Le quattro ruote sono al bivio: il futuro si decide entro luglio

Il prossimo 14 luglio è una data da segnare col cerchio rosso. Non tanto per ricordare la Presa della Bastiglia, quanto per capire il futuro dell’automotive: quel giorno, infatti, l’Unione europea comunicherà i nuovi standard sulle emissioni di anidride carbonica per gli anni a venire. È cosa certa che saranno ancora più sfidanti per i costruttori, sospesi al momento tra lo slancio verso un elettrico ancora acerbo e la necessità di continuare a vendere per rientrare degli investimenti fatti proprio sull’elettrone. In questo panorama, sarebbe utile che si tenesse conto di un’ulteriore complicazione: la doppia velocità a cui viaggiano le infrastrutture continentali.

Secondo i dati dell’associazione europea dei fabbricanti d’auto Acea, oltre i due terzi (il 70%, per la precisione) di tutte le stazioni di ricarica per auto elettriche o elettrificate sono concentrate in sole tre nazioni dell’Europa occidentale: Paesi Bassi (29,7%), Francia (20,4%) e Germania (19,9%), che occupano solo il 23% della superficie complessiva dell’Ue, mentre al rimanente 77% del territorio resta solo il 30% delle infrastrutture per il rifornimento elettrico. L’Italia, per inciso, ne detiene solo il 5,8%.

In totale, i punti di ricarica su suolo europeo non raggiungono quota 225 mila, mentre secondo l’Acea, l’associazione dei consumatori Beuc e l’Ong ambientalista Transport & Environment ce ne vorrebbero quattro volte tanti entro il 2024. Chissà se, mentre decidono il futuro della mobilità con opinabile perizia, i burocrati di Bruxelles ci stanno facendo un pensiero.

Negli Usa vogliono già tassare l’elettrico

Mentre in Italia l’attenzione fiscale sulle elettriche è (ancora) tutta volta a detrarre per incentivare all’acquisto, negli Stati Uniti si è già passati alla fase del riformulare imposte altrimenti perdute, con uno sguardo lungo all’ammanco che da qui ai prossimi anni – con la crescita delle EV – si verrà a creare nelle tasche dei singoli Stati.

Le imposte altrimenti perdute sono essenzialmente le accise sui carburanti, che il senato del Texas vuole provvedere a convertire in una sorta di superbollo per una cifra compresa tra 190 e 240 dollari che il proprietario di un’auto elettrica dovrebbe versare ogni anno allo stato. Al vaglio del senato, poi, ci sarebbero anche altre imposte come quella di 190 dollari per i veicoli che percorrono annualmente più di circa 15 mila chilometri e ancora una tassa di 10 dollari (questa sembrerebbe addirittura più simbolica che altro) per finanziare le infrastrutture di ricarica.

Secondo il Texas Comptroller (la “Corte dei Conti” texana), se attuati già entro l’anno, questi provvedimenti andrebbero a toccare circa 300 mila veicoli elettrici nell’anno fiscale 2022, generando un gettito fiscale di oltre 37 milioni di dollari destinato al fondo di investimento per le infrastrutture stradali dello stato.

Ma il Texas non è che solo uno degli ultimi stati federati ad avere in discussione provvedimenti legislativi per introdurre tasse sui veicoli elettrici. Negli ultimi mesi anche la Florida aveva provato a far passare la proposta (poi respinta) di una tassa annuale – in aggiunta a quella di immatricolazione già applicata alle EV così come a tutti gli altri veicoli – di 135 dollari, mentre attualmente sono 26 gli stati che fanno pagare il bollo auto anche alle auto a batterie: tra questi California e Washington, che ad oggi si distingue per l’imposta annuale più alta e che ammonta a 225 dollari.

Provvedimenti che, nei prossimi anni, saranno forse destinati a interessare anche il dibattito nostrano: anche se, a oggi, immaginare in Italia una proposta di imposizione fiscale sulle EV per compensare le perdite sulle accise dei carburanti fa decisamente sorridere.

