Gli schiavi di Potosì a caccia di argento, tra veleni e “El Tio”

Il fine settimana decine di minatori, per lo più giovani, bevono litri di birra per le vie di Potosì. Così se ne va parte del loro salario da fame. C’è chi ritiene sia uno sperpero, ma una sbornia è un diritto umano per chi fa il loro lavoro. Pare che già gli inca fossero a conoscenza dei tesori custoditi dal Cerro Rico, la montagna che domina Potosì, una delle città più belle e tragiche dell’America latina, fondata nel 1545 con il nome di Villa Imperial di Carlo V. Proprio Carlo V era stato da poco eletto Imperatore del Sacro Romano Impero quando, secondo la leggenda, l’indio Huallpa, dopo aver inseguito sulla montagna un lama che era fuggito, costretto a passar la notte in alta quota, accese un fuoco per riscaldarsi. Il calore delle fiamme sciolse parte della terra dalla quale uscì un liquido brillante. Era argento. Gli spagnoli avevano trovato l’Eldorado a 4.100 metri di altezza. Per Carlo V fu la salvezza. D’altronde la Casa d’Asburgo si era indebitata per farlo eleggere Imperatore dei Romani. I sette elettori, infatti, vennero pagati per scegliere Carlo. Il voto di scambio è molto antico. I denari per comprare il loro voto arrivarono dai principali banchieri europei, soprattutto dai Fugger, potente famiglia tedesca dedita alla produzione tessile e alle attività finanziarie. Furono proprio i banchieri europei ad arricchirsi grazie alle viscere della terra boliviana. Scrive Eduardo Galeano ne Le vene aperte dell’America latina: “Gli spagnoli avevano la vacca, ma erano altri a bere il latte”. Si dice che con tutto l’argento estratto da Cerro Rico si sarebbe potuto costruire un ponte tra Madrid e il Nuovo mondo. “Vale un Potosì”, in effetti, è un’espressione che ancora si utilizza in Spagna. Migliaia di tonnellate d’argento provenienti dal Cerro Rico per secoli hanno invaso l’Europa. L’argento potosino si trova nei castelli nobiliari, nei palazzi vescovili, negli altari delle chiese, nelle case signorili, nei caveau di centinaia di banche e in Vaticano. L’argento potosino ha permesso lo sviluppo del Vecchio continente, il suo arricchimento, l’accumulazione originaria, per usare un’espressione marxista che, a sua volta, ha fatto sì che la Rivoluzione industriale avesse luogo prima in Inghilterra, poi in Francia, Olanda, Italia e non certo in Bolivia. La Bolivia, un Paese che – nonostante debba il suo nome al libertador Simón Bolívar – non si è mai liberato dalla povertà, ha arricchito un continente intero. Le centinaia di tunnel sotterranei che trafiggono il Cerro Rico hanno visto morire milioni di schiavi in quattrocento anni di storia. C’è chi ha calcolato che la bramosia degli Spagnoli e quella dei loro creditori, abbiano ucciso 8 milioni di persone. Se così fosse, quello potosino sarebbe uno dei più grandi genocidi della storia dell’umanità. A morire non furono solo i nativi. Quando gli Spagnoli si resero conto che l’argento era infinito e la manodopera indigena scarseggiava, iniziarono a prendere gli schiavi in un altro continente, uomini trattati come bestie, strappati dal tepore e dalle foreste di Mamma Africa e costretti a vivere per mesi, al gelo, dentro le miniere a oltre 4.000 metri di altezza, prima di tornare a vedere la luce del sole. Luce che in molti non videro più. Il commercio triangolare riguardò tre continenti, ma soltanto uno, quello europeo, ebbe vantaggi, gli altri persero la storica occasione di svilupparsi. Con l’argento di Potosì, oltre a pagare i debiti, la corona spagnola comprava merci a Londra, Manchester, Parigi, Francoforte e Venezia e con queste pagava i negrieri che stipavano nelle navi dirette in America carichi di carne da miniera. Il commercio triangolare non è terminato. “Tutto si trasforma”, sosteneva Lavoisier. Ancora oggi, nel 2021, Africa e parte dell’America latina assicurano al Primo mondo quelle materie prime che, a loro volta, garantiscono più guadagni a chi le trasforma e le consuma piuttosto che a chi le produce. E ciò nonostante siano i produttori coloro che rischiano la vita. Anche la schiavitù è stata abolita, ma di schiavi moderni ne è pieno il pianeta.

Nelle miniere di Potosì i minatori non lavorano più 12 ore al giorno come avveniva decenni fa e, perlomeno nelle miniere che ho visitato, non c’erano minorenni a scavare. Tuttavia il Cerro Rico continua a essere un inferno.

