Una fattura da 11mila euro intestata al suo socio in Gazzetta Amministrativa srl, presentata come giustificativo per non perdere un finanziamento regionale da 250mila euro. Ma i giudici del Tribunale civile non ci cascano e danno torto a Enrico Michetti, che pure era arrivato a fare causa alla Regione Lazio e alla sua società in house, Lazio Innova. Condannando l’azienda del legale esperto in Pubblica amministrazione a pagare anche le spese processuali. I fatti. È il 2014 e la società dell’attuale candidato a sindaco di Roma per il centrodestra partecipa e vince un avviso pubblico di Lazio Innova per un progetto di open data destinato alle Pmi del Lazio. Per avere accesso ai fondi, l’impresa vincitrice era chiamata dall’avviso pubblico a presentare dei rendiconti sulle spese sostenute non inferiori all’80 per cento del costo complessivamente ammesso, pari a 305mila euro. Il problema è che la somma dei giustificativi presentati da Gazzetta Amministrativa non raggiunge i 235mila euro, dunque ben al di sotto della soglia minima ammessa dal bando di gara. Alle rimostranze di Lazio Innova, Michetti e soci replicano parlando di “mero errore materiale” e consegnano una documentazione integrativa con all’interno – qui sta il succo della vicenda – una fattura di 11.713,50 relativa alla consulenza dell’avvocato Emanuele Riccardi, che però è con Michetti rappresentante e difensore della stessa Gazzetta Amministrativa srl. Un “singolare” paradosso che fa storcere il naso a Lazio Innova. La società regionale, infatti, blocca le operazioni, nega l’erogazione del finanziamento e lo revoca, trincerandosi dietro “l’evidenza del carattere tardivo della produzione documentale” e spiegando che “il mero refuso relativo alla posizione dell’avvocato Riccardi” non poteva essere giustificato in questo modo. La battaglia diventa legale e, come detto, nel 2016 finisce davanti al Tribunale civile. A mettere il punto è la sentenza numero 8573 del 2019, di cui Il Fatto è in possesso. Il giudice Claudio Patruno, infatti, dà torto su tutta la linea al ricorso presentato, per Gazzetta Amministrativa, proprio da Michetti e Riccardi, stavolta in qualità di rappresentanti legali. “Devono essere salvaguardati i principi di trasparenza e correttezza delle attribuzioni, che costituiscono l’essenza delle procedure”, scrive il giudice. Gazzetta Amministrativa srl viene anche condannata al pagamento delle spese, ben 11.810 euro. Chiamato in causa sull’argomento, lo staff di Michetti precisa: “Gli effetti della sentenza sono stati superati da una successiva transazione tra le parti, fermo restando che l’avvocato Enrico Michetti non ha preso parte alla realizzazione del progetto e alle fase di rendicontazione dello stesso”.
Piacenza, 12 anni al “boss” dei carabinieri. Condannati gli “infedeli” della caserma
A un anno dalla maxi-operazione che portò al sequestro della caserma Levante, arriva la sentenza per cinque dei sei carabinieri di Piacenza che hanno scelto il rito abbreviato. Il gup Fiammetta Modica ha condannato a 12 anni di reclusione a Giuseppe Montella, considerato il dominus della banda. Poi 8 anni a Salvatore Cappellano, 6 anni a Giacomo Falanga, 4 anni per il maresciallo della stazione Marco Orlando e 3 anni e 4 mesi per Daniele Spagnolo. L’inchiesta ha svelato orrori e abusi da film al pari di Gomorra, ma nella felix Emilia-Romagna. Una stazione dove succedeva di tutto: spaccio, arresti falsificati, perquisizioni illecite, sequestro di persona, tortura e pestaggi. “Questo processo offende ancora prima delle vittime, cioè le persone picchiate e arrestate illegittimamente, la parte sana, che è la stragrande maggioranza, dell’Arma dei carabinieri: credo che l’Arma si debba ritenere soddisfatta”, ha commentato all’uscita Grazia Pradella, capo della Procura di Piacenza. Per i militari le indagini non sono ancora concluse.
