Burioni: “Delta più pericolosa”. Vaia: “No, solo una delle tante”

“Se, come pare, la variante Delta ha un R0 tra 8 e 10 bisogna che la politica prenda seriamente e velocemente in considerazione l’obbligo vaccinale per tutti o si rischia grosso. Il virus non è più quello che abbiamo conosciuto, è diventato molto più pericoloso”. Così ieri su Twitter Roberto Burioni, virologo dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, prende posizione sul terrore estivo della pandemia: l’ormai famigerata variante Delta di SarsCov2.

Ma prima degli scontri della politica, ancora una volta, è proprio la comunità scientifica a dividersi. Se perfino Massimo Galli del “Sacco” di Milano, noto per la sua intransigenza, sul Fatto di ieri sosteneva che grazie ai vaccini non avremo un’altra ondata drammatica come lo scorso anno, è il direttore dell’Istituto Malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma Francesco Vaia a bocciare la proposta di Burioni. “Il nostro problema non sono i no-vax – sostiene Vaia – ma i nostri errori di comunicazione che hanno generato una fascia di popolazione confusa e disorientata. Più che obbligare abbiamo bisogno di rendere consapevoli le persone. I cittadini sono più avanti di noi. E siamo rigorosi come sistema Paese sui controlli. Il Green pass come strumento di consapevolezza è premiale e non burocratico: chi è vaccinato in doppia dose o chi negativo al tampone può accedere a stadi, concerti, discoteche, luoghi di ritrovo collettivo. Altrimenti non si accede. Bisogna in questo caso essere rigidamente rigorosi. Sereni ma rigorosi”. Per Vaia, anzi, “il nemico è alle corde, manca solo il colpo del ko, ma presto lo assesteremo”.

Il direttore dello Spallanzani tira fuori anche dei numeri: “Non bisogna fare terrorismo. Il virus muta e sta mutando ancora una volta. È probabile che anche la variante Delta diventi dominante, così come lo sono state in passato la variante iberica e brasiliana. Dobbiamo mettere in campo tutte le misure protettive e la prima, come si evince dai nostri studi, è la vaccinazione. I vaccinati con doppia dose sono, infatti, solo il 5% dei contagiati. Le percentuali vanno rapportate al numero dei positivi. Quindi parliamo di 37 casi nel Lazio di variante Delta su 106 sequenziamenti di tamponi positivi. Riscontriamo un’efficacia dei vaccini pari al 95% dopo la seconda dose”. E ancora: “Anche laddove ci sono già molti contagi come nel Regno Unito i vaccinati non manifestano la malattia grave e non muoiono, hanno al massimo pochissimi sintomi: quindi non serve scoraggiarsi ma serve vaccinarsi”.

Dalla politica interviene il deputato del Pd Francesco Boccia: “Il tema della vaccinazione obbligatoria è molto delicato, spero che si apra almeno la discussione in Parlamento. Ci sono ancora molti over 60, che rappresentano la fascia più a rischio, che non sono ancora vaccinati e la discussione sul raggiungere tutti va affrontata prima del prossimo autunno, anche guardando a ciò che accade negli altri Paesi a causa della variante Delta e delle altre varianti. La ripartenza dipenderà dalla vaccinazione di massa”.

Mentre proprio in Lombardia, la regione che è stata l’epicentro dell’epidemia in Italia, quasi 500 tra medici e operatori sanitari firmano un ricorso al Tar contro l’obbligo vaccinale per la loro categoria: “L’Italia – scrivono i ricorrenti – è l’unico Paese dell’Unione europea a prevedere l’obbligatorietà per determinate categorie”, il ricorso “si fonda sulla illegittimità costituzionale, sotto plurimi profili, di diritto interno e diritto europeo, di un obbligo riferito a un vaccino di cui non è garantita né la sicurezza né l’efficacia, essendo la comunità scientifica unanime nel ritenere insufficiente, sia dal punto di vista oggettivo sia dal punto di vista temporale, la sperimentazione eseguita”. Eppure i dati dimostrano che l’unico modo per scampare alla variante Delta del SarsCov2 sarebbero le due dosi di vaccino e il ministro Roberto Speranza avverte: “Abbiamo bisogno di proseguire ancora con attenzione, cautela, gradualità, soprattutto alla luce delle tante varianti che stanno rendendo più difficile questa sfida e rispetto a cui abbiamo bisogno di tenere alto il livello di attenzione, di controllo, di verifica”.