Qashqai, c’è la terza generazione dell’auto che ha aperto la strada

La terza generazione di Nissan Qashqai è una delle novità più convincenti di quest’anno, anche perché è il modello con cui il marchio giapponese torna a parlare su strada dopo il lungo periodo legato alle vicissitudini dell’Alleanza con Renault. E lo fa anche con la forza di aver già incassato 10.000 ordini in Europa, ancor prima dell’arrivo nelle concessionarie.

È bene ricordare che quest’auto nel 2007 ha inventato la categoria dei crossover, cioè la fusione tra una vettura tradizionale e l’immagine grintosa a ruote alte di un fuoristrada. Una formula che, negli anni a seguire, avrebbe segnato lo spartiacque tra passato e presente del mercato. Parliamo di un successo da tre milioni di esemplari venduti nel Vecchio continente, oltre 340 mila in Italia, che ha colpito talmente nel segno da guadagnarsi ben 30 concorrenti. A loro e a molti, la risposta che arriva ora da Nissan ricorda il livello ingegneristico di cui dispone l’azienda. Su 442 cm di lunghezza per 183 di larghezza e 162 cm d’altezza Qashqai terza generazione ha un design filante, senza troppe linee esibite ad appesantire un profilo a cuneo elegante, l’esatto buon esempio di pulizia tecnologica dei prodotti giapponesi di lusso.

Nella distribuzione dei compiti con Renault, Qashqai è la prima vettura dell’Alleanza ad utilizzare la piattaforma modulare CMF-C, ovvero una base meccanica sviluppata in Giappone e tanto raffinata da consentire un cambiamento radicale nella dinamica di marcia, perché aumenta del 48% la rigidità del telaio pur consentendo di risparmiare peso ricorrendo alla soluzione di gran pregio dell’alluminio per cofano motore, sportelli e parafanghi, o ancora del materiale composito per il portellone.

La piattaforma CMF-C è l’innesco di una serie di soluzioni a catena, sostenendo l’ambizione che trasmessa da interni concorrenziali in tutto con quanto fatto dai marchi premium tedeschi. Linee più sobrie che mai accompagnano una strumentazione digitale con schermo da 12,3”, l’head-up display a colori da 10,8” che proietta informazioni sul parabrezza e infine il display da 9” al centro della plancia, da cui si accede ai servizi di infotainment e utilità con connessione 4G. La qualità dei materiali e la cura nelle finiture è tre passi oltre la precedente.

Qashqai nasce elettrificata e dal 2022 ospiterà il promettente sistema ibrido seriale e-power, ma da subito offre una gamma costruita attorno al motore 1.3 DiG-T benzina turbo Mild Hybrid. Non solo due versioni, da 140 e 158 Cv, ma due personalità distinte, con un listino che parte da 25.500 euro.

“Pino era pieno di nemici. Io? Colpito dal razzismo”

Mi spogliai con calma e corsi in mezzo alla sala.

Nudo?

Completamente.

Perché?

Dopo il concerto l’impresario mi aveva detto: “Non vi pago! I Napoli Centrale non sono un gruppo folkloristico!”.

E lei, James Senese, scandalizzò le signore.

Non mi parevano così scandalizzate.

E l’impresario?

Onorò la nostra performance.

Capitava spesso?

Un’altra volta, dalle parti di Salerno. Anche lì il gestore del locale provò a fare il furbo.

E?

Andai dal benzinaio, riempii una tanica. Tornai e svitai il tappo. Dissi: “C’avimmo a’ fa’?”.

Funzionò?

Mi prese per un braccio, spingendomi in camerino. Sborsò fino all’ultima lira.

Lei era un tipo tosto.

Un po’ estremista, vabbuò.

Si dice che un tempo, in Campania, se quelli del pizzo rimanevano a mani vuote la sala non si riempiva.

Dicerie. Anche se, con gli Showmen, quando eravamo già famosi per Un’ora sola ti vorrei, a una serata nell’hinterland partenopeo dopo il Cantagiro suonammo di fronte a sei persone.

Eppure eravate enfants du pays. Gli Showmen incidevano per l’etichetta di Aurelio Fierro.

Un gentiluomo napoletano d’altri tempi. Ci incontravamo in Galleria Toledo. C’era mutuo rispetto.

