King Bibi in crisi d’identità: è dura stare all’opposizione

Comincia ad avere il sapore di un dramma shakespeariano l’uscita di scena di Benjamin Netanyahu. Fino all’altro ieri, il suo sito ufficiale lo indicava ancora come primo ministro di Israele. Più di due settimane dopo essere stato rimosso dall’incarico, Netanyahu stenta ancora a credere di essere stato estromesso. I deputati del suo partito – il Likud – lo chiamano ancora “primo ministro” e tutti i partiti dell’opposizione guidata dal partito di Bibi sono stati istruiti chiaramente nel rifiutare la legittimità del nuovo governo, a ignorare il cambio di regime, a soprannominare il premier Naftali Bennett un “imbroglione” e il governo che guida “la grande frode politica nella storia dello Stato di Israele”. I Bibi’s Boys si comportano come se controllassero ancora la Knesset, rifiutandosi di accettare il verdetto degli elettori e il giuramento del 13 giugno del governo che li ha sostituiti. Dopo 12 anni di governo, il Likud non ha confidenza con l’esilio politico, con l’opposizione. Si è abituato a posti di lavoro, potere e vantaggi. La maggior parte dei membri della Knesset del Likud e dei suoi partiti ultra-ortodossi alleati non è mai stato nei banchi dell’opposizione, né sembra sappiano esattamente come si fa.

L’unica realtà politica che conoscono è quella di abbondanti finanziamenti, influenza politica e processo decisionale. Netanyahu sta avendo problemi a dire addio al potere, all’autorità e ai vantaggi della carica. La sua famiglia continua a risiedere nella residenza ufficiale del primo ministro in Balfour Street a Gerusalemme, dopo che Bennett ha accettato di ritardare il suo trasferimento di alcune settimane. Alla fine un accordo è stato trovato, Netanyahu lascerà la residenza il prossimo 10 luglio, la sua casa di famiglia è in Gaza Street a poche centinaia di metri di distanza. Intanto però i giornali denunciano che l’ex premier in queste settimane avrebbe distrutto migliaia di documenti che avrebbero potuto rivelare particolari magari imbarazzanti. Nessun altro primo ministro in Israele si è comportato così al passaggio delle consegne. Adesso Netanyahu sta cercando di costringere il Likud a coprire le sue spese private, proprio come nei suoi anni al governo ha fatto con lo Stato, mettendo in conto anche il barbiere e il sarto. Comunque manterrà la scorta, ha fatto votare una legge lui stesso che assegna agli ex premier la protezione a vita, invece che per 8 anni come avveniva prima. Bibi non ha una carta di credito, ha solo un cellulare, non guida un’auto da secoli e non ha la minima idea di come i normali israeliani gestiscano la loro vita quotidiana. È convinto che il governo Lapid-Bennett avrà vita breve e prepara la sua vendetta. Lo sta combattendo su tutti i fronti, sta cercando di creare un cuneo tra Bennett e l’Amministrazione Biden, e non ha scrupoli a scontrarsi con il governo anche su questioni relative alla sicurezza che gli stanno tanto a cuore.

Sta violando quello che è stato in Israele un principio sacrosanto dei partiti che passano all’opposizione di fornire al governo una rete di collaborazione su questioni di sicurezza nazionale. L’opposizione sta organizzando una campagna determinata contro ogni proposta di legge della coalizione di governo. Ma per quanto tempo i ranghi del suo partito manterranno il loro sostegno al Bibi nazionale? Finché Netanyahu ha portato il Likud al potere di volta in volta, la sua presa era assicurata, ma ora ha allontanato il partito dal trono. Il “ragazzo” è diventato ingombrante, specie con i tre processi per corruzione che deve affrontare. I membri anziani del Likud hanno bloccato con successo il suo piano di tenere primarie rapide per bloccare la sua rielezione alla leadership del partito. Si stanno organizzando alle sue spalle. Netanyahu non riesce più a far passare facilmente tutti i suoi capricci attraverso le istituzioni del Likud. Le crepe sono apparse, la magia si è dissipata.

Il nazionalista Jansa disprezza l’Occidente, ma è il volto della Ue

Un alfiere dell’Est populista alla vetta europea: il premier sloveno Janez Jansa occupa dallo scorso primo luglio la poltrona della presidenza Eu e sarà da oggi il volto di un’Unione di cui ha sempre contraddetto i valori democratici. Comincia il semestre dell’uomo che la sua nazione chiama, tra scherno e timore, “maresciallo Tweeto”, un gioco di parole tra Twitter – social che Jansa usa compulsivamente proprio come il suo idolo politico, Donald Trump –, e quel vecchio Tito che governò il Paese in cui lo sloveno è nato e non esiste più: la Jugoslavia.Ammiratore del premier ungherese Viktor Orban e del polacco Mateusz Morawiecki, Jansa in questi anni ha allineato Lubiana a Budapest e Varsavia. I prossimi sei mesi della sua leadership potrebbero mettere a rischio la libertà di stampa: “Abuserà del suo potere per rendere vani gli sforzi fatti finora”, ha scritto in un lungo articolo Reporter senza frontiere.