Lega e FdI, agguato al reato di tortura

Non gli è bastato solidarizzare con i 52 agenti accusati del pestaggio e delle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere con tanto di sit-in sul posto e prima, a inizio marzo, con i 10 del penitenziario di San Gimignano (Siena) imputati per il pestaggio di un detenuto marocchino nel 2018. Matteo Salvini (e Giorgia Meloni) vuole andare oltre, sostenendo gli agenti della polizia penitenziaria anche a livello legislativo. Il leader della Lega da anni sta portando avanti una battaglia per abolire il reato di tortura, il reato inserito nel nostro codice penale nel 2017 dopo ripetute richieste delle Corti europee, e da via Bellerio fanno sapere che, appena le acque si calmeranno, Salvini tornerà alla carica per chiederne l’abolizione. “Proporremo presto la cancellazione di questo cosiddetto reato” diceva un anno e mezzo fa, prima della pandemia, il segretario del Carroccio. E adesso potrebbe appoggiare le proposte di legge del partito alleato nel centrodestra, cioè Fratelli d’Italia, che dall’inizio della legislatura ha presentato ben due disegni di legge per abrogare il reato di tortura. Il primo è alla Camera presentato dal deputato Edmondo Cirielli, mentre il secondo è stato depositato al Senato da Antonio Iannone: sono due proposte speculari che propongono di abolire il reato introdotto agli articoli 613-bis e 613-ter del codice penale e in particolare l’istigazione dei pubblici ufficiali a commettere tortura e l’aggravante nei loro confronti. D’altronde, dopo che Meloni ha espresso la sua “fiducia” nei confronti della polizia penitenziaria, ieri la linea di FdI sui fatti di Santa Maria Capua Vetere l’ha data lo stesso Cirielli, coordinatore nazionale del partito che, commentando uno striscione apparso a Roma contro gli agenti di un movimento anarchico (“se mele marce abbattiamo l’albero?”), ha spiegato che è in corso “una campagna denigratoria” e una “rappresaglia mediatica” nei confronti degli agenti. Nel 2018, in un tweet poi cancellato, Meloni aveva addirittura scritto che “il reato di tortura impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”.

Allo stesso tempo, il centrosinistra – Pd, M5S e la sinistra di Leu – negli ultimi 7 anni ha provato diverse volte ad approvare una norma che obbligasse l’identificazione degli agenti: un modo per renderli riconoscibili e punirli in caso di violenza e anche un deterrente per evitare nuovi casi come quello del G8 di Genova del 2001 o dei pestaggi dentro le carceri. L’ultimo tentativo è stato fatto dal centrosinistra nel novembre scorso con un emendamento firmato dal deputato di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni e dal dem Matteo Orfini per apporre sul casco degli agenti un codice così da identificarli. La proposta aveva provocato le reazioni stizzite dei leader del centrodestra e dalle sigle sindacali che tutelano i poliziotti. Per la deputata di Fratelli d’Italia, Augusta Montaruli, molto vicina a Meloni, la proposta era addirittura “irresponsabile”. Salvini ieri ha ribadito la sua contrarietà dopo che in molti, da sinistra, hanno invocato questo strumento per evitare nuovi casi di violenze: “Se fossi ministro dell’Interno – ha detto Salvini ricordando i suoi tempi al Viminale – mettere un numeretto sulla testa degli agenti è l’ultima cosa che farei”. Con la Lega in maggioranza, quindi, non si farà mai.

“Minacce per far ritirare le denunce sui pestaggi”

Nei giorni successivi al furioso pestaggio del 6 aprile 2020, gli agenti del penitenziario di Santa Maria Capua Vetere provarono a “convincere”, non proprio con le buone, i detenuti a ritirare le denunce e a chiedere scusa per le rivolte dei giorni precedenti, quando l’emergenza Covid fece salire la temperatura delle proteste a livelli preoccupanti.

L’obiettivo era chiaro: ribaltare le colpe, far passare il messaggio, con documenti alla mano da produrre in amministrazione penitenziaria, che in fondo è stata colpa loro, dei reclusi. Se l’erano cercata. “Mio marito mi disse che le guardie giravano coi fogli da far firmare in bianco, minacciando lui e altri se non lo avessero firmato”, sostengono diverse mogli e compagne dei reclusi al Fatto Quotidiano.

