Una donna bellissima, l’erudito e il 50º capitolo di un libro sull’inganno

Dall’Upanishad apocrifa del sultano Bayezid II. C’era una volta un erudito che stava scrivendo un libro sugli stratagemmi delle donne. Aveva raccolto in 49 capitoli tutti i trucchi che usano per ingannare gli uomini, ma non riusciva a completare il 50º: c’era qualcosa che gli sfuggiva. Poco distante da lui, viveva una donna di grande bellezza e sagacia che, saputo del libro, si mise in testa di diventarne il capitolo mancante. Un giorno che suo marito, un mercante, era fuori città, invitò a pranzo l’erudito, preparando un desco di delizie, ma accertandosi, con il suo abito più provocante e qualche goccia del più raro dei profumi, di essere la delizia più prelibata di tutte. L’erudito arrivò portando un grosso sacco. “È qualcosa su cui sto lavorando. Parliamone dopo”, le disse. La donna accennò al fatto che il marito era via per affari, e meno male, poiché era molto geloso e molto violento. Di bicchiere in bicchiere, il gioco stava arrivando al dunque, quando sentirono aprirsi la porta d’ingresso. La donna sbiancò: “È tornato mio marito!” Chiuso a chiave l’erudito nello sgabuzzino, diede voce al consorte, che notò subito la tavola imbandita. “Per chi hai preparato tutte queste prelibatezze?” Con malizia sopraffina, la donna disse: “Per il mio amante, che è lì dentro”. E indicò lo sgabuzzino. Porse quindi la chiave al marito, e comincio a ridere di gusto appena quello la infilò nella serratura. Il marito si voltò: “Perché ridi?” “Per la tua dabbenaggine, amore. Credi davvero che se avessi un amante, e fosse in questa stanza, ti avrei detto dove è nascosto? Stupido. Ho preparato questo pranzetto per il tuo ritorno. Godiamocelo, e facciamo l’amore”. Bene: secondo voi è possibile che uno studioso possa aver scritto 49 capitoli sui trucchi delle donne senza aver mai sentito la storia del marito inaspettato e dell’amante nascosto nello sgabuzzino? Certamente no: per questo l’erudito si era portato quel grosso sacco. Ne estrasse un costume da orso, lo indossò, e ringhiando balzò fuori dal rifugio, davanti agli occhi sbalorditi della coppia che stava facendo l’amore sul tavolo. “Per la barba del profeta!” urlò il marito. “Tu hai davvero un amante! È un orso!”. Era così terrorizzato che non riusciva a muoversi. Scomparsa la bestia dalla porta, però, il mercante tornò in sé e, inveendo contro la moglie, le mise le mani al collo. In quell’istante, qualcuno bussò. Era l’erudito, nei suoi abiti consueti. “Sono un vicino, stavo passando di qua e ho sentito delle urla.” Il mercante gli spiegò tutto: sua moglie se la faceva con un orso e lui li aveva scoperti in flagrante. “Be’, si tratterebbe di qualcosa di immondo, se fosse vero”, disse l’erudito. “Se invece non è vero, buon uomo, lei avrebbe dei grossi guai con la giustizia. Le consiglio di non uccidere sua moglie, e di portare il caso al cadì. Se questa donna è davvero colpevole del crimine contro natura di cui l’accusa, morirà comunque”. Il marito si calmò e seguì il consiglio: sua moglie finì in carcere, in attesa di giudizio. L’erudito, intanto, grazie alla nuova ispirazione riuscì a scrivere l’ultimo capitolo del suo libro, che fu pubblicato proprio prima della sentenza. Ne inviò una copia al cadì, che lo lesse, capì lo scherzo, si fece una risata, e liberò la donna. Bene: secondo voi è possibile che una donna bellissima e sagace non avesse mai sentito la storia dell’erudito che deve scrivere il capitolo mancante di un libro sugli inganni delle donne e, invitato, si porta in un sacco il costume di un orso? Certamente no: e fu così che quella donna riuscì a diventare il 50° capitolo di quel libro. Questo.

 

Dumping fiscale, il trucco del Lussemburgo per aggirare le norme Ue sulla trasparenza

Nessuna conversione a una maggiore trasparenza fiscale per il Lussemburgo, nonostante gli scandali degli ultimi anni. L’ultima impresa del Granducato la racconta il consorzio di giornalismo investigativo Irpi, Investigative Reporting Project Italy, insieme a Süddeutscher Zeitung, Le Monde, El Mundo e Woxx, con il supporto di Tax Justice Network e The Signals Network.

