Comitato dei 7, Conte non cede: “Il no alla diarchia punto fermo”

“Ben venga il tentativo di mediazione, ma senza toccare i principi fondamentali”. Dopo l’annuncio del tavolo dei sette mediatori 5 Stelle, Giuseppe Conte lascia intendere quale sia la direzione dei lavori. E così, il primo giorno di trattative tra i pontieri grillini – oltre a Luigi Di Maio e Roberto Fico ci sono il capo reggente Vito Crimi, i capigruppo Davide Crippa e Ettore Licheri, la n.1 a Bruxelles Tiziana Beghin, il ministro Stefano Patuanelli – porta a un’infinita call online da cui emerge più che altro la volontà di limare il testo a cui ha lavorato Conte.

Col concetto sembra ormai aver fatto pace anche Beppe Grillo, il fondatore che per qualche giorno ha sfidato l’ex premier fino alla rottura, ma poi ha accettato di fare un passo indietro. Merito anche della mediazione di Di Maio e Fico, che venerdì pomeriggio si sono trattenuti per circa sette ore nella casa toscana di Grillo, a Marina di Bibbona, andandosene soltanto a tarda sera dopo che il Garante si era rassegnato ad annunciare su Facebook l’addio al progetto del direttorio, per il quale aveva indetto una votazione su Rousseau.

Il passo indietro di Grillo dice già molto su cosa aspettarsi. E le parole di Conte di ieri, fatte filtrare tramite “fonti vicine all’ex premier”, raccontano che il nodo dell’agibilità politica del capo non potrà conservare ambiguità: “Ben venga il tentativo di mediazione per rilanciare il Movimento ed evitare scissioni – sono le parole attribuite a chi ha parlato con l’ex premier – ma restino fermi alcuni principi fondamentali su cui Conte si è già espresso con chiarezza”. Tradotto: niente diarchie vere o mascherate; la distinzione tra capo e garante deve essere un principio ben chiaro a tutti. Le stesse fonti fanno sapere al Fatto che venerdì “Conte era informato” delle intenzioni di Grillo, segno che il dialogo ha ripreso ben altri toni rispetto a quelli di una settimana fa. E poco importa se per chiudere la mediazione ci vorranno sette o dieci giorni, facendo dunque saltare l’assemblea in cui domani Conte avrebbe voluto illustrare il suo progetto agli eletti. Il tentativo dei pontieri è l’ultimo possibile e si è mosso sulle uova per giorni, perciò meglio prendersi il tempo necessario.

Non a caso Conte continua a rimarcare con i suoi l’importanza “di non spaccare il Movimento”, improvvisamente ritrovatosi a dover scegliere tra il fondatore e il leader politico più apprezzato.

E infatti fonti vicine all’avvocato ricordano anche le sue parole al Tempio di Adriano, quando propose di far votare agli iscritti il suo Statuto assicurando che non si sarebbe accontentato “di una maggioranza risicata”, alla ricerca proprio di una investitura che non creasse fratture.

Il concetto è lo stesso sottolineato ieri da Luigi Di Maio: “È un momento particolarmente delicato, proprio per questo si deve parlare pochissimo e lavorare per trovare una soluzione comune. Io ci credo, come ci credono in diversi, non è semplice ma troveremo una soluzione per riuscire a far ripartire questo progetto il prima possibile”.

E questo è anche il tono di gran parte delle dichiarazioni di ieri dei 5 Stelle, con gli eletti che predicano in coro l’unità. A partire dal ministro Federico D’Incà: “Un grande progetto e una grande storia possono attraversare fasi difficili, che grazie a processi partecipati e alla discussione interna si possono e devono superare. È questo il senso del comitato dei sette. Ho sempre creduto che questo fosse l’unico metodo per superare lo stallo di questi giorni”.

E se Francesco D’Uva definisce “una buona notizia” la scelta di affidarsi ai pontieri, lo stesso ex capogruppo alla Camera ricorda “la necessità di una leadership politica forte”. La stessa su cui neanche Conte non accetterà passi indietro durante le trattative.

Sennò?