Il suo debutto al vertice è stato segnato da una diatriba. Nell’album delle foto di gruppo che celebrano l’inizio della presidenza del nazionalista di Lubiana manca il vicepresidente della Commissione europea, l’olandese Frans Timmermans, che ha rifiutato “di salire sullo stesso palco” del nuovo presidente che aveva poco prima ingiuriato alcuni parlamentari. Jansa ha commentato dicendo di non essersi nemmeno accorto dell’assenza e ha promesso agli altri leader che sarà un “onesto arbitro” di dispute tra Stati membri, sollecitando “una sincera discussione” sui diritti umani, ma alcuni avranno “priorità su altri”. Più che ai diritti civili, Jansa è interessato agli aiuti a pioggia del Recovery, che entreranno nelle casse degli Stati per aiutarli a risalire dalla crisi della pandemia Covid-19. Non ha ancora nominato però i magistrati anti-corruzione addetti a vagliare possibili frodi nell’utilizzo dei fondi, nonostante la presidente Von der Leyen abbia sollecitato la scelta “con estrema urgenza”, perché si tratta del “momento cruciale” in cui l’Unione “finanzia il suo rilancio”. Durante la sua presidenza verrà ridiscussa l’autonomia governativa in merito alle politiche migratorie e redistribuzione dei profughi e richiedenti asilo. O per dirla con le parole del nuovo presidente: “Con i Paesi d’origine abbiamo usato la carota, ora serve il bastone”. Jansa, in patria alla guida di un governo di coalizione spesso intento ad imitare le scelte di Orban, in passato ha rivendicato le sue scelte contro Bruxelles chiosando che “non esiste una sola democrazia, ma tante forme di diverse democrazie” e che la Slovenia “all’Europa non deve niente: abbiamo combattuto per la nostra libertà 30 anni fa”.

Da “Svizzera dei Balcani” a Ungheria in miniatura. Senza essere nel cerchio magico di Visegrad, (che comprende Slovenia, Repubblica ceca, Ungheria e Polonia), la Lubiana di Jansa ne rispecchia visioni, decisioni, mosse. La Slovenia, prima a dichiarare la sua indipendenza nel 1991 dal blocco balcanico ex jugoslavo, e prima a unirsi all’Unione nel 2004, è ora un modello di “orbanizzazione”, dove è stata appena adottata la stessa legislazione che il premier magiaro ha già reso effettiva a Budapest ed è stato vietato ogni tipo di materiale o riferimento all’identità di genere o omosessualità.

“Noi europei orientali dovremmo dire agli europei occidentali: smettete per favore di dirci come dovremmo vivere le nostre vite”. Jansa può essere molte cose, ma non una sorpresa. All’evento Europe Uncensored, “l’Europa senza censura”, insieme al leader magiaro e quello serbo, Aleksandr Vucic, ha parlato della necessità di costituire un “fronte unito per la battaglia per la civiltà occidentale” contro i pericoli in arrivo da Bruxelles, come il “marxismo culturale” ed altre teorie della cospirazione vicine alla destra sovranista. Avverso alla libertà di stampa ed indipendenza della magistratura, ha privato in questi anni l’agenzia di notizie statale slovena, la Sta, dei fondi pubblici e si dedica a persecuzioni ed accuse quotidiane dei giornalisti. Il politico che odia i reporter però faceva proprio questo mestiere prima. Entrato a 17 anni nella lega dei comunisti, espulso dal partito nel 1983, diventato esponente del movimento pacifista e ambientalista, si è laureato proprio in Sociologia e giornalismo all’università della capitale prima di intraprendere la carriera da tribuno. È finito in prigione due volte: prima negli anni 80 perché criticava il potere, poi nel 2014 perché dal potere è stato probabilmente corrotto. Accusato di aver preso tangenti dal ministero della Difesa, è stato scagionato ed è rientrato in corsa diventando premier per ben tre volte con l’Sdp, partito democratico sloveno, testa d’ariete della destra dall’inizio degli anni 90. Dai margini della “deriva autoritaria” Jansa è riuscito a raggiungere il timone. “L’Unione dei 27 è a rischio, proprio come lo è stata la Jugoslavia a suo tempo”: aveva avvertito qualche mese fa Bruxelles con queste parole, respingendo la richiesta di “condivisione collettiva” dei principi democratici, definita dal nuovo presidente “una mera illusione”.

