Erdogan, il Mediterraneo è “suo”

Conscio dell’importanza geostrategica della Turchia per la Nato in questo frangente storico, rassicurato dall’atteggiamento meno duro rispetto alle premesse del presidente americano Joe Biden e forte della volontà europea di mantenere in vigore il trattato sul respingimento dei migranti, Recep Tayyip Erdogan è tornato a flettere i muscoli e ad atteggiarsi da Sultano. Il presidente della repubblica turca, contravvenendo alle richieste del segretario di Stato statunitense Anthony Blinken, dell’Onu e della Ue durante la recente conferenza di Berlino 2 sulla Libia ha dichiarato: “Siamo in Libia, siamo in Azerbaigian, siamo in Siria, siamo nel Mediterraneo orientale e continueremo a esserlo”. Se è vero che si tratta di dichiarazioni a uso domestico per riguadagnare parte dell’elettorato nazionalista perso negli ultimi due anni, è altrettanto certo che si tratta di un avvertimento nei confronti di chi vorrebbe che Ankara richiamasse i miliziani e armi inviate in Libia. Gli Stati che se ne avvantaggerebbero maggiormente sono la Francia e l’Italia. Per quanto riguarda le attività di perforazione dei fondali marini del Mediterraneo Orientale, specialmente nelle acque di Cipro e Grecia, in parte rivendicate dalla Turchia, Erdogan ha assicurato che non fermerà le proprie navi-trivella.

“Qualunque siano i nostri diritti, li otterremo. Continueremo le nostre attività di esplorazione petrolifera nel Mediterraneo orientale e a Cipro”, ha aggiunto. Il presidente ha quindi ricordato che visiterà Cipro il 20 luglio per celebrare il 46° anniversario dell’Operazione di pace a Cipro.

L’accordo turco del 2019 con l’ex premier libico Sarraj mirava a rafforzare i diritti marittimi turchi e l’influenza di Ankara nei Paesi del Mediterraneo orientale, tra cui Egitto e Grecia, che hanno risposto firmando un accordo separato per delineare i propri confini marittimi. Intanto Ankara sta discutendo con Washington a proposito dell’offerta lanciata dall’esercito turco di gestire l’aeroporto internazionale di Kabul dopo il completamento del ritiro della Nato dall’Afghanistan, ha fatto sapere il ministro della Difesa, Hulusi Akar.

“Nessuna decisione è stata presa al momento. Discuteremo gli sviluppi e i risultati dei colloqui in una riunione presieduta dal nostro presidente. Dopo l’approvazione del nostro presidente, eseguiremo il nostro piano”, ha spiegato Akar. Una delegazione del Pentagono si è recata ad Ankara per discutere gli aspetti tecnici dell’eventuale accordo. La Turchia sostiene che può prolungare la propria permanenza in Afghanistan se le condizioni finanziarie, logistiche e di sicurezza verranno soddisfatte dagli Stati Uniti attraverso un accordo bilaterale

Bagram chiude: i Talebani avanzano, i civili si armano

Questa volta se ne stanno davvero andando. Anzi, se ne sono già andati da Bagram, la base aerea che per quasi vent’anni è stata il fulcro della presenza militare Usa in Afghanistan: tutte le truppe Usa e Nato hanno lasciato l’installazione situata una cinquantina di chilometri a nord di Kabul. Molti militari americani saranno a casa per il 4 luglio, l’Independence Day. L’evacuazione di Bagram significa che il ritiro completo delle forze internazionali dall’Afghanistan è imminente: sono già partiti gli italiani, i tedeschi; gli americani verranno via tutti, tranne 650 che resteranno a proteggere le rappresentanze diplomatiche.

“Tutte le forze della coalizione hanno lasciato Bagram”, hanno riferito fonti militari ai media Usa, senza specificare quando l’abbandono della base è stato completato. La notizia è stata commentata con favore dai talebani, che “appoggiano” la partenza dall’Afghanistan delle truppe Usa e Nato, perché “il loro completo ritiro consentirà agli afghani di decidere da soli il loro futuro.”

