“I cantanti intonano le note come dal loro conto in banca: l’arte oggi è solo sfruttamento”

Anticipiamo uno stralcio de “Le celebrità”, pièce del 1976

BASSO: Oggi si canta dalla catena di montaggio/ tutti cantano e recitano dalla catena di montaggio/ (prende in mano un osso di fagiano) un’unica gigantesca fabbricazione di massa/ pseudomusicale/ (guarda l’ora) La Gundi mi pianta in asso/… Tra Salisburgo e Bayreuth/ pian piano ma inevitabilmente tutto quanto/ va in rovina/ Alla Gundi lo dico sempre/ sii ragionevole/ recedere dal contratto/ tutto d’un tratto la voce è rovinata/ ma lei è incorreggibile

EDITORE: Una persona piena di charme

BASSO: Da cima a fondo/ una natura malata/ E tanto maggiore è il talento/ quanto piú totale è la sua distruzione/ (prende un secondo osso di fagiano e lo rosicchia) L’umanità/ mira al genio/ Ma guardi un po’ tutti questi talenti/ talenti estremamente dotati/ così estremamente dotati che non s’è mai visto l’eguale/ tutti in rovina/ che sono entrati sulla scena dieci anni fa/ Nessuna durata/ nessuna economia/ nessun ethos

TENORE: Disciplina oggi non si sa più cosa voglia dire

BASSO: Assolutamente

EDITORE: Non si sa più cosa voglia dire signor barone/ La parola disciplina oggi non si sa più cosa voglia dire

BASSO: … Oggi i giovani non sanno più nemmeno/ cosa sia la musica/ Fanno studi musicali e li concludono/ ma non sanno affatto/ cosa sia la musica/ Se cerca di mettere alle strette uno di quei giovani rampanti/ ne vedrà delle belle/ tutti quanti perfetti/ perfetti

REGISTA: Oggi tutto è perfetto

BASSO: Perfetti/ ma della musica non hanno la più pallida idea/… I cantanti cantano le loro note come dal loro conto in banca/ e gli strumentisti fanno lo stesso/ Ma la società potrebbe essere che/ a questo stato di cose/ a questa perversa accumulazione di capitale sul palco da/ concerto/ e in teatro/ potrebbe essere che la società vi metta fine prima o poi a/ questa storia/ Una fine signore e signori/ (finisce di bere e si fa nuovamente servire) una fine improvvisa/ Nel complesso l’arte oggi/ non è altro/ che un gigantesco sfruttamento della società/ e con l’arte ha così poco a che vedere/ come le note musicali con le banconote/ I grandi teatri d’opera come i grandi teatri/ oggi sono solo grandi istituti bancari/ in cui ogni giorno i cosiddetti artisti/ accumulano giganteschi capitali.

© All rights reserved to Suhrkamp Verlag, Berlin. Per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency/ © 2021 Giulio Einaudi editore

Cannes al tempo del Covid: “Gli sputi sopra sono per noi”

A Ciak, si sputa! Dopo un anno di forzato digiuno, il Festival di Cannes torna a sfamare la propria grandeur, ma l’acquolina prescinde dalla visione: la esige il tampone salivare, condizione necessaria sulla Croisette perché il non vaccinato possa farsi spettatore. Sicché tra musical d’apertura (Annette) e ultimi capitoli di storie dei film (il dotto Mark Cousins), gli sputi sopra sono per noi: à la guerre comme à la guerre, al festival come al Covid, e il distanziamento chi l’ha visto.

“Annette” –Ouverture affidata all’ex enfant prodige Leos Carax, che nove anni dopo il magnifico Holy Motors torna con un’opera rock senza confini né modestie: Adam Driver e Marion Cotillard sono la coppia giusta, gli Sparks la colonna sonora giustissima, e lo vedremo in Italia con i Wonder.

Bong Joon-ho –Ha vinto la Palma d’Oro nel 2019 con Parasite, ha inaugurato ieri sera Cannes 74: il regista coreano oggi sarà protagonista dei “Rendez-vous with…” al pari di Jodie Foster, Palma onoraria, e a incontrare il pubblico saranno poi Matt Damon, Steve McQueen, Isabelle Huppert (una volta tanto qui senza film) e Marco Bellocchio, che il 16 luglio presenterà il documentario Marx può aspettare e l’indomani ritirerà la Palma alla carriera. Tutte talking heads di gusto e sostanza, per carità, eppure la scelta del cineasta sudcoreano sa di dispetto, se non affronto, alla Mostra di Venezia, di cui presiederà la giuria. Nessun stupore: sono finiti, e non da ora, i giorni dell’amicizia tra Croisette e Lido.

