla prescrizione: “È una retromarcia clamorosa per giustizia e legalità”. Michele Gubitosa scuote la testa per “il grave passo indietro” dovuto “alla mancanza di una guida forte come quella di Conte”, mentre Danilo Toninelli chiede di far decidere agli iscritti se abbia ancora senso stare al governo: “La Restaurazione sta facendo passi da gigante. L’unica soluzione è appellarci al voto degli iscritti”. E se per Gianluca Perilli si tratta di “una sconfitta e una ferita”, Giulia Sarti ha le idee chiare: “L’unica cosa da fare è essere coerenti: non ci sono più le condizioni per restare al governo”. Con tanti saluti a chi parla di “buon compromesso”.