Mi spogliai con calma e corsi in mezzo alla sala.
Nudo?
Completamente.
Perché?
Dopo il concerto l’impresario mi aveva detto: “Non vi pago! I Napoli Centrale non sono un gruppo folkloristico!”.
E lei, James Senese, scandalizzò le signore.
Non mi parevano così scandalizzate.
E l’impresario?
Onorò la nostra performance.
Capitava spesso?
Un’altra volta, dalle parti di Salerno. Anche lì il gestore del locale provò a fare il furbo.
E?
Andai dal benzinaio, riempii una tanica. Tornai e svitai il tappo. Dissi: “C’avimmo a’ fa’?”.
Funzionò?
Mi prese per un braccio, spingendomi in camerino. Sborsò fino all’ultima lira.
Lei era un tipo tosto.
Un po’ estremista, vabbuò.
Si dice che un tempo, in Campania, se quelli del pizzo rimanevano a mani vuote la sala non si riempiva.
Dicerie. Anche se, con gli Showmen, quando eravamo già famosi per Un’ora sola ti vorrei, a una serata nell’hinterland partenopeo dopo il Cantagiro suonammo di fronte a sei persone.
Eppure eravate enfants du pays. Gli Showmen incidevano per l’etichetta di Aurelio Fierro.
Un gentiluomo napoletano d’altri tempi. Ci incontravamo in Galleria Toledo. C’era mutuo rispetto.
Gli Showmen erano nati a Miano, vicino Capodimonte, dove lei ancora risiede. L’altro leader della band era Mario Musella.
Un fratello. Non c’era competizione tra noi. Avevamo fatto la gavetta insieme nei gruppetti. E ci legava la comune sorte di essere figli della guerra. Lui nato da un soldato cherokee, io da un nero del North Carolina.
Però Daniele dedicò solo a Musella ‘Nero a metà’.
Ma Pino mi faceva capire fosse un omaggio anche per me.
A proposito: giorni fa è caduto il quarantesimo anniversario di ‘Vai Mo’, l’ultimo degli album di quel periodo che lei, James, incise con Daniele.
È stata una fortuna far parte di quella superband. Era una vera famiglia. Quei capolavori nascevano con grande naturalezza. Quando Pino ce li faceva sentire per la prima volta, praticamente erano già fatti. Andavano solo suonati. Ora non ci sono più né lui, né Joe Amoruso e Rino Zurzolo. Ma è la vita. Chi se ne va prima, chi dopo.
È scomparso anche Salvatore, il fratello di Pino. C’è in vista un’iniziativa per tramandare il patrimonio musicale di Daniele?
Non con me. Ciascuno ha il proprio orgoglio, e io non ho mai accettato compromessi. Vedremo… faranno gli eredi.
Perché finì la vostra collaborazione?
Il manager si mise in mezzo. Comunque, ognuno di noi doveva badare alla carriera. Io con Napoli Centrale, Tullio De Piscopo leader del proprio gruppo. Ci si riunì con Pino molto tempo dopo su Ricomincio da 30, ma ci vedevamo. Mi diceva: ‘James, tu si’ nu’ patre!’”.
Vi confidavate?
Mi parlava con amarezza dei troppi nemici che aveva attorno, di cui non si spiegava l’atteggiamento. Oggi tutti vantano una grande amicizia con Pino Daniele. Il 90 per cento di questi lo detestava.
Di chi parla?
Non tradirò il segreto. Ma basta guardarsi intorno.
Pino ingaggiò al suo posto il leggendario Wayne Shorter.
Io dicevo a Shorter: “sei un grande!”. Lui rispondeva: “no, il grande sei tu!”. E via pacche. Ed era uno che aveva lavorato con Miles Davis, il dio.
Ha mai incontrato Davis?
A Caserta. Non era uno di compagnia. Mi disse “Ciao”.
Senese, lei è in tour per trainare l’album James is back. Il sax inconfondibile, il jazz-soul vibrante, la voce ‘maleducata’.
Il mio inno di ribellione eterna. La mia necessità di cercare aria in questa società in cui ti vogliono far credere che tutto cambia e invece resta tutto uguale.
Un manifesto politico in chiave jazz. Che qualità dovrebbe avere il prossimo sindaco di Napoli?
L’onestà. Ma nessuno di quelli che vivono per le poltrone ce l’ha. Questa città andrebbe reinventata, e servirebbero miliardi. Ma come sentono il profumo delle ‘ppaparelle’, se le mettono in tasca.
Fermiamoci sul titolo. È il suo nome, ma anche quello di suo padre, il militare Usa James Smith.
Tornò in America quando avevo tre anni. Non lo vidi né sentii mai più.
Non vi siete cercati?
Anni fa un amico che vive a New York lo incontrò in metro. E ci parlò. Papà non gli affidò alcun messaggio. Teneva famiglia negli Usa. A Napoli mi hanno tirato su nonno Guglielmo e nonna Pasqualina, proteggendomi sin da quando ero in fasce dalle cattiverie di chi mi emarginava per il colore della pelle. Una discriminazione che continua ancora oggi.
Possibile?
Chi non mi conosce mi insulta. E io, a 76 anni, sono tuttora alla ricerca della mia identità. Non so se sono napoletano o americano. O tutte e due le cose. La cosa mi fa soffrire.
Suo padre potrebbe non essere più vivo. Gli parla, dentro di sé?
Sempre. E so già la risposta: “figlio, tu qui in America saresti stato un altro Malcolm X”.