Ogni mattina i minatori comprano al mercato foglie di coca per affrontare fatica e altitudine, dinamite per rompere la roccia, sigarette senza filtro e alcool a buon mercato per omaggiare “El Tio”, il demonio, la divinità delle miniere. A lui chiedono salute, fortuna, una nuova vena d’argento da inseguire e polmoni resistenti. All’interno dei tunnel i minatori respirano di tutto. Arsenico, acetilene, diossido di silicio. In molti si ammalano di silicosi dopo pochi anni. Ma Potosì, una città che tra il XVI e il XVII secolo era una delle più abitate al mondo, oggi, a parte le miniere, offre ben poco. La pandemia ha ucciso il turismo e per questo, oltre che per l’aumento del prezzo dell’argento, di braccia scavatrici non ne mancano sugli altipiani boliviani. Ho visto minatori infilarsi in tunnel dal diametro di 60 cm e sparire nel ventre della terra. Ho visto ragazzi barcollare dalla fatica, con la guancia destra gonfia di foglie di coca e bicarbonato e con il viso ricoperto da polvere e fango. Ho visto donne al di fuori delle miniere spaccarsi la schiena nel dividere i pezzi di roccia pieni di “mineral” dalla caja, le pietre senza alcun valore. Ho visto dignità e disperazione, speranza e disillusione. Ho visto ingiustizia, povertà, miseria. Il tutto per soddisfare la fame d’argento internazionale e per garantire la sopravvivenza di una famiglia, spesso, costretta a piangere prematuramente la morte di chi porta i soldi a casa. I minatori hanno il sacrosanto diritto di alzare il gomito se questo gli consente di dimenticare l’inferno per un paio d’ore. È evidente che il reddito universale sia la battaglia del secolo, così come la controinformazione. È molto più comodo inginocchiarsi a favor di telecamera che prendere coscienza delle conseguenze del colonialismo o delle storture che continua a perpetrare il neo-colonialismo. C’è chi sostiene che la ricchezza europea sia dipesa dal libero mercato senza regole, dal trionfo del sistema liberista, da una “mano invisibile” segno della provvidenza. Non è così. Le mani che hanno arricchito il Vecchio continente e gli Stati Uniti e che continuano a farlo, sono molte, non una sola. E se sono invisibili è solo perché nelle miniere d’America oscurità e oscurantismo continuano a dominare.

Vicenza, le tele del Tiepolo non si vendono. Il Mic avvia l’iter per “sfilarle” ai Benetton

Le sette grandi tele del Tiepolo esposte al Palladium museum di Vicenza resteranno di proprietà dello Stato. Il ministero della Cultura, infatti, ha avviato le procedure per far valere il diritto alla prelazione. Una clausola non esercitata in occasione dell’asta che ne ha permesso l’acquisto, per 1,8 milioni di euro, da parte di Alessandro Benetton. In realtà, i tempi tecnici ci sono ancora, ma è una corsa contro il tempo, avviata dal dicastero guidato da Dario Franceschini proprio dopo la denuncia pubblicata due giorni fa sul Fatto. Ieri il segretario generale del Mic, Salvatore Nastasi, ha confermato che il comitato tecnico-scientifico ha già dato il suo parere positivo all’acquisizione. Ora toccherà agli uffici ministeriali fare il resto. I 7 grandi affreschi realizzati da Gian Domenico Tiepolo nella sala del Palazzo di Valmerana a Vicenza sono sopravvissuti ai bombardamenti del 1943, messi in salvo e trasportati su tela grazie alla battaglia dell’allora ingegnere e architetto Fausto Franco, proprietario del Palazzo.

Afro e poliziotto: Adams candidato perfetto per i Dem

Nero, ex poliziotto, 61 anni, Eric Leroy Adams ha vinto le primarie democratiche per il candidato sindaco di New York ed è ora il favorito per succedere a Bill de Blasio; le elezioni sono previste il prossimo novembre. Ci sono volute oltre due settimane perché i risultati delle consultazioni, svoltesi il 22 giugno, divenissero definitivi, sempre che siano attendibili. Al momento del voto il suo avversario repubblicano sarà Curtis Sliwa, che parte sfavorito perché New York ha una forte base democratica. Sliwa è conosciuto per aver fondato i Guardian Angels nel 1979, una organizzazione di volontari che si impegnavano nella sicurezza pubblica negli anni violenti di New York.

Adams, presidente del borough di Brooklyn, uno dei cinque grandi “quartieri” di New York, ha prevalso con uno scarto di voti ridotto – circa 8.500 – su Kathryn Garcia, ex commissario alla sanità della Grande Mela. L’ex poliziotto, passato alla politica da ormai 15 anni – lasciò l’uniforme con il grado di capitano –, giudica il risultato chiaro: “Una coalizione storica e diversa, guidata da uomini e donne della classe lavoratrice, mi ha portato alla vittoria”. Le rivali più agguerrite di Adams non alzano però bandiera bianca: la Garcia e Maya Wiley non ne riconoscono il successo, dopo una campagna elettorale nervosa e un conteggio dei voti contestato per disfunzioni organizzative e informatiche, che hanno ridato fiato alle trombonate repubblicane sulle elezioni truccate. La campagna di Adams s’è focalizzata sull’impegno di rafforzare la sicurezza senza violare i diritti delle minoranze nera e ispanica.