Ciao Beldì, quello che la tv la vedeva pure dal pavimento

Contrariamente a quanto si pensa, anche la televisione ha avuto i suoi registi-autori, virtuosi dello stacco telecamera come Antonello Falqui, come Enzo Trapani, come Beppe Recchia. E come Paolo Beldì, morto improvvisamente ieri all’età di 67 anni. Epigono e pioniere nello stesso tempo, Beldì intercetta lo spazio mattutino della nascita del duopolio Rai-Fininvest e lo mette al servizio della sua sensibilità puntuale, curiosa, divagatoria. Da Novara, passa al Derby di Milano gli anni dell’apprendistato cabarettistico prima di imbarcarsi a Italia1 e firmare le regie di Lupo Solitario, Matrioska e l’Araba Fenice, la trilogia situazionista di Antonio Ricci. Poco dopo, il passaggio alla Rai3 diretta da Angelo Guglielmi e il sodalizio con Fabio Fazio, le prime stagioni di Quelli che il calcio quando ancora le partite di domenica pomeriggio erano merce rara, e a vederle venivano invitati i tifosi veri, non vip di serie B che si fingono tifosi per andare in tv. Il situazionismo è alle spalle, ma Beldì ne mette a frutto la lezione nel salotto educatamente alternativo del primo Fazio, una tv laterale che gli ispira il gusto del dettaglio. Se Orson Welles ha inquadrato per primo i soffitti, nel suo piccolo Beldì ha inquadrato per primo i pavimenti (tutto in proporzione, ma si sa, la tv è un’arte terra terra). Insomma, non c’è inventore del piccolo schermo, incluso il Celentano di Satisfiction e Francamente me ne infischio, che non abbia avuto in regia Paolo Beldì. Pare che la vita sia l’arte degli incontri, e probabilmente è vero, a patto che gli incontri arrivino al momento giusto.

Parole: dire, usare e aggiustare

Maneggiata in modo approssimativo, distratto, noncurante, la parola può diventare un limite. Escludere ed escluderci, offendere e offenderci. Ma è anche, la parola, possibilità, logos, conoscenza. Duttile e potentissimo attrezzo per costruire socialità, negoziare appartenenze.

Con le parole ci presentiamo agli altri come persone singole e come membri di una – o molteplici – comunità. Con le stesse parole accogliamo dialetticamente – o respingiamo – gli altri. (…) Possiamo scegliere se usare le parole con più consapevolezza, comunicare bene (e sempre meglio), in un contesto complesso come quello attuale, o se far finta che il problema non ci riguardi. Noi crediamo che il problema – se così si può chiamare – riguardi invece tutti. (…) È nato così, questo abbecedario: dal tentativo e dal desiderio di creare uno strumento utile per chi sente la necessità di vivere con più serenità la complessità del presente, sia offline che online (o onlife, come dice il filosofo Luciano Floridi). Ogni lettera contiene la breve trattazione di un concetto che abbiamo ritenuto importante da sviluppare per aiutarci a capire meglio il funzionamento della comunicazione, oggi, compresi tutti gli aspetti che concorrono a farla deragliare, a interromperla, a incattivirla. (…)

Da L come legislazione

Di fronte al proliferare di linguaggi e crimini d’odio, e ai tentativi di negare o minimizzare la Shoah, a integrazione della legge Mancino nel 2018 sono arrivati anche gli articoli 604 bis e 604 ter del Codice penale, che inaspriscono le pene per i negazionisti, e puniscono l’“incitamento” – e non l’“istigazione” – alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Per quanto solido, questo impianto penale lascia un certo arbitrio nel giudicare proprio il linguaggio (ad esempio, l’aggravante prevista dalla legge Mancino scatta solo se le espressioni ingiuriose sono pronunciate contestualmente a un comportamento violento e degradante, o possono essere giudicate esse stesse un comportamento?) e presenta un’evidente lacuna: non prevede, infatti, una specifica copertura per i reati di discriminazione, e i crimini e i discorsi d’odio, basati sull’orientamento sessuale o l’identità di genere della vittima. È vero che l’eventuale matrice omobitransfobica del reato è stata, talvolta, stigmatizzata – in fase processuale – evidenziando la “condizione di particolare vulnerabilità” della persona offesa dal reato. L’art. 90 del codice penale, che accoglie la direttiva Ue del 2012 sulla protezione delle vittime nel procedimento penale, rinforza in generale le tutele alle vittime, quali esse siano. Ma nell’ordinamento italiano non esiste ancora un’equivalenza tra le discriminazioni causate da motivi razziali e quelle causate dall’identità di genere o dall’orientamento sessuale delle persone (…). Come ricorda Marco Pelissero, professore di Diritto penale all’Università di Torino, esiste “un forte parallelismo tra razzismo e omo/transfobia come conseguenza della maggiore visibilità della diversità, nel primo caso a seguito dei fenomeni migratori, nell’altro a seguito delle richieste di riconoscimento di diritti individuali e sociali”. (…) Sul piano penale, proprio il parallelismo tra razzismo e omofobia ha portato in Europa al tentativo di estendere le tutele previste contro i crimini d’odio per motivi razziali ai crimini d’odio per omofobia, bifobia e transfobia (come è effettivamente avvenuto in Francia, Spagna, Regno Unito, Belgio, Danimarca, Svezia, Svizzera). Sia perché leggi che sanzionano i discorsi e i crimini d’odio per motivi etnico-razziali, religiosi o nazionali non possono essere applicate quando si verificano condotte simili in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere della vittima, sia perché nella prassi, discorsi e atti discriminatori fondati sull’odio etnico-razziale e sull’omofobia si manifestano in maniera analoga, se non identica, in relazione sia al linguaggio, sia alle condotte e alle modalità di diffusione.

L’Italia attende lo stesso adeguamento giuridico da molti anni. Per questo è urgente che il disegno di legge Zan venga approvato quanto prima.