Fonti locali riferiscono all’Ap di razzie e saccheggi negli edifici di Bagram evacuati, prima che le forze afghane ne prendessero il controllo. Nel Paese, invaso dopo gli attacchi terroristici dell’11 Settembre 2001 perché il regime dei talebani offriva ad al Qaeda santuari dove addestrarsi indisturbata, gli stati d’animo sono, però, diversificati: vent’anni dopo, oltre mille miliardi di dollari spesi, circa 250 mila vite perdute, l’Afghanistan non è una democrazia stabile e non ha un governo solido. Le truppe occidentali se ne vanno senza potere dire ‘missione compiuta’, nonostante i circa 7.000 caduti americani: 53 i morti italiani, 723 i feriti. Fonti di stampa riferiscono di una corsa ad armarsi da parte di civili che temono che i talebani, profittando anche delle divisioni nella compagine governativa, tornino al potere. Ricevendo la scorsa settimana alla Casa Bianca il presidente afghano Ashraf Ghani, il presidente Usa Joe Biden gli ha detto: “Ce ne andiamo, ma il nostro appoggio resta” – 4 miliardi di dollari l’anno fino al 2024 per le forze regolari –. E Washington rinnova gli appelli, finora inascoltati, per “seri negoziati” tra il governo e i talebani, che hanno tutto l’interesse ad aspettare così da divenire padroni del campo. Il generale Austin S. Miller, comandante della missione in Afghanistan, ammonisce che il Paese potrebbe avviarsi verso una caotica guerra civile con più attori in campo – ‘lealisti’ e talebani, ma anche miliziani dell’Isis, terroristi di al Qaeda, tagichi e uzbechi al Nord –. Miller prepara raid aerei, se i talebani non fermeranno l’offensiva con cui hanno già ripreso circa 100 centri distrettuali. L’avanzata degli ‘studenti’, anche al Nord, è rapida, favorita dalla diserzione di reparti governativi che si uniscono a loro, mentre miliziani senza particolare addestramento li contrastano su base etnica o territoriale.

In settimana, la Camera di Washington ha approvato in modo bipartisan una misura per accelerare l’iter della richiesta di visto speciale per gli afghani che rischiano la vendetta per avere collaborato con le forze Usa. In gioco c’è la sorte di circa 18 mila tra interpreti, traduttori, autisti e altre figure professionali. A volte i tempi di attesa sono lunghi anni, ma Biden promette che nessuno “sarà dimenticato”: la sua Amministrazione sta mettendo a punto un piano per evacuarli in territori statunitensi o in Paesi terzi sicuri in attesa che le richieste di visto siano vagliate.

Scout: gli abusi hanno un prezzo

Sul sito dei Boy Scouts of America la notizia non è riportata. C’è però, in grande evidenza, il link al Youth Protection Training, il corso di preparazione per proteggere i ragazzi: sono 2.2 milioni dai 5 ai 21 anni, più 800 mila volontari che, idealmente, sarebbero lì per assolvere la grande missione, preparare alla vita. Nello specifico: preparare i giovani a fare scelte etiche e morali per tutta la vita instillando in loro il giuramento e la legge Scout. Al link sono chiaramente indicati gli obblighi e le procedure di denuncia per chiunque assista o sospetti abusi e violenze. Troppo tardi. Sono circa 88mila ex scout, riuniti nella Coalition of Abused Scouts for Justice, che accusano ex guide di averli abusati sessualmente.

Violenze che sarebbero avvenute nel corso di decenni, a partire dagli anni Sessanta, e che ieri un tribunale del Delaware ha imposto di risarcire con 850 milioni di dollari, la cifra più alta mai raggiunta in una causa per abusi sessuali negli Stati Uniti, più alta di quelle che hanno svuotato le casse della Chiesa cattolica Usa, un primo compenso per 60 mila di quei ragazzi. Come ha chiarito Bsa, il risarcimento è ripartito cosi: 250 milioni per in un trust per compensare le vittime più 600 milioni di dollari dai gruppi, in contanti e proprietà. Il magazine Newsweek ha fatto i conti: sono 14mila dollari a testa, e chissà se e come si può quantificare la compensazione di un abuso da parte di una figura di cui ci si fida. È il primo risultato di mesi di negoziati e della procedura di bancarotta aperta a luglio 2020. A marzo Bsa aveva offerto 6.000 dollari a testa. Il risarcimento finale sarà, prevedibilmente, di miliardi: uno degli avvocati dell’accusa, Ken Rothweiler, che rappresenta 16mila vittime, ha dichiarato ieri: “Ora negozieremo con le assicurazioni e le organizzazioni coinvolte per ottenere un giusto risarcimento per i sopravvissuti”.

Bsa ha accettato di trasferire ai sopravvissuti i compensi assicurativi, ma i legali delle vittime hanno già rifiutato una prima offerta di 650 milioni. E ora è in forza la sopravvivenza stessa dell’organizzazione, valutata 3.7 miliardi di dollari a marzo scorso. Anche perché fra il 2019 e il 2020 gli iscritti ai Cub e ai Boy Scout sono calati del 43%, da 1.97 a 1.2 milioni, mentre le Girls Scout sono scese del 30, da 1.4 a poco più di un milione. Le cause del calo? La pandemia, di certo, con l’impossibilità di incontri e campi fisici. Ma anche la crescente virata a destra della leadership attuale, accusata dai veterani di aver politicizzato l’organizzazione, di aver permesso ingerenze religiose illegittime e di averne tradito i valori originari, stabiliti alla fondazione 111 anni fa. Bsa è sempre stata un organizzazione religiosa, tanto che tuttora bandisce atei e agnostici. Ma in un editoriale per Newsweek, l’Aquila Scout ed ex ufficiale dell’Aviazione Usa, Hal Donahue, segnala una interferenza religiosa ormai estrema.