Guai a farsi distrarre troppo dall’ultimo show di Grillo “Te lo do io il M5S” (l’ultima gag è il Comitato dei 7 al posto del Direttorio dei 5) e dal serial “La spallata” del generalissimo Figliuolo (passato dal Cts a Santa Rita da Cascia e da “Un milione di vaccini al giorno a luglio” a “Il piano resta a 500mila” che poi sono meno). Sennò non resta tempo per la sit-com “Casa Letta”, inteso come Enrico. Da quando il Pd entrò nel governo Draghi alleandosi con la Lega, Letta non fa che ripetere che Salvini deve scegliere: o fa quello che gli dice lui, oppure molla il governo. Salvini risponde: “Sennò?” e resta nel governo continuando a fare e a ottenere tutto quel che vuole, mentre il Pd non tocca palla come 5Stelle e Leu. E tutto va avanti come prima. Anzi, se qualcuno fa notare che gli intrusi in questo governo di centrodestra non sono i partiti di centrodestra, ma quelli di centrosinistra, si sente rispondere: zitto, sennò regali Draghi a Salvini (manco fosse un pacco postale). Ergo, l’unico modo per non regalare un premier di centrodestra al centrodestra è approvare le sue politiche di centrodestra senza fiatare, anzi ringraziando e sorridendo. Che è un po’ come dire che Chiellini, nella semifinale degli Europei, deve garantire almeno due autogol nella porta azzurra, sennò regala Morata alla Spagna. Intanto Salvini, per non regalare Orbán alla Meloni, firma con Orbán, Meloni e altri nazionalisti il manifesto antieuropeista perfettamente coerente col programma della Lega, oltreché con quello della Meloni. E Letta riattacca con la tiritera: “Salvini o sta con Draghi o sta con Orbán, stare con entrambi è come tifare per l’Inter e il Milan”.

È il classico sillogismo a cazzo, visto che è proprio Draghi a tifare Inter e Milan, governando con Letta e Salvini. Infatti il manifesto Salvini-Orbán fa infuriare Letta, ma non Draghi. E Salvini, per nulla preoccupato di regalare Draghi a Letta (mission impossible), risponde: “Se non gli sta bene Orbán, Letta esca dal governo”. Infatti anche Letta tifa Inter e Milan. Almeno finché non risponderà ai “sennò?” salviniani con la conclusione di ogni aut aut che si rispetti: “Sennò il Pd esce dal governo”. Ma è proprio questo che spaventa Letta: il fatto che poi, siccome Salvini non ha alcun motivo per non essere Salvini, il Pd dovrebbe uscire per davvero. E non ne ha alcuna intenzione (certi miracoli, tipo stare al governo avendo perso le elezioni, càpitano una volta nella vita, e per il Pd è già la sesta in dieci anni). Anche perché né Salvini né Draghi lo rincorrerebbero. Quindi Letta continuerà a chiedere a Salvini di uscire dal governo e a restare al governo con Salvini, riuscendo persino a farlo apparire più coerente di lui. Sennò rischia di regalare Salvini a Draghi.

Complotti, sesso, droga e bugie: 50 anni fa l’addio al Dioniso rock

Andò a morire dall’altra parte del mondo per un reato che non aveva commesso. Cinquecento foto agli atti, nessuna che provasse il gesto osceno di Jim che tira fuori il membro davanti al pubblico di Miami, il 3 marzo 1969. Ma erano bastate le testimonianze dei poliziotti che gli stavano alle calcagna, perché Morrison era sfacciatamente allusivo, nei concerti. Quella sera avevano trovato il modo per incastrarlo. Lo condannarono a 6 mesi: non entrò in cella, ma bisognava cambiare aria. L’America non era il posto giusto per un Dioniso rock imbronciato e strafatto, con un quoziente intellettivo di 149 e un’insolenza che le fans adoravano come le Baccanti di fronte al dio rinnegato da Tebe. Jim l’ex studente di cinematografia all’Ucla, un compagno di corso come Francis Coppola che lo avrebbe omaggiato all’inizio di Apocalypse Now, con il cantante dei Doors a salmodiare The End. Jim in perenne fuga da se stesso: si era inoltrato nel cuore di tenebra della California allucinata di fine anni Sessanta e il suo parrucchiere Jay Sebring era finito nella mattanza voluta da Manson nella villa di Polanski. Jim braccato da una setta satanica di cui faceva parte la Strega Celtica Patricia Kennealy, da lui sposata in una cerimonia Wicca.

