Finale a effetto. Delta I’aumentano casi e ricoveri

Al ministero della Salute non è piaciuto vedere in tv, martedì sera, sulla rete ammiraglia del servizio pubblico, “un giornalista Rai, neppure giovanissimo, in mezzo a una baraonda di ragazzi che festeggiavano la vittoria sulla Spagna in una piazza romana. Tutti senza mascherina”.

Gli Europei di calcio come occasione di contagio preoccupano, in Italia come in Gran Bretagna. Nel nostro Paese i casi rilevati aumentano. Ieri sono stati 1.010, per la prima volta dal 19 giugno di nuovo sopra i mille. Non è dato di un giorno. Secondo il fisico Giorgio Sestili, dopo 15 settimane di discesa si registra un +7% in sette giorni, con aumenti in 8 Regioni. E in 28 province l’aumento è superiore al 50%, osserva il matematico Giovanni Sebastiani. In parte, però, secondo gli esperti, l’aumento dei tamponi positivi dipende dal tracciamento dei contatti, ora più efficace rispetto ai mesi scorsi.

In Uk record di contagi e 44% di ricoveri in più

Nel Regno Unito, con la variante Delta, non crescono solo le infezioni lievi: ieri il nuovo record di casi, 32.548, più 42.8% rispetto a sette giorni prima, ma anche più decessi (161 in una settimana: +42,8%) e più ricoveri (fino al 3 luglio 2.460 in sette giorni: +44.7%). Numeri contenuti, certo, tanto più in un Paese in cui il 64,6% della popolazione è vaccinato con due dosi e il 90%, secondo l’Office for National Statistics (Ons), ha gli anticorpi, naturali o indotti. Ma, oltremanica, si aspettano fino a 100 mila contagi al giorno.

Alla finale di Wembley mille in arrivo dall’Italia

Domenica, alla finale che attende la Nazionale italiana allo stadio di Wembley a Londra, potranno entrare 60 mila tifosi: il 75% della capienza massima, cioè tre volte i 20 mila ammessi alle prime partite. Visto l’obbligo di quarantena all’ingresso nel Regno Unito, la Federcalcio ha concordato ieri con l’Uefa un “corridoio protetto” per mille tifosi: partiranno con appositi charter, raggiungeranno direttamente lo stadio dall’aeroporto e poi faranno il percorso inverso. Previo tampone molecolare. Il “pacchetto” costerà circa 700 euro.

La scelta di giocare semifinali e finali nella capitale britannica, dove dilaga la variante Delta, è stata criticata tra gli altri dal premier Mario Draghi, dalla cancelliera Angela Merkel e perfino dalla Commissione europea, ma l’Uefa e il mondo del pallone si sono rivelati più forti. “Penso che siamo in grado di gestire il rischio, ma non possiamo dire che i rischi non esistano quando si hanno migliaia di persone in un luogo”, ha detto ieri Kwasi Kwarteng, ministro britannico delle Attività produttive, rispondendo sulla fine delle restrizioni nel Regno Unito annunciata dal premier Boris Johnson per il 19 luglio. “C’è sempre un margine di rischio nella vita”, ha proseguito serafico Kwarteng. “Sono fiducioso che non vi sarà un grande focolaio, ma ora non possiamo garantirlo”. Piccoli focolai, intanto, sono stati rilevati tra i tifosi scozzesi in trasferta a Londra, ma anche a Copenaghen e altrove sugli spalti di Euro 2020.

il piano per le piazze: più controlli e stadi aperti

In Italia gli assembramenti davanti ai maxi-schermi, ma anche nei locali pubblici, saranno inevitabili. E se andrà bene ci saranno festeggiamenti fino a notte inoltrata, come e più di martedì sera. Al Viminale studiano possibili contromisure, l’impegno della forza pubblica sarà aumentato, saranno chiuse alcune piazze e alcuni luoghi simbolo: toccherà ai prefetti. A Roma oggi si decide se aprire lo Stadio Olimpico con un altro maxi-schermo, come suggerito dalla sindaca Virginia Raggi dopo una consultazione con il prefetto Matteo Piantedosi e il questore Mario Della Cioppa, che non hanno avanzato obiezioni perché il Foro Italico è una fan zone più gestibile di piazza del Popolo. Lo schermo coprirà almeno una delle curve e quindi la capienza (da noi sempre il 25%) diminuirà rispetto alle 18 mila persone che hanno potuto assistere alle prime partite dell’Italia e a Inghilterra-Ucraina.

Vaccini: i ritardi su over 50 e 60

Ieri l’Oms ha reso noto che la variante Delta è stata rilevata in 104 Paesi: erano 62 il 1° giugno, 80 il 15. “È un errore pensare che il tasso di infezione non aumenterà grazie ai vaccini”, ha detto il responsabile delle emergenze sanitarie dell’Oms, Michael Ryan. Ma certo i vaccini aiutano: in Italia oltre il 40% dei vaccinabili ha avuto due dosi, 21,7 milioni di persone. Alcune fasce restano, però, scoperte: “Il problema non è la variante Delta, ma tutti gli over 60 non ancora vaccinati: circa 2,3 milioni”, twittava ieri Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. E ora anche al generale Figliuolo è toccato ammettere che “siamo un po’ indietro: dobbiamo spingere sui 50enni”.