Da R come responsabilità e consapevolezza

Molte azioni comunicative online sono compiute con grande inconsapevolezza (“non pensavo che così tante persone avrebbero letto”; “mica lo pensavo veramente”) e totale irresponsabilità, apparentemente senza rendersi conto di quanto le parole possano ferire, offendere, ingiuriare, mettere nei guai gli altri e noi stessi. C’è ancora la percezione diffusa che ciò che avviene sui social non abbia connessione con la “vita vera”. Sia chiaro, tutti possiamo sbagliare, tutti possiamo venire fraintesi, tutti possiamo compiere un passo falso. Chiaramente l’ideale sarebbe non sbagliare mai, ma, come si sa, errare humanum est. Dunque, rimane un ultimo aspetto da considerare: come comportarsi una volta che si è sbagliato, e soprattutto una volta che ne abbiamo consapevolezza e siamo disposti ad assumercene le responsabilità? 1) Intanto, è importante non farsi prendere dal panico: il danno è fatto, adesso occorre cercare di limitarne, lucidamente, le conseguenze. 2) La prima mossa è tentare di rimuovere il contenuto incriminato per limitarne la diffusione, sapendo però che di fatto è praticamente certo che ne esistano già delle copie circolanti in giro per la Rete. Questa, quindi, è un’azione per contenere il danno, ma non per cancellarlo completamente: è l’inizio del percorso di gestione della crisi, non la sua conclusione. 3) Di conseguenza, non ha senso negare i fatti, e nemmeno ignorare l’accaduto: occorre assumersi, per l’appunto, le responsabilità del caso. 4) Altra cosa da non fare è tentare di addossare la colpa agli altri: una scusa classica è quella di incolpare “gli hacker” (nel 2018 ci avevano provato Dolce e Gabbana, suscitando una certa ilarità, a valle di uno spot accusato di essere razzista con i cinesi e un conseguente scambio di messaggi spazientiti su Instagram). Non funziona nemmeno accusare gli altri di non aver capito, di avere frainteso. È possibile, fino a un certo punto, che questo sia successo davvero, ma anche in tal caso conviene assumersi l’onere del fraintendimento: forse potevamo esprimerci meglio? 5) Non è molto utile nemmeno rispondere con offese alle offese; allo stesso modo, minacciare querele o denunce, per quanto sia la strada da percorrere in determinati casi, spesso non avrà l’effetto di fermare gli attacchi o di intimorire chi insulta. 6) Superata la fase dell’imbarazzo, ricordiamoci che a tutti capita di sbagliare o di inciampare, anche in maniera spettacolare. Non è, probabilmente, la fine del mondo; possiamo provare a passare oltre. Come? Prima di tutto scusandosi, se ce n’è bisogno, nella maniera più sincera. In secondo luogo, correggendosi, chiarendo meglio ciò che si voleva dire. In alcuni casi, rivalutando i fatti, è possibile che ci si renda conto che ciò di cui si viene accusati è in realtà un fraintendimento, qualcosa che, per qualche motivo, è stato visto male da qualcun altro. In questo caso, anche se c’è chi tenterà di farci sentire in colpa, è possibile anche decidere di passare oltre con una scrollata di spalle, sottraendosi al ruolo della vittima. 7) In una crisi di comunicazione non serve stare troppo a interrogarsi su come sia potuto avvenire l’errore: succede a tutti; la vera differenza la fa il modo in cui si tenta di uscire dalla crisi. Al di là dell’immediato, la strategia a lungo termine è quella di mettersi in luce per altre cose, con altri contenuti, in modo da rifarsi una reputazione. Il bello della Rete è che permette di aggiungere cose nuove al proprio curriculum virtuale, così da mandare sempre più in basso, nella pagina dei risultati di ricerca di Google, la testimonianza dei nostri errori.

 

E l’operaio fischiò alla Matone: “A bbona”

Grandissima, magnifica slurpata del nuovo Libero di Sallusti by Angelucci alla famigerata Simonetta Matone, magistrata tv della scuderia democristiana e inciucista di Bruno Vespa. A lei, il quotidiano della destra filo-Draghi ha dedicato un’ode firmata da Gianluca Veneziani per aver dileggiato in un’intervista televisiva il movimento #MeToo e al contrario esaltato la pratica sessista e machista del catcalling: “Ecco una donna così la vorresti non solo alla guida di Roma, ma anche a capo di un movimento femminile contro il MeToo”. Il titolo è bellissimo: “Tutti matti per Matone”. Vabbè, il candidato sindaco della destra a Roma è il povero Michetti e non lei, ma quello che ci preme segnalare è questo passaggio: “Il complimento più bello me lo fece un operaio sceso da un’impalcatura: ‘Sei più bbona de sta pizza che me sto a magnà’. Gli dissi ‘Grazie’”. Più avanti: “All’epoca ero molto bella”. Ah, ecco.

Mail box

 

Conte fondi un partito contro la povertà

Sono un ex elettore del M5S e un affezionatissimo lettore del “nostro” Fatto Quotidiano. Come tanti sono amareggiato dal comportamento di Grillo, ma per lui non spendo neanche una parola perché non la merita. Mi rivolgo invece a Conte, una persona perbene come ce ne sono poche nel nostro panorama politico. Caro presidente, faccia nascere un nuovo partito e saremo in tanti a seguirla. Le consiglio anche il nome: “Partito politico in difesa dei poveri”. Oggi tanti avrebbero bisogno di qualcuno che difenda i loro diritti, ma nessuno vuole sporcarsi le mani. Grazie.