Nel 2016 la direttiva Dac 3 ha obbligato i Paesi a scambiare in modo automatico le informazioni sugli accordi fiscali con le aziende (tax ruling) raggiunti sotto la propria giurisdizione. Da allora il numero di “accordi privati” con le aziende in Lussemburgo è passato da centinaia a 44 del 2020. Ma il calo è solo apparente e cela un trucco. “Secondo diverse fonti nelle aziende di consulenza fiscale del Lussemburgo – spiega Irpi –, si sarebbe diffusa una via informale per ottenere lo stesso risultato tramite le information letter”. Si tratta di un tipo specifico di “lettera informativa” con cui le aziende comunicano all’autorità fiscale del Lussemburgo la propria pianificazione fiscale e come intendono ridurre la base imponibile. I meccanismi, i trasferimenti di profitti, le catene di società controllate restano gli stessi. “Dopo queste lettere – spiega Irpi – a volte si arriva anche a colloqui di persona fra i consulenti fiscali che aiutano le aziende e il Fisco del Granducato”. Basta il silenzio-assenso: se l’Agenzia delle Entrate non dissente esplicitamente, l’azienda può considerare l’accordo concluso.

In teoria, da luglio 2020 per gli intermediari varrebbe lo stesso obbligo introdotto dalla Dac 3, ma in molti Paesi, Lussemburgo compreso, gli avvocati sono esentati. Il ministero delle Finanze del Granducato replica che “le lettere non possono essere considerate tax ruling perché non sono emesse dall’autorità fiscale”. Il consorzio di giornalismo investigativo rileva però che non risultano casi di accordi non onorati: “La definizione di tax ruling data dalla Dac 3 non comprende la corrispondenza fra i contribuenti e l’autorità fiscale”. In realtà, la Dac 3 prevede di coprire ogni accordo fiscale “indipendentemente dal carattere vincolante o meno e dalle modalità di emanazione”. Non a caso, secondo Irpi “diversi addetti delle grandi aziende di consulenza dichiarano su Linkedin un’esperienza specifica sulla redazione delle informal letters”. Ma alle domande dei giornalisti le “big four”, i quattro giganti della consulenza (Kmpg, Pwc, Deloitte, Ernst and Young) si trincerano dietro il silenzio e la confidenzialità del rapporto con i loro clienti.

Concorsi e sostegno: tempi stretti e cattedre a rischio

L’estate del ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, è ufficialmente entrata nel pieno. Con essa, è partito anche il conto alla rovescia per la fine del concorso ordinario riservato alle materie scientifiche, il cosiddetto Stem, che vede impegnati circa 60mila candidati tra prove scritte, orali e anche pratiche. Ed è proprio su questo che si stanno alzando le prime lamentele: è una corsa contro il tempo, l’obiettivo è portare in classe quanti più docenti di scienza e matematica e fisica per evitare di dover ricorrere, anche solo temporaneamente, ai supplenti. Tanto più che secondo le prime stime, dopo il concorso straordinario dei mesi scorsi, sono addirittura rimasti scoperti un migliaio di posti in più.

L’obiettivo è riuscire a chiudere la partita già a fine luglio. Al punto che nelle scorse settimane era stato offerto ai commissari fino al doppio del compenso se fossero riusciti a concludere le correzioni e le procedure entro il 31 luglio. A mancare, però, potrebbe essere proprio il necessario supporto. Lo spiega ad esempio il sito specializzato Tuttoscuola: “Sul concorso incombe un’ombra organizzativa che potrebbe mettere a dura prova gli Uffici Scolastici Regionali preposti alla gestione del concorso ordinario Stem – si legge –. Per la prova orale è previsto che la commissione madre sia affiancata da sottocommissioni ogni 50 candidati che hanno superato la prova. La relazione illustrativa del provvedimento stima in 1.211 il numero massimo delle sottocommissioni. In pieno periodo estivo non sarà facile trovare 2.422 commissari, 2.422 membri aggregati e 1.211 segretari verbalizzanti”. Certo, precisa il sito, si tratta del numero massimo possibile “ma se gli ammessi fossero anche soltanto la metà dei 60.460 candidati, servirebbero 600 sottocommissioni con 1.200 commissari, 1.200 membri aggregati e 600 segretari”.

Altra grana sembra riguardare le griglie di valutazione delle prove pratiche, segnalata da alcuni commissari: per alcune classi, infatti, sono previsti fino a 100 punti nella prova pratica. Una struttura diversa rispetto al bando iniziale, quello del 2020, che prevedeva ne valessero 40. Di conseguenza, al momento, le griglie su cui basare la valutazione sono tarate proprio sul bando precedente, in base al quale le prove necessiteranno poi di commissari in presenza che le valutino singolarmente. Ora potrebbe servire dover adeguare i criteri di correzione, mentre per le prove pratiche c’è il rischio che le commissioni non bastino o che comunque, volendo conservare il rigore della prova, non facciano in tempo.