Haiti: come ti ammazzo il Presidente

Da ieri sera Haiti vive in stato d’assedio. Il presidente Jovenil Moïse è stato assassinato nella sua residenza del quartiere Piétonville, sulle alture di Port-au-Prince, intorno all’una del mattino. Nel pomeriggio, il primo ministro ad interim, Claude Joseph, ha presieduto un Consiglio dei ministri straordinario, dopodiché ha dichiarato lo stato d’assedio, rinforzando i poteri dell’esecutivo e prendendo la guida del Paese. Appena qualche ora prima, era stato lo stesso Joseph ad annunciare la morte del presidente in un comunicato in cui precisava che Moïse era stato assassinato “da un gruppo di stranieri che parlavano inglese e spagnolo”.

“Verranno prese tutte le misure necessarie per garantire la continuità dello Stato – era scritto –. Condanniamo questo atto di odio, inumano e barbaro”. Da prime ricostruzioni, Moïse , 53 anni, sarebbe rimasto ucciso nell’assalto di un commando di mercenari, freddato a colpi di armi da fuoco. La moglie, Martine, ricoverata in ospedale con ferite gravi, secondo l’ambasciatore di Haiti a Santo Domingo, sarà trasferita in aereo all’estero per evitare che i killer tentino di portare a termine la missione. In un video che circola dalla notte scorsa sui social si sente, nel buio, una raffica di spari. “Si sono sentiti i botti questa notte, erano armi pesanti”, ha detto un testimone alla radio France Info. Poliziotti a parte, le strade della Capitale erano deserte ieri. I media locali parlano di negozi saccheggiati. Alcune Ong parlano di spari nella capitale. L’aeroporto di Port-au-Prince non è operativo. La Repubblica dominicana ha ordinato la chiusura delle frontiere. Moïse era il presidente di un Paese in preda al caos sociale e politico. L’uomo d’affari era stato eletto nel 2016 e aveva preso le funzioni il 7 febbraio 2017. Dal gennaio 2020 governava per decreti, senza Parlamento, praticamente da solo. La sua legittimità alla testa dello Stato era messa in discussione. Secondo le opposizioni, il mandato presidenziale era scaduto a febbraio, mentre Moïse rifiutava di lasciare il potere, sostenendo che gli spettasse ancora un anno, e aveva promesso nuove elezioni nel gennaio 2022. Da tempo aveva perso la fiducia della popolazione. Le manifestazioni si erano fatte sempre più frequenti in particolare contro un progetto di referendum costituzionale che il presidente stava tentando di imporre per riformare l’esecutivo. Un referendum, rinviato più volte a causa dell’epidemia di Covid-19, e giudicato anti-costituzionale dalle opposizioni. Appena il primo luglio, di fronte all’instabilità del Paese, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu aveva reclamato “elezioni libere d’urgenza” ad Haiti.

Nel corso del suo mandato, Moïse aveva cambiato sette volte primo ministro. Joseph avrebbe dovuto lasciare il posto ad Ariel Henry, medico, 71 anni, nominato appena lunedì, con il compito di “formare un governo di apertura” e organizzare i diversi scrutini. Haiti è uno dei paesi più poveri del mondo. Più della metà della popolazione riesce appena a sopravvivere e la situazione si è esacerbata con la crisi sanitaria. Il 24 maggio Moïse aveva dichiarato lo stato d’emergenza di fronte ad una nuova ondata epidemica. Il Paese vive impantanato in un clima di insicurezza, dilaniato dalla violenza delle gang, che terrorizzano la popolazione nella più totale impunità, spesso con la complicità e il sostegno dell’uno o dell’altro gruppo politico, compresi quelli al potere. Migliaia di persone sono state costrette a fuggire daPort-au-Prince, dove alcuni quartieri sono paralizzati dalle gang. Venti persone sono state uccise la settimana scorsa, tra cui un giornalista e una militante femminista. A Haiti sono attive un centinaio di bande che vivono soprattutto di traffici illeciti e di sequestri di persona. Da dati delle Nazioni Unite, nel 2020 il numero dei rapimenti è̀ triplicato: 234 contro 78 del 2019. Il primo giugno era stato rapito da un gruppo criminale anche l’ingegnere Giovanni ‘Vanni’ Calì, 74 anni, di Catania, prelevato sul cantiere dove lavorava e liberato 22 giorni dopo.

Ad aprile, erano stati rapiti sette religiosi, tra cui un prete e una suora francesi, liberati venti giorni dopo dietro pagamento di un riscatto di un milioni di euro. L’assassinio del presidente Moïse, condannato dalla comunità internazionale, non ha sorpreso gli esperti.

“Visto come la situazione si è deteriorata negli ultimi anni – ha detto Philomé Robert, giornalista a France24 e specialista delle vicende di Haiti – l’episodio era sfortunatamente prevedibile. Oggi Haiti è un Paese dove può succedere qualunque cosa in qualsiasi momento e a chiunque”. Per Jacques Nési, docente all’Università delle Antille, sentito da Le Parisien, Moïse “non dirigeva più niente, era sopraffatto dagli eventi. Ciò che è successo prova le difficoltà del Paese ad accedere alla democrazia per vie legali”.

