Aridatece il Caimano

Le conseguenze politiche del Salvaladri approvato dal Consiglio dei ministri sono una grande Operazione Verità: Draghi si conferma il nuovo capo politico dei 5Stelle, rendendo superflua la trattativa con Conte; Grillo si conferma il garante non del M5S, ma di Draghi; i ministri 5Stelle che hanno votato la porcata in Cdm e non si dimettono e i parlamentari che la voteranno in aula avranno la tessera onoraria del Movimento5Draghi, ultima succursale di FI con Iv e altri pulviscoli, e riusciranno finalmente a convincere gli elettori che votare è inutile perché la roulette delle urne è truccata e, alla fine, vince sempre il banco. Una menzione speciale a Pd e LeU, non pervenuti nella discussione perché già a 90 gradi al cospetto di Sua Maestà, che ingoiano senza un ruttino la quintessenza del berlusconismo contro cui avevano finto di battersi per 27 anni, fregando milioni di elettori.

Ma le conseguenze più nefaste del Salvaladri sono quelle giudiziarie, perché rovinano irrimediabilmente la vita dei cittadini: quelli onesti, si capisce. Per fregare gli allocchi grillini col loro consenso, Draghi ha spiegato che il termine massimo di 2 anni (o di 3 per i reati contro la Pa) basta e avanza per celebrare i processi d’appello prima che scatti la mannaia della “improcedibilità”, visto che le statistiche dicono che i processi d’appello durano in media 2 anni. Un trucchetto da magliari che non funzionerebbe neppure con un cerebroleso. Per due motivi. 1) I 2 anni non si calcolano dalla prima udienza alla sentenza, ma da quando viene proposto l’appello (dopodiché passano mesi, a volte anni, prima che inizi il dibattimento). 2) Se anche la durata media dei processi d’appello fosse 2 anni (falso: è di 2 anni e 3 mesi), vorrebbe dire che metà dei processi durano di più e l’altra metà di meno. Quindi, a spanne, diventerebbe improcedibile (cioè morto) un processo d’appello su due. Anzi, certamente di più. La legge Bonafede incentivava i patteggiamenti e riduceva i dibattimenti: se so di essere colpevole, vedo che il mio processo di primo grado non fa in tempo a prescriversi e dopo la prima sentenza non c’è più prescrizione che tenga, mi conviene patteggiare una pena scontata e smettere di pagare l’avvocato. Così il numero dei processi cala e quelli rimasti durano meno. Ora invece, col Salvaladri Draghi-Cartabia, chi patteggia è un coglione: gli basta ricorrere in appello anche se sa di essere colpevole e tirarlo in lungo fino a 2 (o 3) anni e un giorno, dopodiché il suo reato neppure si prescrive, ma diventa financo improcedibile (che è ancora più conveniente: il colpevole impunito non rischia nemmeno di risarcire la vittima).

Quindi non patteggerà più nessuno, le impugnazioni dilatorie si moltiplicheranno e con esse il numero e la durata dei dibattimenti. Già ora i tempi sono incompatibili con la barzelletta dei 2 anni, visto che in media le Corti d’appello hanno due anni di processi arretrati, che mandano in coda quelli nuovi: ciascuno dei quali parte con un handicap di 2 anni, cioè morto. È quella che Davigo, a pag. 5, chiama “amnistia mascherata”. E far passare i 2 anni è un gioco da ragazzi: basta che uno dei giudici si ammali, o muoia, o vada in pensione, o venga trasferito, e si deve ricominciare tutto da capo, con l’aggiunta dei cavilli degli azzeccagarbugli (inclusi gl’impedimenti parlamentari). Il che è tanto più probabile quanto grave è il reato: nei maxiprocessi alle associazioni per delinquere semplici o mafiose, ma anche per omicidi colposi plurimi tipo Morandi ed Eternit o per bancarotte tipo Parmalat e Cirio, non c’è neppure bisogno di incidenti od ostruzionismi per far passare i 2 anni. Quindi il Salvaladri non solo smantella la Bonafede; ma peggiora le cose anche rispetto a prima, facendo rimpiangere persino la prescrizione modello B..