Cita il documentario Church and the Fourth Estate, che indaga casi di abusi sessuali fra i Boy Scout dell’Idaho, con il coinvolgimento della locale chiesa mormone. Uno dei sopravvissuti, abusato sessualmente da un capo scout mormone, racconta: “Ci insegnavano che se un leader religioso fa qualcosa di male, devi comunque seguirlo e se ne occuperà Dio”.

Scrive Donahue: “Questo tipo di cieca obbedienza non è quello che è stato insegnato a me e non ha niente a che fare con la legge scout. Eppure, fino al 2018, i mormoni sono stati i maggiori finanziatori dei Bsa”. E cita il saluto dell’ex presidente Donald Trump a 40mila ragazzi, nel luglio 2017, come un momento di svolta che avrebbe indotto molte famiglie a ritirare i propri figli da un’associazione molto lontana da quella delle origini e sempre più allineata con politiche di destra.

A novembre 2020 è stato condannato all’ergastolo l’ex capo scout Matthew Baker, 51 anni, giudicato colpevole di aver abusato, fra il 2010 e il 2018, di almeno 5 bambini a lui affidati alla Beaumont Scout Reservation di St. Louis County, nel Missouri. In carcere Baker avrebbe chiesto a un compagno di cella di uccidere due dei bambini, di 9 e 10 anni, per evitare che testimoniassero contro di lui. E alla domanda del giudice: “Lo ha fatto per il proprio piacere sessuale?” Baker ha risposto: “Più per il loro”. Ora Bsa lavora a limitare i danni, dall’ammissione delle sue responsabilità ai risarcimenti miliardari a una riorganizzazione finanziaria concordata con i legali dei sopravvissuti. “C’è ancora molto da fare per ottenere l’approvazione dal tribunale e chiedere ai sopravvissuti di sostenere il nostro piano di riorganizzazione”, ha dichiarato un portavoce a commento del maxi-risarcimento. “Ma questo è un grande passo avanti, e Bsa è totalmente dedita a trovare una soluzione globale”.

Antiriciclaggio: Italia maglia nera, ma vuole la sede dell’Autorità Ue

Italia, Lituania, Ungheria. A un anno e mezzo dalla scadenza fissata nell’ultima direttiva europea sull’antiriciclaggio, quella che prevede l’istituzione in ogni Paese del registro societario dei beneficiari effettivi e l’interconnessione tra di loro in un’unica banca dati, l’Italia è una delle tre nazioni dell’Ue a non aver ancora fatto nulla di tutto questo. Il registro è considerato uno strumento essenziale per limitare i rischi di riciclaggio: permetterebbe infatti di conoscere proprietari di aziende che oggi si schermano dietro fiduciarie e trust per nascondere la propria identità. Il paradosso è che l’Italia si sta pure candidando per diventare sede dell’Autorità europea antiriciclaggio.

Per capire l’importanza del registro pubblico dei beneficiari effettivi, prendiamo un recente caso di cronaca: quello della Lombardia Film Commission (Lfc), per il quale sono stati condannati in primo grado i due contabili della Lega, Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, e ha patteggiato un altro commercialista vicino al partito, Michele Scillieri. I tre sono finiti alla sbarra con l’accusa di peculato: in sostanza, dicono le sentenze del tribunale di Milano, i contabili leghisti hanno fatto comprare a Lfc, con 800 mila euro pubblici, un capannone da una società riconducibile a uno di loro tre, Scillieri, e poi si sono spartiti il bottino.

Quando l’acquisto è avvenuto, a fine 2017, nessuno poteva però sapere che la società venditrice, l’Immobiliare Andromeda, era di Scillieri, perché formalmente l’impresa era controllata da una fiduciaria. C’è voluta un’inchiesta della magistratura per scoprire anni dopo che dietro quello schermo si nascondeva Scillieri, ma intanto gli 800 mila euro della Regione Lombardia erano già andati in fumo. Il registro pubblico risolverebbe questo genere di problemi, perché fornirebbe immediatamente l’identità dei reali proprietari di un’azienda.

Della necessità di istituirlo si parla da parecchio tempo. La prima direttiva europea che ha inserito l’obbligo (Amld IV) è addirittura del 2015 e dava due anni di tempo ai Paesi membri per recepirla. Niente da fare. Nel 2018 Parlamento e Consiglio dell’Ue hanno emanato una nuova direttiva (Amld V), in cui si prevede che il registro non sia solo accessibile agli addetti ai lavori (istituti di credito e Uif di Banca d’Italia) ma anche al pubblico, e che venga inoltre connesso coi registri delle altre nazioni dell’Ue così da avere una sola banca dati utile a tutti.

Le tempistiche previste dalla direttiva erano chiare: “Gli Stati membri istituiscono i registri centrali di cui all’articolo 30 entro il 10 gennaio 2020, il registro di cui all’articolo 31 entro il 10 marzo 2020 e i meccanismi centralizzati automatizzati di cui all’articolo 32 bis entro il 10 settembre 2020”. Come detto, l’Italia non ha rispettato nemmeno la prima delle tre scadenze, perché a oggi il registro ancora non c’è. Da tempo si attende infatti il decreto attuativo con cui il ministero dell’Economia, insieme a quello dello Sviluppo economico, dovrebbero tradurre in concreto quanto previsto dalla direttiva Ue.