Parallelamente resta aperta la questione legata ai professori di sostegno: in settimana c’è stata una riunione dei capigruppo in commissione Cultura per l’approvazione di un emendamento (targato M5S, a prima firma Vittoria Casa) al Sostegni bis, che immetterebbe in ruolo i docenti specializzati anche senza i tre anni di precariato. Si tratta di una modifica condivisa dalla maggioranza e con copertura finanziaria, ma è stata accantonata con il parere negativo del governo.

Come “Arancia meccanica” nel parcheggio: un morto

Non ce l’ha fatta uno dei due giovani pestati a sangue con una mazza da baseball in quello che sembra, riferiscono le agenzie di stampa rispetto alle prime verifiche dei locali carabinieri, un agguato organizzato forse per punire uno sgarro maturato nel mondo dello spaccio di droga. Per Atilio Drekai, 23 anni, di nazionalità albanese, sono iniziate ieri sera le procedure per dichiarare la morte cerebrale e staccarlo dai macchinari che lo tengono in vita. Il ragazzo era stato ricoverato in fin di via nella notte tra giovedì e venerdì nel reparto di rianimazione dell’ospedale Carlo Poma di Mantova.

Con la morte del giovane il magistrato che sta seguendo il caso, Fabrizio Celenza, cambierà l’ipotesi di reato nei confronti di ignoti da tentato omicidio a omicidio. Resta, invece, ancora molto grave Pier Francesco Ferrari, 35 anni, residente a San Giorgio di Bigarello, anch’egli ricoverato in terapia intensiva al Poma dopo il pestaggio.

Il movente della violenta aggressione a colpi di mazze da baseball subìta dai due giovani, nella notte tra giovedì e ieri nel piazzale di un centro commerciale alla periferia di Mantova, sembra essere, dunque, quello del regolamento di conti per fatti legati allo spaccio di droga. I carabinieri stanno lavorando su questa pista e starebbero anche verificando i filmati delle telecamere del centro commerciale, anche se l’aggressione è avvenuta in una zona defilata del piazzale, di difficile sorveglianza da parte dell’occhio elettronico.

I due, secondo una prima versione dell’accaduto fornita da un conoscente, che i carabinieri stanno verificando, sarebbero stati vittima di una vera trappola: invitati, infatti, ad un appuntamento con una telefonata ricevuta mentre si trovavano in un bar di San Giorgio Bigarello. Una volta raggiunto, all’ora convenuta, il piazzale del centro commerciale, che dista pochi chilometri dal bar, sarebbe scattato l’agguato. I due si sarebbero trovati di fronte a quattro-cinque persone che li hanno aggrediti a colpi di mazze da baseball.

Non ti vaccini? Allora non puoi leggere in chiesa

Non ti vaccini? Allora in chiesa niente letture dall’ambone, niente canti con il microfono. Perché “ognuno è libero di agire come crede, ma la Parrocchia ha il dovere di stabilire delle regole per tutelare la salute di tutti”. Con un post su Facebook – molto commentato – don Massimiliano Moretti, parroco della chiesa di Santa Zita a Genova, si è scagliato contro i parrocchiani che “ostentano il fatto che non si sono vaccinati né lo faranno. Finché lo Stato lo permette ognuno è libero di fare ciò che vuole – scrive nel post –. Tuttavia, nel rispetto della salute di tutti chiedo che fin da adesso, coloro che non si sono vaccinati evitino di fare i lettori nelle messe o di usare microfoni per cantare, pregare o per altri usi”. Il messaggio è chiaro: la parrocchia ha il dovere di stabilire delle regole per tutelare la salute di tutti soprattutto dei numerosi anziani che affollano la parrocchia. “Non sono uno scienziato e non posso obbligare nessuno a fare il vaccino – sottolinea il parroco –. Ma è un mio dovere pensare alla salute di tutti”.

Niente mascherine in consiglio comunale, arrivano i carabinieri. Ma Scajola li caccia

Quando ha visto i due uomini in divisa entrare non ci ha visto più: “Via, fuori! Qui non potete entrare, vi ordino di uscire”. Al sindaco di Imperia, Claudio Scajola, ex ministro dell’Interno e tra i protagonisti degli anni d’oro del berlusconismo, quella visita di giovedì di due carabinieri in consiglio comunale proprio non è andata giù. Peccato che l’intervento dei due uomini di pubblica sicurezza fosse stato richiesto dalla consigliera comunale del M5S Maria Nella Ponte che stava osservando come molti suoi colleghi – non il sindaco Scajola – durante il consiglio comunale non stavano indossando la mascherina nonostante ci sia l’obbligo nei luoghi al chiuso. Tanto più se quel luogo è un consiglio comunale dove si dovrebbe dare l’esempio ai cittadini per rispettare le norme anti-Covid.