Facciamo il caso di una rapina a mano armata: scatta l’allarme, la polizia insegue il rapinatore e lo arresta in flagrante. Processo per direttissima e condanna in primo grado a tempo di record, 6 mesi dopo il delitto. Finora, ma anche prima della blocca-prescrizione, i giudici avevano 14 anni e mezzo per celebrare l’appello e la Cassazione. Ora invece il processo muore dopo 2 anni e un giorno dal momento in cui il condannato appella la sua condanna. Risultato: la rapina a mano armata, che prima si prescriveva in 15 anni, diventa improcedibile dopo 2 anni e mezzo. Aridatece il Caimano. Ultima delizia: la norma transitoria del Salvaladri lo fa valere solo per i reati commessi dal 1° gennaio 2020 (per non lasciare la legge Bonafede nemmeno per un giorno simbolico). Ma, trattandosi di norme infinitamente più favorevoli all’imputato rispetto alla Bonafede, per gli imputati per reati pre-2020 sarà uno scherzo invocare il favor rei e ottenere il Salvaladri anche per sé. Così chi oggi è imputato in appello da un anno e mezzo non avrà che da tirare in lungo per altri 6 mesi e 1 giorno per arraffare l’impunità. Con tanti saluti alle decine di migliaia di vittime che, oltre al danno, subiranno pure la beffa alla vigilia della sospirata sentenza. Per fortuna la porcheria è ancora sulla carta: deve passare al vaglio del Parlamento. Chi ama la legalità e non vuole l’impunità tenga d’occhio i deputati e i senatori: il Fatto pubblicherà i nomi di quelli che voteranno a favore. Poi gli elettori faranno il resto.

Ecco la guida autonoma, nuova frontiera del made in Usa

Che fine ha fatto la guida autonoma? Ci avevano raccontato di averla rinchiusa in qualche cassetto, in attesa di tempi migliori. O meglio, che non c’erano abbastanza soldi per svilupparla adeguatamente e sperare di venderla, dal momento che gli investimenti più massicci i costruttori li avevano concentrati su batterie ed elettroni. E dunque, in periodi di magra come questi, non era saggio spendere soldi per una seconda scommessa. Evidentemente non è proprio così, visto che negli Stati Uniti ci sono ben 108 aziende che stanno sperimentando su strada tecnologie legate alle auto senza pilota, e che la National Highway Traffic Safety Administration (il severo ente preposto alla sicurezza dei trasporti) ha imposto a queste di segnalare con solerzia eventuali incidenti subiti o provocati dai veicoli utilizzati per i test, dotati di assistenza alla guida di livello superiore al secondo. E con “incidente”, si intende anche la più insignificante delle ammaccature: così come per danni più seri, anche quella dovrà essere registrata in report mensili da consegnare puntualmente ai tecnici dell’Nhtsa per gli approfondimenti del caso. Sembrano lontani anni luce gli anni della “permissiva” amministrazione Trump, quando il Dipartimento dei Trasporti incoraggiava i costruttori a sperimentare nuove soluzioni tecnologiche senza imporre norme troppo severe per non ostacolare l’industria. E, naturalmente, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze.

La Bayon entra nella “guerra” dei B-Suv

Può piacere o non piacere, la giovane Bayon. Ma quando ti spiegano quale sarà la sua “missione”, non si può non intenerirsi. La nuova vettura della Hyundai appartiene a una delle categorie che vanno per la maggiore: quella delle cosiddette B-Suv.

In questo campionato, che secondo le stime quest’anno varrà oltre il 22% dell’intero mercato italiano con oltre 330 mila immatricolazioni, la Hyundai già gioca con la Kona, che è un pochino più lunga (2,5 cm), larga (sempre 2,5 cm) e alta della Bayon (5 cm). Costa anche circa 3 mila euro in più, a parità di dotazioni e motori – la Bayon base, col motore 1.200 aspirato da 84 cavalli, parte da 19.400 euro di listino, che precipitano a 16.800 con la promozione in corso – e può anche essere dotata della trazione integrale.

La Kona, in poche parole, è il B-Suv vagamente avventuroso di casa Hyundai. La Bayon è decisamente più urbana e la marca coreana la considera la risposta giusta per chi è stufo del classico segmento B e ha voglia di guidare, in posizione leggermente rialzata, una vettura che ha l’aspetto di un fuoristradino anche se non lo è.

A rafforzare la vocazione cittadina contribuisce l’arrivo del Gpl, previsto entro fine anno, che farà l’occhiolino a chi vuol spendere davvero poco per fare il pieno. La versione più intrigante della Bayon invece è quella “mild hybrid”, chiamata 1.0 TGDI 48v, alimentata da un mille tre cilindri turbo e capace di sfoderare 100 cavalli. Consuma un po’ meno della operosa compagna di squadra ma per fare 100 km, anche in modalità Eco, ci vogliono sempre 5 litri abbondanti di benzina. In modalità Sport riesce anche a essere sufficientemente arzilla, anche grazie all’agile cambio manuale, assai divertente sul misto.