In Campania, lo abbiamo raccontato, al 27 giugno non si era prenotato quasi il 29% della popolazione vaccinabile. “Siamo fermi”, dicono dalla Regione, “per il 95% facciamo seconde dosi”. E poi c’è il nodo delle mancate consegne. Non molto diversa la situazione in Lombardia, dove il 27 giugno il 25% degli aventi diritto non aveva ancora prenotato la prima dose. Ieri la percentuale era scesa di un punto al 24%, ma le operazioni procedono a rilento: “Siamo ancora lì, ogni giorno vacciniamo solo 10-15 mila persone in più”. Anche qui mancano le fasce intermedie: ha avuto la prima dose il 96% degli 80-89enni, l’83% dei 60-69enni e il 77% dei 50-59 anni. “C’è stato un taglio su Pfizer che non consente di allargare la platea. Ora stiamo cercando spingere sulla fascia over 60, come chiesto da Figliuolo con Open day e camper inviati sui territori meno sensibili”. Stesso trend in Piemonte: se il 27 giugno un milione di persone, oltre il 20%, non aveva ancora prenotato la prima dose, ieri secondo la Regione erano “poco meno”. E manca all’appello il 20% degli over 60 e il 26% degli over 50. Nel Lazio, l’assessore Alessio D’Amato prevede che “un 25% di persone non abbia intenzione di vaccinarsi”. Ma, da martedì, “abbiamo aperto alla fascia 12-16 anni e abbiamo ricevuto già 10mila prenotazioni”.

Recovery, rischio di sprechi al Sud: se ne occupi l’Ue

Il Mezzogiorno è in una tragica crisi di rappresentanza politica, economica culturale. Forse mai nella storia repubblicana si sono sommate debolezze cosi strutturali in questa parte del Paese. L’ultima grande banca meridionale sono ormai 15 anni che ha visto trasferire i suoi centri decisionali al Nord. Le grandi industrie di Stato sono più di trent’anni che sono state oggetto di privatizzazioni, ma in nessun settore merceologico questo ha significato un avanzamento per il Sud. Dalla telefonia alla siderurgia passando per le autostrade. Fa parziale eccezione il sistema aereo-portuale. Rarissimi sono i casi di gruppi industriali meridionali che siano riusciti a crescere in maniera significativa sui mercati nazionali e internazionali.

Le ragioni di tutto ciò sono molteplici. Il sistema educativo e formativo continua a essere in fortissimo ritardo. Sia in termini di servizi che di competenze. Il numero di abbandoni scolastici è drammatico, l’assenza di asili nido impressionante, così come i numeri assoluti di diplomati e laureati. I test Invalsi certificano da tempo il ritardo del Mezzogiorno in particolare nelle materie scientifiche. Persiste un’opprimente presenza della criminalità organizzata. Per la prima volta dalla fondazione della Repubblica una sola forza politica, il M5S, ha catalizzato ed egemonizzato in tutto il Mezzogiorno il voto popolare non mostrando alcuna particolare capacità di corrispondere a questa fiducia al netto di una sacrosanta misura come il Reddito di cittadinanza. Il Partito democratico è letteralmente sparito dal Sud.

Nel centrodestra l’avanzata di Fratelli d’Italia sta cambiando radicalmente i rapporti di forza in questo campo con tutto ciò che ne consegue.

Non credo sia un quadro eccessivamente pessimistico o poco oggettivo. È in questo contesto che sta prendendo forma il più importante piano di sviluppo dal Dopoguerra, è in questo contesto che in autunno si andrà al voto nella principale metropoli meridionale e in una importante regione del Sud. Mentre su Napoli si profila una candidatura di alto profilo per il fronte progressista, in Calabria si è prodotta una situazione semplicemente vergognosa. Sottovalutare oltre la necessità di dare voce al Sud può portare a sviluppi imprevedibili e drammatici. La pandemia ha colpito in maniera durissima il tessuto socio-economico del Sud, molto più che in altre parti d’Italia. L’Europa può e deve fare di più per il Sud dell’Italia. Per questo ho promosso un’iniziativa, trasversale a tutte le forze politiche presenti nei gruppi parlamentari europei, per aprire coi ministri di riferimento, del Mezzogiorno e del Tesoro, e direttamente con il presidente del Consiglio Draghi un serrato confronto di merito sul Recovery Plan. Proporrò nel gruppo socialista e, attraverso di esso, agli altri gruppi, che si vada a una seduta monotematica del Parlamento sulla specifica problematica del Sud d’Italia.

Bisogna fare la storia delle responsabilità, degli sprechi, che hanno impedito a un’area strategica per l’Europa di decollare. Ma bisogna soprattutto guardare avanti alla assoluta necessità di non sprecare anche questa straordinaria occasione del Recovery. Se fosse necessario insediando a Napoli un ufficio europeo di coordinamento e controllo della spesa nel Mezzogiorno di fondi europei.