Gli Showmen erano nati a Miano, vicino Capodimonte, dove lei ancora risiede. L’altro leader della band era Mario Musella.

Un fratello. Non c’era competizione tra noi. Avevamo fatto la gavetta insieme nei gruppetti. E ci legava la comune sorte di essere figli della guerra. Lui nato da un soldato cherokee, io da un nero del North Carolina.

Però Daniele dedicò solo a Musella ‘Nero a metà’.

Ma Pino mi faceva capire fosse un omaggio anche per me.

A proposito: giorni fa è caduto il quarantesimo anniversario di ‘Vai Mo’, l’ultimo degli album di quel periodo che lei, James, incise con Daniele.

È stata una fortuna far parte di quella superband. Era una vera famiglia. Quei capolavori nascevano con grande naturalezza. Quando Pino ce li faceva sentire per la prima volta, praticamente erano già fatti. Andavano solo suonati. Ora non ci sono più né lui, né Joe Amoruso e Rino Zurzolo. Ma è la vita. Chi se ne va prima, chi dopo.

È scomparso anche Salvatore, il fratello di Pino. C’è in vista un’iniziativa per tramandare il patrimonio musicale di Daniele?

Non con me. Ciascuno ha il proprio orgoglio, e io non ho mai accettato compromessi. Vedremo… faranno gli eredi.

Perché finì la vostra collaborazione?

Il manager si mise in mezzo. Comunque, ognuno di noi doveva badare alla carriera. Io con Napoli Centrale, Tullio De Piscopo leader del proprio gruppo. Ci si riunì con Pino molto tempo dopo su Ricomincio da 30, ma ci vedevamo. Mi diceva: ‘James, tu si’ nu’ patre!’”.

Vi confidavate?

Mi parlava con amarezza dei troppi nemici che aveva attorno, di cui non si spiegava l’atteggiamento. Oggi tutti vantano una grande amicizia con Pino Daniele. Il 90 per cento di questi lo detestava.

Di chi parla?

Non tradirò il segreto. Ma basta guardarsi intorno.

Pino ingaggiò al suo posto il leggendario Wayne Shorter.

Io dicevo a Shorter: “sei un grande!”. Lui rispondeva: “no, il grande sei tu!”. E via pacche. Ed era uno che aveva lavorato con Miles Davis, il dio.

Ha mai incontrato Davis?

A Caserta. Non era uno di compagnia. Mi disse “Ciao”.

Senese, lei è in tour per trainare l’album James is back. Il sax inconfondibile, il jazz-soul vibrante, la voce ‘maleducata’.

Il mio inno di ribellione eterna. La mia necessità di cercare aria in questa società in cui ti vogliono far credere che tutto cambia e invece resta tutto uguale.

Un manifesto politico in chiave jazz. Che qualità dovrebbe avere il prossimo sindaco di Napoli?

L’onestà. Ma nessuno di quelli che vivono per le poltrone ce l’ha. Questa città andrebbe reinventata, e servirebbero miliardi. Ma come sentono il profumo delle ‘ppaparelle’, se le mettono in tasca.

Fermiamoci sul titolo. È il suo nome, ma anche quello di suo padre, il militare Usa James Smith.

Tornò in America quando avevo tre anni. Non lo vidi né sentii mai più.

Non vi siete cercati?

Anni fa un amico che vive a New York lo incontrò in metro. E ci parlò. Papà non gli affidò alcun messaggio. Teneva famiglia negli Usa. A Napoli mi hanno tirato su nonno Guglielmo e nonna Pasqualina, proteggendomi sin da quando ero in fasce dalle cattiverie di chi mi emarginava per il colore della pelle. Una discriminazione che continua ancora oggi.

Possibile?

Chi non mi conosce mi insulta. E io, a 76 anni, sono tuttora alla ricerca della mia identità. Non so se sono napoletano o americano. O tutte e due le cose. La cosa mi fa soffrire.

Suo padre potrebbe non essere più vivo. Gli parla, dentro di sé?

Sempre. E so già la risposta: “figlio, tu qui in America saresti stato un altro Malcolm X”.