Mail Box
Questi Europei servono a diffondere il virus
Dice giusto Padellaro. Questi Europei servono a diffondere il virus. Magari ce li venderanno anche come ecosostenibili, nonostante decine di rotte aeree che si incrociano, ad aumentare il carico di CO2 e il riscaldamento climatico. Meno male che c’è la Federazione Calcio che sulla lotta al razzismo ha idee chiare. Neutrale. Come se non contasse niente stare da una parte o dall’altra. È così che si diffondono i virus.
Melquiades
M5S, non è l’ex premier quello scorretto
Penso che Grillo si senta fottere (come si dice dalle mie parti) nel cedere il M5S che lui ha fondato e creato. Però, Grillo sta dimostrando di essere un comico anche nella vita, e questo non va bene. Conte non ci sta a questo spettacolo, e neanche nessun’altra persona seria e capace. Grillo non si dovrebbe mettere da parte, ma collaborare, lasciando la guida a chi non è solo un agitatore di masse, ma chi è in grado di prendere le redini di un partito e con esso, la responsabilità. Non è stato Conte a essere scorretto, ma è stato Grillo a dimostrarsi un po’ volgare e falso.
Roberto Calò
Non so più chi votare, forse resta solo Bersani
Per oltre quarant’anni ho votato Pci-Pds-Ds-Ulivo-Unione fino al 2013. Poi, dopo la rielezione di Napolitano, il papocchio del governo Letta, la sciagura Renzi col suo referendum, non li ho votati più e ho creduto nel M5S. Ho vissuto con disagio il governo gialloverde, poi con il Conte-2 ho pensato che forse eravamo sulla buona strada. E nonostante la vigliaccata del conticidio, speravo che, pure fra tante difficoltà, un’alternativa al becerume, oltre che al neoliberismo fosse ancora possibile. Ma oggi è crollato tutto e non so più dove guardare. Esclusa a priori la destra (con annessi italovivi e centrini), escluso il Pd che rappresenta solo se stesso, non mi resta che Bersani. Mi fece un po’ arrabbiare quando non appoggiò la candidatura di Rodatà al Quirinale, però è una persona perbene e soprattutto continua a dire cose di sinistra. È un po’ poco. Che tristezza!
Attilio Luccioli
È stata presa la ruspa contro il Movimento
Da iscritta al M5S vorrei esprimere la mia delusione e la mia rabbia per la scarsa considerazione con la quale siamo trattati in questa riorganizzazione del movimento e della sua leadership. Grillo sembra avere deciso di prendere la ruspa, ma invece che per demolire i campi rom come Salvini, sta radendo al suolo il Movimento e con esso la speranza di vedere finalmente realizzati gli obiettivi di giustizia sociale ed economica oltre che i progressi ecologici. Il sospetto forte che sia stato indotto da interessi personali/familiari ad affossare il presidente Conte, e con esso il Movimento e la possibilità di dare vita a un campo progressista. Sarebbe gravissimo, ma l’unica spiegazione per questo voltafaccia sarebbe solo un delirio di onnipotenza. L’uscita di scena del presidente Conte per me significherebbe smettere di nuovo di seguire la politica e ricominciare a drogarmi di serie tv.
DIRITTO DI REPLICA
In merito all’articolo “Eni depositò una email fasulla. Il legale ai pm: “Lo sapevamo”, a firma di Gianni Barbacetto e Antonio Massari, Eni manifesta la propria indignazione per il nuovo palese tentativo compiuto dal vostro giornale, tramite la titolazione, di orientare contro la reputazione di Eni e a favore di tesi accusatorie infondate un atto di totale trasparenza compiuto dai legali difensori della società nel corso delle indagini sul cosiddetto depistaggio. Un’azione, per di più, spiegata nei dettagli nel testo dell’articolo, che in alcun modo viene rispecchiato dal titolo accusatore.