 

Calabria, il tiro disperato Pd: pressing su Mauro, ex Juve

La ricerca di una candidatura dei giallorossi per la presidenza della Regione Calabria assomiglia ogni giorno di più a una tragicommedia. Con posta in palio incerta: la sconfitta viene data dai big locali quasi per certa e la vera partita per i più sembra quella di trovare un posto in Consiglio, sia pure all’opposizione.

In principio, c’era Nicola Irto, giovane promettente, spinto per ben due volte al ritiro, per il niet del Movimento. Poi c’è stata la ricerca spasmodica di una donna. Trovata e bruciata in due settimane scarse: l’imprenditrice Maria Ventura si è ritirata dopo che per giorni si sono rincorse voci riguardo a un’interdittiva antimafia che avrebbe colpito un’azienda del gruppo industriale riconducibile alla sua famiglia. Ora il Pd si muove su più fronti. Torna a sondare Irto, cerca un politico, medita su soluzioni “fantasiose”.

È lo stesso Irto a raccontare ad amici vicini e lontani che Enrico Letta e Francesco Boccia sono tornati a chiedergli di ripensare al suo ritiro e di tornare in campo. “Per fare che? E a quali condizioni?”, sarebbe stata la replica piccata dell’ex candidato, per motivare il proprio no. D’altra parte, come fidarsi?

Nel frattempo, Luigi Di Maio propone per la corsa Laura Ferrari, europarlamentare M5S. Anche lei dice di no, perché ha partorito due mesi fa. Però promette aiuto in campagna elettorale e questo ai dem sembra già tanto.

La situazione si ingarbuglia ogni giorno un po’ di più. Tanto che il casting si allarga. In questi giorni viene dunque contattato Massimo Mauro, calabrese, ex giocatore della Juve, poi anche commentatore per Sky ed ex deputato del Pd. Anche lui è piuttosto perplesso, tanto che chiede in giro opinioni e consigli. Così, una notizia che doveva essere riservatissima, si diffonde. Tra i motivi della sua indecisione, anche la sua Onlus, la Fondazione Vialli, impegnata soprattutto nella lotta contro la sclerosi laterale amiotrofica, che forse dovrebbe lasciare. Proprio ieri sera era prevista una cena per cercare di capire se ci sono dei margini per convincerlo ad accettare un’eventuale offerta. Che comunque, non c’è ancora stata ufficialmente, almeno a livello nazionale: per ora, si tratta di “sondaggi”, di tentativi in avanscoperta per testare eventuali disponibilità.

Al Nazareno in realtà stanno ancora cercando faticosamente di portare avanti un confronto sul merito, che possa sfociare in una soluzione politica, sul modello di Gaetano Manfredi a Napoli. Ma il quadro si è ulteriormente complicato da quando i destini del Movimento si sono fatti ancora più incerti, con le incognite sulla leadership di Giuseppe Conte e le ombre di una scissione. Senza contare che la vittoria del candidato di Forza Italia, Roberto Occhiuto, viene data per certa.

Le variabili, però, non finiscono qui. In primis, la candidatura dello storico Enzo Ciconte, che non è decollata, non è però neanche del tutto tramontata. Mentre Luigi de Magistris fa proseliti nella coalizione giallorosa e costruisce una rete parallela a quella ufficiale dei giallorossi.

I destini della Calabria si intrecciano con quelli della Campania. Da quando Irto si è ritirato, si rincorrono le voci di uno scambio: il Pd sarebbe stato pronto ad appoggiare l’attuale sindaco di Napoli nella partita calabra, in cambio di una mano per far eleggere Manfredi. Ora anche questo scenario si sarebbe dissolto: i rumors delle ultime ore raccontano che uno scambio ci sarebbe, ma non tra Manfredi e de Magistris, quanto tra quest’ultimo e Antonio Bassolino, in corsa anche lui per Napoli. Un nome che fa sempre più paura anche nel circuito dei più stretti collaboratori di Manfredi. Il quale, peraltro, da molti nel Pd è considerato più vicino a Giuseppe Conte che al partito di cui fa ufficialmente parte. Sarebbe pronta al ritiro per appoggiare Bassolino, dunque, Alessandra Clemente, la candidata di de Magistris. Nulla in questo rompicapo piuttosto sconfortante per i destini del centrosinistra al Sud è però scolpito nella pietra. La situazione è fluida, le sorprese sono dietro l’angolo.