Costa dai 21.800 in su, l’ibrida a 48 volt, ma con la promo per il lancio si scende sotto quota 20 mila. Capitolo look: aggressiva, onusta di linee e spigolosa, Bayon ha un lato B decisamente unico, con una bella serie di sbalzi che danno decisamente nell’occhio.

La battaglia sul fronte B-Suv, si combatte con ogni arma, righello compreso.

Audi Q4 e-tron: l’auto di peso (oltre 2.000 kg) è già un “best-seller”

Per Audi la nuova Q4 e-tron sarà la best-seller 100% elettrica del marchio. Lunga 458 cm, vanta una spaziosità interna sorprendente. Tutto merito della nuova piattaforma Meb, sviluppata dal gruppo Volkswagen per le auto elettriche del gruppo tedesco: le batterie sono posizionate alla base del pianale, proprio sotto i piedi degli occupanti, mentre i motori elettrici non interferiscono con gli spazi dell’abitacolo.

Forme appuntite e aerodinamica non sono mai stati un connubio vincente, eppure sulla Q4 e-tron questa combinazione funziona: infatti, il Cx (coefficiente di attrito aerodinamico) è di 0,28, un valore da record, che ha permesso un aumento dell’autonomia nel ciclo di omologazione Wltp di quasi 40 km, garantendo fino a 520 km totali di percorrenza con una singola ricarica completa.

Alla vettura in prova i watt, anzi, i kw a disposizione non mancano: sono 220 quelli erogati dal powertrain della Q4 e-tron 50, costituito da due propulsori; uno è posizionato sull’assale anteriore e l’altro sull’assale posteriore e sono capaci di spingere il suv (in questo caso 4×4) da 0 a 100 km/h in 6,2 secondi, mascherando bene gli oltre 2.100 kg di peso in ordine di marcia.

Sui percorsi più guidati la Q4 e-tron risulta piuttosto reattiva, grazie al baricentro basso e al rollio contenuto. Notevole la tenuta di strada assicurata dalle quattro ruote motrici e dalla gommatura generosa, installata su cerchi da 21”. Molto buono l’assorbimento delle sconnessioni e l’isolamento acustico.

Seduti in abitacolo, la plancia avvolge il guidatore ed è dotata di un grande Lcd touchscreen da 11,6 pollici per la gestione dei sistemi di bordo, posto centralmente. Un secondo schermo, dietro il volante, replica tutte le informazioni riguardanti la navigazione, l’autonomia e l’andatura corrente. Con la ricarica in corrente continua fino a 125 kW, si recuperano 130 km di autonomia in appena 10 minuti. Mentre con la corrente alternata a 11 kW il “pieno” si fa in poco meno di 8 ore.

Audi Q4 e-tron è proposta sul mercato in tre versioni, la entry level “35” con trazione posteriore, 125 kW di potenza e batteria da 55 kWh (in questo caso l’autonomia omologata è di 341 km), la “40”, sempre a trazione posteriore ma con pacco batterie da 82 kWh e potenza che sale a 150 kW e, infine, la “50”, con quattro ruote motrici e 220 kW di potenza massima.

I prezzi, a partire da poco meno di 45 mila euro, possono essere limati sfruttando gli incentivi statali che danno un taglio al conto finale fino a 10 mila euro.

Camerieri, accuse e rigori: c’eravamo tanto armati

Italia-Inghilterra. Domenica sera a Londra, ore 21: in palio, la corona dell’Europa itinerante. Fra Brexit e immunità di gregge, curve e purghe. Arbitro, l’olandese Bjorn Kuipers. Guai ai vinti. E ai finti: il tuffo di Raheem Sterling contro i danesi – rigore fatale e “finale”, in tutti i sensi – e l’ammuina di Ciro Immobile un attimo prima del gol di Nicolò Barella al Belgio. Albione la solida, Albione la perfida. Ma anche Albione la schietta: macché penalty. Dalla propaganda fascista al motto di Winston Churchill: “Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”. Bando ai vittimismi: che gli inglesi avrebbero potuto giocarne sei su sette in casa si sapeva fin dal 30 novembre 2019, a Bucarest, giorno dei sorteggi conclusivi. E nessuno fiatò.

Gareth Southgate era uno stopper, Roberto Mancini un fantasista. I bianchi hanno Harry Kane, centravanti spaziale, gli azzurri Lorenzo Insigne, che potrebbe fare il “falso nueve”. Per uno di quei buffi paradossi che decorano lo sport, è di Harry Maguire e John Stones la difesa più munita. Ma attenzione al verbo di José Mourinho: 70 anni in due, Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini potrebbero insegnare il kamasutra d’area a Harvard, addirittura.