Inizia la seconda vita del San Giacomo chiuso da Marrazzo

Il Consiglio di Stato, con una lunga e ben argomentata sentenza, ha bocciato la chiusura – stabilita nel 2008 – del centralissimo ospedale San Giacomo di Roma, risalente al 500 e nel quale il cardinale Antonio Maria Salviati riversò ogni suo avere destinandolo alla omonima confraternita di San Giacomo degli incurabili per l’assistenza e la cura dei malati della città. In primis quelli della città storica dove risiedeva la maggior parte dei romani (212.000 circa) per lo più di ceto popolare o proletario. Ma questa struttura ospedaliera, secondo la Regione Lazio, non era abbastanza attrezzata e perché allora – si sono domandati i comitati cittadini per la difesa del San Giacomo e ancor più la discendente del cardinal Salviati, Maria Olivia Salviati –, la Regione ha sentito il bisogno di istituire un punto di Pronto soccorso sussidiario in via Canova, cioè nei dintorni? Perché prima di decretare la chiusura totale del San Giacomo ha acquistato macchinari costosi e reclutato altro personale, a quale ingannevole scopo se già progettava la chiusura totale dell’antica struttura? Forse per dimostrare ancor più il basso rapporto costi-benefici e quindi la sua effettiva utilità in quella stagione di taglio o fusione degli ospedali troppo piccoli e lontani da un equilibrio finanziario. Giusto obiettivo all’epoca che certe Regioni hanno perseguito con piani di trasformazione attenti e altre assai meno.

Certo, l’allusione nel contro-esposto della Regione Lazio (siamo nel 2008) a un accrescimento dei valori di mercato dell’immobile in forza della sua dismissione, quale ospedale, profuma intensamente di speculazione edilizia, cioè della trasformazione dell’ospedale (in ogni caso negata dal testamento del cardinal Salviati, cinque secoli fa) in un altro residence di lusso. Come è avvenuto, ed è stato deprecato da papa Francesco tempo fa, a proposito del convento borrominiano trasformato in hotel di gran pregio dalle suore in via Garibaldi. Inoltre le Regioni dovevano – chiarisce il Consiglio di Stato – rilevare il potere dato loro dalla legge nazionale tenendo conto delle “molteplici esigenze, quali il diritto degli assistiti alla fruizione di prestazioni sanitarie adeguate, l’efficienza delle strutture pubbliche, l’interesse pubblico al contenimento della spesa”. Fra l’altro, la Regione Lazio si è data la zappa sui piedi istituendo nei pressi un punto di Pronto soccorso. Perché negare ai residenti le cure nefrologiche ospedaliere che richiedono i tempi lunghi e penosi delle dialisi? Perché costringerli a lunghe e faticose trasferte o al pagamento di tariffe elevate nelle numerose cliniche private? La ricorrente Salviati adombra più di una volta – rileva il Consiglio di Stato – che la Regione sia stata disposta a modificare la destinazione catastale “in vista di una lucrosa vendita”. Riappare più volte il fantasma di un edificio “valorizzato economicamente” dopo il trasferimento delle sue attività in altre strutture. Il centro storico romano, certo, si è notevolmente spopolato, ma privarlo della sola struttura ospedaliera pubblica significa solo incentivarne la desertificazione. In realtà – prima della diffusione del Coronavirus – le notti romane erano da quelle parti molto animate e affollate, al punto che il San Giacomo registrava il più alto numero di feriti ricoverati a seguito di incidenti automobilistici piuttosto gravi. Poi ci sono le ragioni del piccolo artigianato e rimangono nella città antica le esigenze sanitarie dei dipendenti ministeriali e per i turisti (per i quali si prevede una certa ripresa, specie dagli Usa). “Ciò dimostra – conclude la sentenza – che l’asserita riorganizzazione della rete ospedaliera non poteva ignorare le esigenze assistenziali del territorio e che la chiusura del San Giacomo, comunque, generava un vuoto di assistenza”. Chiaro. Ma ora quanto ci vorrà per rimettere a regime un ospedale neppure grande e però essenziale per l’immagine stessa di una Capitale con troppi “vuoti di assistenza pubblica” e con troppa speculazione privata?

 

Risparmiateci questa retorica su Draghi, il covid e gli azzurri

Passi per l’imbarazzante duo comico Caressa-Bergomi su Sky, che ripete per la milionesima volta la parola sofferenza ed evoca sanguinose immagini gladiatorie quando Bonucci & Chiellini durante l’inno urlano “siam pronti alla morte” e fanno un sì prolungatissimo dopo “Italia chiamò”, i due telecronisti sono un antico caso patologico e va bene così. Il guaio è che adesso ci tocca sopravvivere alla bolgia patriottica o nazionalista nei tre giorni che ci separano dalla finale di Wembley di questo Europeo 2020 che però si svolge nel 2021 a causa della pandemia. Già il Covid. E sono subito metafore, analogie, paragoni arditi tra la ripartenza e la Nazionale, tra Draghi e Mancini, tra il Recovery e il quattro-tre-tre che ha infilato sei vittorie contro squadre tutte rigorosamente di colore rosso: Turchia, Svizzera, Galles, Austria, Belgio e Spagna. Ieri, per esempio, sulla Stampa Gabriele Romagnoli ha tentato di spiegare (in una pagina intera) che non si possono associare i destini della Nazionale a quelli nazionali, ma non ce l’ha fatta a trattenersi e ha cominciato scrivendo che l’Italia conquista la finale degli Europei nonostante “le tentazioni sovraniste e le recriminazioni anti-comunitarie”.