E gli Oscar? – Quest’anno ha trionfato il veneziano Nomadland, nel 2020 toccò a Parasite (miglior film, regia, film internazionale e sceneggiatura): la sfida festivaliera si gioca pure a statuette, e chi la spunterà nel 2022? Gli annali sono impietosi per i cugini: prima di Parasite, solo un’altra Palma d’Oro ha vinto l’Oscar al miglior film, Marty nel 1955. Per dirla col bicchiere, più Barbera (Alberto, direttore della Mostra) che champagne. Ma mai dire mai: lo slittamento causa pandemia da maggio a luglio potrebbe aiutare Cannes, tra gli oscarizzabili Annette, The French Dispatch di Wes Anderson, Paris, 13th District di Jacques Audiard o Benedetta di Paul Verhoeven.

Sputi – Magari alla fine sarà un festival al bacio, di certo è allo sputo: gli accreditati europei non completamente vaccinati, ovvero tutti gli extra Ue, devono sottoporsi a tampone salivare ogni 48 ore. Molti non hanno gradito, a partire da Variety che bolla la pratica “disgustosa”, riporta la salivazione azzerata di tale Olivia Wilson, giunta dal Tennessee per lavorare all’American Pavilion, lamenta degli sputi fuori bersaglio e altre amenità. Uno sputo non ci seppellirà, anzi, ma possiamo confermare: il test salivare è da grande scherno più che schermo.

Spike Lee – Il nome ha a che fare col Covid, ma abbinato al cognome individua uno dei cineasti più influenti dei nostri tempi, a detta del Guardian il “godfather of black movie making”: Spike Lee, già indicato per il 2020, guida quest’anno la giuria, primo nero a farlo. Il suo volto campeggia sul manifesto ufficiale. Il regista ricorda Fa’ la cosa giusta, e lo aggiorna al Black Lives Matter: “L’ho scritto nel 1988. Quando vedi il fratello Eric Garner, quando vedi George Floyd assassinati, linciati. Torno a pensare a Radio Raheem (personaggio del film, ndr). E speri che trenta fottuti anni dopo i neri smettano di essere braccati come animali”.

Nanni Moretti – Toccherà a Mr. Lee, nel caso, portare la Palma a casa Moretti: Tre piani, dal primo soggetto non originale di Nanni, passa domenica 11 luglio. Data prevista per la finale degli Europei, e dunque per rinverdire Ecce bombo: “Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”.

Sale sole – Le mani, e quindi l’incasso, Moretti le ha messe avanti: premiato o meno sulla Croisette, Tre piani da noi uscirà il 23 settembre. Anche perché oggi nelle sale non entrano gli spettatori: lunedì 5 luglio per fare di Per Lucio, il doc di Pietro Marcello su Dalla, il film più visto sono bastate 3.870 presenze.

@fpontiggia1

Tragedie da ridere: Bernhard. Dagli artisti storpi ai nazisti

Durante una delle ultime partite della Nazionale di calcio – quella contro l’Austria –, una tifosa italiana al bar ha sbottato contro gli avversari: “Nazisti!”. Al che il vicino di tavolo ha ribattuto: “Ma signora, non siamo mica in guerra!”. Se la donna è un’imprudente, l’uomo è un ignorante, o quantomeno non ha mai letto Thomas Bernhard (1931-1989). A giustificazione dell’Ignorante e il folle, è bene ricordare che Piazza degli eroi (1988) – la più feroce pièce dell’austriaco contro il proprio Paese visceralmente, squisitamente nazista anche decenni dopo l’Anschluss – è fuori catalogo da tempo: la prima edizione di Garzanti è del 1995 e l’unica rappresentazione teatrale italiana risale a quest’anno, diretta da Roberto Andò, interpretata da Renato Carpentieri e prodotta dallo Stabile di Napoli.

Bene ha fatto quindi Einaudi – acquisendo la preziosa eredità della Ubulibri – a ripubblicare ora quel gioiellino di Piazza degli eroi in Teatro VI, ultima antologia di testi di prosa bernhardiani con molti inediti in Italia, a partire dalla prima commedia – Le celebrità –, una satira contro il divismo e l’aridità del mondo dell’opera lirica, con beffe non troppo velate a Herbert von Karajan, il quale ne impedì nel 1976 la messa in scena al Festival di Salisburgo, festival che pure aveva commissionato l’opera (di cui qui accanto pubblichiamo in anteprima uno stralcio, ndr).