L’ultima battuta d’arresto è arrivata a marzo, quando il Consiglio di Stato si è opposto alla bozza di decreto preparata da Mef e Mise. I giudici amministrativi hanno rispedito al mittente il testo criticandolo su vari punti, tra cui quello di non aver rispettato le osservazioni fatte in precedenza dal Garante per la privacy che aveva chiesto al governo di minimizzare la quantità di dati personali da acquisire nel registro. Insomma la partita si gioca in punta di diritto, con il rischio che alla fine la montagna partorisca un topolino.

Il timore nasce analizzando i registri delle nazioni che, a differenza dell’Italia, l’hanno già messo online. Secondo un rapporto pubblicato da Transparency International Eu, ci sono oggi cinque nazioni (Cipro, Finlandia, Grecia, Romania e Spagna) che hanno istituito il registro ma non l’hanno reso accessibile al pubblico. Altri sette Paesi impongono che per fare ricerche all’interno del database l’utente debba pagare, disincentivandone così l’utilizzo. Belgio, Croazia, Portogallo e Svezia danno invece accesso al registro solo ai cittadini delle loro nazioni e a quelle di poche altre, impedendo anche alle autorità finanziarie di altri Stati di fare ricerche. Secondo Maira Martini, autrice del rapporto, “le società anonime sono solitamente usate dai criminali: la mancanza dei registri pubblici in alcune nazioni e la difficoltà di accedere alle informazioni in altri Stati indicano che il flusso di denaro sporco è ancora un rischio reale per l’Ue”.

Rider, è illegittimo il contratto con Ugl usato da Deliveroo

Per evitare di perdere l’ennesima causa, Deliveroo le aveva provate tutte: persino portare un finto rider come testimone davanti al giudice. Alla fine, però, la sconfitta (sonora) è arrivata comunque: ieri il Tribunale di Bologna ha stabilito che il contratto dei rider – firmato dalle app e dall’Ugl – è illegittimo, quindi non deve essere applicato.

A maggior ragione, non potevano essere minacciati di licenziamento i fattorini che hanno rifiutato quell’accordo sottoscritto dalle imprese con un solo sindacato, non il più rappresentativo, ma l’unico allineato al loro volere. La piattaforma delle consegne a domicilio è quindi stata condannata per condotta discriminatoria e anti-sindacale. Un colpo ben assestato all’intesa farsa che la sigla di destra ha concesso alle multinazionali del food delivery. Dopo aver stretto un’alleanza con l’Anar, associazione di rider “aziendalisti”, a settembre 2020 l’Ugl ha firmato il (presunto) contratto nazionale dei rider, un testo che si limita a consacrare il modello già imposto dalle aziende: niente assunzioni, niente salari orari né diritti come ferie e malattia; solo contratti di collaborazione autonoma e pagamenti a consegna. Precariato estremo, insomma.

In meno di 24 ore, il ministero del Lavoro (ancora retto da Nunzia Catalfo) lo aveva bocciato, ma Deliveroo e le altre non solo lo hanno impiegato comunque, hanno anche mandato a casa chi non lo ha accettato. Da qui è partito il ricorso di tre categorie della Cgil – Filt, Filcams e Nidil, che rappresentano i trasporti, il commercio e gli atipici – presentato dagli avvocati Bidetti, De Marchis, Vacirca, Mangione e Piccinini.

In una delle prime udienze, a fine gennaio, Deliveroo ha tirato fuori dal cilindro il colpo di teatro. Ha introdotto nel processo bolognese un testimone di parte che si è presentato come un rider qualunque e ha magnificato il sistema delle app, sostenendo la tesi per cui si tratta di lavoro autonomo puro (cosa già ampiamente smentita dalla Cassazione) e riproponendo la leggenda dei fattorini che guadagnano 4 mila euro al mese. In realtà è un imprenditore in rapporti commerciali con la piattaforma e soprattutto, in passato, è stato dirigente della stessa: a lungo responsabile delle risorse umane dell’area Centro Nord di Deliveroo.

Il giudice non se l’è bevuta. Nel provvedimento ha ricordato che il contratto rider, per essere valido, non può essere sottoscritto da un unico sindacato, “se non nel caso che sia largamente maggioritario” e ha aggiunto che “non sembra che Ugl Rider sia in possesso di tali requisiti”. Ha quindi ordinato a Deliveroo di “astenersi dall’applicare detto accordo ai propri rider”. “La decisione – ha commentato la segretaria Cgil Tania Scacchetti – segna la fine del controverso accordo sottoscritto nel settembre del 2020 da AssoDelivery con Ugl”.

“Oggi più che mai – ha detto l’ex ministra Nunzia Catalfo – è necessario garantire ai fattorini, attraverso la definizione di un contratto nazionale, l’effettività di diritti minimi inderogabili”.