Il 22 maggio 2020 un detenuto, B. D. A., mette a verbale che tre agenti “mi dissero di ritirare la denuncia per poter vivere più tranquillamente all’interno del carcere”. Sono le stesse circostanze riferite da A. T. al pm il 22 aprile 2020: “Un ispettore chiese sia a me che a E. di ritirare le denunce e di dissuadere anche gli altri detenuti dal proporle, ma gli facevo presente che ‘ogni testa è un tribunale’ e quindi non avrei potuto offrirgli certezza in merito”. A. T. viene risentito in giugno: racconta di una perquisizione subita insieme ad altri 16 reclusi pochi giorni dopo il pestaggio, seguita da minacce: “Non avete abbuscat assai, vi dobbiamo picchiare ancor. Macafatt ci hai denunciat”.

Diversi racconti concordano sul punto: ci furono pressioni sui detenuti per ridimensionare o cancellare le accuse. E tra queste presunte pressioni – che il Gip di Santa Maria Capua Vetere, Sergio Enea, non ritiene riscontrate, valutando insussistenti i gravi indizi di colpevolezza degli indagati – c’è anche la storia della lettera di scuse alla commissaria capo e alla direttrice del carcere sammaritano, firmata da 35 detenuti di 12 celle della terza sezione del Reparto Nilo, il reparto dove avvenne “l’orribile mattanza”. Lettera “con cui si chiede scusa per il comportamento assunto nei giorni precedenti (da intendersi 5 e 6 aprile 2020), assicurando che mai più avranno a verificarsi episodi analoghi”, si legge nell’ordinanza.

Copia della lettera verrà ritrovata su una chat di gruppo di dipendenti dell’amministrazione penitenziaria, estrapolata dal cellulare di Antonio Fullone, il provveditore campano alle carceri ora sospeso dal giudice. Fullone l’aveva ricevuta il 9 aprile da un altro indagato, Pasquale Colucci, il comandante del gruppo di supporto agli interventi. Il “regista” del pestaggio, secondo i capi di imputazione.

Dalle carte, la nascita di questa lettera non è chiara. Diversi detenuti sostengono che l’idea sia stata della polizia penitenziaria e uno aggiunge un dettaglio importante: “Fu formulata e ce la propose un certo brigadiere C. al fine di ottenere i benefici di regime aperto all’interno del carcere. In effetti si trattava di assumerci noi le responsabilità degli accaduti”. Un altro recluso però la attribuisce all’ ‘avvocato’. È il soprannome di un detenuto della terza sezione, cella 6. “Ce la propose lui due giorni dopo gli eventi”, dice uno dei firmatari. Un altro dei sottoscrittori, sentito l’8 giugno 2020, precisa: “Io non volevo firmarla, ma per paura di ritorsioni la firmai”. Paura è una parola che ricorre spesso. F. B., interrogato il 10 giugno 2020, spiega invece cosa rispose agli agenti della penitenziaria che lo avvicinarono per chiedergli di firmarla e perché si rifiutò di farlo: “Io non dovevo delle scuse, dovevo riceverle, in quanto torturato senza nessun motivo”.

Intanto il Dap ha sospeso altre 25 persone, tra cui i due vice direttori del carcere e il vice comandante della polizia penitenziaria. Vanno ad aggiungersi ai precedenti 52, che riguardano le persone raggiunte dai provvedimenti cautelari emessi lunedì scorso dal gip su richiesta della Procura guidata da Maria Antonietta Troncone.

E sempre su richiesta della Procura, accolta dal Dap che l’ha formalizzata in un provvedimento, l’altroieri 30 detenuti del carcere sammaritano sono stati trasferiti presso altri istituti penitenziari tra la Campania, il Lazio e altre regioni. Il provvedimento, confermato dalla direzione del carcere, sarebbe stato dettato dalla necessità di tutelare la loro sicurezza.

Una storia infinita. Da Malagrotta ad Albano

Ieri Virginia Raggi, sindaca di Roma, ha chiesto ai suoi uffici un’ordinanza immediata per la riapertura della discarica di Albano, che è una di quelle che la Regione Lazio continua a tenere chiusa. Ad Albano si stanno mettendo in moto le mobilitazioni locali per impedire la riapertura della discarica. Intanto, nell’area regionale, le uniche discariche aperte sono due, Viterbo e Civitavecchia che offrono un assorbimento di rifiuti forse fino alla fine dell’anno.