Ecco quindi avanzare il primo dilemma politico: questa Nazionale è sovranista o europeista? Guardando Bonucci, appunto, o anche ascoltandolo subito dopo la partita, “siamo italiani e abbiamo un cuore grande nei momenti difficili”, viene in mente il solito camerata La Russa che ricorda per l’ennesima volta che in Italia solo la destra (postfascista) è orgogliosa del tricolore. Francamente: si può andare avanti così? Ché il calcio deve uscire dalla sua dimensione di gioco e diventare riscatto sociale e politico di un popolo e di una nazione? Non bastano la gioia dei tifosi e i caroselli delle auto? Questa scontata e periodica epifania del football italico come palingenesi dell’intera società è un male atavico. Di recente abbiamo avuto allenatori paragonati al Che, laddove il calcio è condannato a riempire il vuoto della politica.

Epperò volendo seguire paradossalmente questo filo allora sì che vogliamo fare due esempi a caso. Il primo: Mancini e Draghi. Il cittì della Nazionale viene elogiato per la sapienza e l’abilità con cui ha saputo costruire un gruppo definito “vero e unito”. Del resto bastava vedere, sul prato londinese di Wembley, il commovente raduno del gruppo attorno a Insigne con la maglia del povero Spinazzola. Si può dire la stessa cosa di un premier che snobba i suoi ministri e non li mette al corrente di dossier e provvedimenti? Le due squadre, chiamiamole così, sono uguali? E ancora: si può paragonare il perfetto penalty di Jorginho contro la Spagna, con Unai Simón spiazzato e immobile, alle giravolte continue del generale Figliuolo in questa infinita campagna di vaccinazione? Le sue spallate sono davvero come i quattro rigori messi a segno dall’Italia martedì notte? Oppure il generale Figliuolo sembra il povero Immobile incapace persino di fare un banale controllo? Ecco perché i giochini del calcio come metafora sono fuorvianti oltre che stucchevoli e ridondanti. Un conto è il calcio, altro la politica, l’economia e la società stessa. Certo, editoriali e commenti e analisi sulla vittoria come ripartenza post-Covid non mancheranno, ma non riusciranno mai a sciogliere il nodo di questa ipocrisia. La vittoria è gioia non specchio. Soprattutto in Italia. Non dimentichiamo che l’epico trionfo della Nazionale di Bearzot ai Mondiali dell’Ottantadue avvenne in un Paese marcio e corrotto, quello del sistema andreottian-gelliano e di tante altre cose.

Lasciamo quindi, se possibile, il calcio in pace e godiamoci il momento, da qui a domenica e speriamo anche dopo. E se proprio vogliamo cercare un’alternativa a Bonucci allora c’è il più sobrio e riflessivo Verratti, che al termine di Italia-Galles ha detto: “Rappresentiamo milioni di persone e siamo tutti uguali, non ci sono egoisti tra di noi”. Decisamente meglio.

 