Uiguri alla catena, in nome della moda: Parigi indaga

Per la prima volta la giustizia francese ha aperto un’inchiesta contro i grandi marchi dell’abbigliamento accusati di sfruttare il lavoro forzato degli uiguri, la minoranza musulmana cinese che vive principalmente nella provincia dello Xinjiang, nell’ovest della Cina. L’inchiesta, come ha reso noto il giornale online Mediapart, è stata aperta a fine giugno per “occultamento di crimini contro l’umanità” e prende di mira quattro giganti del tessile: Uniqlo France, del gruppo giapponese Fast Retailing, il francese SMCP (che comprende marchi come Maje, Sandro e Fursac), lo spagnolo Inditex, proprietario di Zara, e il fabbricante statunitense di scarpe per lo sport Skechers.

Erano state alcune Ong, tra cui l’associazione anticorruzione Sherpa e l’Istituto uiguro d’Europa, a sporgere denuncia due mesi fa. “L’apertura di questa inchiesta farà cadere le maschere del cinismo dei grandi marchi dell’abbigliamento che comunicano rumorosamente sui loro impegni etici, ma si preoccupano solo di arricchirsi, al prezzo dei peggiori crimini”, ha detto a Mediapart William Bourdon, l’avvocato all’origine della denuncia. Nel marzo 2020, il think tank australiano ASPI-Australian Strategic Policy Institute aveva pubblicato un rapporto che identificava 27 fabbriche cinesi che facevano lavorare in modo forzato decine di migliaia di uiguri e 83 marchi internazionali che beneficiavano di quel lavoro almeno in una fase della loro catena di produzione. Si elencavano grandi nomi dell’elettronica, come Sony e Nokia, dell’automobile, come Bmw e Volkswagen, e del tessile, tra cui Nike, Adidas e Gap. Queste multinazionali “sono state a lungo al di sopra delle leggi. Mostreremo loro che il diritto si applica a tutti, anche ai più potenti e ricchi. È un momento storico”, ha scritto in un tweet Raphael Glucksmann, uno dei cinque europarlamentari sanzionati da Pechino di recente per aver accusato degli alti funzionari cinesi di violazione dei diritti umani sulla minoranza musulmana nello Xinjiang. A marzo il Parlamento Ue ha anche adottato una risoluzione sul dovere di vigilanza e responsabilità delle aziende, andando fino a chiedere il divieto nell’Ue di prodotti fabbricati in condizione di violazione dei diritti umani, come in caso di lavoro minorile o forzato. Diversi marchi, tra cui H&M, Nike o Burberry, hanno deciso di boicottare il cotone dello Xinjiang. Ma è dal 2017 che le Ong accusano Pechino di fatti gravi, di internare almeno un milione di uiguri in centri di rieducazione politica. Pechino ha sempre smentito e parlato di “centri di formazione professionale” contro la radicalizzazione. Amnesty International ha più volte denunciato “l’inazione” della comunità internazionale. Il 13 aprile scorso, gli Stati Uniti hanno condannato gli “atti di genocidio” commessi da Pechino contro gli uiguri.