La consigliera ha chiesto ai colleghi di indossare le protezioni, ma le è stato risposto che “le paratie in plexiglass” erano “sufficienti” e quindi, in ultima battuta, ha chiesto l’intervento dei carabinieri che sono arrivati per ripristinare l’ordine e far ripartire il consiglio in sicurezza. “L’ho fatto – ha spiegato la consigliera Nella Ponte – perché non mi è stato consentito di esercitare un mio diritto, quello di partecipare al Consiglio in sicurezza”. Ma a quel punto il sindaco Scajola ha iniziato a inveire contro un agente, divisi dalla paratia in plexiglass, accusandolo di essere intervenuto in un luogo politico. “Qui voi non potete entrare – ha urlato Scajola rivolgendosi al carabiniere – ma stiamo scherzando!”. Quando l’agente gli ha spiegato che era solo venuto per far rispettare l’obbligo di indossare le mascherine, il sindaco ha risposto minaccioso: “Non è un problema nostro… voi non potete entrare in un luogo pubblico e politico interrompendo una riunione”. Il carabiniere ha provato a spiegargli che, ovviamente, non si trattava di “un intervento politico ma solo “di sicurezza”. Ma niente, alla fine i due agenti sono stati costretti a lasciare la sala consiliare. Poco dopo la giunta comunale guidata dal sindaco berlusconiano ha firmato una nota di apprezzamento nei confronti di Scajola contro “l’intervento della polizia” in un luogo democratico: “Non era mai successo, a Imperia, che il dibattito consiliare fosse interrotto da un intervento in armi di una forza pubblica. Un fatto inaudito” è stata la denuncia della giunta di Imperia. Insomma, c’era il rischio di un golpe armato. E tutto per qualche mascherina abbassata.

Altro impegno a Riyad: Matteo “aiuta l’umanità”

Dal Rinascimento all’Umanesimo, ancora a Riyad. Il FII Institute – la fondazione saudita nel cui board siede Matteo Renzi – ha messo in calendario un nuovo evento, dopo quello a cui l’ex premier partecipò in piena crisi di governo lo scorso gennaio. E questa volta, dopo i riferimenti al nuovo Rinascimento, l’Arabia si farà portatrice di valori umanisti, promuovendo tre giorni di incontri sul tema “Investire nell’umanità – Mentre diversi settori testimoniano un rinascimento, quali sono gli investimenti che creeranno i migliori benefici per l’umanità?”.

La nuova edizione del FII (Future Investment Initiative) è fissata dal 26 al 28 ottobre a Riyad, la stessa città in cui sei mesi fa Renzi intervistò il principe Mohammad bin Salman chiamandolo “amico mio” e confessandogli di “invidiare il costo del lavoro saudita”. L’istituto non ha ancora pubblicato la lista degli speaker, ma Renzi è uno degli uomini chiave dell’ente e dunque difficilmente mancherà, vista anche la rilevanza della kermesse. In ogni caso, ieri il Fatto ha provato a chiedere all’ex premier una conferma sulla sua eventuale presenza a Riyad (fermo restando il suo impegno “organizzativo” dentro al board), ma Renzi ha preferito non rispondere.

L’evento però è un’occasione d’oro per l’istituto e per la propaganda del principe. Oltre all’ex premier, a gennaio parteciparono agli incontri giganti della finanza mondiale, come il fondatore di Blackstone, Steven Schwarzman, e l’amministratore delegato del gruppo Goldman Sachs, David M. Salomon. E anche questa volta, nell’annunciare l’evento di ottobre, il FII Institute garantisce la presenza di “leader mondiali, esperti, innovatori”, riuniti per “esplorare soluzioni pionieristiche” per “le sfide della società”.

Non solo: YasirAl-Rumayyan, presidente del board of trustees nonché governatore del Fondo per gli investimenti pubblici saudita, promette di “catalizzare i cambiamenti necessari per raggiungere un futuro equo e prosperoso per tutti”. E pure Richard Attias, ceo del FII Institute, si fa prendere dall’entusiasmo: “Visto che il mondo riconosce la necessità di un cambiamento sostenibile, investitori e leader sono alla ricerca delle giuste strade per contribuire, in modo da creare valore e avere un impatto. Il neo rinascimento dell’economia globale, che abbiamo esplorato a gennaio, sta emergendo e l’edizione di ottobre sarà una chiamata all’azione unica”. Il tutto mentre l’istituto si definisce “una piattaforma per la collaborazione internazionale al servizio dell’umanità”.