Dal tradimento di questi Antichi Maestri della musica si scivola perigliosamente nella demolizione degli intellettuali in Su tutte le vette è pace, ovvero una catastrofe: i demòni in Bernhard ricorrono e si rincorrono ossessivamente, dai romanzi alla prosa teatrale, dalle acerbe liriche giovanili alle rare interviste rilasciate. Il genio che uccide sé e gli altri (qui “Tanto maggiore è il talento/ quanto più totale è la sua distruzione”); i Soccombenti dell’arte (qui “I più grandi artisti storpi”); I mangia a poco della vita; “i politici becchini”; “brandelli di disperazione”; “tutto e il contrario di tutto”; la morte, perlopiù per suicidio; la malattia, perlopiù mortale; la famiglia, perlopiù malata; la follia, perlopiù familiare; il pensiero, perlopiù folle; la patria, perlopiù nazista.

Lo si evince anche dal tremendo – per contenuto – Match, un inedito Dramoletto al pari di Un morto e Funzione di maggio (mentre sono noti quelli dedicati al regista Claus Peymann, portati in scena da uno straordinario Carlo Cecchi anni fa). Protagonista è una coppia piccolo borghese: lui poliziotto, lei casalinga, stufa di dovergli rammendare i vestiti ogniqualvolta lui torna da un servizio d’ordine o uno scontro di piazza. “Vi siete di nuovo picchiati/ con quei ragazzi/ con gli studenti/ Gentaglia/ Invece di lavorare/ spaccano tutto/ Tutto spaccano/ perché non sanno che cosa fare/ Perché si annoiano…/ Ci vorrebbe un uomo forte/ Quando c’era Hitler/ queste cose non succedevano”.

Non è difficile capire perché Bernhard odii tanto l’Austria – autoritaria, folle, mortifera – e l’Austria odii tanto Bernhard: la prima messinscena di Piazza degli eroi a Vienna, nel novembre del 1988, suscita scandalo e attacchi, richieste di censura da parte della stampa, barricate del pubblico in strada e carichi di letame depositati fuori dal Burgtheater. Pochi mesi dopo, nel febbraio del 1989, l’autore muore, lanciando strali contro il proprio Paese, un coacervo di nazionalsocialisti, cattolici e antisemiti anche mezzo secolo dopo l’Annessione, annunciata dal führer proprio in quella Heldenplatz in cui un professore ebreo sopravvissuto alla Shoah si suicida. È il 1988, ma nulla è cambiato, anzi: “A Vienna ci sono adesso più nazisti/ che nel trentotto/ Mi meraviglia soltanto che tutto il popolo austriaco/ non si sia suicidato da un pezzo/ ma gli austriaci nell’insieme in quanto massa/ oggi sono un popolo brutale e stupido”.

Tuttavia con Bernhard bisogna anche imparare a ridere della (e nella) tragedia; ecco perché il suo teatro è sempre in bilico tra dramma e commedia, estinzione e sopravvivenza, pur ridicola: “Se fossimo onesti/ non potremmo far altro/ che suicidarci/ Ma poiché non ci suicidiamo/ perché non vogliamo suicidarci/ non oggi almeno/ non ora/ e poiché fino a oggi e almeno per ora non ci siamo suicidati/ ritentiamo sempre con il teatro/ scriviamo per il teatro/ rappresentiamo teatro/ anche se è la cosa più assurda/ e bugiarda”.

Raffa, il Tuca Tuca alla faccia dei perbenisti (pure di oggi)

Raffaella Carrà è stata l’ombelico della nostra televisione negli anni in cui la televisione è stata l’ombelico del costume italiano, e questa è una delle tante ragioni per cui la sua partenza – non la definiremmo una scomparsa – ci lascia orfani. La prima ragione sta nella dittatura del politicamente corretto con cui da qualche anno a questa parte ci tocca fare i conti, un perbenismo di ritorno spacciato per magnifiche sorti e progressive di cui dal primo apparire in video la Carrà è stata l’antitesi naturale e incondizionata. Era ancora nell’aria il brivido vichingo delle gambe delle gemelle Kessler, pur costrette a indossare calzamaglie da mille denari, quando debutta in Canzonissima 1971 questo sex-symbol casereccio, la ragazza della porta accanto che balla e canta con l’ombelico scoperto a metà strada tra il casco biondo di Vergottini e la zampa d’elefante del pantalone nero. Dal Dadaumpa al Tuca-Tuca; scatta di nuovo la censura della Rai democristiana, e ci vorrà una mandrakata democristiana per averne ragione. Un sabato sera arriva Alberto Sordi, impone le mani su Raffaella e il Tuca-Tuca diventa il primo di una serie di inni al libero amore senza repressioni né ideologie, più Casadei che Marcuse. Oggi sarebbe un problema far passare il Tuca-Tuca senza incappare nella sollevazione dei crociati dei social, per non parlare delle molestie verbali (e non solo) rivendicate da Roberto Benigni durante la sua incursione a Fantastico giusto trent’anni fa. Cose che nel clima odierno di censura invisibile è difficile fare; ma è soprattutto impossibile immaginare.