Avvocati tentatori, clientele à gogo

Il sesto quesito referendario dice: Volete voi che sia abrogato l’art. 16 (Composizione dei consigli giudiziari in relazione alle competenze) del Decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 che reca “Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lett. c) della legge 25 luglio 2005 n. 150?

È necessario spigare cosa sono i Consigli giudiziari e che cos’è il Consiglio direttivo della Corte di cassazione. In ogni distretto di Corte d’appello (sono 26 in tutta Italia) esiste un consiglio giudiziario che, fra l’altro, esprime pareri sull’organizzazione degli uffici giudiziari, sulle situazioni di incompatibilità, sulle valutazioni di professionalità dei magistrati ordinari e sulle loro domande per il conferimento di uffici direttivi (presidenti di corte e di tribunale; procuratori generali e procuratori della Repubblica) o semidirettivi (presidenti di sezione, avvocati generali e procuratori aggiunti), inoltre esercita la vigilanza sugli uffici del distretto. Ogni Consiglio giudiziario ha due membri di diritto (il presidente della Corte d’appello che lo presiede e il procuratore generale presso la stessa Corte), e un numero variabile (a seconda del numero di magistrati in servizio nel distretto) di componenti magistrati ordinari giudicanti e requirenti (eletti dai magistrati del distretto) e di componenti non togati, professori universitari in materie giuridiche (nominati dal Consiglio universitario nazionale su indicazione dei presidi delle facoltà di giurisprudenza delle università della regione o delle regioni sulle quali hanno, in tutto o in parte, competenza gli uffici del distretto), e avvocati con almeno dieci anni di effettivo esercizio della professione con iscrizione all’interno del medesimo distretto (nominati dal Consiglio nazionale forense su indicazione dei consigli dell’ordine degli avvocati del distretto). È costituita una sezione autonoma per i magistrati onorari (cioè non di professione).

Nell’originario testo dell’art. 9 d. lgs n. 25/2006 era previsto che tra i componenti dei Consigli giudiziari figurassero anche due membri nominati – con maggioranze qualificate – dai consigli regionali (senza qualificazione professionale in materia di amministrazione della giustizia), ma la legge n. 111/2007 abrogò i membri di nomina regionale, senza però eliminare il riferimento contenuto nell’art. 16 del decreto legislativo, che quindi è sbagliato perché tali membri non esistono più. Il Consiglio direttivo presso la Corte di cassazione svolge le stesse funzioni rispetto alla Stessa Corte, al Tribunale superiore delle acque pubbliche ed alla Procura generale. Tali Consigli riferiscono al Consiglio Superiore della Magistratura che adotta i provvedimenti conseguenti. L’art. 16 del citato decreto legislativo, che con il quesito referendario si vorrebbe abrogare stabilisce: “I componenti designati dal consiglio regionale e i componenti avvocati e professori universitari partecipano esclusivamente alle discussioni e deliberazioni relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”. Detto altrimenti i componenti avvocati e professori universitari non partecipano alle deliberazioni riguardanti lo status dei magistrati ordinari. Suppongo che l’opinione dei promotori del referendum sia che non vi sono ragioni per cui i professori universitari in materie giuridiche (che di solito sono anche avvocati) e gli avvocati non debbano valutare la professionalità dei magistrati e quant’altro attiene al loro status. È un’opinione condivisa anche da una delle componenti dell’Associazione nazionale magistrati (quella di “sinistra”). I sostenitori di questa opinione fanno un parallelo con il Consiglio Superiore della Magistratura, dove i componenti eletti dal Parlamento, fra professori ordinari e avvocati, votano come i componenti magistrati e ritengono che non ci sia nulla di male a farsi valutare anche dagli avvocati, che conoscono bene i magistrati e che sarebbero anzi un antidoto a tentazioni corporative.

Ci sono però due differenze fondamentali: i componenti “laici” del Csm non possono svolgere la professione di avvocato finché sono in carica, mentre quelli dei consigli giudiziari sì e pertanto continuano a svolgere tale professione. In secondo luogo il Csm è organo nazionale, come tale lontano dalle realtà locali, mentre i Consigli giudiziari e il Consiglio direttivo della Corte di cassazione si occupano di un numero relativamente ristretto di magistrati. Ciò può comportare, specie nei distretti di piccole o medie dimensioni, che l’avvocato si trovi a dover valutare il giudice che decide anche le cause da lui patrocinate. Possiamo certo sperare che la deontologia degli avvocati li induca ad astenersi, ma c’è un altro aspetto a cui nessuno sembra pensare. In questo nostro Paese dove l’abitudine a cercare raccomandazioni o comunque vie traverse è largamente diffusa, temo che gli avvocati nominati nei consigli giudiziari vedranno crescere di molto la loro clientela, in quanto i clienti si immagineranno che quell’avvocato, da loro scelto in quanto componente del Consiglio giudiziario, sia in grado di fare pressioni o comunque intimorire il giudice che deve decidere la causa. In questo senso l’abrogazione proposta della norma mi sembra a dir poco rischiosa, oltre che per l’immagine della giustizia, anche per i rapporti degli avvocati fra di loro.