La diatriba laziale prosegue infinita. Raggi ribadisce che il suo compito lo ha svolto: “Ho consegnato la cartografia con l’area metropolitana a Regione, ministero e Prefettura per individuare, perché questo devono fare le Città metropolitane, le aree dove costruire impianti di trattamento e discariche”. La sindaca può farsi forte della sentenza del Tar dello scorso giugno che fa obbligo alla Regione “di individuare una rete integrata e adeguata di impianti per lo smaltimento degli scarti derivanti dal trattamento operato”. Da questo punto di vista, il presidente della Regione non può tirarsi indietro. La situazione, di fatto, non si è mai sistemata da quando è stato deciso di chiudere la mega-discarica di Malagrotta, ormai otto anni fa, senza aver individuato soluzioni alternative. Certo, a Roma il progetto di portare la raccolta differenziata al 70% è fallito, ora è ferma al 44% e forse era stato annunciato con troppo ottimismo. E l’Ama continua a essere un’azienda in crisi. Ma la storia dei rifiuti laziali consegna anche vicende di corruzione e di utilizzo a fini personali delle ingenti risorse che sono messe a disposizione per gestire la raccolta dell’immondizia. Senza contare che, tramite le tasse locali, a pagare sono sempre i cittadini.

Rifiuti, impianti e discariche. Il Lazio maglia nera d’Italia

Due discariche (anzi, una e mezza) funzionanti in una Regione con quasi 6 milioni di abitanti. Impianti per il trattamento dell’indifferenziato in parte definiti “inefficienti” dai magistrati. La dirigente deus ex machina del ciclo regionale dei rifiuti sospesa dopo le accuse di corruzione per aver favorito l’imprenditore suo amico e aspirante monopolista del settore. Sentenze del Tar che, una dopo l’altra, danno torto all’Ente regionale. L’emergenza rifiuti nel Lazio è arrivata a un punto di non ritorno e la campagna elettorale romana non aiuta. La situazione emerge in tutta la sua drammaticità proprio nella città di Roma dove i cumuli di rifiuti sono tornati ad accatastarsi.

Il problema è sempre lo stesso da 8 anni a questa parte: non ci sono gli impianti di smaltimento (discariche o termovalorizzatori) mentre le strutture che trattano i rifiuti funzionano a “velocità” ridotta oppure non sanno dove portare il prodotto delle loro lavorazioni. Un “imbuto” che, puntualmente, si ripropone nei picchi di dicembre e luglio, almeno dal 2013, da quando il governatore Nicola Zingaretti e l’allora sindaco Ignazio Marino decisero di chiudere la discarica di Malagrotta, senza alternative pronte.

In Italia non esiste un quadro regionale così grave. Nel Lazio, tecnicamente, ci sarebbero cinque discariche “attive”: Albano Laziale, Colleferro e Civitavecchia (provincia di Roma), Roccasecca (Frosinone) e Viterbo. Ma Albano è ferma dal 2018 per i postumi di un incendio, Colleferro (gestita dalla Regione Lazio) è stata chiusa a inizio 2020 nonostante avesse ancora spazio per oltre 12 mesi di conferimenti e l’ampliamento di Roccasecca (esaurita) si è arenato dopo l’arresto del suo proprietario, l’imprenditore Valter Lozza. Nell’ultimo decennio sono state chiuse anche Malagrotta (Roma), Bracciano (provincia di Roma) e Borgo Montello (Latina).

Il 27 maggio scorso è stata la stessa Regione Lazio a confermare numeri allarmanti, nella delibera 19323 della Giunta regionale del 27 maggio 2021, in cui si elencavano gli spazi liberi nelle discariche: appena 30.267 metri cubi a Civitavecchia (che si esauriranno entro l’anno) e 165.000 metri cubi a Viterbo, dove tutte le province del Lazio andranno a conferire, per un totale di 195mila metri cubi. Numeri che non fanno stare tranquilli.

Basti pensare che la volumetria autorizzata, al 2019, era di 5 milioni di metri cubi e la capacità residua poco sotto i 600 mila metri cubi. In Lombardia ci sono 5 discariche, con 3 milioni di metri cubi liberi, e 13 inceneritori attivi.