Jim beffato da Eros e Thanatos nella mitologia oscura simboleggiata dalla bottiglia che Janis Joplin, dopo averlo respinto, gli aveva spaccato in testa. Quando Janis era morta, terza nel Club dei 27 dopo Brian Jones e Jimi Hendrix, Morrison commentò: “Io sono il numero quattro”. Crepare a quell’età era la maledizione delle rockstar, ma anche un pass per la leggenda. Sapeva tutto, Jim. Sapeva di essere nel centro perfetto del buco nero della controcultura hippy antagonista del Sistema, lui figlio di un ammiraglio eroe della Corea. La Teoria della Cospirazione arrivò a sostenere che, con quel genitore introdotto al Pentagono, Morrison jr. fosse una spia sotto copertura della Cia, la marionetta arruolata per spingere una generazione di pacifisti oltre “le porte della percezione” evocate da Huxley: insomma, un infiltrato di lusso che esortasse i rompicoglioni dei cortei anti-Vietnam a farsi fuori con la Merda. Poteva essere vera, la storia del doppiogiochista? No. Però il Sistema lo aveva messo nel mirino, e prima che lo perseguitassero come Lennon, Morrison trasmigrò a Parigi, inseguendo i fantasmi degli idoli poetici Rimbaud e Baudelaire, la compagna “cosmica” – eroinomane persa – Pamela Courson e gli amici cinematografari della nouvelle vague: Truffaut, Alain Ronay e quella Agnes Varda che sostenne di aver pensato proprio a Morrison per scrivere con Bertolucci la sceneggiatura dell’Ultimo Tango. Stando alla ricostruzione ufficiale del decesso di Jim, fu proprio la Varda ad accorrere tra i primi, all’alba di sabato 3 luglio 1971, nell’appartamento di Rue de Beautreillis, dove il cantante giaceva nella vasca come Marat nel quadro di David. Pamela Courson sostenne che il suo uomo aveva passato con lei in casa le ore precedenti, sniffando Merda davanti a un filmino delle vacanze. Poi Jim si era sentito male e aveva tentato di rilassarsi con un bagno caldo. Il medico legale Max Vassille decretò che la morte fosse avvenuta per cause naturali. Non serviva un’autopsia, la salma fu chiusa in fretta in una cassa: neppure il manager dei Doors Bill Siddons, volato da Los Angeles, riuscì a vederla. Ma la Courson, scomparsa a sua volta per un’overdose nel ‘74, non disse tutto quel che sapeva. Tacque sulla telefonata angosciata al suo amante e pusher dei vip, il viscido conte Jean de Betreuil, che stava dormendo con Marianne Faithfull e che le ordinò di far sparire materiale compromettente. C’è poi l’altra pista del giallo, quella della fine di Jim nei cessi del locale Rock n’Roll Circus, con lui circuito da due spacciatori, la roba tagliata male, il corpo senza vita avvolto in un lenzuolo, caricato su una Mercedes e portato a casa per confezionare lo scenario della vasca. Comunque fosse, con Morrison a Parigi l’utopia dell’Era d’Acquario si trasformava in un paranoico funerale di massa per la cultura rock. Sul suo taccuino furono trovati gli appunti finali: “Ultime parole. Fuori. Rimpiango le notti e gli anni che ho sprecato. Ho buttato tutto via. Musica americana”. In certe notti di vento, attorno al cimitero del Pere Lachaise, c’è chi giura di aver udito la voce di Jim sussurrare “Break on trough, to the other side”. Fai irruzione. Dall’altra parte.

Lavia, Travaglio, Scanzi, Reggiani e Raimondo: “Tutta scena” torna al teatro di Gigi Proietti

Il “Gigi Proietti Globe Theatre Silvano Toti” di Roma quest’estate ha una novità. Oltre a essere stato intitolato alla leggenda del teatro scomparsa lo scorso anno, a luglio c’è in programma la nuova rassegna teatrale Tutta scena – Il teatro in camera, targata Loft Produzioni, con la partecipazione anche di Andrea Scanzi e Marco Travaglio. In tutto sei appuntamenti che festeggiano il ritorno in sala degli spettatori nella cornice del parco di Villa Borghese.