Bene, Raffaella Carrà le ha fatte e suggerite per mezzo secolo rimanendo semplicemente se stessa, ed è incredibile come ci sia riuscita mutando, incrociando ogni volta la sua icona intramontabile con le stagioni del racconto televisivo. In origine ci fu la rivalità con Loretta Goggi, rivalità completamente inventata però funzionale all’immagine di entrambe: le prime sex symbol fatte in casa del piccolo schermo, ma al tempo stesso due artiste complete, capaci di diventare primedonne in un tempo in cui il maschilismo era un dovere.

Poi, a partire dagli anni Ottanta, Raffaella rende definitiva la sua metamorfosi da soubrette a showgirl multiforme, trasversale, genuina (un’altra ragione per sentirsi orfani). Fuggita momentaneamente dal varietà del sabato sera, riappare in video a mezzogiorno vestita di bianco tra i divani bianchi, sarà la prima a rispondere in diretta alle telefonate in diretta del pubblico a casa per sottoporlo a una profonda domanda esistenziale: “Quanti fagioli ci sono nel barattolo?”. E siccome dalla tv dei fagioli alla tv delle lacrime il passo è meno breve di quel che si pensa, alla fine degli anni Novanta, Raffaella torna in prima serata con il proto reality Carramba, che sorpresa!, da lì altri fuochi nazional-popolari fino alla nuova metamorfosi nelle vesti di intervistatrice in A raccontare comincia tu. Ancora il divano bianco, il casco biondo, il viso da Paperina, la risatona liberatoria, ma stavolta per riannodare i fili della memoria, l’ultimo cambio d’abito e l’ultima fedeltà all’icona.

Raffaella Carrà è stata l’ombelico di tre generazioni oggi orfane, e quell’ombelico ha una data di nascita precisa. Nel 1974 Mina, regina indiscussa della tv, la vuole accanto a sé in Milleluci, l’ultimo varietà in bianco e nero del mago del bianco e nero Antonello Falqui. È la fine di un’epoca, ma non lo sa ancora nessuno. Mina in tv non ci tornerà più, quando ci torna Raffaella la tv è diventata a colori, e l’Italia pure. Il passaggio dello scettro è avvenuto e sarebbe durato per un pezzo, anche se è comprensibile che nello showbiz di oggi Raffaella non si sentisse più a casa sua.

“Se per caso cadesse il mondo io mi sposto un po’ più in là / Sono un cuore vagabondo che di regole non ne ha…”. Detto, fatto.

Il doppio agente Klaus: politologo e spia per la Cina

Un politologo tedesco. Un think tank di Monaco che ha forti legami con esponenti di un partito di maggioranza e nello stesso tempo ha frequenti contatti con la Cina. Spie del Dragone e 007 di Berlino. Ci sono tutti gli ingredienti per una storia ideata da John Le Carrè. Ma se nei romanzi dello scrittore britannico – vero nome David John Moore Cornwell, scomparso nel 2020 – a spingere le spie dell’una e dell’altra parte c’era spesso la motivazione ideologica, in questa vicenda si parla di soldi, e un pizzico di vanità. Il politologo è Klaus L., 75 anni, in pensione: i magistrati federali lo accusano di aver lavorato per la Cina; la Corte ieri ha deciso di non metterlo in carcere, sarà il Tribunale Superiore di Monaco a vagliare le accuse. Il professor Klaus avrebbe svolto la sua attività di agente dal 2010 al 2019; ha lavorato per la Fondazione Hanns Seidel di Monaco, per poi fondare l’Istituto per gli studi transnazionali. La Fondazione, che ha una sede a Shanghai – e lì sarebbe avvenuto il reclutamento mentre l’esperto insegnava alla Tongji University – è molto vicina alla Csu, l’alleato bavarese della Cdu di Angela Merkel, con cui condivide le responsabilità di governo. Particolare interessante: Klaus è quello che si definisce un “doppio agente”, perché per quasi 50 anni ha lavorato per la Bnd, l’intelligence tedesca. Il docente era di casa nella sede degli 007 di Pullach, dove aveva ottimi contatti. Lo stesso Istituto per gli studi transnazionali fondato da Klaus sarebbe stato, per alcuni, una copertura per le attività della Bnd. Quando il professore fu avvicinato dai cinesi, lui riferì a Berlino. Gli 007 tedeschi gli risposero di stare al gioco. Ma qualcosa non è andato secondo i piani perché Klaus L. era appena tornato dall’Italia e stava andando all’aeroporto di Monaco per volare a Macao con sua moglie quando gli 007 tedeschi si sono presentati alla sua porta sequestrando computer e chiavi Usb. Klaus, un doppio agente di 75 anni, che non voleva andare in pensione.