Una ostentata filantropia, insomma, che non tradisce alcun imbarazzo rispetto ai guai dell’Arabia Saudita, al centro di enormi polemiche – tra l’altro – per l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, di cui la Cia considera mandate il principe Bin Salman. Lo stesso Renzi ha più volte minimizzato, rivendicando con convinzione il proprio ruolo nel board of trustees. Un incarico per cui l’ex premier può portarsi a casa fino a 80 mila dollari l’anno, vincolati alla partecipazione ai lavori del FII Institute e a eventi come quello dello scorso gennaio e del prossimo ottobre. Circostanza, quella dei lauti compensi del leader di Iv, che ha fatto gridare allo scandalo parecchi parlamentari (soprattutto di M5S e Leu, che hanno pure portato il caso in Parlamento), visto che il FII è di fatto controllato da un fondo sovrano e perciò Renzi si ritrova nello stesso momento al servizio dei cittadini italiani, in quanto senatore, mentre porta avanti incarichi privati che rimandano a un governo straniero.

D’altra parte da un po’ di tempo il leader di Italia Viva e l’Arabia hanno avviato un felice rapporto di collaborazione. Oltre a far parte del FII Institute, Renzi è infatti annoverato tra gli editorialisti di Arab News, giornale considerato molto vicino al principe saudita, e ha lavorato alla Royal Commission dedicata allo sviluppo della città di AlUla, per la quale la famiglia reale ha progettato un imponente rilancio urbanistico. Una carriera formidabile portata avanti rigettando sempre ogni accusa di conflitto d’interessi: “Non c’è alcun conflitto – si è difeso tempo fa il “senatore semplice di Firenze” – L’unico interesse in conflitto è di qualcuno che vorrebbe che io smettessi di parlare dell’Italia. L’attività parlamentare è compatibile con quella di uno che va a fare iniziative all’estero, è tutto perfettamente in regola e legittimo”. Tra qualche mese, Renzi potrà dimostrare di non aver cambiato idea. Approfittandone pure per riabbracciare un vecchio amico.

Elettrosmog i renziani tentano l’assalto. Soglie più alte ma sul 5G l’Ue si divide

È il sogno di Vittorio Colao e i renziani di Italia Viva intendono realizzarlo, costi quel che costi: se del caso, anche mettendosi contro centinaia di sindaci che si sono fin qui opposti con ogni mezzo a disposizione per tutelare la popolazione dai rischi derivanti dall’elettrosmog. Bypassare le opposizioni locali per accelerare i progetti sul 5G è il pallino del ministro dell’Innovazione con un lungo passato in Vodafone. Quando aveva fatto parte della task force per il rilancio del Paese, ne aveva fatto una sua sua priorità. Al governo c’era Giuseppe Conte che, però, aveva soprasseduto.

Ora che al governo c’è Mario Draghi, l’antico sogno sta per diventare realtà: ossia adeguare i livelli di emissione elettromagnetica a quelli europei che sono sensibilmente più alti di quelli adottati in via precauzionale nel nostro Paese. E che costituiscono, a sentir Colao, ma pure i giganti di settore, il maggior ostacolo allo sviluppo delle reti 5G. Tanto da apparecchiare un emendamento ad hoc al decreto sulla governance del Pnnr che è tra quelli segnalati, ossia la short list che, accada quel che accada, verranno comunque messi in votazione perché ritenuti irrinunciabili.

Cosa prevede la modifica di IV

L’emendamento è vergato dai renziani di stretta osservanza come Luciano Nobili e Marco Di Maio (quest’ultimo imprenditore del settore delle telecomunicazioni). Prevede che “ai campi elettromagnetici generati dalle stazioni e sistemi o impianti radioelettrici, impianti per telefonia mobile, impianti fissi per radiodiffusione, si applica quanto stabilito dalla raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea del 12 luglio 1999”. Sempre grazie alla manina del tandem renziano è poi anche prevista l’abrogazione tout court dei limiti contenuti nelle norme italiane adottate nel 2003. Risultato? Proprio quel che ha sollecitato Colao che nelle proposte presentate a Conte sulla questione aveva dato questa indicazione: “Adeguare i livelli di emissione elettromagnetica in Italia ai valori europei, oggi circa tre volte più alti e radicalmente inferiori ai livelli di soglia di rischio, per accelerare lo sviluppo delle reti 5G. Escludere opponibilità locale se i protocolli nazionali sono rispettati”.