Angelo Azzarello

 

La spaccatura del M5S può essere strategica

Caro direttore, condivido quanto ha scritto sul “manicomio” e perciò non mi soffermerò su questo. Ma vorrei sottoporle due riflessioni: 1) L’improvviso voltafaccia di Grillo a Conte, la sua insistenza per l’ingresso al governo: i “Draghi e Cingolani grillini” potrebbero essere dovuti, anziché a un Alzheimer galoppante, a un preciso patto per salvare la pelle al figlio. Solo in questo caso il suo comportamento ha una logica. 2) Da tutto il manicomio potrebbe nascere un bene, se gli antigovernativi andassero all’opposizione, lasciando al governo solo quelle sparute truppe che servono a non farlo cadere, giocando così lo stesso gioco che fece tempo fa l’innominabile. Avrebbero così, da una parte, il piede sul collo del governo e potrebbero smettere di farsi suicidare, mentre il gruppo di opposizione guadagnerebbe i consensi persi con la partecipazione al governo. Al momento delle elezioni, poi, potrebbero nuovamente fondersi e vincere, spiegando che in futuro sarebbe tutto diverso, tanto la memoria degli elettori è brevissima. Scusi se sono cinica, ma, dati gli avversari, a brigante, brigante e mezzo.

Rita Trigilio

 

Che pasticcio, Beppe: non voterò più i “grillini”

Grillo è il maschio alfa, il padre padrone, l’intuitivo di genio che si oppone al matrimonio con la razionalità, ecc. Insomma è una persona con pregi e difetti. Ma politicamente, a me – che grazie a lui ero e non sarò più elettore dei 5 Stelle – non interessa il caso umano e non mi interessano le sue intenzioni. Mi interessa la domanda della vignetta del Fatto di mercoledì scorso: “E adesso chi lo spegne (Draghi)?”. Il Grillo di oggi è perfettamente inserito nel (e strumento del) sistema, contro il quale era nato il movimento. Questo è un dato oggettivo, non soggettivo. Il padre Grillo ha “un punto debole” che lo ha reso ricattabile?

Maria Zorino

 

Mai rubare la scena a un uomo di spettacolo

Il sentore che qualcosa stesse cambiando si ebbe il giorno in cui Grillo invitò tutti, sospendendo per un giorno le votazioni, a dare l’appoggio al governo Draghi. L’aggravamento si notò subito dopo, quando definì lo stesso Draghi un “grillino”. Ma il suo definitivo “stato confusionale” fu accertato nel momento in cui diffuse quel delirante video sulle vicende di suo figlio. La verità è che, spesso, gli uomini di spettacolo hanno paura che gli rubino la scena.

Salvatore Lolicato

 

Un vero leader sa fare autocritica sui suoi sbagli

Se un problema c’è lo classificherei come culpa in eligendo da attribuire a Grillo. È lui che ha affidato a Conte l’incarico e se il “compitino” non gli sta bene dovrebbe innanzitutto fare autocritica spiegando perché lo ha affidato proprio a Conte. In questi casi non si critica chi è stato scelto. Perché un leader che sbaglia nella scelta degli uomini a cui affidare incarichi di responsabilità non è un leader. E ancor meno se dopo averlo scelto lo critica pure. Doppio errore. Il primo da penna rossa, il secondo da penna blu.

Giuseppe Alfonso Cassino

 

Grillo, padre ingrato (ma solo politicamente)

Nella diatriba Grillo-Conte si assiste a uno scenario di poca chiarezza. Non c’è solo la diversità di opinioni, come tutti saremmo portati spontaneamente a credere. Grillo esagera “oltre”, sia come antagonista politico, sia dal punto di vista personale e comportamentale. È evidente la sua strategia di voler trascinare Conte in una “caciara”, caratterizzata dallo scadimento dei toni, il che costringerebbe, inevitabilmente, ogni persona civile ed educata ad astenersi dal rispondere. Difficile dare plausibili spiegazioni a un tanto irresponsabile, incoerente, repentino (e certamente ingrato) voltafaccia. Verrebbe da pensare ad altro, forse a un collegamento sotterraneo con le sue vicende personali, non ultima la vicenda del figlio, ormai prossima a essere definita nella sede di un tribunale. Grillo sotto ricatto? Di chi e come? Possibile. Se è emerso tale sospetto, sull’altro personaggio – vedi tesi appurata nel recente libro di Travaglio (Conticidio) –, anche qui si nota l’obiettivo di voler screditare Conte. Non è così assurdo pensare che l’incomprensibile atteggiamento di Grillo sia paragonabile a quello di Renzi, cioè teleguidato dall’esterno. I soliti “Poteri forti invisibili alla gente”? Forse. Di certo qui si vuole eliminare in qualsiasi modo e con ogni mezzo, non solo politicamente ma anche moralmente, chiunque si presenti come un reale ostacolo alla corruzione, a ogni livello dilagante in Italia.

Aldo Martorano

Salvini e lo scempio dei diritti umani

“Solidarietà alle donne e agli uomini in divisa che, invece di essere ringraziati, vengono indagati”.