Fisco, solo i sindacati bocciano la riforma

Per cominciare, i redditi sottoposti a regimi forfetari vari e i canoni d’affitto devono essere riportati nella progressività. Addio quindi a flat tax e cedolari secche. Punto di arrivo, un’Irpef valida per tutti che comprenda anche i redditi da capitale, come era all’origine. Poi una svolta vera nella lotta all’evasione fiscale, propedeutica a ogni ridisegno dell’architettura del sistema. E soprattutto giù le mani dall’Irap, il grande polmone di finanziamento del Sistema sanitario nazionale. Cgil, Cisl e Uil, in controtendenza con il quasi totale consenso mostrato dai partiti di maggioranza (solo Leu si è astenuto), bocciano l’impianto del documento conclusivo sulla riforma dell’Irpef delle Commissioni Finanze della Camera e del Senato. Sotto accusa sono i binari paralleli sui quali viaggiano ancora, a diverse velocità, le tasse sui dipendenti, i pensionati, gli autonomi e le rendite finanziarie. Una logica confermata e, anzi, rafforzata dalla proposta parlamentare di riforma. Ancora ieri, in una serie di colloqui con diversi esponenti parlamentari, la segretaria confederale della Cgil, Gianna Fracassi, è tornata a chiedere un’inversione di tendenza alla fuga dalla progressività dell’Irpef, che finora ha portato sconti di imposta e trattamenti speciali solo per società di capitali, autonomi e redditieri e una riduzione significativa dell’imposizione su chi le tasse le paga senza scampo.

“Da anni consegniamo a tutti i governi memorie e documenti – spiega al Fatto Fracassi – abbiamo fatto decine di audizioni, eppure alla lettura del testo consegnato dalle Commissioni siamo rimasti colpiti dalla distanza dalle nostre posizioni, quando tutti sanno che il gettito dell’Irpef viene al 90% pagato da dipendenti e pensionati”. Il documento parlamentare enuncia il problema ma, lontano dal risolverlo, lo aggrava. Secondo gli stessi dati riportati nella relazione, l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro è pari al 42,7%, la terza più alta nell’area euro. L’aliquota implicita di tassazione sul capitale è in Italia al 29,2%, contro la media europea del 23%. Gli autonomi pagano generalmente meno del 15%.

Nella relazione parlamentare, annotano i sindacati, si propone la riduzione dell’imposta proporzionale su tutti i redditi da capitale e le rendite finanziarie, per farla coincidere con la prima aliquota, progressiva, sui redditi da lavoro. L’imposizione passerebbe dal 29,2 al 23%. Per quanto riguarda l’Irpef si chiede un ammorbidimento dell’aliquota media effettiva nella fascia di reddito 28-55 mila euro, che porterebbe a una riduzione dell’imposizione anche per lo scaglione successivo da 55 mila e oltre. La flat tax del 15% sui lavoratori autonomi fino a un fatturato di 65 mila euro (praticamente tutti quelli che dichiarano un reddito) decurtato dei costi, viene messa “a regime”.

Secondo alcune stime, i tagli abbastanza indiscriminati alle imposte vagheggiati dai parlamentari costerebbero al bilancio dello Stato 40 miliardi di euro, da reperire per Luigi Marattin, presidente della Commissione Finanze della Camera e estensore del documento, con l’abolizione di spese fiscali (compreso il bonus Renzi) e maggior deficit. Il ministro dell’Economia, Daniele Franco, vista l’aria, ha già mandato a dire che una riforma si farà, ma non a carico dei saldi di finanza pubblica.

Altro capolavoro “green”: tagliati i fondi per i parchi

È un capolavoro su più fronti: politico, istituzionale e pure comunicativo. La sintesi invece è una: dal ministero per la Transizione ecologica di Roberto Cingolani sono spariti 350 milioni di euro (170 circa sia per il 2020 che per il 2021) ai parchi nazionali alla tutela della biodiversità e dell’ambiente per coprire l’aumento delle bollette che, ovviamente, derivano anche dallo sfruttamento delle fonti fossili.

Il capolavoro istituzionale si consuma dentro i ministeri. Il decreto correttivo del dl Sostegni del 30 giugno, pubblicato in Gazzetta ufficiale il primo luglio, prevede all’articolo 3 la mitigazione dei maxi-aumenti delle bollette elettriche attingendo ai proventi delle aste delle quote di emissione di CO2, fondi che arrivano sia dal ministero dello Sviluppo economico che da quello per la Transizione ecologica. In sostanza, per sterilizzare in parte il rincaro delle tariffe fino a settembre (dal 20% iniziale al 15,3% per il metano e al 9,9% per l’elettricità) vengono utilizzati i fondi delle aste 2020 e 2021 destinati ai parchi e in generale alle aree protette. Il dettaglio si evince nei capitoli indicati dalla relazione tecnica: si tratta dei soldi destinati 1) alla copertura delle spese per interventi per la riduzione della CO2 nelle aree naturali protette e a tutela del paesaggio; 2) ai programmi di intervento per l’adattamento ai cambiamenti climatici a favore dei comuni dei siti Unesco di interesse naturalistico e parchi nazionali; 3) al fondo per incentivare le misure di interventi di promozione dello sviluppo sostenibile 4) ai contributi a favore di progetti di cooperazione internazionale, 5) alle spese per interventi nazionali di riduzione delle emissioni climalteranti. In totale, 177 milioni già programmati ai tempi del ministro Sergio Costa (di cui 93 per i parchi) e altri 180 dai proventi delle aste nel 2021, non ancora assegnati al Mite e ancora nella disponibilità del Tesoro, che saranno a questo punto redistribuiti. Insomma: ben più degli 80 milioni denunciati ieri da Federparchi.