Insegnava Piero Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato (capitolo I, terzo paragrafo): “Chi entra in Tribunale, portando nel suo fascicolo, in luogo di buone e oneste ragioni, secrete inframmettenze, occulte sollecitazioni, sospetti sulla corruttibilità dei giudici e speranze sulla loro parzialità, non si meravigli se, invece che nel severo tempio della giustizia, si accorgerà di trovarsi in allucinante baraccone da fiera, in cui da ogni parete uno specchio gli restituirà, moltiplicati e deformati, i suoi intrighi. Per trovar la purezza in tribunale, bisogna entrarci con animo puro…”.

Nei tempi difficili in cui la giustizia , non è saggio aumentare le tentazioni, anche solo immaginate.

Per questo il quinto quesito referendario mi sembra quantomeno incauto.

 

Modello Bangladesh e modello Salvini

La direzioneè chiara: tornare al business as usual precedente alla Grande Paura della Brexit, di Trump e, si parva licet, della ribellione elettorale che produsse il governo dei puzzoni in Italia (quello gialloverde, s’intende). Nella penisola sovrintende all’operazione Mario Draghi, sotto la cui ombra consolatrice s’accoccolano tutti, pure i gialli e i verdi (a non dire del Pd, che s’accoccola pure quando non lo invitano). Per tornare davvero al pre-2018, però, bisogna eliminare altre due leggi che – per quanto timide e piene di difetti – rendono difficoltoso ristabilire lo status quo ante, quello s’intende in cui il capitale mena e il lavoro sta muto: una è sospesa, vale a dire il dl Dignità con le sue “causali” per i contratti precari (e infatti da marzo crescono solo gli occupati “a termine”); la seconda – il reddito di cittadinanza – traballa assai. Gli argomenti sono quello che sono, gli interpreti pure. Ieri per dire, plasticamente assiso all’Hilton di Sorrento, Matteo Salvini ha cantato la canzone “non trovo personale perché mi sento dire sto a casa coi miei 700 euro”: “Il reddito di cittadinanza va ripensato perché non crea lavoro, ma allontana dal lavoro”. Già che c’era, il nostro ha buttato lì pure un “io reintrodurrei anche i voucher”. Quello che, in mancanza di meglio, definiremmo il pensiero di Salvini sul Rdc (che pure istituì coi grillini quand’era al governo) rileva solo perché indica la direzione verso cui si va ricomponendo il quadro politico dopo l’anomalia del 2018. Gran parte dell’imprenditoria italiana – che s’è abituata a scaricare sul costo del lavoro le sue difficoltà (anche quelle indotte da pessime scelte politiche) – sta capendo che persino una misura piena di difetti come il reddito di cittadinanza rischia di prosciugare il suo bacino di schiavi e mettere in crisi l’allegro “modello Bangladesh” su cui ha campato finora. Quanto alle associazioni datoriali, il Rdc ha un altro torto imperdonabile: assegna un ruolo fondamentale nelle “politiche attive del lavoro” ai Centri per l’impiego pubblici, togliendolo a loro. Ora, le politiche attive servono a poco o nulla a chi cerca lavoro, ma portano tanti ricavi a chi le gestisce: soldi pubblici, ovviamente, ma se vanno ai privati diventano benedetti, “debito buono” direbbe San Mario.

Il finale di Grillo: da padre fondatore a padre padrone

 

 

“E papà suonò da solo”

Da (Le tre del mattino di Gianrico Carofiglio – Einaudi, 2017 – pag. 100)

 

Alla vigilia del mitico Sessantotto, l’anno che inaugurò l’epopea della contestazione studentesca e operaia contro il sistema di potere dominante, il sociologo tedesco Alexander Mitscherlich scrisse un saggio premonitore intitolato Verso una società senza padre, pubblicato in Italia da Feltrinelli. In quel libro – cito a memoria – l’autore individuava nell’assenza quotidiana del padre dal desco familiare, in piena “civiltà della tavola calda”, il fattore che aveva cominciato a mettere in crisi il principio di autorità. E in effetti, a distanza di oltre mezzo secolo, possiamo dire che quel presagio s’è ampiamente avverato.

La teoria di Mitscherlich m’è tornata in mente nei giorni scorsi, quando l’ex premier Giuseppe Conte ha esortato Beppe Grillo a scegliere fra il ruolo di “padre generoso” del Movimento 5 Stelle e quello di “padre padrone”. E su suggerimento dell’avvocata Annamaria Bernardini De Pace, massima esperta di Diritto familiare, ho confrontato i due video diffusi recentemente dall’ex comico: il primo, in difesa del figlio accusato di stupro durante una “notte brava” in Costa Smeralda; l’altro, per “scomunicare” Conte, accusandolo di non avere una visione politica né un’esperienza manageriale, dote quest’ultima che non è richiesta necessariamente a un leader politico o a un presidente del Consiglio.