Si comincia il 5 luglio, alle 21.00, con il comico Saverio Raimondo, il Satiro Parlante di Netflix, che porta in scena un nuovo spettacolo di stand-up comedy con soggetto la pandemia, ma dai toni un po’ meno drammatici. Il monologo infatti racconta gli inconvenienti che per due anni hanno accomunato tutti. E, come scrive il programma, “in un momento di disagio collettivo, solo un vero disagiato ha qualcosa da dire”. Ironia e satira si uniscono per illustrare “quarantene imbarazzanti, positività asintomatiche, ansie da pandemia, fritture miste, porno online, traslochi e soldi (pochi)”. Anche il 6 luglio si parla di Covid, ma le protagoniste della serata questa volta sono Francesca Reggiani insieme alle “D.O.C.”, le “Donne d’Origine Controllata”. Apre lo show Ilaria Capua in collegamento dalla Florida: “Non si può pensare di fare spettacolo senza l’intervento di un virologo”. Le voci, poi, saranno quelle delle star mediatiche di oggi, che aiuteranno Reggiani a raccontare, attraverso parodie e monologhi, “le sabbie mobili del nostro tempo”, dall’informazione al mondo dei social.

Ma non finisce qui. Lunedì 12 luglio ci si sposta sulla politica, quella però “con la p minuscola”. Sul palco c’è Andrea Scanzi con I casi Matteo, il ritratto politico-antropologico di Matteo Renzi e Matteo Salvini. L’altro caso politico dell’estate, invece, lo racconta il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio: appuntamento martedì 13 luglio con lo spettacolo Conticidio, tratto dal suo ultimo successo editoriale I segreti del Conticidio.

Lunedì 19 segue poi il comedy show dal titolo U.G.O. (Unidentified Gabbling Objects), a cura del collettivo U.G.O. Format con Martina Catuzzi, Annalisa Dianti Cordone, Arianna Dell’Arti, Paola Michelini, Cristina Pellegrino e Cristiana Vaccaro. Infine, il 20 luglio, chiuderanno la rassegna Le favole di Oscar Wilde, a cura del maestro Gabriele Lavia.

I biglietti sono in vendita su Ticketone.

“Ci vorrebbe un corso da Star”

Su Internet basta scrivere “mat” e a 25 anni Matilda De Angelis è prima, senza gara, davanti a totem come Henri Matisse, Matia Bazar e Matilde Serao. Tutto in appena cinque anni, dopo il suo esordio accanto a Stefano Accorsi (Veloce come il vento), poi la fama internazionale per The Undoing con Hugh Grant e Nicole Kidman e ora è in Atlas per la regia di Niccolò Castelli (distribuito da Vision). È una star del cinema in un mondo dove le star nascono e vivono dentro altri lidi comunicativi. E da star è stata protagonista al Taormina Film Festival.

Anche nel 2016 era in Sicilia: differenza con cinque anni fa?

Ho i capelli più lunghi; poi sono più tranquilla, più a mio agio, so cosa sto facendo. E non vivo il tutto come una bambina di tre anni; (ci pensa) allora era il mio primo Festival e non sapevo neanche cosa aspettarmi.

E poi?

Ricordo l’impatto con il Teatro Greco, e mi sono sentita in mezzo al bello.

In quanti si sbagliano e la chiamano Matilde?

Fortunatamente ora meno.

È un parametro del successo?

Mi fa capire che le persone mi conoscono veramente.

Cinque anni fa non l’avrà fermata nessuno.

Adesso è più frequente, e lo vedo negli sguardi; nel 2016 sono scesa dall’aereo e non mi hanno chiesto alcuna foto, quest’anno sì, come all’imbarco da Roma.

Madame ha rifiutato un selfie mentre mangiava…

Io mai…

Serve un corso per lo status di star?

Ci vorrebbe un corso per accettare la fama; (pausa) bisogna essere seguiti, ricordarsi cosa è cosa, pure nei momenti non semplici. Comunque è una questione caratteriale.

E lei?

Quando non sono al centro dell’attenzione divento piuttosto riservata. Non amo polarizzare se non mi viene chiesto per lavoro; (sospira) per una persona come me, accettare di esser guardata spesso, fermata spesso, osservata, fotografata, può risultare difficile.

Quindi…

Bisogna lavorarci sopra.

Visti i suoi tanti impegni extra-set, non ha mai l’istinto di dire “volevo solo recitare”?

No, è un aspetto del lavoro: è importante comunicare e un film, oggigiorno, è necessario venderlo.

Quale frase che le hanno affibbiato l’ha ferita?

Che sono presuntuosa e di tirarmela. Non è vero. Sono molto diretta, sono come sono; posso apparire presuntuosa, invece mi metto sempre in discussione, come poche altre al mondo.

Il suo primo provino.

Per il film Veloce come il vento: era a Bologna, con una fila lunghissima di aspiranti. Arrivo tardi, firmo e me ne vado. A un certo punto sento la responsabile del casting che urla “no, non deve andare via”.