Chi deve realizzare le discariche? E chi, soprattutto deve garantire una “rete integrata e adeguata di impianti per lo smaltimento” dei rifiuti?

Qui veniamo alla lite che va avanti da anni fra Nicola Zingaretti, presidente della Regione da 8 anni, e Virginia Raggi, sindaca di Roma dal 2016 (città che produce oltre il 50% dei rifiuti di tutto il Lazio). La Regione si è sempre appellata all’articolo 6 della legge regionale 27/1998 secondo cui “sono delegate ai comuni (…) l’attività di gestione dei rifiuti urbani (…) compresa la eventuale progettazione, realizzazione o modifica degli impianti fissi”. La normativa di riferimento in realtà è l’articolo 198 del Codice dell’Ambiente (Decreto legislativo 152/2006 aggiornato al 28 febbraio 2021), dove non si parla di impianti di smaltimento in relazione alle competenze dei comuni. Determinante, nell’interpretazione, una sentenza del Tar, la 14889 del 2019, giunta in seguito a un ricorso presentato dalla Rida Ambiente di Aprilia, proprietaria di un Tmb (trattamento meccanico-biologico), che lamentava l’assenza di impianti di smaltimento rifiuti. Nel dispositivo, il giudice Salvatore Mezzacapo parla di “obbligo regionale di individuare una rete integrata e adeguata di impianti per lo smaltimento degli scarti derivanti dal trattamento operato”.

Ci sono anche le responsabilità del Campidoglio. Pochi mesi dopo aver preso possesso di Palazzo Senatorio, Virginia Raggi convocò una conferenza stampa insieme all’allora assessora Pinuccia Montanari. L’obiettivo era quello di portare la raccolta differenziata almeno al 70%: meno rifiuti, meno scarti, impianti alleggeriti. Da tre anni, invece, la Capitale è ferma a quota 44%, a causa anche delle inefficienze di Ama Spa, società sull’orlo del fallimento che non porta i libri in tribunale solo perché basa i suoi introiti sulla tassa rifiuti pagata dai cittadini (fra le più alte in Italia). E di questo la Regione sta cercando di approfittarne, in termini comunicativi e non solo.

Nicola Zingaretti e la sua giunta, infatti, con il piano regionale approvato nel 2020, vorrebbero che la Capitale chiudesse all’interno dei confini comunali il ciclo dei rifiuti. Discariche ed eventuali inceneritori compresi. Ma questo non accade in nessun’altra metropoli italiana. Un emendamento sostenuto trasversalmente dai consiglieri regionali non romani (che in Regione sono la maggioranza) ha approvato il cosiddetto “sub-ato”. Raggi, invece, dopo aver ceduto il 31 dicembre 2019 nell’indicazione della discarica di Monte Carnevale (progetto naufragato dopo l’arresto dell’onnipresente Lozza), ora punta a riaffermare le responsabilità della provincia e nei giorni scorsi ha avviato l’iter per la riapertura della discarica di Albano, di proprietà di Manlio Cerroni, storico “re della monnezza” romana che vorrebbe riaprire anche la storica “buca” di Malagrotta. Proprio Cerroni e i suoi “discendenti” saranno coloro che continueranno a guadagnare milioni di euro da questa crisi senza fine.

Renzi usa Scalfarotto come cavallo di Troia per spaccare i gay a sinistra

Matteo Renzi è all’opera per un’altra piccola impresa di demolizione. L’uomo che ha sbriciolato con dedizione certosina le macerie della sinistra italiana, ora si diletta a spaccare il fronte dei diritti civili: Italia Viva tira il freno a mano sul ddl Zan e usa come cavallo di Troia una vecchia proposta firmata da Ivan Scalfarotto. Renzi e i suoi, insomma, sfruttano un militante delle battaglie contro l’omotransfobia per ostacolare la legge contro l’omotransfobia.

Dal punto di vista formale Italia Viva ha presentato quattro proposte di modifica. La più significativa è l’abolizione dell’articolo 1 del ddl Zan, che si riferisce anche alla contestata (a destra) “identità di genere”, per sostituirlo con una definizione più generica e rassicurante che condanna discriminazioni “fondate sull’omofobia o sulla transfobia”. Il latore della strategia renziana è Davide Faraone. Il senatore siciliano tira in ballo il collega di partito Scalfarotto citando una sua proposta di legge del 2018: “L’emendamento che abbiamo presentato – scrive Faraone a Zan su Twitter – è copiato interamente dalla proposta di legge Scalfarotto, c’è anche la tua firma”.