La conferma arriva oltretutto da una comunicazione inviata dalla direzione generale per il patrimonio naturalistico ai parchi nazionali. “Si comunica che le risorse destinate al programma Parchi per il clima – si legge – sono state stornate dai capitoli di questa Direzione Generale. Con l’occasione si partecipa altresì che in data 8 e 9 luglio si sarebbero dovute tenere le sessioni formative, finalizzate all’illustrazione della piattaforma Parchi per il clima 2022. Pertanto le sessioni formative non si terranno”.

Si tratta di norme scritte e ormai pubblicate. Come dire, il danno è fatto. Per questo è stato alquanto strano che ieri mattina Cingolani abbia sostenuto, e con una certa convinzione, che “non c’è un euro del Mite che doveva andare ai parchi che sarà spostato sulla compensazione delle bollette”. A quel punto le ipotesi erano due: o il ministro ha mentito oppure nel suo ministero è successo qualcosa di cui non era al corrente ma che in qualche modo deve avere autorizzato. La conferma arriva nel pomeriggio: “Il Mite ha dato la disponibilità dei fondi provenienti dalle aste Ets non ancora impegnati. È evidente che nella scrittura delle norme di copertura non si è tenuto conto che i fondi del relativo bando Parchi per il clima non erano utilizzabili. Si è trattato di un errore formale per il quale verrà posto rimedio”. A quanto pare, l’accordo con il Mef durante il pre-consiglio per il correttivo prevedeva che potessero essere utilizzati solo i soldi Mite non impegnati. Sarebbe poi stato il Mef in fase di scrittura del decreto (poco furbo lasciarlo redigere allo stesso dicastero a cui era stato arduo strappare, per il ministro Costa, i fondi per i Parchi) a considerare come non impegnati anche gli 80 milioni dei Parchi, non ancora assegnati ai progetti. Ora, si corre ai ripari: Cingolani prevede un emendamento al Sostegni Bis in discussione in questi giorni per restituire quanto tolto: parte dei fondi arriveranno dal Mef, altri saranno presi dall’avanzo del bonus mobilità. All’appello, però, mancheranno sempre almeno 200 milioni.

La Lega: “Ora alleanza con Iv”

Di conferme ce n’erano già tante. Ma mai, fino a oggi, un esponente autorevole di uno dei due partiti – Lega e Italia Viva – aveva profetizzato esplicitamente la possibilità di un’alleanza tra Matteo Renzi e Matteo Salvini. Una corrispondenza di amorosi sensi che negli ultimi mesi si era materializzata più volte sulla Giustizia, sulle riaperture durante la pandemia, sulla caduta del governo Conte-2 e fortificatasi in questi giorni sul ddl Zan, con i renziani che hanno offerto alla Lega i propri 17 voti in Senato per chiedere modifiche della legge e, di fatto, affossarla. Una manovra politica per rompere ancora una volta il fronte dell’alleanza Pd-M5S e provare a spostare l’asse della maggioranza parlamentare verso il centrodestra.

Ieri ad ammettere che la collaborazione parlamentare tra Renzi e Salvini potrebbe diventare qualcosa di più in futuro è stato il capogruppo alla Camera della Lega, Riccardo Molinari, che ad Agorà non ha escluso un’alleanza più stabile: “Cosa nascerà con Italia Viva lo si vedrà – ha detto il presidente dei deputati leghisti –­ stiamo in un governo tutti insieme ed è evidente che Renzi durante il governo precedente rappresentava un po’ la voce critica, che spesso aveva delle posizioni più assimilabili a quelle del centrodestra che della maggioranza in cui era”. Poi Molinari, pur specificando che il futuro è ancora da decifrare e che un’alleanza strutturale è ancora di là da venire, ha spiegato i punti di contatto con i renziani: “Sul ddl Zan, come per esempio sulla Giustizia, è evidente che la Lega dialoga meglio con Italia Viva che col M5S”.

Il ddl Zan nei prossimi mesi però non sarà l’unico provvedimento su cui leghisti e renziani troveranno dei punti in comune. Oltre alla giustizia, su cui faranno fronte comune in chiave garantista contro il M5S sulla prescrizione, in autunno la strategia di Salvini è quella di andare all’attacco di un altro totem del Movimento: il Reddito di cittadinanza. I due Matteo condividono l’idea che sia uno strumento da “cambiare” perché si presta a “truffe” e perché è una misura “assistenzialista”. Anche sulla riforma del fisco, fondamentale per accedere ai fondi del Recovery, tra Lega e Iv le affinità sono tante. “Finché c’è questo governo – ha concluso Molinari – provvedimento per provvedimento si lavora con chi ha una posizione più affine alla propria”. A febbraio poi ci sarà la partita delle partite, quella dell’elezione del capo dello Stato. Il pallottoliere dice che ai 478 grandi elettori del centrodestra più i 45 parlamentari renziani si arriva a quota 523. Dal quarto scrutinio in poi (quello in cui è richiesta la maggioranza assoluta) quindi il centrodestra più i renziani potrebbero eleggere da soli il prossimo inquilino del Colle. In quel caso, l’alleanza tra i due Matteo diventerebbe un dato di fatto.