Holding Trump, l’unico sotto accusa per ora è il contabile

Allen Weisselberg, il direttore finanziario della Trump Organization, si è puntualmente consegnato, ieri mattina, alla magistratura di New York, in attesa di essere formalmente incriminato per pratiche elusive delle tasse e illegali. Al momento di comparire davanti al giudice, Weisselberg – riferiscono i suoi difensori – s’è dichiarato non colpevole e ha annunciato che darà battaglia nel procedimento, contestando i capi d’imputazione. Le accuse contestate al direttore finanziario della Trump Organization non chiamano direttamente in causa l’ex presidente Trump e i suoi figli. Ma la holding di famiglia del magnate sostiene, in un comunicato, che Weisselberg verrebbe “usato come una pedina”: le accuse sarebbero “politicamente motivate” e dettate dalla volontà degli inquirenti di convincerlo a collaborare, così da consentire loro di incriminare Trump. Bocche cucite sull’argomento, invece, alla Casa Bianca. Il rinvio a giudizio di Weisselberg, deciso nei giorni scorsi da un Gran Giuri, è il primo punto fermo in un’inchiesta che va avanti da quasi tre anni e in cui sono confluiti filoni d’indagini federali e statali: le accuse, formulate dal procuratore di Manhattan, Cyrus Vance, un democratico, riguardano il mancato pagamento delle tasse su alcuni benefit, quali l’uso di auto aziendali e le rette scolastiche. Relativamente poca cosa, in apparenza, dopo tanto rovistare nelle carte della compagnia di famiglia dei Trump e del suo direttore finanziario. Giovedì, i legali dei Trump non erano riusciti a dissuadere i magistrati newyorchesi dal procedere all’incriminazione di Weisselberg, 74 anni, a capo della Trump Organization da quando essa fu costituita, all’inizio del 2017, poco prima che Donald s’insediasse alla Casa Bianca. Le accuse alla holding e al suo responsabile finanziario costituiscono, comunque, un colpo inferto all’ex presidente, che era sempre riuscito finora a schivare procedimenti penali e civili, oltre che politici – i due impeachment – durante e dopo il suo mandato alla Casa Bianca.

Tutto parte dal rifiuto di Trump di pubblicare le dichiarazioni dei redditi, un rifiuto che ha destato voci e sospetti sulla correttezza delle sue pratiche fiscali. Per la Cnn, gli inquirenti di New York starebbero esaminando anche i bonus in contanti pagati ad alcuni dipendenti – rette scolastiche, auto e alloggi –, per verificare se vi siano state pagate le tasse previste.

Guai a chi sfida il Dragone. La grande muraglia di Zio Xi

Dal balcone sopra la Porta di Tien an men, dove Mao dichiarò l’inizio del regime comunista nel 1949, il presidente Xi Jinping ha aperto i festeggiamenti per celebrare il centesimo anniversario della nascita del Partito comunista cinese. Con il sorriso sicuro di chi è conscio di essere leader a vita dell’unica potenza in grado di far paura agli Stati Uniti e di essere il segretario del partito più potente del mondo, Xi ha menato duro contro i “nemici del popolo” interni ed esterni. Vestito con un completo grigio “maoista” e mantenendo il consueto atteggiamento serafico, “zio Xi”, come ama farsi chiamare dal popolo che in realtà lo teme per i suoi super poteri e per il pugno di ferro contro qualsiasi minima forma di dissenso, ha tenuto un discorso apologetico nei confronti dei fondatori del PCC ed esaltato le performance del Dragone passato in un secolo da creatura povera e arretrata a ricchissima e moderna.

Nei confronti del resto del mondo, Xi ha riservato parole di disprezzo come mai aveva fatto prima. Si tratta di una reazione prevedibile, specialmente dopo il recente tour del segretario di Stato americano, Antony Blinken, teso a ricompattare l’Europa e tutto l’Occidente contro il Dragone, ma il segretario-presidente per questa ghiotta occasione ha aggiunto un carico di aggressività non da poco.

Il leader a vita ha avvertito che chiunque tenti di fare il prepotente con la Cina “vedrà teste rotte e spargimento di sangue”. Nel suo discorso d’investitura fu Xi a presentare una agenda più audace, per usare un eufemismo, in ambito estero, ma la selezionatissima folla plaudente non è sembrata ricordarsene. Del resto chi ha partecipato alla sfarzosa cerimonia di ieri fa parte dell’establishment e concorda con la linea di Xi. E se non concordasse, non lo darebbe a vedere, pena l’epurazione. Per un’ora, con un linguaggio insolitamente energico, il presidente ha anche affermato che la nazione deve attenersi alla regola del partito unico, sottolineando il ruolo dei comunisti nel portare la Cina alla ribalta globale. Xi, che sta prendendo in considerazione un terzo mandato da segretario del PCC a partire dal prossimo anno, ha ricevuto l’applauso più lungo quando ha affermato che il partito ha ripristinato la dignità della Cina dopo decenni di sottomissione alle potenze occidentali e al Giappone nel XIX e XX secolo.