Inoltre: la rapidità di Sterling, spalla di Kane; la velocità di Federico Chiesa, gol di sinistro all’Austria, gol di destro alla Spagna. Dategli una zolla di libertà e vi solleverà il mondo. Kane arretra e si allarga pur di distrarre le guardie, Bukayo Saka è l’aletta che all’oratorio chiamavamo “tornante”, Kyle Walker e Luke Shaw i treni sulle fasce. In mezzo non hanno un Jorginho. Si alternano, fra lavoro sporco e lavoretti vari, Declan Rice e Kalvin Phillips. Sperando che Marco Verratti e Barella non abbiano esaurito la benzina, la variante inglese è Sterling: frullerà un po’ qua (Giovanni Di Lorenzo), un po’ là (Emerson Palmieri), un po’ al centro. A portieri, in compenso, vinciamo noi: Sua altezza Gigio Donnarumma si mangia i piedi sbiruli di Jordan Pickford.

Italia, Inghilterra. Quattro Mondiali a uno, un Europeo a zero. Alé. Che saga. Come quella volta a Londra: perdemmo 3-2 eppure diventammo i “leoni di Highbury”. Doppietta di Eric Brook, acuto di Ted Drake. Tirava una gran brutta aria, Luisito Monti speronato e azzoppato, proprio lui che di solito “operava” per primo, botte da orbi fino ai botti di Peppin Meazza. I vincitori godono di buona stampa, ma il 14 novembre 1934 ci si ricordò soprattutto degli sconfitti. E non è vero che il gol di mano di Diego Maradona costituì una sorta di Big Bang. Modestamente, l’aveva anticipato Silvio Piola: 13 maggio 1939, 2-2 a Milano. La confessione? Quindici anni dopo. Noi e loro, loro e noi. I maestri del catenaccio, e i maestri che il catenaccio, come certificò il trionfo del Chelsea di Roberto Di Matteo nella Champions del 2012, non detestano più. Dal pancia contro pancia “nacque” persino un gol: il gol alla Mortensen. Torino, 16 maggio 1948: Italia-Inghilterra 0-4, ops. Viggo Mortensen si beve Giuseppe Grezar e, dalla linea di fondo, fa partire qualcosa di strano: un cross, un tiro, boh. La traiettoria, sghemba, “uccellò” Valerio Bacigalupo.

La storia ha fame. Come ci fu Italia-Germania Ovest 4-3 in Messico, così c’è stata Inghilterra-Italia 0-1 a Wembley: trama non meno salgariana, verdetto non meno simbolico. Mai si era vinto fra i giardini dell’impero. Mai. E allora, segnatevi la data: 14 novembre 1973. Il gol lo realizzò Fabio Capello, agli sgoccioli, dopo un’azione a testa bassa di Giorgione Chinaglia e una respinta, molle, di Peter Shilton. I tabloid avevano consumato la vigilia a irriderci: poveri camerieri. Al diavolo: esplose il nostro canto libero, Capello urlò di aver segnato per loro, i camerieri e i pizzaioli del Regno. O belli ciao.

Del 2-0 di Roma 1976, tappa verso il Mondiale argentino, non sono stati tramandati, esclusivamente, la punizione di Giancarlo Antognoni e l’incornata di Roberto Bettega. Si giocava alle 14,30 di mercoledì e per paura che le fabbriche e gli uffici restassero deserti la Rai rinunciò alla diretta tv: registrata, e più non “dimandate”. Oggi si sarebbe fermato il Paese. Al ritorno s’imposero gli inglesi, 2-0, parole e musica di Kevin Keegan e Trevor Brooking. Keegan, il mago del dribbling: sbagliò, Enzo Bearzot, ad affidarlo a Renato Zaccarelli. Troppo tardi, quando lo girò a Marco Tardelli. Da Videla, però, volammo noi.

Fino al cucchiaio di Andrea Pirlo e al sinistro di Alessandro Diamanti alla lotteria di Kiev (Europeo 2012); fino alla sgrullata di Mario Balotelli a Manaus (Mondiale 2014) e alla rivolta del destino, fuori subito, fuori entrambi, sia Cesare Prandelli sia Roy Hodgson.

C’eravamo tanto armati, per un secolo e forse più. E tanto vaccinati. Wembley, ombelico d’Europa: ma toccarlo non basterà.