Come sono i numeri oggi, come si vogliono cambiare

L’ossessione di Colao e dei renziani di Italia Viva riguarda l’innalzamento del limite di esposizioni alle radiofrequenze da 6 Volt per metro, come stabilito dalla legge italiana, a 61 Volt per metro fissato dall’Europa. Una fonte informata spiega però al Fatto che la modifica “non ha che fare con eventuali problemi di efficienza del 5G che l’attuale limite potrebbe causare allo sviluppo della nuova tecnologia”. Sarebbe invece “legata a questioni di soldi, tanti, che le compagnie di telecomunicazioni dovrebbero pagare in più per rispettare il limite in vigore. Inoltre, l’Europa pare voglia ridiscutere il limite dei 61V/m, con l’intento magari di abbassarlo per garantire maggiore tutela della salute pubblica”. Ma andiamo con ordine.

Cosa c’è in gioco: soldi, tempo e precauzione

Se per il 5G lo Stato continuasse a restare al di sotto dell’attuale limite a protezione dei cittadini – come ha già fatto per il 4G – il costo d’istallazione delle antenne per garantire l’efficienza delle reti sarebbe di circa 4 miliardi di euro in più (come calcolato dal fisico Antonio Capone al Politecnico di Milano, audito sul tema alla Camera dei deputati il 9 aprile 2019 insieme ai rappresentanti di Assotelecomunicazioni). “Il punto non è la frequenza, ma il campo di emissione dell’antenna, ovvero l’intensità dell’energia emessa, che non deve superare, secondo gli studi scientifici fin qui condotti, i 5V/m, soglia oltre la quale si comincia a registrare un aumento statisticamente rilevante del numero di tumori, come i rarissimi schwannomi al cuore”, spiega Fiorella Belpoggi dell’Istituto Ramazzini di Bologna, che ha condotto studi cruciali per determinare il rischio da esposizione a emissioni elettromagnetiche, di riferimento mondiale sia per la solidità dei risultati che per l’indipendenza dall’industria. “Il limite italiano a 6V/m è in linea con quanto indicato dalla scienza – aggiunge –. Se la legge viene rispettata, il rischio per il 5G può essere governato come è stato per il 4G e non ci sarà nulla da temere. Se invece non si vuole considerare il rischio biologico, allora bastano meno antenne a 61V/m, invece che tante piccole a 6V/m”. È come se per illuminare una stanza si utilizzasse una candela enorme o tantissime candele molto più piccole. Il risultato non cambia, in termini di efficienza, mentre in termini di esposizione sì.

I rischi e le nuove analisi avviate da Bruxelles

La legge italiana non considera solo il rischio termico di surriscaldamento dei tessuti, cioè quello a cui si riferisce il limite fissato dall’Europa. Protegge i cittadini anche dal rischio biologico, cioè quello di sviluppare certi tumori nel tempo. Il limite italiano era stato fissato già da una legge del 2001, poi rivista e peggiorata nel 2011 col governo Monti, ma ciononostante resta ancora una delle più scrupolose.

Secondo fonti sentite dal Fatto, ora il Parlamento Europeo sta iniziando a valutare la possibilità di rivedere la direttiva che fissa il limite a 61V/m. La Stoa, l’unità di previsione scientifica del Parlamento europeo (l’organo che definisce a livello comunitario le valutazioni su scienza e nuove tecnologie) ha avviato la revisione della letteratura scientifica . Se passasse l’emendamento, il paradosso è che l’Italia oggi potrebbe innalzare i limiti proprio mentre l’Europa li mette in dubbio. Con il rischio di dover tornare indietro. Paradosso, oltretutto, solo fino a un certo punto: con questo gioco delle tre carte, le compagnie di telecomunicazioni risparmierebbero i loro miliardi e seppur l’Europa dovesse cambiare la direttiva, l’Italia avrebbe il tempo di godere dei vantaggi dei limiti più elevati.

“Molti cittadini pensano che siano tante antenne disseminate a essere pericolose, quando invece sarebbero proprio quelle a minimizzare l’esposizione”, aggiunge Belpoggi. Il limite europeo era stato fissato sulla base di quanto stabilito dalla Commissione Internazionale per la Protezione dalla Radiazione non ionizzante (Icnirp). La Commissione però riconosce solo il rischio termico e nega tuttora il rischio biologico. Per questa ragione, spiega la fonte, l’Icnirp è oggi considerato molto meno affidabile dall’Ue “che ha deciso di vederci chiaro e sta quindi pensando di rianalizzare la normativa”.