Ddl Zan: Queen Elizabeth è all’opera per affossarlo

Davanti agli occhi di tutti c’è la bagarre di martedì in Senato, gli accordi sottobanco tra i partiti e il Vietnam parlamentare che inizierà martedì a colpi di voti segreti che potrebbero dare il colpo di grazia al ddl Zan. Ma, come ogni giallo che si rispetti, dietro alla storia, e forse al delitto, della legge contro l’omofobia ci sono anche i mandanti e gli esecutori. Se i primi sono facilmente identificabili nelle gerarchie vaticane che si oppongono alla norma, tra gli esecutori materiali –­oltre alla destra di Matteo Salvini e Italia Viva di Matteo Renzi – se ne aggiunge un altro. Più nascosto e più potente: la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. La seconda carica dello Stato, fedelissima di Silvio Berlusconi ed eletta nel 2018 lanciata da Salvini, non si è mai esposta pubblicamente sulla legge Zan ma chi la conosce bene, dentro Forza Italia, racconta che Casellati sia “favorevole a una legge che tuteli maggiormente gli omosessuali” ma “non a questa”: una norma considerata troppo estremista sul tema dell’identità di genere e della libertà di espressione. Una posizione, quella di Casellati, allineata a quella del centrodestra che sta facendo ostruzionismo da mesi. Ma la presidente del Senato ha scelto di non tenere il giudizio politico per sé, ma di intervenire, in maniera felpata, sul ddl. Per dargli il colpo di grazia.

In primis, non è passata inosservato l’intervento che la seconda carica dello Stato ha fatto martedì pomeriggio in aula appena prima di votare sulla calendarizzazione del ddl Zan per il prossimo 13 luglio mentre il centrodestra chiedeva di rinviarla almeno al 22. Prima di indire la votazione Casellati ha preso la parola dismettendo la casacca dell’arbitro imparziale e indossando quella del centrodestra. Un discorso inusuale: “C’è una richiesta di tutti di arrivare a una definizione concorde su un tema così importante, nel senso di tentare una mediazione –­ha detto Casellati – la differenza consiste nello spostamento di una settimana. Invito tutti a una riflessione, perché non si dica che in questa assemblea su un tema così importante rinunciamo al dialogo per una settimana”. Un modo per chiedere di accogliere le richieste del centrodestra e ritardare l’approdo in aula della legge. Un tentativo che Casellati aveva già messo in atto ad aprile rallentando ulteriormente l’iter del ddl fermo in commissione Giustizia per l’ostruzionismo del presidente leghista Andrea Ostellari. Quest’ultimo le aveva avanzato una richiesta formale di accorpare 4 ddl sullo stesso tema per iniziare l’ostruzionismo: proposta accettata una settimana dopo dall’Ufficio di presidenza del Senato (quindi da Casellati) fornendo una sponda a Ostellari.

Per un mese si è andati avanti a colpi di ostruzionismo e Casellati non ha mai mosso foglia nonostante gli appelli di Pd e M5S. Fino a martedì quando non ha potuto nulla sulla calendarizzazione. Infine a Palazzo Madama si fanno sempre più fitte le voci sul fatto che ci sia lei dietro alla pubblicazione sul Corriere della nota della segreteria di Stato vaticana al governo italiano secondo cui il ddl Zan violerebbe il concordato Stato-Chiesa. Repubblica aveva rivelato che dietro alla “manina” che aveva fatto uscire la notizia ci sarebbe proprio Casellati. Su questo fronte va seguita la “pista padovana”: di Padova sono i due grandi protagonisti dell’ostruzionismo alla legge, Casellati e Ostellari, che qui ha il suo studio da avvocato. Non è un caso che lo scoop sia stato fatto dal padovano Giovanni Viafora del Corriere della Sera. A quanto risulta al Fatto, Casellati, che ha ottime relazioni in Vaticano, in questi mesi ha raccolto spesso le lamentele di ecclesiastici sul ddl Zan.

Bonafede ko: torna la prescrizione, reati decisi dalle Camere

La riforma della giustizia penale, frutto di quella che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ama definire la “sintesi politica”, dopo aver ascoltato questa maggioranza di separati in casa, in realtà, salvo colpi di scena di sera tarda, pende tutta dal lato centrodestra con annessi renziani e pezzi del Pd. Pensando alla proposta sulla prescrizione, sull’Appello libero per imputati e molto meno per i pm, al ruolo del Parlamento nell’indicare le priorità delle indagini, salta all’occhio che si tratta di una riforma che non ha nulla a che vedere con l’efficienza della giustizia e la sua velocizzazione che ci chiede l’Europa, ma rende euforico il partito trasversale degli impuniti eccellenti che può dormire sonni tranquilli. Certo, deve però, essere votata dal Parlamento dove le incognite, questo è vero, sono all’ordine del giorno. Resta, comunque, il fatto politico che il governo vuole mandare al macero, di fatto, la legge Bonafede, che dal gennaio 2020 blocca la prescrizione dopo il primo grado senza distinguo. Una norma che nella sostanza c’è in quasi tutta Europa.