“Il popolo cinese non permetterà assolutamente a nessuna forza straniera di opprimerci o renderci schiavi e chiunque tenti di farlo dovrà affrontare teste rotte davanti alla Grande Muraglia di ferro di 1,4 miliardi di cinesi”, ha tuonato. Dietro la Grande Muraglia però si nascondono ancora le carceri dove sono stati imprigionati i tibetani e gli squallidi dormitori dove sono costretti a vivere; i lager dove da oltre vent’anni vengono rinchiusi per essere rieducati i membri dell’etnia uigura, una minoranza turcofona di fede islamica che abita la regione in teoria autonoma dello Xinjiang, ricca di acqua e metalli preziosi. Dietro la Grande Muraglia vengono consumate le peggiori violazioni dei diritti umani, come sta avvenendo nella città-Stato di Hong Kong dove manifestanti pacifici e direttori di case editrici e giornali vengono sistematicamente arrestati o fatti sparire per ricomparire davanti al tribunale di Pechino. Dietro la Grande Muraglia è il partito a nominare vescovi e cardinali cattolici e i medici che tentano di avvertire dell’inizio di una nuova pandemia proveniente dalla Cina da questo partito vengono fatti arrestare anziché premiare.

Vale la pena di ricordare che i membri del Partito comunista cinese rappresentano solo il 6% della popolazione costituita da 1 miliardo e 400 milioni di persone, ma questa spietata oligarchia controlla tutti gli asset del paese, compresa l’industria culturale che ha costretto molti intellettuali e accademici a lasciare la Cina per non essersi uniformati a divulgare la “corretta visione della storia”, come Mao e Xi chiamano la propaganda. Xi ha anche assicurato che il partito manterrà il controllo assoluto sull’esercito, che ora ha il secondo budget annuale più grande del mondo dopo gli Stati Uniti. “Trasformeremo l’esercito popolare in un esercito di livello mondiale, con capacità ancora più forti e mezzi ancora più affidabili per salvaguardare la sovranità, la sicurezza e gli interessi per lo sviluppo della nazione”. Una promessa per i cinesi, una minaccia per gli abitanti del resto del mondo.

 

Quota rosa o rossa? Concita è più “ologramma” di Zinga

C’era molto, forse troppo fermento a destra per il debutto di Concita De Gregorio alla conduzione di In Onda con David Parenzo. Chi era convinto che la sua presenza fosse un modo per strizzare l’occhio alle quote rosa, chi era convinto che fosse un modo per annaffiare le quote rosse, alla fine possono stare tutti tranquilli. Per ora l’unica quota rosa è rappresentata, appunto, dalla De Gregorio.

Per ora l’unica quota rosa è rappresentata, appunto, dalla De Gregorio che nelle prime tre puntate ha invitato solo uomini (Fico, Salvini, De Bortoli, Floris) e riguardo le quote rosse, be’, con Salvini ospite non abbiamo visto una gatta più morta di lei neanche dopo un giro di polpette avvelenate in una colonia felina. Insomma, l’unica quota che rappresenta la De Gregorio è, televisivamente parlando, la quota Palombelli: sguardo fisso in camera che sembra però mirare un punto indefinito nello spazio e nel tempo o, in alternativa, un Poltergeist. È quello sguardo che sa di inconscio collettivo, ovvero c’è dentro tutto, dal brodo primordiale all’energia nucleare, dall’Unità ai Parioli, ma alla fine non sai più bene cosa. E c’è quella flemma alla Palombelli un po’ composta e un po’ conturbante, quelle parole lente, trascinate come note vocali che però puoi ascoltare a una velocità inferiore, una roba che dopo 5 minuti di In Onda ti chiedi perché. Perché dopo tanta fatica deve arrivare questa specie di variante Delta di Otto e mezzo.

E ci si ritrova a provare empatia per Parenzo che, dopo la milionesima stagione con Cruciani, meriterebbe una medaglia al valore militare e invece gli mollano pure Concita. Io l’avevo già capito dallo spot che buttava male. Parenzo e Concita: “Concita arriverà la quarta ondata?”. “Chissà. Ma poi da dove arrivano queste ondate?”. “Concita l’Italia riparte!”. “Mah, qualcuno sì qualcuno no!”. Roba che dopo questo spot più che di vederli in tv veniva voglia di farsi una tripla dose di AstraZeneca.