Matteo Salvini, l’11 giugno 2020, dopo i pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere
(“Il Fatto Quotidiano”)

Chiuderli dentro e gettare via la chiave: quando si parla di detenuti è lo slogan preferito dall’“ideologia” Legge&Ordine. Quello sottostante (e anche sovrastante) gli abbracci del leader leghista ai torturatori in divisa che vediamo nelle foto: così, a prescindere. Nella totale indifferenza rispetto ai fatti, al comportamento ributtante di quegli agenti divenuto di dominio pubblico dopo la diffusione delle immagini. C’è poi un’altra convinzione, anch’essa molto popolare nel mondo della destra più becera, e che il salvinismo non fa che avvalorare: l’idea che il recupero umano e sociale di coloro che stanno dietro le sbarre sia solo una favola che si bevono gli allocchi buonisti. Bene, oggi abbiamo una nuova testimonianza diretta che così non è quando nelle persone e nelle strutture prevale la volontà di fare un passo avanti. Si tratta del libro dal titolo: “Santa Suerte. Una storia underground” (Aliberti editore). Lo ha scritto Mauro Arnuzzi, che è stato un pericoloso narcotrafficante e non bastandogli una vita soltanto ne ha descritte diverse, comprese quelle di amici e familiari coinvolti a pieno titolo nella sua. Un racconto brutale e autentico come una coltellata. Ho conosciuto Arnuzzi nel carcere di Rebibbia dove scontava la sua pena quando vi ho accompagnato Giorgio Poidomani, amico di lunga data impegnato con l’associazione Antigone che riunisce i tanti volontari che si battono per la difesa dei diritti e delle garanzie nel nostro sistema penale. Un luogo di sofferenza per tutti: i detenuti e gli agenti di custodia che non meritano la vergogna gettata sull’intero corpo dai “colleghi” campani. In conclusione, chi s’immergerà nelle pagine del diario criminale di Arnuzzi è meglio che non si aspetti una (banale) morale della favola, del tipo perdizione e riscatto, come ho scritto nella prefazione. Il filo conduttore è, come sempre in opere del genere, la libertà. Come regola assoluta e come sbornia. Edward “Eddie” Bunker, che scrisse in carcere il suo capolavoro, “Come una bestia feroce”, ha detto: “Sono convinto che chi non legge resta uno stupido”. Capita anche a chi non sa ciò che dice. Vero Salvini?

 

Ghiacciai smagriti, pesci esotici rapaci e mais in sofferenza

In Italia Al Sud il caldo africano è continuato senza posa dal 21 giugno al 1° luglio culminando nei 45,0 °C di mercoledì 30 a Noto (Siracusa). In Sicilia la terza decade di giugno nell’ultimo ventennio non aveva mai avuto una media regionale delle temperature diurne così elevata (37 °C), inoltre il mese è stato circa 2 °C più caldo del normale in tutto il Paese, quarto nelle classifiche secolari a Piacenza e Parma, e quinto a Torino. I temporali si sono limitati per lo più a Nord del Po, con grandine rovinosa martedì 29 intorno a Vercelli, Novara e Conegliano (Treviso). Siccità altrove, all’osservatorio di Urbino un semestre gennaio-giugno così avaro di precipitazioni (266 mm, metà della norma) non si era più visto dal 1945, e dall’Enza in Emilia al Metauro nelle Marche i fiumi sono in secca. L’Ispra ha presentato il Rapporto 2021 sugli indicatori di impatto dei cambiamenti climatici, ormai evidenti: i ghiacciai alpini perdono oltre un metro di spessore all’anno, le siccità fanno soffrire il mais, i mari si riscaldano penalizzando i pesci nostrani a favore di quelli esotici, e si innalzano minacciando in particolare Venezia (qui +5,3 mm all’anno dal 1993, complice anche la subsidenza del suolo). Dal 9 luglio al 17 ottobre il Forte di Bard (Aosta) ospiterà la seconda mostra L’Adieu des Glaciers dedicata quest’anno alla ricerca scientifica tra i ghiacci del Cervino, sempre più smagriti.