Addirittura.

Il mio nome le era stato fatto da un amico comune, quindi lei mi aveva già studiata, e le interessavo dal punto di vista estetico.

Perfetto.

Neanche avevo capito bene qual era il ruolo: credevo fosse per un personaggio minore, non la coprotagonista, quindi ero tranquillissima.

Oggi è sempre tranquilla?

Sono più consapevole, più attiva e i provini mi divertono molto.

Secondo Dario Fo, per un attore rubare è fondamentale…

Non rubo, piuttosto osservo. Ho studiato. Ho capito.

Cosa?

Tanto. Ho interiorizzato come si sta in mezzo al prossimo, come ci si comporta sul set con i colleghi e gli altri reparti. E ci vuole quella consapevolezza per non essere dei burattini in mano a una macchina più grande di te.

Tradotto?

Bisogna preservare la propria energia e integrità; quindi sul set si possono avanzare proposte e richieste. Prima ero passiva.

A che ha rinunciato?

A delle cose, ma niente di grave.

È di Bologna: Guccini o Dalla?

Dalla.

Gigi o Andrea?

Gigi.

Prodi o Casini?

(Voce raccapricciata) Una roba un po’ più recente, no? Non mi riguardano.

Lei a un reality.

Per ora no; ma non si sa mai.

Chi è lei?

Io sono io.

Tik Tok cancella gli under 13: ma per trovarli bisogna “spiarli”

È bastato davvero poco a Tik Tok, il social network cinese che spopola tra i creativi ma soprattutto tra i minorenni, per scoprire ufficialmente quello che tutti sapevano da sempre informalmente, cioè che una buona fetta dei suoi utenti è composta da ragazzini under 13. Piccoli, a volte piccolissimi, appaiono nel migliore dei casi solo ad altrettanti piccoli e piccolissimi come loro (nel peggiore a malintenzionati) perché l’algoritmo è talmente sensibile nel targettizzare i gusti degli utenti da creare canali a senso unico. Tradotto: una madre e un padre potrebbero non sapere mai che cosa vedranno i figli, neanche stando sul social stesso, perché il loro feed di contenuti sarà diverso da quello della prole.

I numeri, finalmente, arrivano dalla stessa Tik Tok, che nel rapporto sulla trasparenza sui primi tre mesi del 2021 spiega di aver rimosso quasi 7,3 milioni di utenti che potrebbero avere meno di 13 anni. “Si tratta – spiegano – di meno dell’1 % di tutti gli account”. In totale, tra presunti spammer, doppioni e fake, ne sono stati rimossi circa 11 milioni mentre a 71 milioni è stata proprio impedita la creazione.

Una corsa ai ripari che diventa sempre più rapida, anche perché nel 2019 all’azienda cinese è stata inflitta una multa di 5,7 milioni di dollari dalla Federal Trade Commission (FTC) americana per la cattiva gestione dei dati dei bambini mentre il Garante italiano della Privacy le ha imposto, appunto, di regolare meglio l’accesso dei giovanissimi. Anche perché quest’anno – ha spiegato nella relazione annuale che ha presentato ieri –, c’è stata una generale esplosione del fenomeno della pedopornografia online: +132% di casi, +77 % quelli in cui i minori sono stati vittima di grooming (manipolazione per conquistare fiducia), cyberbullismo, furto d’identità digitale e sextorsion (estorsione a fini sessuali). Ad aprile, sempre Tik Tok aveva fatto sapere di aver rimosso circa 500mila account solo italiani dopo una verifica da parte degli utenti della loro età. “Nel primo trimestre del 2021 il 36,8% dei contenuti rimossi violava le nostre policy in materia di sicurezza dei minori – spiega la piattaforma –, rispetto al 36% nella seconda metà del 2020. Di questi, il 97,1% è stato rimosso prima di essere stato segnalato, mentre il 96,2% è stato rimosso entro le 24 ore dalla pubblicazione”. È la voce più rilevante, seguita da quella sulle attività illegali e i beni regolati (21,1%) e infine “nudi e atti sessuali” (15%). In generale, sono stati rimossi 62 milioni di video a causa di violazioni delle “Linee Guida della Community o dei Termini di Servizio”, pari a meno dell’1% di tutti i video caricati. Questo significa che sulla piattaforma transitano almeno 6 miliardi di contenuti.