Eni ribadisce di essere parte lesa nell’ambito della cosiddetto depistaggio e confidiamo che l’autorità giudiziaria possa finalmente e tempestivamente fare chiarezza sulla sua vera origine, vale a dire gli interessi economici personali di Amara, Armanna e degli altri soggetti coinvolti. I difensori di Eni non hanno depositato alcuna email fasulla nell’ambito delle indagini, e men che meno pianificato di farne utilizzi impropri, al contrario segnalando agli inquirenti un documento rispetto al quale non erano in grado in quel momento, e lo hanno dichiarato, di stabilire l’autenticità e la veridicità.
Eni rispetta totalmente la libertà di stampa e per anni si è difesa attraverso repliche articolate inviate al vostro giornale, sopportando continui attacchi all’azienda e alla reputazione delle sue persone.
Siamo costretti oggi ad aggiungere questo ennesimo atto diffamatorio della vostra testata agli atti della causa civile che abbiamo avviato in conseguenza della vostra campagna ai danni della società (e delle persone ingiustamente coinvolte dalle vostre infondate ipotesi propalate ai lettori anche attraverso una titolistica fasulla): Eni è gravemente danneggiata dalla pubblicazione di tesi accusatorie spesso date per acclarate dal vostro giornale, non riscontrate in fase di indagine e men che meno dai Tribunali (che quando finalmente hanno potuto pronunciarsi, le hanno giudicate del tutto infondate).
Erika Mandraffino
comunicazione esterna Eni
Rappresentanza. Un sindacato che non capisce e non si fa capire
Ho una semplice domanda: in relazione alla situazione dei lavoratori sfruttati del turismo, della ristorazione, della logistica e altro, che il Fatto ha come sempre portato oggettivamente all’evidenza, brillano per assenza i sindacati che, fino a prova contraria, dovrebbero tutelare i lavoratori. Perché i vari sindacati non si impegnano per difendere queste categorie?
Grazie e complimenti ancora al Fatto per essere come sempre un giornale libero e oggettivo!
Stefano Tacchini
Rispondere a questa domanda equivale a porre il problema della crisi del sindacato italiano. Non perché non esistano esperienze importanti, anche sui settori da lei indicati: nel turismo o nella ristorazione, spesso, è grazie ad alcune categorie sindacali che lavoratori e lavoratrici riescono a ottenere dei risultati, miglioramenti di vita magari piccoli ma decisivi. Ma nell’insieme le grandi confederazioni sindacali hanno perso il rapporto con settori produttivi ormai importanti. Spesso dando l’impressione di riuscire a rappresentare solo quei lavoratori che per storia, ruolo e collocazione sociale sono in grado di offrire una buona capacità di mobilitazione. Penso ai grandi insediamenti industriali (metalmeccanici o chimici ad esempio) e al Pubblico impiego.
Il settore della logistica è quello che meglio rappresenta questa distanza non a caso colmata da piccoli e combattivi sindacati di base (il Si Cobas, certamente, ma anche l’Adl Cobas e altri ancora). Ci sono stati momenti in cui la difficoltà a distanziarsi da logiche di mercato o schiettamente padronali ha reso Cgil, Cisl e Uil distanti dai propri rappresentati. Un segno di questa crisi è anche il modo in cui è stata gestita la fine del blocco sui licenziamenti. La “sberla” sonora inflitta da Draghi e Confindustria è stata infatti presentata come un successo. Invece a volte non si può che prendere atto della propria debolezza e accontentarsi di limitare i danni, strappando risultati di compromesso parziale. Ma un sindacato che ha a cuore il proprio futuro e quello dei lavoratori dovrebbe dire la verità, spiegare che si è perso e che insieme si deve trovare il modo di tornare a vincere. È questo, forse, il principale difetto.
Salvatore Cannavò
Virologi, ora basta: ridateci Crepet!