Una provocazione. Come dire: torniamo indietro a una legge che avevi firmato anche tu per non andare avanti con la tua legge che avevamo firmato anche noi. E votato alla Camera.

“Il testo di Scalfarotto che anch’io ho sottoscritto – spiega Zan al Fatto – faceva parte di una serie di proposte oggetto della cosiddetta ‘bicameralina’ sui diritti civili composta dai deputati e senatori della commissione Giustizia. Il ddl Zan è il risultato finale di quel gruppo di lavoro. Il prodotto di un lungo sforzo di sintesi e mediazione”. Italia Viva, dopo aver contribuito a scrivere e sostenuto il ddl fino all’approvazione alla Camera, oggi lo rinnega al Senato, dove ogni voto degli eletti renziani può essere decisivo. Il punto, secondo il deputato del Pd, è che i renziani cercano l’accordo con la Lega. Puntano sulle insidie di Palazzo Madama per fare asse con Salvini. “Dicono che serve condivisione e che vogliono tenere uniti i partiti maggioranza. Quindi vorrebbero fare una riforma a tutela delle minoranze sessuali con un ammiratore di Orban, uno che in Ungheria approva leggi omofobiche”. Salvini dice di essere “interessato” dalle aperture di Iv. “Certo, li sta usando per smontare il ddl Zan. Spero non si prestino al suo gioco”.

L’aspetto diabolico, poi, è l’utilizzo del nome di Scalfarotto. “Ivan è stato un alleato fedele e coerente in questa battaglia – dice Zan – come anche Boschi, Marattin, Migliore, Noia. Per questo sono stupito di quello che sta succedendo. Comunque le ultime dichiarazioni che ho ascoltato da Scalfarotto erano contro ogni ipotesi di accordo con la Lega, per andare a votare il testo in Senato così com’è oggi. Non so se nel frattempo Renzi l’abbia convinto a cambiare idea”.

Si è destinati a rimanere col dubbio, visto che Scalfarotto non risponde sull’argomento. Contattato nel primo pomeriggio, ha spiegato di avere impegni personali, poi di dover prendere un treno e ha aggiunto di non avere piacere a parlare durante il viaggio. Le domande inviate su Whatsapp sono rimaste senza risposta. È possibile che il deputato e sottosegretario di Italia Viva sia in imbarazzo e in dissenso con la linea del suo partito, che lo chiama in causa personalmente. In quel caso, l’unico timido indizio del suo travaglio interiore sarebbe la fotografia di una lapide in memoria delle vittime omosessuali del nazifascismo, pubblicata venerdì su Twitter: “Ho voluto fotografarla e la metto qui a beneficio di coloro che non capiscono perché c’è bisogno di una legge contro l’odio nei confronti delle persone LGBT+”. Il destinatario del messaggio però è ignoto.

Pochi biglietti per Casellati jr: così Spoleto offre pure la cena

Il merito è della generosa convenzione stipulata dal festival con Confcommercio Spoleto. Come scrive il sito Umbria 24, “un pacchetto speciale a 50 euro che comprende sia il biglietto di ingresso in piazza Duomo con posto riservato in prima categoria e cena dopo spettacolo con menu di quattro portate (antipasto, primo, secondo e dolce, bevande escluse)” in 18 ristoranti che hanno aderito all’iniziativa. L’accordo è proprio per il concerto di Casellati jr, che senza cena costerebbe 35 euro: un bel traino per una prevendita fin qui un po’ fiacca.

Il Fatto Quotidiano ha già raccontato le tante coincidenze affettive attorno alla convocazione del figlio di Elisabetta Alberti all’ambita kermesse spoletina (Alvise aveva già suonato ai Due Mondi nel 2013, ma su un palco meno importante e centrale di quello di giovedì). È già nota la solerzia con cui la presidente segue la carriera del figlio, ma stavolta c’è di più: nella direzione artistica del festival figurava (come “consigliera per lo sviluppo”) il nome di Ada Urbani, ex senatrice di Forza Italia, ex assessora alla Cultura della città e soprattutto ex collaboratrice personale di mamma Elisabetta, oltre che sua amica di lunga data.