La proposta Cartabia, invece, è questa: legge Bonafede-foglia di fico per il primo grado. Sgretolamento della Bonafede blocca-prescrizione dall’Appello in poi. Il processo di secondo grado, infatti, si deve celebrare in due anni e quello in Cassazione in un anno, se non vengono rispettati questi tempi scatta la cosiddetta “improcedibilità”: cioè il processo è defunto e gli imputati colpevoli la fanno franca facilmente se sono ricchi e possono pagare parcelle salate agli abili avvocati, che hanno tutto l’interesse a sforare i tempi per rende lettera morta i processi. Alla faccia dell’obiettivo sbandierato da Draghi e da Cartabia non solo di velocizzare i processi, ma anche di garantire giustizia alle vittime. E in barba a quanto dichiarato, per esempio, dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 8 settembre 2015, secondo la quale, prima della Bonafede, il nostro sistema di prescrizione era in contrasto con il diritto comunitario perché impediva l’applicazione di sanzioni “efficaci, proporzionate e dissuasive”, in quel caso in materia di Iva.

Per il M5S è evidente che è un’ipotesi politicamente altamente imbarazzante nei confronti dei suoi elettori dato che ha sempre professato l’intoccabilità della legge del suo ex ministro Alfonso Bonafede e che il massimo della mediazione era il cosiddetto lodo Conte (Federico Conte di Leu) approvato dal Cdm del governo Conte 2 e che prevedeva il doppio binario per condannati e assolti in primo grado. Ma quell’ipotesi è inaccettabile per centrodestra e renziani che dominano il governo, ed ecco spiegata la proposta della prescrizione-improcedibilità. Mentre scriviamo, il tentativo del M5S per non perdere del tutto la faccia è quello di far escludere i reati più gravi come la corruzione dalla nuova disciplina (quindi varrebbe sempre, in alcuni casi , la legge Bonafede, ma si rischierebbe l’incostituzionalità della norma) o almeno allungare i tempi processuali predeterminati di Appello e Cassazione rispettivamente a 3 anni e a un anno e mezzo. C’è poi un altro punto dolente della riforma Cartabia: le modalità delle impugnazione dell’Appello che dei 3 gradi di giudizio è quello dove si prescrivono più processi. Il M5S ha sempre sostenuto che va eliminato il divieto di reformatio in peius: oggi i giudici non possono aumentare la pena per gli imputati condannati che presentano ricorso. Sarebbe un vero deterrente per appelli pretestuosi, ma il resto della maggioranza non ci sta e quindi Appello libero per gli imputati, mentre per i pm sono previsti alcuni paletti, pare meno stringenti rispetto all’ipotesi iniziale.

E veniamo al cavallo di battaglia del presidente della commissione tecnica, Giorgio Lattanzi: le priorità delle indagini indicate annualmente dal Parlamento. Una ipotesi sulla quale, per evitare di scontrarsi frontalmente con i magistrati, Cartabia ha espresso riservatamente qualche perplessità e così, pare che il Parlamento dovrà votare delle linee guida “generali”, indicate dal Guardasigilli, ma dovrebbero essere i procuratori a modularle e a comunicarle al Csm. Per il resto, da segnalare il rinvio a giudizio solo se si prevede ragionevolmente una condanna e il giro di vite sui tempi di indagine dei pm.

Giustizia: la rivolta dei 5S contro il nuovo Salvaladri

L’ultimo fortino sta cedendo, e i Cinque Stelle rischiano di perderlo senza neppure sparare un colpo. Rischia di alzare le mani (anche) sulla Giustizia, il Movimento senza un capo e una rotta, e con un comitato dei sette che fa il misterioso per nascondere un segreto che non c’è, perché la verità è che se Giuseppe Conte e Beppe Grillo non troveranno un modo per riparlarsi, qualsiasi tavolo di mediazione sarà stato un mero prendere tempo. Nell’attesa, il presidente del Consiglio Mario Draghi prova ad approfittare del M5S paralizzato per approvare in un amen la riforma della Giustizia. Ossia anche la riforma del processo penale, e quindi la nuova prescrizione, che con la riforma dell’ex Guardasigilli del M5S Bonafede c’entra poco.

Perché è vero, lo stop al decorrere della prescrizione dopo la sentenza di primo grado resta. Ma in appello si avrebbero due anni per completare tutto e in Cassazione il termine sarebbe di un anno, pena l’azzeramento del procedimento. È la prescrizione secondo la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che già ieri voleva calare gli emendamenti alla riforma del processo penale in una cabina di regia, con l’obiettivo di approvare tutto oggi in Consiglio dei ministri. Ma la riunione con i capidelegazione dei partiti di governo salta. E dipende innanzitutto da loro, dai 5Stelle, che protestano e invocano tempo. Anche perché sono divisi, senza una linea univoca.