La destra molla Milano e punta tutto su Roma

Mettetevi nei panni di un elettore di destra milanese. Vi piacciano o non vi piacciano, per un trentennio i suoi riferimenti si chiamavano Berlusconi, Bossi, Formigoni. Che a loro volta, trattandosi di designare candidati forti per l’amministrazione cittadina, usavano indicare esponenti di primo piano del mondo imprenditoriale: Albertini (Federmeccanica), Moratti (cognome acquisito ma di richiamo), Parisi (Confindustria). Ebbene, in questi giorni al suddetto elettore milanese di destra è stato notificato che per la guida di Palazzo Marino il prescelto sarà un pediatra digiuno di qualsivoglia esperienza politica o amministrativa, Luca Bernardo. Forse Gabriele Albertini si presterà ad affiancarlo come garante, in seconda fila. Mentre il nome di grido della coalizione sarà quello del giornalista Vittorio Feltri, che esordisce a 78 anni in politica. Urca, diciamocelo. Con tutto il rispetto dovuto alle nuove leve della cosiddetta società civile, attraverso tali candidature Salvini e Meloni trasmettono all’elettorato ambrosiano un messaggio inequivocabile, e cioè la loro rinuncia a competere per il governo della capitale del Nord. Basti citare come Giorgia Meloni ha ironicamente motivato il suo appoggio a Bernardo: “Sono una mamma, apprezzo molto i pediatri”. Tutto qui. Senza neppure tentar di comunicare il profilo alternativo che la destra immaginerebbe per Milano dopo Pisapia e al posto di Sala. Nulla, in proposito, è pervenuto al di là di un generico brontolio dalle file dell’opposizione, dal tempo dell’Expo fino alla strage della pandemia e al brutale impoverimento sociale da essa accelerato. La storia ci ricorda che le offensive vincenti della destra in Italia hanno sempre avuto per avamposto Milano. Lo stesso Mussolini scelse di radunare qui i suoi adepti, profittando della benevolenza di una borghesia liberale convinta di potersene poi sbarazzare facilmente, una volta ultimato il suo sporco lavoro necessario a debellare l’“eversione rossa”. Oggi le cose sembrano andare diversamente, anche rispetto al ventennio berlusconiano. La destra milanese potrà certo godere dell’appoggio del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ex di Assalombarda. Ma non si tratta certo di una figura di rilievo in città. Tramontata l’epoca dell’immobiliarista Ligresti, protetto dalla Mediobanca di Cuccia e a sua volta molto legato alla famiglia di Ignazio La Russa, riesce difficile credere che la coppia Bernardo-Feltri riesca a esercitare un richiamo sull’establishment milanese. Che peraltro non ha avuto motivo di sentirsi minacciato dal sindaco in carica Beppe Sala. Le università, dalla Bocconi al Politecnico alla Bicocca, sono compattamente draghiane. La sanità privata non trova più nei ciellini una sponda robusta. Mediaset è asserragliata a Cologno Monzese in cerca di una transizione. Intesa Sanpaolo e Unicredit possono strizzare un occhio a Giorgetti, ma si tengono alla larga dalle grida populiste. La Regione Lombardia ha vertici traballanti per gli scandali. A Salvini dispiacerà ammetterlo, ma in tutta evidenza la classe dirigente di destra si contraddistingue nel 2021 per uno spiccato accento romanesco, con propaggini meridionali e venete. Non penso solo all’astro nascente Meloni. Lo stesso uomo-simbolo Feltri, lesto a salire sul carro della vincitrice, nonostante l’accento orobico tende a sbroccare piuttosto in un gergo triviale che di milanese ha assai poco. Si accettano scommesse su quanto resisterà nell’aula consiliare di Palazzo Marino. Per ora motiva la sua adesione a Fratelli d’Italia sostenendo che è capeggiata da una “fuoriclasse”. Può darsi, in effetti, che non si tratti di una meteora. Di lei ricordiamo per ora l’appoggio convinto che volle ribadire a Donald Trump anche dopo l’assalto al Parlamento statunitense del 6 gennaio scorso, propugnato dal presidente sconfitto a dispetto dell’esito del voto. La “fuoriclasse” lamentò anzi che si facessero due pesi e due misure tra quegli squadristi e i manifestanti di Black lives matter. Se è Feltri a impersonare, da capolista, ciò che essa ha in animo per il futuro di Milano e dell’Italia, tendiamo a credere che quel vuoto pneumatico sia al momento riempito solo da un personale politico arcaico, del genere che i meneghini definiscono benevolmente ganassa, o bauscia. La faccenda sarebbe solo divertente se l’indubbio fiuto di un Feltri, ben più della candidatura trasparente di un Bernardo, non preconizzassero che davvero l’Italia sta andando a destra. Forse con lo stesso spirito esasperato e goliardico che la indusse a scommettere sull’inesperienza dei grillini. Solo che questa destra un’ideologia ce l’ha eccome, e se anche farà poca presa nella multietnica metropoli milanese, altrove è ben radicata. I sedicenti patrioti che oggi è in grado di mettere in campo non promettono niente di buono.