La lunga e vittoriosa guerra del Catajo contro il cemento

Prendete un punto della Bassa Padovana, a 150 metri dalle pertinenze di una villa settecentesca simil-palladiana e a 700 metri da uno dei più importanti castelli della zona, il Catajo. Un castello eretto nel ‘500, affrescato dallo Zelotti (allievo del Veronese), dotato di 350 stanze e di una fronte di quasi 300 metri. È da qui che nel 1914 l’arciduca Ferdinando partì per il fatale viaggio che lo portò a Sarajevo. È qui che l’umanista e filosofo Sperone Speroni (nel dialogo Delle laudi del Catajo) cantava come la natura e le acque, vivificate da Amore, tendessero spontaneamente verso la bellezza di Beatrice Pio da Correggio, signora di un salotto frequentato anche dall’Ariosto. È qui che la famiglia degli Obizzi, estintasi nel 1803, raccolse nel tempo le preziose collezioni di epigrafi, sarcofagi, rilievi, armi e strumenti musicali ora in larga parte trasferite – dopo il passaggio in mano agli Asburgo nell’Ottocento – nei musei di Vienna e di Praga. È questo splendido complesso che la famiglia Cervellin – attuale proprietaria – apre regolarmente alle visite di scolaresche, turisti e viaggiatori.

Ecco, prendete questo punto di sommo pregio per il paesaggio, la storia e l’identità di una regione, e immaginate che per 27 anni vi si agiti dinanzi lo spettro di un gigantesco centro commerciale da costruire proprio lì. La vicenda, assai intricata, inizia nel lontano 1994, con il cambio di destinazione d’uso (da agricola a commerciale) di una vasta area di 150 mila metri quadri vicino al casello autostradale di Terme Euganee: sin da subito l’idea – sostenuta nel tempo da varie amministrazioni del Comune di Due Carrare e dall’immobiliare Deda s.r.l. – è quella di erigere un enorme centro commerciale, che paradossalmente diventa sempre più grande man mano che passano gli anni e si accumulano i pareri negativi della Regione (1995), della VIA provinciale (2014), perfino del Ministero dei Beni culturali, il quale si esprime apertamente contro l’erezione del monstrum di 200 mila metri cubi: ma tre anni dopo, il nuovo progetto presentato da Deda oltrepassa i 400 mila metri cubi, tocca i 16 metri di altezza, aggiunge un nuovo parcheggio multipiano, e – prodigiosa competizione del nuovo con l’antico – acquisisce anch’esso una fronte di 300 metri.

A quel punto, siamo nel 2017, una massiccia mobilitazione raccoglie non solo gli ambientalisti, ma anche gli agricoltori cui veniva sottratto suolo fertile, gli esercenti spaventati dall’iniqua competizione del già pericolante commercio di vicinato con l’ennesimo mall della zona, i sindaci dei paesi limitrofi preoccupati sia dal rischio idraulico sia dalla prospettiva di un incremento del traffico e del “pendolarismo di rapina” in quell’area sia soprattutto da un modello di sviluppo – quello dei Centri commerciali, appunto – che aveva già mostrato la corda lasciando cattedrali fallite nei dintorni. Si muovono interrogazioni parlamentari (Pd e M5S), si agita financo Vittorio Sgarbi. Chi pensa che “soprintendente” sia una brutta parola dovrebbe considerare che nel dicembre 2017 è proprio la Soprintendenza a bloccare tutto, emanando il “vincolo di tutela indiretta” del Catajo: si rivelano fortuntatamente vani i ricorsi della Deda (peraltro poi fallita nel novembre 2020, e rilevata da un fondo americano) prima al Tar del Veneto (2019) e infine al Consiglio di Stato, che con l’esemplare sentenza del 30 giugno scorso ha affossato per sempre il piano speculativo.

“Il vincolo indiretto può essere apposto per consentire di comprendere l’importanza dei luoghi in cui gli immobili tutelati dal vincolo diretto si inseriscono mediante la loro conservazione pressoché integrale”, scrive il Consiglio di Stato. Più chiaro ancora il Tar: “Se una rigorosa salvaguardia dei beni ambientali e culturali fosse un’esigenza condivisa nella prassi delle amministrazioni comunali non vi sarebbe neppure la necessità dell’apposizione di vincoli da parte dell’Amministrazione statale”. Se dunque è fallito questo tentativo di speculazione immobiliare tra i più incredibili dell’incredibile Veneto (la prima regione per consumo di suolo in Italia, peraltro tuttora restia a emanare il Piano Paesaggistico previsto dal Codice dei beni culturali del 2004), è stato solo grazie alla tenacia e alla coesione – anche contro certa politica – delle forze migliori dello Stato, della società e del territorio.