Fondi del Vaticano: Becciu a processo. Soldi pure ai politici

Fra investimenti sciagurati, presunte estorsioni e accuse di riciclaggio, il Vaticano ha perso almeno 400 milioni di euro. In una vicenda che nasce nelle segrete stanze d’Oltretevere, coinvolge personalità “altissime” della Chiesa e finisce pure per lambire nomi eccellenti della politica italiana, fra cui l’ex ministro Franco Fattini (non indagato). Il Tribunale del Vaticano ha disposto il rinvio a giudizio per 10 persone e 4 società nell’inchiesta sugli investimenti della Segreteria di Stato a Londra. In particolare in un immobile, quello di Sloane Square, operazione che vede protagonisti il finanziere romano Raffaele Mincione e il broker molisano Gianluigi Torzi. Due gli alti prelati che compariranno davanti al giudice. Uno è “altissimo”, il cardinale Angelo Becciu, ormai ex presidente della Congregazione delle Cause dei Santi e, soprattutto, potentissimo ex sostituto della Segreteria di Stato, accusato di peculato e abuso d’ufficio.

I pm contestano a Becciu di aver finanziato la cooperativa del fratello Antonino con 600mila euro provenienti dai fondi della Cei e 225mila euro della Segreteria di Stato. Non solo. I sospetti dei pm riguardano anche 575mila euro pervenuti a una società della “esperta di intelligence” Cecilia Marogna, molto vicina al cardinale, incastrata da una foto su Facebook in un hotel di lusso.

La “truffa” di Londra

L’inchiesta nasce dalle denunce nel 2019 presentate dallo Ior, la banca vaticana oggi guidata da Gian Franco Mammì. Ma i fatti partono nel 2013, quando la Segreteria di Stato si indebita con Credit Suisse per 200 milioni di dollari, investiti nel fondo di Mincione, l’Athena Capital Global Opportunities Fund, di cui 100 milioni nel palazzo a Chelsea. Alla fine del 2018 le quote avevano perso oltre 18 milioni di valore. Per i pm, Mincione ha usato i soldi del Vaticano per effettuare “numerose operazioni utili a perseguire finalità altamente speculative, avevano registrato perdite enormi per le casse dello Stato”. Quando il Vaticano cerca di sfilarsi, entra in gioco Torzi. Il broker fa firmare uno Share Purchase Agreement che sottrae alla Segreteria di Stato il controllo dell’immobile di Londra, creando 1000 azioni della società Gutt Sa e attribuendo solo alle azioni da lui detenute il diritto di voto, lasciando le 30mila azioni “carta straccia” alla Segreteria di Stato. Il Vaticano si accorge della “truffa”, ma Torzi, secondo chi indaga, per chiudere la faccenda alza il prezzo della sua commissione – anche davanti al Papa – ed “estorce” 15 milioni.

Il ruolo del monsignore

Angelo Becciu non entra subito nell’inchiesta. Viene coinvolto perché i magistrati gli imputano delle “interferenze” e ritengono che vi sia anche lui dietro l’affare londinese. In fase di indagine lui si trincera dietro il segreto di Stato, spiegando che “il Papa è stato informato”. Bergoglio sarebbe arrivato a conoscenza dell’esistenza di Claudia Marogna solo l’estate scorsa. Dando il suo nulla osta al processo, il Pontefice ne ha quindi smentito le affermazioni. Becciu per i pm, tentava depistaggi: “Al momento giusto bisognerà fare una campagna stampa”. Nella veste di suo accusatore emerge monsignor Alberto Perlasca, suo braccio destro. “Definiva ‘porci’ i pm che lo volevano interrogare (…) mi fece di scaricare la chat Signal”, ha dichiarato. Per le pressioni che gli avrebbe fatto, Becciu dovrà rispondere anche di subornazione. Ombre pure su un concerto di beneficenza con Claudio Baglioni.

Il bonifico a Frattini

Come detto, in questa storia entra anche la politica italiana. Di marca berlusconiana. Dieci dei 15 milioni ottenuti dal Vaticano, Torzi li incassa attraverso la Lighthouse Group. Fra i bonifici in uscita, la Finanza ne trova uno da 125mila euro destinato alla Jci Holding Ltd. Nell’advisor boarding – si apprende nelle carte – si trovano politici di centrodestra: Franco Frattini (ex ministro degli Esteri), Giulio Tremonti (ex ministro dell’economia) e Giovanni Castellaneta (ex ambasciatore italiano in Iran e Stati Uniti). Nessuno di loro è indagato. Nemmeno Giancarlo Innocenzi Botti, ex sottosegretario alle comunicazioni sempre con Berlusconi”. Per gli inquirenti, Innocenzi Botti ricopre un ruolo nell’operazione di Torzi con la Gutt Sa. Frattini, da pochi mesi nominato presidente aggiunto del Consiglio di Stato, riceve anche un bonifico a suo nome. Nelle carte si parla di 30mila euro. “Tale pagamento – spiegano i pm – avrebbe dovuto essere una sorta di ‘gettone di presenza’ per la partecipazione all’Advisory Board”, ma “se così fosse avrebbe dovuto essere pagato da un conto della Jci Capital e non della Lighthouse”. Un bonifico lo riceve anche Francesco Rocca (non indagato), presidente della Croce Rossa Italia – sondato da Giorgia Meloni per la candidatura a sindaco di Roma – circa 31mila euro, a ridosso della commessa che la Lighthouse, durante la pandemia, ottiene dalla Cri per la fornitura di 100mila mascherine al prezzo di 320mila euro.