Dopo l’articolo del Fatto e una lettera con cui il commissario prefettizio di Spoleto chiedeva spiegazioni alla direttrice, il nome di Urbani è stato fatto scomparire dall’organigramma della manifestazione. Poi dopo qualche giorno è stato reinserito alla chetichella, ma solo tra i ringraziamenti. Non c’è dubbio tuttavia che Ada Spadoni in Urbani resti uno dei punti di riferimento assoluti della manifestazione spoletina, anche per l’ottimo rapporto con la direttrice Monique Veaute (che al momento della nomina fu presentata al pubblico nella tenuta di famiglia a Scheggino). L’ex senatrice berlusconiana è peraltro moglie di Bruno Urbani, proprietario dell’omonima azienda di tartufi, un’eccellenza gastronomica del territorio. In proficui rapporti, come è ovvio, con la Confcommercio di Spoleto, la stessa che invita tutti a cena dopo il concerto di Alvise. Potremmo aggiungere, per completare il delizioso quadro, che l’attuale assessore al Bilancio della Regione Umbria (finanziatrice del festival) è la nuora di Ada Urbani, Paola Agabiti (sposa del figlio Gianmarco). E che il suo capo di segreteria è Claudio Girdeni, che viene – come la Urbani – dallo staff della Casellati al Senato.

Insomma, il concerto di Alvise già si annuncia come esperienza sinestetica: un piacere per l’udito e il palato degli spettatori. E per il cuore di chi ama la sana gestione familiare degli affari pubblici, che siano una trattoria o una manifestazione culturale.

Roberto Biorcio: “Nessuna diarchia, ma Beppe sarà garante dei valori”

Da oltre un decennio, Roberto Biorcio, professore di Scienza Politica all’Università Bicocca di Milano, studia l’evoluzione del M5S. Al Movimento ha dedicato almeno tre libri, tra cui l’ultimo, uscito dopo il boom delle elezioni del 2018, dal titolo emblematico: “Il Movimento 5 Stelle dalla protesta al governo”.

Professor Biorcio: cosa sta succedendo?

La fine del governo Conte-2, dove era al centro della scena, ha messo in difficoltà il M5S. La ristrutturazione dell’ex premier però non è piaciuta al fondatore Beppe Grillo, che vedeva ridimensionare fortemente il suo ruolo e quindi si è arrivati alla rottura. Ma, dopo la spinta della base e dei parlamentari a ricucire, alla fine probabilmente si troverà un’intesa con una formula che non scontenterà né Conte né Grillo.

Quale potrebbe essere la soluzione?

Conte dovrebbe essere il leader politico e Grillo il garante dei valori del Movimento. D’altronde direi che, nonostante la diversità caratteriale, sui temi i due la pensano allo stesso modo. Se si risolve il nodo dei poteri, si arriverà alla pace.

L’ex premier però non vuole una diarchia.

E infatti non ci sarà. Grillo avrà un ruolo formale, da garante dei principi. Dovrà vigilare che nessuno cambi linea rispetto ai valori fondativi del M5S.

A quel punto cosa succederà?

Se Conte diventerà leader ed eviterà la scissione, il M5S sarà più forte e si farà sentire di più nel governo Draghi: potranno rivendicare le loro bandiere, dalla prescrizione al salario minimo.

Cosa ha fatto fare un mezzo passo indietro a Grillo?

La pressione dei parlamentari e la base. Alla fine, se si arriverà a un’intesa, i militanti voteranno a favore della struttura pensata da Conte.

Il M5S perderà consensi?

Gli ultimi sondaggi dicono che non li ha persi e se Conte dovesse diventare leader potrebbe portarne ancora di più. La scomparsa del M5S è molto lontana.

Lucia Annunziata: “I due troveranno l’accordo, merito di Fico e Di Maio”

Lucia Annunziata, giornalista e conduttrice di In Mezz’ora su Rai3, è convinta: “Alla fine Conte e Grillo troveranno un accordo”.

Come mai è così sicura?

Premessa: i due, avendo personalità forti, dovevano passare da uno scontro per arrivare a un accordo. Si sono rotti un paio di piatti in testa, ma se avessero voluto rompere lo avrebbero già fatto. Ma di questa storia conta un elemento fondamentale: da persone responsabili non possono che ricucire. Un leader ha l’obbligo della responsabilità: deve costruire e non distruggere. Per questo troveranno un accordo, poi bisognerà capire di che tipo e quanto durerà.