Cittadinanza ai palestinesi: Bibi fa il dispetto a Bennett

“Netanyahu e il Likud hanno danneggiato la sicurezza di Israele per dispetto”. Questo sostiene il premier Naftali Bennett dopo aver ricevuto la prima batosta della sua carriera da primo ministro sulla legge che intendeva riconfermare, riguardante la cittadinanza e i ricongiungimenti familiari dentro i confini da parte di palestinesi provenienti dalla Striscia di Gaza e dal West Bank. Quale sia il clima alla Knesset, il parlamento israeliano, lo testimonia lo scambio di battute tra i protagonisti della lite politica.

La ministra dell’Interno Ayelet Shaked, del partito Yamina di Bennett, ha affermato che la mossa dell’opposizione per bloccare il rinnovo della legge porterà a migliaia di richieste di cittadinanza in più, e ha accusato Netanyahu e i suoi alleati di aver scelto “una politica meschina per lasciare che il Paese bruci”. Netanyahu, estromesso dalla nuova coalizione dopo 12 anni da primo ministro, ha detto senza mezzi termini: “Con tutto il rispetto per questa legge, l’importanza di rovesciare il governo è maggiore”. Poi, in una nota emanata dal Likud, l’accusa al primo ministro: “Sta parlando di danneggiare la sicurezza nazionale? Qualcuno che ha formato una debole coalizione che fa affidamento sui voti dell’estrema sinistra e dei partiti post-sionisti non dovrebbe fingere di preoccuparsi della sicurezza di Israele”. Di certo, la destra e gli estremisti religiosi vivono un bel paradosso: Likud e ‘Sionismo religioso’ sostengono la legge in linea di principio ma hanno votato contro l’estensione, assieme ai partiti ultraortodossi e alla Lista comune, per mettere in imbarazzo il governo. Il voto si è concluso 59 pari; in tal modo non è stata rinnovata la norma sulla cittadinanza e l’ingresso in Israele emanata come misura temporanea nel 2003, al culmine della seconda Intifada. La normativa è stata rinnovata ogni anno ma questa volta il Likud di Netanyahu e i suoi alleati hanno deciso di mettere in imbarazzo Bennett e danneggiare la sua coalizione: otto partiti inclusa la lista araba. Bennett aveva raggiunto un compromesso con Ra’am e la sinistra di Meretz e Labour per estendere la legge di sei mesi invece che un anno e istituire un comitato per trovare soluzioni a 9.700 palestinesi residenti con permessi di soggiorno rilasciati dai militari.

“Chi vota a favore esprime fiducia nel governo. Chiunque voti contro non esprime la stessa fiducia”, aveva dichiarato il presidente della Knesset, Mickey Levy, a nome di Bennett. La questione non è solo politica: circa 130.000 palestinesi sono entrati in Israele attraverso il ricongiungimento familiare tra il 1993 e il 2003. Lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno, teme che possa aumentare il pericolo di attentati e lupi solitari con il maggior numero di ingressi da parte di Gaza e Cisgiordania. Ieri, intanto, è stato l’ultimo giorno del presidente Rivlin. Oggi alla Knesset passerà le consegne al suo successore, Isaac Herzog.