La puntata con Salvini unico ospite in collegamento è, direi, emblematica della situazione: David Parenzo replica, controbatte con vivacità. La De Gregorio, al cospetto di Salvini, può essere efficacemente descritta citando un’abile penna: la sua. Quello che scrisse dell’ex segretario del Pd Zingaretti è perfettamente attribuibile a lei, in versione In Onda: “È gentilissima, va detto. Leale, tanto una brava persona. E però ogni volta che inciampa esita, traccheggia, lascia dietro di sé l’eco malinconica di un vuoto. Come un ologramma, sorride e svanisce”. Nello specifico, Salvini appare in collegamento e inizia subito la sua retorica cristiana augurando a tutti un “Buon San Pietro e Paolo”. La De Gregorio esulta: “Io ne ho tantissimi in famiglia!”. Che uno non capisce se parli di santi o altro, fatto sta che incalza Parenzo: “Tu ne hai di Pietro e Paolo?”. E lui: “Io come sai sono di religione ebraica”. E questo è stato il segmento dialettico della puntata.

Passiamo a Salvini. Matteo Salvini, al cospetto di Concita, riesce a dire del tutto indisturbato che: “Io e Prodi abbiamo idee diverse, ma è bello confrontarsi in modo civile, non sopporto la violenza!”. Cioè, Salvini veste il lenzuolo bianco di Gandhi e nessuno replica. La Gruber con la sola forza dell’incazzatura avrebbe aperto un portale sullo schermo. Poi: “Lei è un po’ come Conte rispetto… rispetto a Bossi.. cioè… quel che Conte è rispetto a Salvini… cioè lei è rispetto a Bossi quel che Conte è rispetto a Grillo?”. Parenzo trattiene l’ilarità, la sua cravatta, per la mancata espettorazione di ilarità, va in autocombustione.

Arriva la domanda ficcante: “Stare fuori dal governo ha fatto avanzare la Meloni?”. “Io non sto a guardare i sondaggi”. La cravatta di Parenzo emette radiazioni ionizzanti. Poi: “Sì, è un governo un po’ strano ma dopo 130mila morti dovevamo prenderci la nostra responsabilità”. Come no, quella dei tour senza mascherine. Concita è ologramma. “Il reddito di cittadinanza è un ostacolo al lavoro!”. Ologramma. “Landini se non attacca il governo ha esaurito la sua funzione!”. Ologramma. “La disabilità è una cosa di cui si parla troppo poco!”. Il giorno dopo Salvini esprimeva solidarietà alle guardie carcerarie che avevano preso a manganellate un detenuto sulla sedia a rotelle. Ma questo Concita non poteva prevederlo. Poi gli viene chiesto del ddl Zan e “Io non voglio sostenere che l’utero in affitto va bene!”. E qui, davvero uno si aspetta che almeno non gli venga permesso di dire falsità, visto che è questione estranea al ddl Zan. Ologramma. Salvini mostra con sdegno la foto di un ragazzo al Gay Pride vestito da Gesù con i tacchi, interviene Parenzo: “Io da cronista venivo a Pontida, è come dire che quelli che da voi giravano con le corna sono la Lega”. Si passa ai porti chiusi: “Secondo lei i porti chiusi sono ancora l’atteggiamento DIFENSIVO giusto?”. Su quel “difensivo” della De Gregorio Freud avrebbe ricalibrato il concetto di “inconscio”. “Con me i bambini morti annegati nel Mediterraneo si erano dimezzati, perché non partivano!”. Certo, morivano a casa loro. Niente, ologramma. Poi si torna sulle migrazioni e Concita esprime un timido dissenso: “Anche i nostri nonni andavano altrove a cercare lavoro e sopravvivenza!”. Salvini allora si lancia in una accurata analisi storica: “Sì, ma non andavano a fare casino!”. “Parenzo: “La malavita la portavamo anche noi in America!”. La De Gregorio: “È come dire che se nasci in una famiglia pachistana chissà come diventi, anche la presidente dell’authority americana è una ragazza pachistana.. da immigrato puoi diventare Obama”. L’integrazione secondo Concita: o sei lo zio di Saman o sei Obama, quindi.