Nel mondo – L’onda di calore che ha colpito l’Ovest americano, con temperature oltre 20 °C sopra media e decine di nuovi record anche 5 °C superiori a quelli secolari precedenti, è inedita e sbalorditiva. Il villaggio di Lytton – 150 km a Nord-Est di Vancouver (British Columbia), a quota 225 metri e 50° di latitudine Nord, come Bruxelles – martedì 29 giugno ha stabilito un incredibile primato storico di caldo per tutto il Canada, 49,6 °C, poi mercoledì il Paese è stato distrutto da uno dei vasti incendi che divampano nella regione. Favorito da calura e siccità fuori scala, il fuoco si diffonde in un effetto-domino per i fulmini che scoccano dai “pirocumulonembi”, nubi temporalesche generate proprio dalla colonna di aria arroventata che sale al di sopra dei roghi: incendi-nubi-fulmini-nuovi incendi… Tra gli altri valori, sorprendenti e che sarebbero pressoché impossibili senza riscaldamento globale, ci sono i 46,7 °C dell’oceanica Portland, Oregon, e i 39,6 °C di Forth Smith, Territori canadesi del Nord-Ovest, valore più elevato mai rilevato al mondo oltre il 60° parallelo Nord. In fiamme anche la Yakuzia (Siberia), cieli oscurati dal fumo, chiusa la superstrada della Kolyma. Giugno “bollente” pure in Europa, il più caldo nelle lunghe serie di dati in Olanda e Finlandia, terzo in Austria e Germania, quarto in Svizzera, quinto in Francia, benché molto tempestoso; il 28-29, sommersi di grandine i paesi di Plombières-les-Bains (Vosgi) e Bösingen (Baden-Württemberg). L’uragano tropicale “Elsa” dai Caraibi punta alla Florida, mentre si contano i guasti delle alluvioni da Caracas (Venezuela), all’Assam (India), al Nord della Cina. Assorbiti da una pressante quotidianità facciamo sempre meno attenzione alle nubi, che pure coprono in ogni istante il 70 per cento del pianeta, hanno un ruolo centrale nei fenomeni atmosferici e nella vita terrestre, e dal loro comportamento dipenderà anche quale piega prenderà il riscaldamento globale in risposta ai troppi gas serra che emettiamo. Il libro delle nuvole, scritto per Il Saggiatore da Vincenzo Levizzani, dirigente di ricerca Cnr-Isac e docente di fisica delle nubi all’Università di Bologna, ne parla unendo rigore tecnico e piacevole divulgazione, e tra le righe ci suggerisce un compito per le vacanze: alzare gli occhi dallo smartphone e guardare il cielo!

 

I paesani non riconoscono Gesù: per loro è “il figlio della sciura Maria”

Gesù finalmente torna nel suo paese, Nazaret, seguito dai suoi discepoli. Era stato assente da quando se ne era andato a predicare per borgate e villaggi vicini. Il quadretto pare perfetto: il Maestro è a casa propria, dove conosce bene usi, costumi e luoghi. La gente lo ha visto crescere. Ed è seguito da chi lo stima e lo ammira: i discepoli. Situazione perfetta. Così si mette a insegnare nella sinagoga. Successo assicurato. L’obiettivo fotografico di Marco si sposta da Gesù a coloro che lo stanno ad ascoltare. Erano molti, ci vien detto. Grande pubblico. E tutti rimanevano stupiti.

Ma che tipo di stupore era quello dei compaesani di Gesù? Da cosa deriva in questo caso? È ammirazione? No. Per niente. Nel suo paese, Gesù era noto ai suoi vicini: come tutti, del resto, lo sono nei piccoli centri. Nei paesi c’è una conoscenza reciproca per cui si ritiene di sapere tutto degli altri, anche grazie al gossip di borgo. I compaesani di Gesù lo ascoltano e notano che egli non corrisponde all’idea che si erano fatti. Gesù è altro. Si dicevano l’un l’altro (evidentemente sottovoce mentre Gesù parlava): “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”.

La conoscenza paesana, quella fatta di cliché e ovvietà, non coincide con Gesù e questo destabilizza, turba. Marco è molto diretto: era per loro motivo di scandalo. Lo scandalo è letteralmente l’“inciampo”: i compaesani inciampano su di lui. Perché? Perché il manovale del paese parla con una sapienza che non dovrebbe avere. Ma chi è? Ma chi si crede di essere? Non viene da una scuola rabbinica!

La gabbietta del gossip sul falegname, il figlio della signora Maria, non contiene quest’uomo che va in giro a predicare con sapienza straordinaria e a operare prodigi. La tentazione per la fede è sempre questa: essere affascinati da Gesù e rimanere però alla fine legati a una immagine addomesticata, banale, ovvia. Confezionare Dio. Qualche pio credente pretende di sapere chi sia il Signore, dove egli sia, dove egli non sia, e magari pure chi siano i suoi amici e i suoi nemici. Dio non si addomestica. Dio è selvaggio. Lo è per natura perché di Lui non si può pensare nulla di più grande. È incontenibile. Chi tenta di imbrigliarlo si spacca. Come i compaesani di Gesù che si turbano interiormente (anziché essere fieri e orgogliosi di lui). E Gesù lo sa, li sente bisbigliare. Sa che cosa c’è nel loro animo. Ed è schietto e duro con loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. La casa per il nostro Dio selvaggio può tramutarsi in luogo di misconoscimento e disprezzo. Dio è socievole, ma non è mai pronto a “inserirsi in società”.

Il tentativo di addomesticare Dio, la resistenza a non lasciarsi guidare dal suo istinto apolide, dalla sua divinità che ci supera definitivamente, lo blocca perché non trova una libertà che lo accolga: lì non poteva compiere nessun prodigio. Banalità e prodigio non si sposano.

E Gesù si meravigliava della loro incredulità. Cioè egli stesso resta turbato davanti al rifiuto della profezia, di un discorso che supera l’ovvio e turba l’ordine. Non riesce egli stesso a farsene una ragione. E allora che fa? Ci dice Marco: percorreva i villaggi d’intorno, insegnando. Torna a insegnare, sì, ma torna ramingo, incontenibile in un perimetro definito. Come Dio è.