Cose turche: Erdogan, reggia da 60 milioni. E paga il contribuente

Ancora una volta il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, nato in una piccola casa di uno dei quartieri più poveri di Istanbul, non si è fatto alcuno scrupolo nel sottrarre altri 60 milioni di euro alle casse dello stato per farsi costruire una residenza estiva alla propria altezza. Certo, sia la nuova faraonica sede della presidenza inaugurata ad Ankara nel 2015, costata la cifra monstre di 500 milioni di euro, sia questa mega villa extralusso per le vacanze estive rimarranno nella disponibilità dei suoi successori. Resta il fatto che la decisione presa dal Sultano di dotare l’istituzione che incarna di un riparo al mare così sfarzoso e costoso è uno schiaffo più che sonoro ai milioni di turchi disoccupati o pagati con salari da fame. Mentre sullo sfondo del buen retiro estivo di Marmaris, in una insenatura di sabbia bianca della costa egea meridionale, c’è una selva rigogliosa, su quello delle abitazioni della maggior parte della popolazione turca c’è una foresta di palazzoni dormitorio o catapecchie rurali. Del resto l’inflazione a due cifre non accenna a placarsi e il crollo della moneta locale negli ultimi due anni ha reso il costo della vita, affitti compresi, inaffrontabile per la moltitudine. Ma Erdogan continua a comportarsi come se la Turchia fosse ancora una delle “tigri” asiatiche dei primi anni Duemila.

A mostrare per la prima volta il “palazzo d’estate” con 300 stanze, tre eliporti, una enorme piscina e arredi pregiati, è stato Sefik Birkiye, già architetto del “palazzo bianco” in stile neo ottomano della capitale dove una delle 1.150 stanze è ovale essendo ispirata allo studio del presidente degli Stati Uniti. A proposito di Casa bianca, quella estiva in salsa turca è il resort dove si trovava Erdogan quando iniziò il fallito golpe del 2015 di cui il presidente incolpò, seppur indirettamente, la Cia. Portato via dall’enorme stanza con vetrata sul mare cristallino dalla scorta, che lo protesse dai colpi di arma da fuoco dei golpisti, Erdogan ha sempre impedito che venissero divulgate le immagini di questa gigantesca villa. Grazie a uno dei pochi giornali di opposizione sopravvissuti, il laico Sozcu, ora tutti possono vederla. Mostrare urbi et orbi il “palazzo bianco d’inverno”, per Erdogan era un modo di impressionare lo straniero, nel caso del “palazzo d’estate” nasconderlo invece è un modo per non sentirsi accusare dall’opposizione e, soprattutto, dalla gente di indifferenza nei confronti dei problemi economici dei più. Dalle scorse amministrative del 2019 Erdogan sta infatti perdendo consensi, così come il suo omologo russo Vladimir Putin che ha sempre negato di essere il proprietario della immensa magione sul Mar Nero mostrata in un video dal Alexei Navalnj. Il resort voluto da Erdogan è stato completato nel 2019 e si estende su circa 90 mila metri quadrati. Le immagini stanno suscitando forti critiche nell’opinione pubblica e tra gli ambientalisti anche per la massiccia deforestazione dell’area dovuta all’ampliamento dell’edificio, sorto sul sito che ospitava già la sobria residenza estiva dell’ex presidente Turgut Ozal. Ma il presidente turco è noto per non avere a cuore l’ambiente, a partire dalla decisione di distruggere un piccolo parco nel cuore di Istanbul, Gezi, che, nel 2013, provocò la reazione di 4 milioni di turchi scesi nelle piazze e repressi brutalmente dalla polizia. Inoltre, per realizzare la immensa residenza di Ankara, Erdogan fece abbattere 50 mila alberi di foresta protetta, nota come “foresta di Ataturk.” Va ricordato che il complesso di Marmaris è già stato usato per rinsaldare preziose alleanze geopolitiche.

Tra le sue stanze dorate, Erdogan ha ospitato il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, con cui solo una ventina di giorni fa ha firmato nuovi accordi strategici di cooperazione economica e militare, e il premier albanese Edi Rama, leader politico cruciale per la ripenetrazione di Ankara nei Balcani. Non è chiaro il motivo per cui l’architetto Birkiye, autore anche della nuova moschea di piazza Taksim, abbia deciso di svelare il mistero e condividere le immagini del progetto sul proprio sito web. Nelle immediate vicinanze del Palazzo centrale, dove si trovano 5 edifici di diverse dimensioni, sono stati realizzati alloggi per il personale da tre blocchi, mentre l’area di 10.966 metri quadrati davanti al mare è stata riempita con sabbia e ghiaia speciali e trasformata in spiaggia. Anche se il sipario della segretezza sull’Okluk State Guest House nel quartiere Marmaris di Mula è stato infine sollevato, mostrando quanto il Sultano se ne infischi altamente dei suoi “sudditi”, nulla succederá perché ormai Erdogan è un autocrate che mette le manette a qualunque forma di dissenso.