Nei due interventi in questione, Grillo recita la stessa parte seppure con le differenze del caso: quella del padre di famiglia che cerca legittimamente di difendere il figlio e quella del padre fondatore che altrettanto legittimamente rivendica il ruolo politico di “garante” del M5S. Il fatto è però che, in entrambe le vesti, l’ex comico si lancia improvvidamente in una furiosa requisitoria: da una parte, contro i magistrati che perseguono il giovane Grillo, rischiando così di nuocere alla sua difesa; dall’altra, contro colui che aveva adottato come “delfino” designandolo alla guida del Movimento, dopo tre anni e due diversi governi da lui medesimo guidati.

C’è un nesso, una qualche correlazione, un fil rouge tra questi due interventi? Premesso che per la sua vicenda familiare papà Grillo merita tutta la comprensione e l’umana solidarietà, in attesa di una sentenza definitiva, è lecito ipotizzare che sia stata proprio questa brutta esperienza a fargli perdere – per così dire – la bussola, portandolo in rotta di collisione con Conte, reo ai suoi occhi di aver preso le distanze dalla difesa d’ufficio del figlio e forse anche di aver disertato la visita di cortesia all’ambasciatore cinese in Italia: tant’è che, nella turbolenta trattativa per la leadership del Movimento, il fondatore è arrivato addirittura a chiedere “pieni poteri” sulla politica estera. Ma ciò che più conta è la circostanza che in entrambi i casi Grillo s’è esibito in un’interpretazione fuori misura del ruolo paterno, calandosi – appunto – nella parte del “padre padrone” e confondendo la dimensione familiare con quella politica, la sfera privata con quella pubblica.

È vero che le colpe dei padri – come si suol dire – non devono ricadere sui figli, ma è anche vero che a volte le colpe dei figli risalgono ai padri: cioè alla loro responsabilità di genitori, educatori, formatori. Un mestiere delicato e impegnativo per chiunque, da cui non ci si può mai dimettere né andare in pensione. E senza voler interferire con la privacy altrui, nel pieno rispetto delle singole persone, sappiamo bene che si tratta di un compito da esercitare quotidianamente attraverso i comportamenti, gli esempi, i modelli. È proprio dalla condotta dei figli che spesso si può giudicare l’ascendenza dei padri.

 

Caro Fontana, perché sbattere noi come mostri in prima pagina?

Pubblichiamo una lettera del professor Mario Tiberi, inviata al Corriere della Sera in risposta a un articolo di Antonio Polito, e mai pubblicata dal quotidiano milanese.

Caro Direttore Fontana, come sottoscrittore della lettera che ha stimolato ben due articoli di Antonio Polito, vorrei proseguire un confronto franco e civile con il Corriere della Sera, sebbene non sia facile condurlo tra chi, come me, uno dei firmatari della lettera, può scriverle un messaggio, esprimendo magari alcune valutazioni di altri colleghi con cui è stato in contatto in questi giorni, e chi può, invece, come si dice, addirittura “sbattere i mostri in prima pagina”, identificandoli, come “il caso”, nei sottoscrittori della lettera, considerati pronti ad avviare una sorta di “epurazione dei liberisti”. Se non qualcosa di peggio, perché si è anche arrivati ad alludere all’assassinio del collega giurista (non economista!) Marco Biagi, ferendo profondamente chi, come il sottoscritto, sa di cosa si parla, avendo condiviso, appena pochi giorni fa, con Carole e Luca Tarantelli un’iniziativa per ricordare, come facciamo ogni anno nella nostra facoltà, dal terribile anno 1985, l’assassinio dell’amico e collega Ezio.

Quanto all’epurazione, la invito a realizzare un’inchiesta per verificare quale sia la situazione negli Atenei italiani sugli orientamenti culturali prevalenti, o anche nelle redazioni economiche dei principali giornali italiani; mi basta ricordare che non molti anni fa con il larghissimo sostegno della comunità accademica e poi, in Parlamento, pressoché di tutti i partiti, è stato scolpito, nell’art. 81 della nostra Costituzione, con eccesso di zelo europeista in quel frangente, una delle ricette tipiche della visione liberista, cioè l’equilibrio di bilancio.

Riguardo però alla nostra lettera, desidero farle presente che essa ha avuto la mia firma perché:

1) criticava aspramente il fatto che colleghi noti per aver contraddistinto il loro lavoro scientifico e varie esternazioni con una visione liberista, fossero stati scelti per un compito importante nella fase di realizzazione del Pnrr, cioè dell’operazione fondamentale, secondo lo stesso presidente del Consiglio Draghi, nella svolta interventista della politica economica dell’Unione europea;

2 ) evitava, allo stesso tempo, di indicare i nomi di tali colleghi, la cui libertà nella ricerca e nell’insegnamento era ed è ovviamente fuori discussione;

3) richiamava la responsabilità diretta del presidente del Consiglio per una decisione contraddittoria, che sia stata ispirata o meno dai suoi consiglieri economici;

4) non rispondeva affatto a sollecitazioni provenienti dal Pd, partito che credo non raccolga, tra i firmatari, né molti voti né molti iscritti; perché attaccare il Pd che non c’entrava per niente?