 

 

Giorgia Meloni patriota cerca “patrioti” in Europa

Trascrivo la frase con cui Giorgia Meloni conclude un articolo-manifesto con cui risponde a Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 2 luglio). Il commentatore del Corriere aveva rivolto alla Meloni la domanda che più frequentemente viene rivolta alla giovane leader: “Ma infine voi chi siete?”. La domanda era motivata da un commento sulle elezioni regionali francesi: Vince la destra, ma la destra di De Gaulle, non quella di Vichy. Può vincere in Italia una destra fascista? Meloni risponde che da Vichy (ovvero dal collaborazionismo fascista con gli invasori razzisti) li aveva liberati da molto tempo il congresso di Fiuggi. E aggiunge curiosamente che “una volta di più si condannarono l’infamia delle leggi razziali e la sciagurata alleanza bellica con la Germania. Quando era accaduto prima? L’infamia delle leggi razziali” e la “sciagurata alleanza bellica” non sono stati episodi sparsi e momenti di errore. Erano tutto il fascismo.

Ma ecco la frase programmatica con cui Giorgia Meloni riassume e conclude la sua risposta a Galli della Loggia: “La nostra visione e il nostro messaggio sono chiari e trasparenti: essere il movimento dei patrioti italiani. La nostra missione è difendere il nostro interesse nazionale, le imprese, i posti di lavoro italiani, le nostre radici classiche e cristiane”. Qui Meloni crea intorno alla parola “patriota” un polverone di significati, nessuno dei quali arriva a dirci chi è un patriota e chi non lo è. Stabilito che qualcuno deve avere combattuto per liberare l’Italia dalla “infamia delle leggi razziali” e deve avere dato la vita per spezzare la “sciagurata alleanza bellica” (gli americani, dice la Meloni, ed è vero, ma qualcuno deve aver rischiato e dato la vita se c’era, alla fine, con i vincitori, un’Italia seduta al tavolo della pace) e c’erano italiani antifascisti al governo al momento di rifare il Paese. Ora a quei patrioti della Liberazione italiana quale compito Meloni intende assegnare adesso?

Meloni ha un suo elenco dei compiti dei patrioti: occuparsi dell’interesse nazionale (stabilito da chi?), delle imprese (dice proprio così: “le imprese”; buona idea elettorale, ovviamente compito doveroso, ma basta a definire il grande movimento di Fratelli d’Italia?) e deve provvedere a posti di lavoro italiani (come si distinguono rispetto agli altri “posti di lavoro”? Sono quelli dovesi muore dopo otto ore interrotte di lavoro agricolo al sole?). Poi Meloni aggiunge un bel problema: “Le nostre radici classiche e cristiane”. Per le radici cristiane la vita di Fratelli d’Italia è facile: basta seguire i fraterni discorsi di un Papa molto attento ai fatti (radici cristiane vuol dire amare il prossimo, persino se straniero). Più complicata la questione delle radici classiche. Parliamo di liceo o di tradizioni locali (tipo “buon sangue non mente”, “fratelli coltelli”, “di mamma ce ne è una sola”…)? Alla fine ti accorgi che un movimento politico ormai solido e in crescita può fare una conversazione spigliata, ma non ha niente da proporre. Giuro che alla fine di una intera pagina che Il Corriere le ha messo a disposizione, Meloni conclude chiamando i patrioti a difendere i valori sopra elencati, nient’altro. Però lo slancio dello scrivere nato con il libro autobiografico la induce ad aggiungere: “Guardando al futuro “.E la storia ricomincia da capo, come quando Giorgia Meloni organizza un grande comizio. Sono tutti del futuro i suoi fan, tutti senza fascismo. Ma perché allora (è una osservazione che Galli della Loggia non si lascia sfuggire, come risposta alla risposta della Meloni), perché tutti quei giovanotti di Forza Nuova e CasaPound, accolti ogni volta “dal loro passato, come scorta e come amici, in ogni evento del futuro?”. La risposta non è più necessaria. Nel paginone già citato del Corriere, Giorgia Meloni ha scritto anche: “Il tempo degli esami del sangue nei confronti di Fratelli d’Italia e della Destra italiana è terminato da un bel po’. Oggi siamo proprio noi i più strenui difensori della democrazia, della sovranità popolare, della libertà di pensiero e di parola, dello Stato di diritto”. La data della pagina (lo ripetiamo) è 2 luglio 2021. La sera del 3 luglio i telegiornali hanno dato notizia del patto firmato da Fratelli d’Italia con gli altri leader del fascismo europeo: si affidano tutti alla guida di Orbán, primo ministro ungherese che, nel suo Paese, ha cancellato per legge ciascuno dei valori elencati da Meloni e ciascuno dei diritti civili indicati in tutte le Costituzioni europee. A questo punto diventa chiaro il senso rovesciato e orwelliano che Meloni ha dato alla parola “patriota”. Patrioti sono i carcerieri di Santa Maria Capua Vetere, che bastonano anche i detenuti in sedia a rotelle. Patriota è non rispondere alle chiamate dal mare di chi sta per morire. I patrioti hanno a carico Regeni e Zaki, Cucchi e Aldrovandi. E sparatorie e speronamenti libico-italiani ai barchini degli emigranti.