Ma torniamo un attimo nel punto da cui eravamo partiti: cinque chilometri più in giù si staglia ancora, a ridosso dei Colli Euganei, la Cementeria di Monselice, un impianto obsoleto che per anni ha emesso tonnellate di prodotti cancerogeni (diossine, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri e veleni) a ridosso delle scuole e delle zone residenziali. Da anni il comitato “Lasciateci respirare” si batte contro il mostro che ha trasformato questo lembo di paradiso in una delle aree più inquinate del Veneto dopo Porto Marghera e Porto Tolle. Paesaggio, ambiente, salute sono realtà inscindibili: lontane le “Chiare fresche et dolci acque” di Petrarca (Arquà è appena dietro Monselice); lontani gli anni in cui Sperone Speroni si chiedeva “in che modo, ed a che fine faccia il cielo al Catajo cotali effetti meravigliosi”.

L’Unione: “Il torneo europeo di omofobia lo vince Orbán”

Mentre ieri a Budapest entrava in vigore la legge anti-Lgbt che vieta diffusione e promozione di contenuti riguardanti l’omosessualità o l’identità di genere in tv o nelle scuole, al Parlamento europeo, con larghissima maggioranza, si approvava la risoluzione contro quello che Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, ha definito “un vergognoso emendamento” da ritirare subito, che “discrimina l’orientamento delle persone e strumentalizza la protezione dei minori”. Dopo la condanna unanime dell’Ue, sospesa anche la valutazione positiva per i sette miliardi del Recovery plan richiesti dal governo magiaro, da stanziare entro il prossimo 12 luglio. “Il campionato europeo dell’omofobia l’ha vinto il signor Orbán” hanno ironizzato a Bruxelles, solidarizzando con migliaia di attivisti che hanno manifestato, sventolando bandiere arcobaleno, nei pressi dell’Orszaghaz, Parlamento ungherese. Fidesz, il partito del premier Orbán, ha replicato: la legge non verrà ritirata, ma, anzi, difesa con ogni mezzo possibile. Intanto, insieme alle bollette, lettere e cartoline, i cittadini nella cassetta della posta hanno trovato i moduli di una nuova consultazione nazionale.

“Dopo la pandemia, George Soros attaccherà di nuovo l’Ungheria, perché gli ungheresi si oppongono all’immigrazione illegale. Alcuni pensano che il Paese debba cedere alle organizzazioni di Soros: cosa ne pensate?”. Il futuro della democrazia ungherese è fondato sulle domande trabocchetto e sulla propaganda che divampa prima delle elezioni del prossimo anno: “I burocrati di Bruxelles dicono che non possiamo rifiutare migranti, che potrebbero portare nuove mutazioni del virus: cosa ne pensate?”. Tra gli interrogativi posti dalle autorità nessuno riguardava la cattiva gestione dello Stato che figura, secondo le stime dell’ultimo report dell’Olaf, ufficio europeo anti-frode, tra i più corrotti dell’Unione.

Moise ucciso in una faida di potere fra gli oligarchi

Jovenil Moïse è stato ucciso con dodici colpi d’arma da fuoco di grosso calibro. È stato trovato stesso per terra, sulla schiena, con la camicia bianca sporca di sangue. Un commando armato aveva fatto irruzione nella sua residenza di Port-au-Prince, mercoledì all’una del mattino. Chi ha ucciso il presidente haitiano? Il capo della polizia, Leon Charles, ha annunciato che sette mercenari erano morti durante uno scontro armato con le forze dell’ordine nei dintorni della villa del presidente, sulle colline della capitale, e che altri sei erano stati arrestati. Come riporta il giornale locale Le Novelliste, lo studio e la camera da letto del presidente erano stati saccheggiati. Sul posto sono stati trovati diversi bossoli. I domestici erano stati legati. La figlia del presidente era riuscita a nascondersi, mentre la moglie, Martine, giaceva ferita. Nulla però sull’identità degli assalitori, né sul movente dell’omicidio.

Una mancanza di trasparenza che solleva sospetti: “Un omicidio che si produce con tanta facilità sembra curioso ed è inaccettabile per uno Stato, se Haiti può ancora considerarsi uno Stato”, ha commentato su France Info lo storico Eric Sauray. Mercoledì, il primo ministro ad interim Claude Joseph, che ha dichiarato lo stato d’assedio prendendo i pieni poteri, ha attribuito l’attacco a “un gruppo di individui che parlavano inglese e spagnolo”. Lasciando planare il dubbio che l’assalto fosse stato commissionato dall’estero. L’ambasciatore di Haiti negli Stati Uniti, Bocchit Edmond, ha parlato a sua volta di mercenari “professionisti stranieri” che si erano presentati a casa del presidente come “agenti della DEA”, l’agenzia federale anti-droga degli Stati Uniti. L’amministrazione Usa di Biden ha smentito. Un vice ministro haitiano ha poi aggiunto che nel commando c’erano anche haitiani. Perché uccidere Moïse? Il presidente, eletto nel 2016 ed entrato in funzione nel febbraio 2017, era detestato dagli haitiani che reclamavano democrazia e sicurezza in un paese sprofondato nell’instabilità politica e nella violenza delle gang. Governava per decreti aggrappandosi al potere. Era accusato di corruzione nello scandalo PetroCaribe di fondi scomparsi legati alla compravendita di petrolio venezuelano.