Di Paolo Crepet abbiamo imparato ad apprezzare negli anni d’oro del Costanzo Show i pullover triplo filo di cachemire, secondi per celebrità solo alle giacche di Fausto Bertinotti, ma inarrivabili nella scelta del Pantone. Gli interventi dell’illustre psichiatra ci parevano meno notevoli, soporosi o già sentiti, forse dallo stesso Crepet. Ma stavolta il suo coraggioso J’accuse sulla gestione sanitaria della pandemia non fa una piega: “Abbiamo scelto di dare la parola solo alla categoria dei virologi e microbiologi. Pensare per un anno e mezzo solo con la loro testa è stato un errore formidabile”. Opinione suffragata dai disturbi dell’umore in aumento esponenziale nell’ultimo anno, specie tra i più giovani. C’è poco da stupirsi: fatta salva la gravità della pandemia, nel famoso, orwelliano Comitato Tecnico Scientifico non risultano specialisti della salute mentale; consigli e prescrizioni sono stati determinati solo dai dati (peraltro di controversa interpretazione), dai modelli matematici, dalle curve algoritmiche. È la grande illusione di questo superbo millennio che tutto possa essere tracciabile; ma in realtà – ahinoi – è tracciabile solo ciò che è tracciabile. “L’essenziale è invisibile agli occhi”; e soprattutto è invisibile ai dati. Nulla è meno tracciabile della mente umana; e se non è certa la mente, non può essere certo il corpo.
Nulla è per sempre: gli psicologi, da Crepet a Recalcati (quello che come pronuncia Lacan lui nessuno mai), sembravano non avere rivali come esemplari di narcisismo mediatico. Errore: dovevamo ancora vedere in azione i virologi & C. nei salotti tv o in collegamento, produrre i loro vaticini quotidiani e litigare in diretta anche senza la moviola di Biscardi. È vero, nulla sarà come prima dopo il Covid, le nostre più intime certezze sono state scosse e la scienza medica indica nuovi traguardi. Credevamo fosse impossibile presenziare e pavoneggiarsi in televisione più degli psicologi, invece i virologi li hanno stracciati.
Italia, gli Europei appesi alla caviglia
Il destino degli Europei e dell’Italia, non solo calcistica, è legato a una caviglia. Quella di De Bruyne, il fortissimo centrocampista della Nazionale belga. Che De Bruyne fosse un fuoriclasse lo si sapeva, ma che sia assolutamente determinante per il Belgio, che con lui è una squadra e senza di lui un’altra squadra, se n’è avuta dimostrazione per due volte proprio in questa fase iniziale degli Europei.
La prima volta quando il Belgio giocava con la Danimarca. I danesi stavano vincendo 1-0. De Bruyne era in panchina. Veniva da uno spaventoso incidente rimediato solo venti giorni prima nella finale di Champions: rottura del setto nasale e dell’arcata sopracciliare. L’allenatore Martinez lo teneva in panca per averlo a disposizione nelle partite decisive se il Belgio avesse superato il turno. Ma con quell’1-0 a sfavore il passaggio non era più così sicuro. Allora ha mandato in campo De Bruyne senza poter sapere quali fossero le sue condizioni. Un assist, un gol, 2-1 e partita chiusa.
Domenica si giocava Portogallo-Belgio. Il Portogallo è da sempre una squadra tignosa, ti irretisce con una serie infinita di passaggi e non ti fa giocare. Ma De Bruyne, che ha un ruolo fondamentale, dietro gli attaccanti, di raccordo con gli altri centrocampisti ma anche con la difesa, è uno che fa girare bene l’intera squadra. 1-0 per il Belgio. Si era verso la fine del primo tempo. C’è stato uno scontro fra il portoghese Palhinha e De Bruyne. Palhinha s’è rialzato, De Bruyne anche, ma zoppicava vistosamente. All’inizio del secondo tempo Martinez ha rimandato in campo De Bruyne. Ma dopo cinque minuti, facendogli un cenno da una parte all’altra del campo, De Bruyne ha fatto segno al suo allenatore che non ce la faceva a giocare. La partita, che il Belgio aveva governato con facilità, è cambiata di colpo. I portoghesi si sono lanciati all’attacco, i belgi non riuscivano più a superare la metà campo. Il Belgio si è salvato a stento grazie ai suoi difensori e in particolare a Vermaelen ripescato a 34 anni.