Rumsfeld, l’11 settembre, Bush e le tante bugie sull’Iraq e la democrazia

Ancora su Rumsfeld e i casini che, come capo del Pentagono, combinò con la guerra in Iraq, basata su bugie che sfruttavano cinicamente il dolore del mondo dopo l’11 settembre, contro una nazione che non era una minaccia immediata per gli Usa, causando la morte inutile di 4520 soldati americani (più 180 inglesi e 33 italiani), e di centinaia di migliaia di civili iracheni. Rumsfeld, fra le altre cazzate criminali, proibì agli strateghi militari di elaborare un piano per il dopoguerra in Iraq, minacciando di licenziare chi avesse parlato di una eventuale Fase 4 (sicurezza, stabilità, ricostruzione): sarebbero serviti troppi soldati e l’opinione pubblica americana non avrebbe visto con favore l’impegno in una guerra lunga. Lo raccontò al Daily Press il generale di brigata Mark Scheid, all’epoca colonnello al Comando centrale per le operazioni militari Usa in Medio Oriente. Dick Halliburton Cheney confessò di aver esagerato le prove a sostegno della guerra: a un certo punto, le bugie fabbricate da lui e dall’Iraq Group di Karl Rove, amplificate dai media complici, in primis quelli di Murdoch, convinse il 70% degli americani che Saddam fosse coinvolto nell’attentato dell’11 settembre. Si scoprì come stavano le cose solo quando la stampa inglese cominciò a interrogare il governo Uk sulle bugie belliche di Blair. Ricordo lo scherno con cui gli Usa davano degli imbelli a chi non si univa alla Coalizione. “Ehi, Francia! Non dovete unirvi a noi solo perché vi abbiamo liberato da Hitler!”. In campagna elettorale, Bush ci riprovò. Disse: “Siamo in Iraq per combattere il terrorismo, che dopo l’11 settembre è una minaccia”. Un giornalista finalmente gli chiese cosa c’entrasse Saddam con al Qaeda. “Niente”, rispose Bush, come se il tonto fosse l’altro. E il disco rotto diventò: “Non ce ne andremo dall’Iraq finché non saranno completate le libere elezioni”. Dove i curdi votarono i curdi, gli sciiti gli sciiti, e un terzo dell’Iraq, i sunniti, non votò. Così vinsero gli sciiti, e un loro leader, Al Sistani, annunciò che la Costituzione del nuovo Stato sarebbe stata basata sul Corano. Che prevede, fra l’altro, la lapidazione delle donne adultere. Della serie “Esportare la democrazia”. Il generale Wesley Clark, nel suo libro Winning Modern Wars, citò la confidenza di un ufficiale del Pentagono ricevuta due mesi prima dell’11 settembre: non solo stavano già pensando di attaccare l’Iraq, ma quella guerra era la prima parte di un piano che avrebbe coinvolto in sequenza la Siria, il Libano, la Libia, l’Iran, la Somalia e il Sudan. Piano ambizioso, per un presidente (Bush) che un’altro po’ si strozzava ingoiando un salatino. Replicando all’ex Segretario al Tesoro, Paul O’Neill, il quale aveva documentato come l’Amministrazione Bush avesse pianificato di liberarsi di Saddam molto prima dell’11 settembre, il capo della Cia disse: “Paul O’Neill? Volete dire il Paul O’Neill che abita al 1235 di Maple Avenue? Tre figlie, un figlio? Guida una Buick? In genere a casa entro le sette di sera? Porta a spasso il cane alle 8 di mattina precise tutti i giorni? Solo per sapere se è di lui che stiamo parlando”. Rumsfeld entrò nel merito: “Sostenere che Bush si sia insediato col desiderio di invadere l’Iraq è equivocare del tutto la situazione. La politica del nostro governo era il cambio di regime”. Quindi ha aggiunto: “E se il cambio di regime ha poi comportato una guerra sanguinaria, be’, quello è stato culo”. Intanto la situazione in Iraq stava precipitando. Nell’ennesimo, brutto incidente, truppe americane aprirono il fuoco contro una festa di matrimonio. Restò uccisa una persona, ma non fu una perdita totale perché una cognata zitella ne prese al volo la testa.

(3. Continua)

 

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Renzi e Berlusconi: due volti, stessa medaglia

Non è strano che qualcuno si sorprenda che Renzi abbia rinnegato l’accordo alla legge Zan? Ma dove vivono costoro? Sono un cattolico catechista e sulla legge Zan dico che lo Stato deve fare lo Stato laico. Il Vaticano ha posto l’accento, anche se forse in modo inopportuno, sul fatto che nessuna legge è una scatola chiusa, ma vive nella realtà grazie all’interpretazione del pensiero dominante! Un conto sono gli alti confronti ideali, un altro i mezzucci di Renzi, che imita, fin dalla culla politica, Berlusconi: sono della medesima pasta. Basti pensare alle varie affinità elettive come la figlia di Mubarak per l’uno e Bin Salman astro del rinascimento arabo, per l’altro. Chi vuole scommettere che Renzi confluirà entro breve con Berlusconi per ricavare uno spazio di centro moderato (8% di consensi) tra Salvini/Meloni da una parte e Conte/Letta/Leu dall’altra?

Roberto Giagnorio

 

Grazie per le vostre preziosissime inchieste

Vorrei comunicare a Marco che, dopo aver schivato tutti i suoi libri perché sapevo che mi avrebbero causato l’orticaria, ho ceduto alla tentazione di leggere l’ultimo I segreti del Conticidio. Non lo avessi mai fatto! So benissimo che non è dignitoso nascondere la testa nella sabbia quando capitano certe malefatte, ma al povero cittadino cosa rimane da fare? Ribellarsi? Certo. Gridare a squarciagola? Anche. Indignarsi a più non posso? Certamente. E dopo tutti questi bei risultati? Niente, non cambia un bel niente, per i motivi che ci sono nel libro. Non so quante volte l’ho chiuso incazzato come una belva! Ma poi, da coglione, vado di soppiatto a riprenderlo. E la scena si ripete. Non so se arriverò alla fine. Sapendo che non sarà lieto, sarà meglio che mi astenga dal proseguirne la lettura. Ti stimo e ti apprezzo Marco, ma non puoi infierire sul già rincoglionito cittadino inerme! Fossi in politica ti vedrei benissimo a fianco di Conte. Tu e tutto il tuo staff. Basta, non dico più nulla. Grazie Marco e, ti prego, continua così, senza fare sconti a nessuno.

Antonio

 

M5S allo sbando in cerca di regole e delfini

Il M5S per come è stato fondato, per gli statuti che si sono dati e per ciò che Grillo, Casaleggio e altri hanno fatto, non poteva che, nel tempo, autodistruggersi. Era scritto nelle cose! Non si può avere un partito senza alcuna regola di funzionamento interno. Anarchia, caos e posizioni visionarie, non possono che distruggere. Ma perché Grillo e Casaleggio padre si sono infilati in questa strada?