“Moïse aveva degli avversari politici, che consideravano il suo mandato illegittimo, ma anche dei nemici nelle gang – ha osservato lo storico Christophe Wargny su France24 –. Alle proteste degli haitiani ha risposto servendosi di bande armate per terrorizzare la popolazione e ne ha perso il controllo”. Le gang si spartiscono il territorio con la complicità dei politici e nell’indifferenza della polizia. Il capo della G9, la federazione di gang di Port-au-Prince, detto “Barbecue”, è un ex poliziotto. Per Frédéric Thomas, politologo, è più probabile che siamo di fronte a un “regolamento di conti all’interno dell’oligarchia che a un intervento straniero”. L’ambasciatore di Haiti in Francia, Jean Josué Dahomey, sospetta una “collusione tra personaggi d’alto grado della polizia e membri del commando”. La morte di Moïse sprofonda Haiti ancora di più nel caos, anche se Joseph ripete che è “tutto sotto controllo”. Ora è anche la sua legittimità a essere messa in discussione. Moïse aveva appena nominato un nuovo capo dell’esecutivo, Ariel Henry, medico, 71 anni, che non aveva fatto in tempo a insediarsi e che ora reclama il suo posto: “Stavo già formando un governo”, ha detto. Washington chiede di mantenere le elezioni legislative e presidenziali che erano già fissate per il 26 settembre.

In fuga dalla Brexit e dal virus: le aziende sono senza impiegati

I magnifici risultati garantiti con grande sicurezza dai sostenitori della Brexit sono, per ora e in molti settori fondamentali, una carenza di lavoratori come non se ne vedeva dal 1997. Il dato, di giugno, è una rielaborazione del rapporto sull’occupazione della Rec, la Recruitment and Employment Confederation, con la consulenza di KPMG.

Il Regno Unito smania per riavviare l’economia dopo la depressione da Covid: è la ragione principale per cui il neo ministro della Salute Sajid Javid, appena insediato, ha messo la faccia sulla riapertura totale dal 19 luglio, malgrado i contagi da variante Delta siano oltre i 40 mila al giorno. Ripartire è una questione di sopravvivenza economica: ma in certi settori manca forza lavoro. I fronti più scoperti? Ospitalità, costruzioni, logistica, industrie manifatturiere e trasporti. La situazione tipica, ma non esclusiva, era quella dello studente europeo che veniva nel Regno unito per imparare l’inglese, mantenendosi come cameriere o baby-sitter. Già da prima del lockdown e a Brexit non ancora definita, nell’incertezza del futuro che si è prolungata per anni, questa forza lavoro non qualificata aveva iniziato a scegliere altre destinazioni, come la Spagna o i Paesi Bassi.

Ora non hanno alcuna ragione per tornare. La diaspora europea, comunque, ormai riguarda molte categorie professionali: la scarsità di risorse umane comincia a sentirsi anche nei settori a maggiore specializzazione, come l’IT, la finanza, l’ingegneria e la contabilità. Perché? Perché il lockdown ha rallentato o sospeso le attività e molti lavoratori immigrati, circa 1,3 milioni “non britannici”, sono tornati a casa. Contemporaneamente, la Brexit alzava i requisiti per lavorare nel Regno Unito, mettendo paletti che hanno reso trovare e mantenere un’occupazione difficile e molto meno appetibile di prima, quando l’appartenenza all’Unione Europea garantiva libertà di circolazione ai cittadini degli Stati membri, senza ulteriori filtri o requisiti.