Azzardo inglese: “Presto 100mila contagi al giorno, ma si apre tutto”

Il governo britannico è pronto a sfidare la prospettiva di arrivare a 100mila contagi al giorno di Covid-19 alimentati dalla nuova variante Delta dopo il “liberi tutti” generalizzato, preannunciato a partire dal 19 luglio, convinto che la riapertura totale e l’abolizione di ogni restrizione non sia comunque più differibile e che la diffusione di massa dei vaccini nel Regno Unito possa rappresentare “un muro di protezione” per limitare il numero di ricoveri e di morti.

L’azzardo è stato ufficializzato dal ministro della Sanità, Sajid Javid, ribadendo la stima già annunciata dal primo ministro Boris Johnson secondo cui i casi potranno salire a 50mila già entro il 19 e aggiungendo che potranno toccare poi per fine estate quota 100 mila. Una cifra spaventosa, ma da mettere nel conto per lo stesso governo che all’inizio della pandemia inseguiva una chimerica immunità di gregge, pur al prezzo di migliaia di vite. “Entro il giorno 19 potremmo già aspettarci un raddoppio dei numeri attuali, quindi circa 50 mila nuovi casi” al giorno, ha detto il ministro Javid in un’intervista mattutina a Bbc Radio 4. “Poi – ha aggiunto – una volta che allenteremo le restrizioni, e con il progredire dell’estate, ci attendiamo che crescano ancora in modo significativo: fino a poter arrivare a un dato di 100mila” contagi.

“Vogliamo essere trasparenti” verso l’opinione pubblica “sui numeri che possiamo aspettarci”, ha proseguito. “Ma ciò che conta più di ogni altra cosa – ha sottolineato, difendendo la scommessa sulle riaperture a vasto raggio previste per il 19 luglio – sono i dati sui ricoveri negli ospedali e sui morti. Ed è qui che il rapporto di causa effetto con i contagi si è seriamente indebolito” grazie all’efficacia dei vaccini: somministrati nel Regno Unito a ritmi record, con quasi 80 milioni di dosi inoculate, il 65% della popolazione adulta già pienamente immunizzata e con l’obiettivo dichiarato di arrivare ai due terzi entro il 19 e a offrire la doppia dose all’intera popolazione over 18 per settembre.

Contro i magistrati l’odore dei soldi

Il primo quesito referendario riguarda la responsabilità civile dei magistrati. Il quesito è: Volete voi che sia abrogata la legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni a essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1, limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa,”; art. 16, comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”?

Provo a rendere il quesito intellegibile. L’attuale normativa sulla responsabilità civile dei magistrati, frutto di varie modifiche, prevede che chi lamenta di aver subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato (compresi, con certi limiti, quelli onorari e giudici popolari delle Corti d’assise) con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Il magistrato, se lo ritiene, può intervenire nel giudizio contro lo Stato (per il caso che lo Stato non si difenda accuratamente).

In caso di condanna al risarcimento del danno, lo Stato deve poi rivalersi sul magistrato ed è obbligatorio esercitare l’azione disciplinare.

Ovviamente questa procedura non vale nelle ipotesi in cui la condotta del magistrato integri un reato, perché la responsabilità penale dei magistrati è identica a quella di qualsiasi altra persona, sicché in tale ipotesi è già possibile l’azione diretta di chi si ritiene persona offesa, nel processo penale attraverso la costituzione di parte civile.

Tutti i magistrati si sono assicurati sulla responsabilità civile stipulando polizze che coprono sia il risarcimento che le spese legali, il cui costo pagano personalmente. Sarebbe infatti da incoscienti non farlo visti i danni che gli atti che un magistrato adotta possono cagionare.

Lo slogan “chi sbaglia paga” è seducente ma sbagliato. Per esempio i dipendenti pubblici che conducono veicoli sono assicurati, ma l’assicurazione è pagata dagli enti pubblici dai quali dipendono.

Lo scopo del referendum è quindi quello di consentire l’azione diretta in sede civile contro il magistrato da parte di chi si ritiene danneggiato anche al di fuori dei casi in cui sia instaurato un procedimento penale. Peraltro rimarrebbero sia l’azione contro lo Stato che quella di rivalsa dello Stato verso il magistrato.

Perché sorgono problemi di ammissibilità di una azione diretta contro il magistrato?

Dopo un giudizio di legittimità della richiesta referendaria da parte della Corte di cassazione, la legge prevede infatti un giudizio di ammissibilità del referendum da parte della Corte costituzionale. Quest’ultima, con sentenza n. 26 del 1987, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo degli articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile (anche quello sulla responsabilità civile dei magistrati, ritenne che “la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati, specie in considerazione dei disposti costituzionali appositamente dettati per la Magistratura (artt. 101 e 113), a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni”. La stessa Corte, con sentenza 19 gennaio 1989 n. 18, richiamando quanto aveva affermato con le pronunzie 15 maggio 1974 n. 128 e 3 aprile 1969 n. 60, aveva ricordato che “la disciplina dell’attività del giudice deve perciò essere tale da rendere quest’ultima immune da vincoli che possano comportare la sua soggezione, formale o sostanziale, ad altri organi, mirando altresì, per quanto possibile, a renderla “libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto a lui dettano scienza e coscienza””.