La Finanza ha anche approfondito il rapporto fra Torzi e Frattini: “È emersa una chat del 13 giugno 2019 in cui Torzi invia la foto di una cena in cui oltre a Torzi e Frattini compaiono Innocenzi Botti, Francesco Rocca e altre persone” fra cui l’allora vice primo ministro libico Ahmed Maiteg “a cui Torzi ha pagato la vacanza in Sardegna a luglio 2018”. Con il commento scanzonato del broker: “La figa unisce tutte le religioni”.

Baco Green pass: subito hackerato e già falsificato

Fatto il Green pass, trovato l’inganno. Anzi, gli inganni. Perché il certificato di vaccinazione digitale contro il Covid-19 per smartphone, disponibile e valido in tutta la Ue, è stato già “bucato” dagli hacker e falsificato. Traditi dalla fretta, gli sviluppatori hanno lasciato ampi varchi e notevoli lacune di sicurezza. Ma c’è anche chi, più banalmente, anche in Italia ha già incominciato a fare commercio di certificati falsi.

Che l’app presenti grandi falle lo hanno spiegato alla stampa tedesca gli esperti di sicurezza informatica di GData Cyber Defense, azienda di Bochum specializzata nella produzione di software di sicurezza e antivirus. I tecnici di GData hanno esaminato da vicino il certificato di vaccinazione digitale scoprendo una serie di vulnerabilità che rendono possibili le contraffazioni. Secondo gli esperti, le vulnerabilità cominciano già con il trasferimento di dati dal libretto di vaccinazione, a causa della mancanza di informazioni fondamentali come il numero di lotto del principio attivo, il luogo dove è stata effettuata la vaccinazione o chi l’ha effettuata. Mancano poi sistemi di controllo automatico della plausibilità dei dati inseriti. Il team di GData si è imbattuto in una data di vaccinazione errata per il secondo appuntamento che il computer non ha riconosciuto, producendo il certificato digitale completo senza segnalare l’errore. Un altro difetto è il mancato controllo della firma digitale. Così è accaduto che il test di sicurezza abbia creato un certificato digitale di vaccinazione datato 1890 per il medico Robert Koch, nato nel 1843 e dunque morto molto tempo prima della diffusione della pandemia. Nonostante le incongruenze evidenti, il sistema digitale ha registrato il certificato di vaccinazione senza problemi. Ma per i tecnici di GData la debolezza più evidente sta nella funzione di visualizzazione del certificato di vaccinazione digitale nell’app, perché la firma digitale sotto il certificato non è verificata. Questo significa che si potrebbe anche includere un certificato di fantasia nell’app senza alcuna indicazione della sua autenticità. Questo spalanca autostrade ai truffatori, i quali per registrare false vaccinazioni sul database hanno fondamentalmente solo bisogno di un certificato di vaccinazione falso.

Un business che fa già gola. Il Nucleo speciale tutela privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza e la Procura di Milano, che già ad aprile avevano oscurato due canali Telegram con oltre 4mila iscritti, giovedì 1° luglio, giorno d’esordio del Green pass, sono tornati a intervenire sequestrando 10 canali ai quali si erano già iscritte oltre diecimila persone. Sui social venivano offerti, senza averli, i vaccini Pfizer, Moderna e Astrazeneca e anche Green pass falsi, venduti nel dark web. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dai sostituti Maria Baj Macario e Maura Ripamonti, è ancora in corso e mira a individuare venditori e acquirenti. I prezzi dei vaccini oscillavano da 155 euro per una dose a 20mila per uno stock di 800 fiale, quelli per il Green pass arrivavano fino a 130 euro per il pacchetto all inclusive che comprendeva falsi dati identificativi del vaccinato e Qr code. Sono un centinaio i Green pass falsi individuati nel web grazie a un sistema di monitoraggio basato sull’intelligenza artificiale.