Cordialmente.

 

Ammortizzatori, arriva la “riformetta” Orlando

Ha già suscitato molti commenti il cosiddetto accordo del 29 giugno sullo sblocco dei licenziamenti. Meno attenzione c’è stata sulla seconda parte della autodefinita “presa d’atto” (di che?), nella quali “le parti sociali” (che restano il soggetto anche del secondo capoverso, secondo le regole della lingua italiana) auspicano una pronta e rapida riforma degli ammortizzatori sociali “sulla base di principi condivisi” che però non sono specificati.

Il governo Conte-2, con l’allora ministra Catalfo, aveva approntato un progetto di riforma sulla base di principi chiari: un sistema di sostegno sociale più semplice ed efficace, davvero universale, che garantisse tutti i lavoratori, dipendenti di imprese grandi e piccole, o autonomi, e i disoccupati e le disoccupate, con un welfare più inclusivo e generoso, e diritto per tutti a prestazioni uguali (salve le specificità dell’agricoltura, dello spettacolo e del lavoro autonomo anche dei professionisti iscritti agli Ordini).

Qui c’è già una bizzarria: la riforma degli ammortizzatori sociali non è nelle possibilità delle parti sociali, onde – malgrado la sintassi italiana – qui la firma del governo avrebbe la funzione di assumere proprio questo impegno di fronte alle parti sociali. E allora va apprezzata la sobrietà con cui la ”pronta e rapida conclusione” non ha una data, visto che il ministro Orlando aveva già annunciato la presentazione della riforma degli ammortizzatori sociali addirittura per marzo, poi per luglio, e infine entro la fine dell’estate, cioè settembre.

Per quel che si sa, Orlando ha cestinato questo progetto. Sebbene l’articolato su cui si lavora al ministero non sia stato comunicato neppure alle parti sociali, a quel che pare solo alcune parti del disegno sarebbero in qualche modo adottate (ad esempio, la reintroduzione della Cassa integrazione per cessazione dell’attività aziendale, e l’estensione ai lavoratori interessati dell’assegno di ricollocazione con sconto contributivo ai datori che li assumano; o del contributo mensile ai datori che assumano questi lavoratori pari alla metà dell’importo per Cigs); o l’estensione della Cassa integrazione ordinaria alle aziende commerciali con più di 50 dipendenti con una modesta (ma esagerata) aliquota contributiva dell’1,7%; o l’estensione del contratto di espansione alle aziende con almeno 50 dipendenti; o l’unificazione del tetto massimo del trattamento di integrazione salariale, che oggi fa sì che spesso i lavoratori non percepiscano più del 50-60% della retribuzione che perdono; o l’estensione della Cigs ai collaboratori etero-organizzati e ai lavoratori a domicilio.

Per quanto riguarda i disoccupati e le disoccupate, poi, non si unificano le prestazioni di lavoratori dipendenti e collaboratori e, tralasciando coloro che hanno perso il lavoro per la pandemia, si sposta il cosiddetto décalage, cioè la diminuzione progressiva del trattamento di disoccupazione, dal quarto al sesto mese: ma solo per chi resti disoccupato dal 2022. Come se le persone veramente preferissero la Naspi al trovare un nuovo lavoro, secondo una visione molto spacciata da media bugiardi nelle ultime settimane.

Quello che non è accolto dell’impostazione del governo precedente è innanzitutto l’universalismo: i lavoratori continuerebbero a percepire prestazioni differenti per durate differenti (metà per le piccole imprese sino a 15 dipendenti, un quarto per le micro sino a 5) a seconda del settore e delle dimensioni aziendali; non si sa se sarà presa una qualche misura per il lavoro autonomo e per quello dei professionisti iscritti agli ordini: onde, sebbene il ministro Orlando parli di riforma universalistica, non vi è dubbio che l’aggettivo non si attagli alla modesta proposta che il governo Draghi va elaborando. Nessuna semplificazione, inoltre: rimarrebbe l’architettura istituzionale attuale, coi Fondi bilaterali gestiti dalle parti sociali, peraltro differenziati tra loro, il Fis dell’Inps per i dipendenti delle imprese minori, la cassa per l’agricoltura a parte, e per di più un ulteriore fondo emergenziale intersettoriale, pagato dai fondi bilaterali (e quindi alla fine da imprese e lavoratori) della cui capacità di garantire equilibrio finanziario evidentemente il governo non si fida.

Le conseguenze di questa architettura barocca si sono viste coi ritardi nell’erogazione della cassa da quando è scoppiata la pandemia. Insomma, il welfare della futura legge Orlando non sarebbe né universale, né più equo tra le varie categorie di lavoratori, e neppure – se non per ristretti gruppi – più generoso. Insomma, ancora un caso di (sedicenti) riformisti che non fanno alcuna riforma, ma al massimo modeste operazioni di manutenzione dell’esistente. Condividono le organizzazioni sindacali questa rinuncia al cambiamento necessario per l’Italia?