Insomma. Temevamo la quarta ondata. È arrivato In Onda con Concita.

“Libero”: Feltri costretto all’addio spara su Sallusti

Vittorio Feltri con un piede fuori da Libero? È quello che si evince da una serie di tweet velenosissimi del direttore editoriale del quotidiano. Si sa che Feltri – come Il Fatto ha anticipato il 23 maggio scorso – non ha affatto gradito il ritorno di Alessandro Sallusti, giunto in Viale Majno lo scorso 14 maggio, dopo aver lasciato Il Giornale, con il mandato di pensionarlo da direttore editoriale. E infatti da quando è tornato Sallusti ha preso le redini del quotidiano, Pietro Senaldi è stato declassato a condirettore e a Feltri in pratica non resta che scrivere il suo articolo giornaliero e poco altro. Quanto poteva andare avanti? In più Sallusti ha silurato diverse firme feltriane. Così “Vittorio” ieri non si è più tenuto, manifestando il suo disappunto via social. “Il professor Becchi non è più un prezioso collaboratore di Libero. Guai ai bravi”, il primo tweet di Feltri, ieri mattina. Poi altri, con crescendo rossiniano. “Anche Costanza Cavalli, brillante e colta cronista, è stata licenziata. I giornalisti bravi vanno cacciati, quelli scadenti hanno il posto fisso. Questa è la nuova regola”. E poi ancora: “Presto licenzieranno anche Azzurra Barbuto perché ricca di talento. Questo è il nuovo corso inaugurato a Libero”. Infine, parla di sé: “Anch’io sono considerato un peso morto. A Sallusti, che ho assunto tre volte, sto sul gozzo. La gratitudine è il sentimento della vigilia. Mi aspetto il benservito con calma olimpica”. Un colpetto negli stinchi pure al condirettore: “Pagina 16 di oggi su Cosby liberato: ‘L’attore ha scontato due anni, la penna (non la pena) annullata’. Complimenti a Senaldi”. Resta ora da vedere quando Sallusti e gli Angelucci prenderanno la palla al balzo.

Falde inquinate, al via il processo sul disastro veneto

Quindici imputati, un colossale inquinamento ambientale, tre province interessate nel cuore del Veneto (Vicenza, Padova e Verona) e 350 mila persone residenti nella zona dove l’acqua del rubinetto contiene (o ha contenuto) Pfas. Si è aperto in Corte d’assise a Vicenza il processo per gli scarichi della Miteni di Trissino, un’azienda che faceva parte del gruppo Marzotto fino al 1988, fu poi acquistata da Mitsubishi ed Enichem, per diventare infine totalmente giapponese. Le accuse di avvelenamento delle acque, disastro doloso e inquinamento ambientale, riguardano gli sversamenti, avvenuti in un lungo arco di tempo, nella seconda falda più grande d’Europa, che scorre nel sottosuolo veneto. Le micidiali sostanze perfluoroalchiliche, utilizzate nelle lavorazioni industriali, sono altamente tossiche per l’organismo umano che non riesce ad eliminarle, causando numerose malattie, tumori, ipercolesterolemie, infertilità, malattie cardiovascolari. Si sono costituite 318 parti civili, tra cui due Ministeri, la Regione Veneto, tre Ulss, la Provincia di Vicenza, Comuni, associazioni ambientaliste e almeno duecento cittadini nel cui sangue sono state trovate tracce di Pfas. Le Mamme No Pfas, che hanno dato vita a un’associazione in prima linea nella denuncia del caso e chiedono la bonifica delle aree inquinate, e gli attivisti di Legambiente non hanno potuto entrare nell’aula per evitare assembramenti. I loro avvocati, assieme ai Medici per l’Ambiente Italia, hanno denunciato come non sia ancora stato mantenuto l’impegno del Veneto di effettuare l’indagine epidemiologica annunciata nel 2017. C’è stato solo uno screening di massa, che ha confermato il superamento dei livelli di Pfas. E una ricerca ha evidenziato una maggiore incidenza dei decessi per Covid.