Secondo un sondaggio pubblicato ieri dalla British Chambers of Commerce, la Confcommercio britannica, su un campione di 5.700 aziende, il 52% ha cercato di assumere fra marzo e giugno. Il 70% non ha trovato personale. I dati sulla disoccupazione sono confortanti e in calo, attualmente al 4,7%. Ma sono parzialmente drogati dalla cassa integrazione attivata dal governo, per un totale al picco della pandemia di 9 milioni di lavoratori, ora ridotti a 1,5 milioni. Quando sarà scaduta per tutti, a settembre, Bank of England prevede un aumento del tasso di disoccupazione fino al 5,5%. Naturalmente non c’è alcuna formula che garantisca che i nuovi disoccupati vadano a occupare i posti di lavoro vacanti, sia perché la disponibilità di lavoro non è distribuita equamente nel paese, sia perché in molti casi non hanno le qualifiche necessarie. Da qui l’appello dei datori di lavoro, a cui ha dato voce Claire Warnes, la direttrice del dipartimento Formazione e produttività di KPMG UK: “È urgente che governo e aziende private avviino programmi di formazione per i lavoratori ora in cassa integrazione, perché una carenza di competenze adeguate rischia di rallentare la ripresa economica del paese”.

Una soluzione, proposta dal settore privato, è fare marcia indietro sui rigidi e irrealistici paletti all’immigrazione appena fissati con grande pompa retorica dal governo Johnson. Il governo per ora adotta provvedimenti di emergenza: dal prossimo lunedì, per esempio, consente ai camionisti turni più lunghi, in deroga agli obblighi di sicurezza, per garantire le consegne essenziali ed evitare una altrimenti inevitabile e impopolare ricaduta sui prezzi al dettaglio. Ma si scontra, proprio in queste ore, con il muro di critiche di aziende di trasporti e sindacati, che segnalano i rischi per gli autisti e il fatto che aumentare le ore di guida, alla lunga, renderà il lavoro ancora meno appetibile, acuendo la crisi di personale. “Aggiungere ore a un camionista già esausto è appiccicare un cerotto, non trovare una soluzione” ha commentato al Financial Times Richard Burnett, capo della Road Haulage Association. E la prospettiva degli scaffali dei supermercati vuoti non si risolve solo mettendo una pezza sulle consegne. Già a metà giugno i rappresentanti di settore avevano anticipato il problema: a essere a corto di manodopera è tutta la filiera alimentare, dai raccoglitori di frutta e verdura alle industrie di confezionamento, e la pressione non si allenterà, come accade di solito in estate, visto che la maggior parte dei britannici non andranno in vacanza a causa delle restrizioni Covid sui viaggi all’estero.

Il rischio non remoto? Non solo un freno a una ripresa urgente e necessaria, ma il possibile aumento dell’inflazione. È la cara vecchia relazione fra domanda e offerta: per attirare e trattenere lavoratori bisognerà pagarli meglio.

Raffa, rivoluzione paillettes & fagioli

La memoria collettiva è uno strano animale, la potremmo paragonare a un barattolo pieno di fagioli, apparentemente – ma solo apparentemente – tutti uguali. Prendiamo Raffaella Carrà; ci affacciamo alla finestra da Trieste in giù e rivediamo il casco platinato, la tuta aerospaziale, il top a pancia scoperta, le cascate di paillettes, gli stivaloni di vernice. E poi rivediamo i fagioli, un barattolo di vetro colmo di fagioli. Tra tutte, l’apparizione più prodigiosa. A differenza dell’ombelico, non si può dire che il fagiolo buchi il video. La vita televisiva del borlotto e del cannellino è grama, come quella di tutti gli ortaggi; il loro destino è quasi sempre in pentola, sul tagliere, nel frullino, a mollo. Il massimo della vita è finire nello sfondo di un collegamento con Sallusti.

Eppure grazie alla Carrà i fagioli sono stati per una volta i veri protagonisti di un programma. Oggetti di culto. Un legame, ma soprattutto un legume di ferro: mai oggetto fu più desiderato dal pubblico del barattolo piazzato nel salotto di Pronto, Raffaella?

Nell’invenzione del fagiolo c’è di mezzo il genio estetico-nichilista di Gianni Boncompagni, che all’alba degli anni Ottanta ribalta l’icona, ma anche l’icona inalterabile di Raffaella. Dal sabato sera al mezzogiorno di lunedì, dal varietà al salotto buono, dalla calzamaglia al pigiama palazzo. Dall’ombelico al fagiolo. Un triplo salto mortale affrontato in souplesse, compimento di un fluido trasversale. Con la microtuta in lurex non è impossibile per una giovane showgirl stregare il telespettatore; ma voglio vederti con un barattolo di fagioli.

Come le seppie coi piselli amate da Achille Campanile, i più profondi accoppiamenti della natura sono insondabili. Raffaella Carrà ha dimostrato che il sogno erotico e il pranzo della domenica non si escludono a vicenda, anzi. È stata il tortellino, è stata la pasta, e quale pasta: emiliana, fatta in casa, tirata a mano. Ma è stata anche i fagioli. Pasta e fagioli; e abbiamo detto tutto.