Oggi, si può dire che siamo di fronte alla dimostrazione della buona volontà di Tik Tok, di certo non della soluzione del problema. Axios, una famosissima società di consulenza, ricorda che qualche mese fa sul New York Times si era stimato – anche col confronto di ex dipendenti di Tik Tok – che almeno un terzo degli account (che marcia su un totale di 700 milioni di iscritti) fosse under 14.

Resta un enorme non detto: come si fa a rintracciare questi minorenni? Come si fa a identificarli visto che mentire sull’età è semplicissimo e certo non si può chiedere la verifica dei documenti? Il garante stesso, nei mesi scorsi, ha intimato a Tik Tok (ma in generale anche agli altri social) di ricorrere a soluzioni di intelligenza artificiale e machine learning. In sostanza bisogna insegnare alle macchine a riconoscere velocemente e in modo automatico se nel video sta comparendo un under 13. E poi, nel migliore dei casi, sottoporre la verifica a occhio umano. Per farlo, però, c’è bisogno di immettere nel sistema moli immense di dati biometrici (dei giovanissimi?) e anche vocali per allenare le macchine. E dove vengono raccolti? Come vengono conservati? La risposta non è così chiara. Quel che si sa, al momento, è che qualche settimana fa negli Usa la privacy policy di Tik Tok è stata aggiornata anche con la raccolta di dati biometrici (salvo avvisare gli utenti secondo legge) e le impronte vocali.

Mourinho, lo “Special One” sbarca a Roma Bagno di folla a Ciampino e Trigoria: “Daje!”

L’era di José Mourinho è cominciata. A 59 giorni dall’annuncio del suo ingaggio, ieri attorno alle 14.30 il jet privato pilotato dal patron del club Dan Friedkin con a bordo il nuovo allenatore della Roma è atterrato all’aeroporto di Ciampino. Ad attendere il tecnico portoghese vincitore del Triplete (scudetto, Coppa Italia e Champions League) con l’Inter nel 2010, c’erano circa 300 tifosi che, assiepati nonostante i 30 gradi, hanno accolto il nuovo mister della “Magica” intonando cori e sventolando striscioni e bandiere nella nebbia dei fumogeni. Appena messo piede a terra, Mourinho – maglietta, pantaloni e mascherina nera – accolto dall’entourage del club capitolino, ha indossato la sciarpa giallorossa e si è recato in auto al centro sportivo di Trigoria. “Grazie mille, grazie di cuore. Daje Roma”, il messaggio postato dallo “Special One” su Instagram insieme a un video realizzato dalla macchina nel tragitto che dall’aeroporto di Ciampino lo ha portato al centro sportivo giallorosso, dove ha salutato nuovamente i tifosi accorsi per acclamarlo. Lì trascorrerà i 5 giorni di isolamento previsti dalle norme anti-Covid.

Mafiosi e terroristi indigenti? “Devono avere la pensione”

Anche i condannati per mafia e terrorismo, se stanno scontando la pena fuori dal carcere, hanno diritto ai trattamenti assistenziali come il sussidio di disoccupazione o la pensione. La revoca di questi ultimi, ha stabilito la Corte costituzionale, è “illegittima”. Secondo i giudici, relatore Giuliano Amato, “è irragionevole che lo Stato valuti un soggetto meritevole di accedere a tale modalità di detenzione e lo privi dei mezzi per vivere, quando questi sono ottenibili solo dalle prestazioni assistenziali”. Sostiene la Consulta: “Anche se queste persone hanno gravemente violato il patto di solidarietà sociale alla base della convivenza civile, vanno loro comunque assicurati i mezzi necessari per vivere”.

Dunque, nella sentenza la Corte ha stabilito che è incostituzionale la legge del 2012 (articolo 2, commi 61 e di conseguenza 58) che prevedeva con la sentenza di condanna per i reati più gravi, mafia e terrorismo appunto, che il giudice disponesse la sanzione accessoria della revoca delle prestazioni di cui il condannato fosse eventualmente titolare: indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili. Adesso, invece, se i condannati per mafia e terrorismo stanno scontando pene alternative al carcere torneranno ad avere quei trattamenti assistenziali.

Secondo la Consulta la legge del 2012 è incostituzionale perché viola gli articoli 3, sull’uguaglianza, e 38 – diritto dei lavoratori di disporre di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia – della Costituzione. Per comprendere meglio questa sentenza, come sempre, dovremo aspettare le motivazioni, ma le polemiche, comunque, sono assicurate, come per altre sentenze che riguardano detenuti per mafia e terrorismo.