Lo confermano ieri mattina in una difficile riunione, in cui discutono su come arginare un governo di cui pure fanno parte, per giunta da partito (ancora) primo per eletti. E c’è anche chi propone di minacciare l’uscita dalla maggioranza, ricordando che il mantenimento della riforma della prescrizione era stata una delle condizioni per dire sì al governo Draghi, messa al voto sul web. Però, la sottosegretaria alla Giustizia, la dimaiana Anna Macina, lavora a delle controproposte. Ovvero, per la corruzione e un altro pugno di reati simbolici lo stop alla prescrizione dovrebbe restare, senza limiti. Mentre per altre fattispecie penali il tetto temporale immaginato da Cartabia dovrebbe salire. Ma le opinioni e i sentimenti sono molto diversi, dentro il Movimento. Così il capodelegazione, il ministro dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli, viene incaricato di chiedere a Draghi di rallentare, perché il Movimento è una polveriera. E infatti in giornata filtra che almeno un paio di ministri grillini sarebbero pronti ad astenersi nel Cdm di oggi. Nel frattempo Patuanelli chiama Draghi. Chiede il testo definitivo della riforma, e ricorda le difficoltà politiche. In un pomeriggio di afa equatoriale, in diversi spingono per un rinvio della riforma. Si apre un lungo conciliabolo, tanto che nel pre-Consiglio del tardo pomeriggio delle norme sulla giustizia non c’è traccia. Ma Draghi ha fretta. E Cartabia si sarebbe impuntata, “anche perché una trattativa con il M5S c’è da tempo”.

Vogliono la riforma ora, subito, il premier e la sua ministra. E oggi in Cdm il testo dovrebbe esserci. Come può uscirne vivo il M5S? Un veterano scuote la testa: “L’unica sarebbe dare battaglia in Parlamento, ma lì rischiamo di andare sotto nelle votazioni e di vedere cancellata tutta la riforma”. Intanto il comitato dei sette torna a riunirsi, in un clima di stallo. “Nei colloqui privati, Grillo continua a dire che di Conte non si fida” sostiene un 5Stelle di governo. E non sarebbe proprio un bel segnale. Mentre a Roma, per la manifestazione dei sindaci, appare Chiara Appendino. La sindaca di Torino incontra a colazione Patuanelli, poi vede Roberto Fico e Luigi Di Maio. E si parla ovviamente molto di M5S. Appendino annuncia che a Torino il Movimento sceglierà il proprio candidato tra i consiglieri Valentina Sganga e Andrea Russi, con una votazione sulla nuova piattaforma web. Ma sul resto bocche cucite, “perché la situazione è delicata”. E si vede.

Peggio del dl Biondi

La riforma Bonafede della prescrizione ha un pregio fondamentale: crea un automatismo che espropria gli avvocati e i magistrati del potere di allungare i processi per mandarli in fumo. Dal 1° gennaio 2020 tutti sanno che, dopo la prima sentenza, rien ne va plus: i colpevoli saranno condannati e gli innocenti assolti a prescindere dalla durata dei giudizi d’appello e di Cassazione. Sulla schedina della giustizia sparisce la X del pareggio: l’impunità ai criminali ricchi e la giustizia negata alle vittime. In nome di questo principio sacrosanto, che solo i delinquenti, i loro avvocati e le toghe colluse possono contestare, il M5S ha sacrificato i suoi governi Conte-1 e 2, che sarebbero ancora in piedi se avessero restituito ai soliti noti l’impunità perduta. Quindi non c’è un motivo al mondo per immolarlo ora sull’altare di un governo che non è più il suo e non perde occasione per umiliarlo. La controriforma Cartabia, presentata mentre l’Italia è distratta dagli Europei, è un Salvaladri molto più grave del decreto Biondi votato (e poi ritirato a furor di popolo) dal governo B. il 13 luglio ’94 mentre l’Italia era distratta dai Mondiali.

Il Salvaladri Biondi risparmiava ai delinquenti in guanti bianchi “solo” la custodia cautelare. Il Salvaladri Cartabia risparmia loro addirittura la condanna. Con una furbata che finge di mantenere la Bonafede sulla carta, ma nella sostanza la spazza via: la prescrizione resta bloccata dopo il primo grado, ma solo se il processo non dura in appello più di 2 anni e in Cassazione più di 1 anno. Così l’automatismo salta e il potere di allungare i processi fino alla prescrizione torna nelle mani di avvocati e magistrati collusi: se sanno che l’impunità per il cliente o l’amico scatta dopo 24 mesi e 1 giorno in appello e dopo 12 mesi e 1 giorno in Cassazione, quanto faranno durare il processo? Quanto basta per farlo prescrivere. Nulla – né i filtri alle impugnazioni né la reformatio in peius (la possibilità di aumentare le pene in secondo grado) – è previsto per ridurre il numero dei processi. Che, dunque, dureranno ancor di più. L’opposto di ciò che ci chiede da anni l’Europa tramite la Cedu, anzi ci chiedeva prima della Bonafede. Ed è paradossale che il sedicente governo più europeista della storia cancelli la riforma giudiziaria più europeista della storia. In ogni caso il M5S ottenne dagli iscritti il via libera a entrare nel governo Draghi anche con questo mandato: “La riforma della prescrizione ha come soddisfacente punto d’incontro politico l’accordo precedentemente raggiunto con il Pd e LeU, oltre il quale il MoVimento non è disposto ad andare”. Per andare oltre, dovrà riconsultare gli iscritti. E almeno loro non si faranno fregare una seconda volta.