Attualmente, in ipotesi di azione contro lo Stato, la giurisprudenza ha escluso che, salva l’ipotesi di intervento volontario del magistrato nel giudizio contro lo Stato, il magistrato non assume la qualità di debitore di chi tale domanda abbia proposto. Ciò si verificherà invece in caso di azione diretta. La conseguenza sarà la possibilità di togliersi di torno un magistrato ritenuto scomodo semplicemente iniziando una causa contro di lui con la conseguenza di obbligarlo ad astenersi o di poterlo ricusare. Tutto ciò, si badi bene, a prescindere dalla fondatezza della pretesa di chi si ritiene danneggiato, dal momento che l’eventuale fondatezza sarà valutata solo all’esito del giudizio (cioè dei suoi tre gradi).

Vi è il rischio inoltre di una “giustizia difensiva”, volta a scansare grane, inducendo il magistrato ad evitare scontri con le parti più forti, più ricche o più potenti, a tutto danno delle parti più deboli. Esattamente il contrario di quella che viene gabellata come “giustizia giusta” da parte dei promotori del referendum. È forse “giusta” una giustizia che schiaccia i deboli e permette ai forti di intimidire i magistrati? Alla luce delle precedenti pronunce della Corte costituzionale e delle considerazioni di buon senso sembra probabile che tale referendum non verrà considerato ammissibile. Peraltro, anche laddove il referendum fosse ritenuto ammissibile e ottenesse la maggioranza dei voti, in assenza di un intervento del legislatore volto a riscrivere la normativa, si profilerebbero questioni di legittimità costituzionale della normativa, come modificata dall’esito referendario, proprio alla luce delle precedenti affermazioni della Corte costituzionale.

Feltri in fuga dalle melasse dei draghisti

Non è difficile prevedere che appena eletto a Milano con Giorgia Meloni, la prima dichiarazione di Vittorio Feltri sarà: mi sono già rotto le balle. Perché un consiglio comunale può essere tutto tranne che l’estremo rifugio dalla noia. Lì vi si trova infatti (per chi non maneggia la materia e il relativo materiale) il vellutato ricettacolo delle scartoffie, degli sbadigli, dell’aria viziata, dei passi perduti nel tedio. Fatti suoi si dirà se non fosse che la ritirata del giornalista più famoso (e meglio pagato) della destra è un segnale dell’insofferenza verso la svolta draghista imposta a Libero e al Giornale da proprietà interessate a non disturbare il manovratore. Nel primo caso, non è certo un mistero che la famiglia Angelucci chiamando Alessandro Sallusti a sostituire Feltri (e ad accantonarlo, dice lui citando varie scortesie sopportate anche perché quella testata è una sua creatura) abbia inteso garantirsi una linea meno diciamo così spericolata rispetto ai nuovi padroni della vapore e della Sanità pubblica sotto il cui ombrello essi da tempo immemore prosperano. Non un problema nuovo visto che nel 2016 l’allora direttore Maurizio Belpietro, non graditissimo al premier dell’epoca Matteo Renzi, e dunque ai cordoni della borsa, fu costretto a fare le valigie e a fondare La Verità con ottimi risultati (non tutto il Bullo vien per nuocere). Mentre al Giornale l’arrivo di Augusto Minzolini al posto di Sallusti non sembra aver turbato più di tanto il soporifero clima di unità nazionale (altra cosa il sobrio entusiasmo del Foglio che ieri titolava: “Viva il pragmatismo di Draghi”, hip-hip-hurrà, lo aggiungiamo noi). Insomma, lo spirito del tempo, e di SuperMario, ha fatto lo shampoo a quel giornalismo un po’ ribaldo e dai sapori forti che aveva le radici nelle scellerate fotocronache del Borghese di Gianna Preda. Cosicché Feltri, non potendo più dare cattivo esempio con i celebri titoli sulle “patate bollenti”, che facevano incazzare la sinistra bigotta (con suo sommo gaudio), procurandogli grandinate di querele e denunce, adesso annuncia campagne contro monopattini e piste ciclabili. Dal codice penale al codice della strada.