Garante privacy: “Con il caso Trump, dibattito pubblico deciso dai social”

“La sospensione degli account Facebook e Twitter di Donald Trump ha rappresentato plasticamente come le scelte di un soggetto privato, quale il gestore di un social network, possano decidere le sorti del dibattito pubblico, limitando a propria discrezione il perimetro delle esternazioni persino di un capo di Stato”.

Così, nella sua prima relazione annuale per il 2020, il nuovo garante per la protezione dei dati personali Pasquale Stanzione ha posto l’attenzione sulle grandi questioni legate alla tutela dei diritti fondamentali delle persone soprattutto nel mondo digitale i cui confini, durante l’anno pandemico, si sono sempre sfumati. “Il digitale – ha spiegato il garante – ha dimostrato di poter essere al servizio dell’uomo, ma non senza un prezzo di cui bisogna avere consapevolezza: l’accentramento progressivo, in capo alle piattaforme, di un potere che non è più soltanto economico, ma anche – e sempre più – performativo, sociale, persino decisionale”. È questo il nodo di fondo del capitalismo delle piattaforme. Per Stanzione c’è “l’esigenza di una loro cooperazione nell’impedire che la rete divenga uno spazio anomico dove impunemente si possano violare diritti, senza tuttavia ascrivere loro un ruolo arbitrale rispetto alle libertà fondamentali e al loro bilanciamento, da riservare pur sempre all’autorità pubblica”.

Citando i diversi fronti di intervento dell’Autorità durante l’ultimo anno – dalla richiesta di garanzie per il green pass alla dad, dal diritto alla disconnessione per i lavoratori agli obblighi imposti a TikTok sulla verifica dell’età degli utenti, alla cybersicurezza – il garante si è soffermato anche sulle “nuove vulnerabilità”, sulla dispersione dei dati in rete, sulle categorie più a rischio.

L’invito del garante al governo è considerare la protezione dei dati come parametro essenziale nelle riforme indicate nel Pnrr per favorire “un’innovazione sicura e perciò competitiva, perché scevra da rischi, oltre che non regressiva in termini di diritti e libertà”.

La sorella uccisa dall’ultrà Brexit, lei vince il seggio per il Labour

La notizia si può dare in due modi. Il primo: il Labour ha vinto l’elezione suppletiva di Batley e Spen, centro da 100mila abitanti del West Yorkshire, nel nord dell’Inghilterra che è l’equivalente socio-economico britannico del Sud Italia.

Il secondo, più accurato: il Labour non ha perso Batley e Spen, roccaforte rossa dal 1997, che stavolta ha corso il rischio concreto di essere conquistata dai Conservatori, come molti altri centri perduti dai laburisti nelle ultime tornate elettorali. E infatti la vittoria è risicatissima, 323 voti di scarto, e il Labour è comunque calato del 7.4%. Però la storia di questo scontro è appassionante. Batley e Spen era la circoscrizione elettorale di Jo Cox, la giovane, promettente deputata laburista ammazzata da un estremista nazionalista inglese una settimana prima del referendum su Brexit, il 16 giugno 2016, mentre faceva campagna pro Remain fra i suoi elettori. A combattere e vincere per il suo seggio è stata Kim Leadbeater, la sorella minore, che fino all’omicidio politico di Jo era una personal trainer. “Jo mi diceva che dovevo osare di più, fare di più per la nostra comunità”. Ha fatto molto anche per il partito e, soprattutto, per il suo segretario Keir Starmer, la cui leadership sembrava molto precaria quando sembrava certo il trionfo conservatore, con rumours insistenti di altri leader laburisti pronti a battersi per la successione. Ora devono necessariamente sotterrare l’ascia da guerra. “È un inizio. Il Labour è tornato” ha esultato Starmer mettendo il cappello su una non-sconfitta che però non risolve nessuno dei problemi interni al partito. Lo si é visto proprio a Batley e Spen, dove più di 8mila voti sono andati al Workers Party of Britain di George Galloway, ex laburista scozzese, poi sostenitore di Corbyn, espulso nel 2003, candidato con l’obiettivo di indebolire la candidatura di Leadbeater e arrivato terzo. A graziare Starmer anche lo scandalo che la scorsa settimana ha travolto il ministro della Salute tory, Matt Hancock.