Come ne uscirà il M5S?

Indipendentemente dall’accordo, in questa storia è emersa la classe dirigente del M5S: i 7 che sono stati scelti per la mediazione sono coloro che, nei momenti decisivi, hanno preso sulle spalle il M5S. E poi ci sono due figure fondamentali, la cui importanza si nota dal silenzio, dal fatto di non spaventarsi alla prima difficoltà: sono Luigi Di Maio e Roberto Fico. Due figure totemiche: sono sembrati immobili e misteriosi, ma hanno agito in silenzio e dietro le quinte. Sono due uomini delle istituzioni –­ uno ministro degli Esteri, l’altro presidente della Camera – che lo rimarranno fino alla fine, indipendentemente da cosa succederà nel M5S.

Cosa c’è nel futuro di Conte?

Conte ha fatto un miracolo: un signore chiamato per fare il garante di un contratto è diventato un politico che ha tenuto insieme due coalizioni di governo. E adesso non vuole lasciare la politica dopo la defenestrazione: se sparisse, sparirebbe quello che ha fatto. Per questo vuole restare in politica.

Quali saranno i primi effetti dello sbandamento del M5S?

I prossimi passaggi saranno le Amministrative e l’elezione del capo dello Stato. Se il M5S si spaccherà sarà favorita la destra che darà le carte per il prossimo presidente della Repubblica. Anche questo dovrebbe spingere per l’accordo.

Un solo grillino tra i saggi. Poi contiani e “pontieri”

La composizione della squadra dei sette mediatori voluta da Beppe Grillo aiuta a capire una certa rassegnazione da parte del fondatore.

Non sfugge, infatti, che quasi tutti i 5 Stelle chiamati a mediare sullo Statuto siano vicini a Giuseppe Conte o abbiano come minimo un ruolo equidistante.

I più “contiani” tra i sette sono senza dubbio Stefano Patuanelli ed Ettore Licheri. Il primo è stato ministro durante il governo giallorosa (rimanendolo con Mario Draghi, seppur all’Agricoltura e non più ai Rapporti col Parlamento) e ha da tempo un rapporto di fiducia con Conte. Durante i giorni peggiori della crisi grillina, Patuanelli è andato proprio insieme a Licheri e a Paola Taverna a casa dell’ex premier per convincerlo a non chiudere la porta a Grillo. Entrambi, Patuanelli e Licheri, sono da sempre indicati tra i 5 Stelle che sarebbero stati pronti a seguire Conte anche in un suo partito.

Diverso è il caso di Luigi Di Maio, spesso posto in contrapposizione rispetto all’avvocato anche solo per il suo passato da leader dentro il Movimento. In queste settimane però il ministro ha cucito la tela del compromesso. Venerdì, insieme a Roberto Fico, è stato per diverse ore a Marina di Bibbona per convincere Grillo a lasciar perdere il voto sul direttorio e ad accettare la posizione di Conte. Missione compiuta con l’aiuto del presidente della Camera, appunto, il quale, grillino della prima ora nel Meet Up di Napoli, è di certo riconoscente al fondatore, ma deve all’avvocato lo spostamento – forse definitivo – dell’asse dei 5 Stelle verso il centrosinistra, l’area più vicina alla storia e alle idee di Fico.

Ma Conte può anche contare sulla sponda di Vito Crimi, un altro dei sette mediatori a essersi schierato dalla sua parte. Quando la frattura sembrava insanabile, Crimi aveva persino annunciato il probabile addio al Movimento, in forte polemica col fondatore. E Crimi, da capo reggente, arriva da una lunga battaglia legale sui dati degli iscritti combattuta insieme a Conte contro Davide Casaleggio, circostanza che ha rafforzato l’unione tra i due.

E se Tiziana Beghin rappresenta i parlamentari europei, l’ex premier ha di che stare tranquillo: nell’assemblea del gruppo di qualche sera fa, gli umori erano quasi tutti favorevoli a Conte. Resta così soltanto Davide Crippa, l’unico pontiere considerabile più vicino a Grillo che all’avvocato. Troppo poco per non leggerci buone notizie per Conte, almeno nelle premesse dei lavori.