All’inizio con questo atteggiamento, hanno sollecitato le masse, ma subito dopo si sono accorti che quella strada non era più percorribile e sono iniziate le defezioni. In questo clima Grillo era tutto: il padre, il visionario, l’autocrate… e nessuno poteva opporsi. Nelle elezioni del 2018 la popolazione non aveva l’esatta percezione di ciò che accadeva nel movimento e, con una reputazione ancora alta, il M5S ha preso una barca di voti. Oggi è l’epilogo! Il tentativo disperato in queste ore di riconciliare Conte e Grillo è una dimostrazione di quanto asserito: con Grillo autocrate e senza regole sono allo sbando e quindi, con qualche compromesso, cercano disperatamente di avere uno statuto con qualche regola contiana autoimmune da Grillo.

Eugenio Girelli Bruni

 

Grillo contro Conte ha “perso” la sfida

I renziani danno ragione a Grillo sul fatto che Conte non abbia visione politica, né capacità manageriali. Boschi ha affermato: “sfiduciare Conte per Draghi è stata una scelta coraggiosa di Italia Viva. Abbiamo salvato il Paese”. Il sarcasmo renziano non è che un triste tentativo di nascondere l’invidia verso l’ex premier. Non è ancora ufficialmente sceso in campo, che già i sondaggi lo danno oltre il 15%, svuotando Pd e M5S. Era il sogno di Renzi: diventare il Macron italiota facendo il pieno di voti dagli elettori pidini delusi. Invece il povero Bomba si deve accontentare di una infelice metamorfosi: da Macron a micron. Mentre Conte saprà realizzare un progetto per i delusi della politica, facendo prevalere l’interesse generale e il bene comune sull’interesse particolare dei comitati d’affari e sugli appetiti della casta. Sbattendogli la porta in faccia, Grillo gli ha fatto un favore: ora potrà presentare il suo progetto alla nazione, senza passare dalle forche caudine altrui. Ecco perché il suo annuncio di discesa in campo sta già seminando il panico tra mafiosi, ladri, corrotti, servi, ruffiani e leccapiedi. L’opinione pubblica inizia a percepire il progetto di Conte come un’irrinunciabile linea del Piave, in grado di sbarrare la strada alle orde barbariche della malapolitica e del malaffare.

Maurizio Burattini

 

La strana idea di libertà tra censure e ladruncoli

La nostra cara destra vuole la libertà… di poter insultare e picchiare detenuti, gay, donne, neri; di corrompere e rubare, ma senza la galera. La libertà di ricevere soldi dall’Europa senza dover seguire le regole europee, di non pagare le tasse ma di usufruire dei servizi. Ma sopratutto, la libertà di poter eleggere un presidente delinquente. Ma sì, dai… viva la libertà della destra, sono così simpatici… l’innominabile, il cazzaro, il verde, il caimano…

Claudio Trevisan

Lavoro “Un diritto costituzionale snobbato da tutti i governi dal ’48”

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”: i “giuristi” si sono affrettati a dire che si tratterebbe di un diritto “potenziale” e che l’articolo 4 della Costituzione sarebbe una norma “programmatica”, legittimando l’inerzia governativa e parlamentare. Ma il diritto al lavoro non corrisponde solo al diritto alla retribuzione o all’indennità di disoccupazione, né alla Cassa integrazione straordinaria: il lavoro fa parte della dignità della persona ed è, per gli italiani, un diritto costituzionale che non può essere sostituito con provvidenze economiche, tantomeno con iniziative caritatevoli. Che cosa hanno fatto i governi della Repubblica per “promuovere le condizioni che rendono effettivo il diritto al lavoro” in questi 73 anni, dall’entrata in vigore della Carta? Forti del carattere “potenziale” del diritto e della natura “programmatica” dell’articolo 4, affermato dai “giuristi”, hanno delegato l’attuazione di questo diritto costituzionale ai datori di lavoro privati per cui quel “diritto” è garantito solo dalle leggi di mercato. Io ritengo che un diritto costituzionale debba essere garantito dallo Stato, non dai datori di lavoro privati o dalle leggi di mercato. Se parte della manodopera, che è una ricchezza, non viene utilizzata dai datori di lavoro privati, lo Stato deve provvedere a impiegare questa ricchezza in opere e servizi: ce n’è bisogno! Io ritengo che debba essere utilizzata tutta la forza lavoro di cui il Paese dispone: è una ricchezza, un investimento, non un problema. Qualcuno potrebbe dire che in questo modo si violano le leggi di mercato. Ma non facendo così si viola la Costituzione e si offende la dignità dei nostri concittadini. Mi si dirà che in tutto il mondo occidentale vigono le leggi di mercato, ma ritengo che le leggi di mercato siano in contrasto con la libertà dei cittadini e con i loro diritti democratici. Mi rendo conto che quanto sto dicendo può sembrare ai più strano, essendo sovrastati dalla cultura dominante del privato e del mercato, ma pensiamoci bene. E ci pensino bene quelli che dovrebbero dare attuazione ai principi costituzionali. Molti hanno detto che con la pandemia nulla sarebbe rimasto come prima e in molti hanno riscoperto la solidarietà: non facciamoci sfuggire questa occasione, non permettiamo che il governo Draghi ripristini la scadente situazione economica e sociale preesistente, anziché realizzare riforme importanti, orientate a difendere gli interessi e i diritti dei cittadini anziché dei potentati economici.