Da domenica sono passati cinque giorni. Sono stati sufficienti a De Bruyne per recuperare? Non si sa. Se gioca in buone condizioni l’Italia non ha speranza, se non gioca l’Italia passa e può vincere gli Europei.
Le partite degli Europei hanno un interesse che va oltre il gioco, che è sociale perché danno il carattere di una nazione. Mentre negli incontri fra le squadre di club sono mischiati francesi, italiani, olandesi, belgi, brasiliani, agli Europei in campo ci sono la Francia, l’Italia, la Germania, l’Inghilterra, il Belgio, la Svizzera. Lunedì si giocava Francia-Svizzera, con i francesi favoritissimi. Io ho puntato sulla Svizzera, contando proprio sulla notoria boria dei francesi. Boria che, fuori dal calcio, non ha nessuna ragion d’essere, soprattutto in campo militare dove le han sempre prese, a Sedan dai tedeschi, nella Prima guerra mondiale salvati dagli inglesi, nella Seconda, dove la famosa “linea Maginot” è stata aggirata dai tedeschi e dopo due settimane Hitler passeggiava sugli Champs-Élysées. Ma al momento dell’incontro con la Svizzera erano i campioni del mondo, erano la squadra più forte ed erano francesi. Ma è stato proprio l’esser francesi che li ha fregati. Sono entrati in campo con troppa sicumera. Ma al 19° del primo tempo è successo un miracolo, anzi un doppio miracolo. Il primo è che la Svizzera ha segnato. Il secondo è come ha segnato. Dai tempi di Chapuisat la Svizzera non ha un centravanti. Ci mette per disperazione Seferovic, che è uno che sa giocare, ma la porta non la vede proprio mai. Invece su un cross Seferovic, appoggiandosi al centrale francese, è salito in cielo inviando il pallone nell’angolo. Un gol alla Lewandowski che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui. Nel secondo tempo il modesto Zuber è stato fermato in area di rigore con un fallo dubbio. Mentre l’insopportabile Var valutava la situazione, io mi auguravo che il calcio di rigore non fosse concesso alla Svizzera perché se lo avesse sbagliato si sarebbe invertita l’inerzia della partita. Come puntualmente è avvenuto. La psicologia è fondamentale nel calcio. Dopo 180 secondi la Francia, ringalluzzita dallo scampato pericolo, con i grandi giocatori che ha, era già 2-1. Che dopo poco è diventato 3-1. Svizzera spacciata. Ma l’allenatore della Svizzera Petkovic ha mandato in campo di tutto, terzini trasformati in attaccanti, uomini di classe sostituiti da gente fisica e gli svizzerotti ce l’hanno messa proprio tutta. Ha segnato ancora Seferovic, a cui il primo gol aveva dato la sensazione di essere anche lui un centravanti, e poi Gavranovic. 3-3. A questo punto, sempre per una questione psicologica, era la Francia a essere spacciata. Sei campione del mondo, vincevi 3-1, e sei ai supplementari con la Svizzera. L’inerzia era tutta dalla parte elvetica. Nei supplementari non ci sono stati gol. Si è andati ai rigori. E a questo punto, per le stesse ragioni, la Francia era superspacciata. E qui Deschamps ha commesso l’ennesimo errore. Ha affidato il rigore decisivo a Mbappé, uno dei suoi fuoriclasse, o considerato tale, che aveva giocato male, che ha 22 anni e s’è fatto sopraffare dall’emozione e dal portiere svizzero Sommer che è piccolo ma ha grandissimi riflessi. Del resto Mbappé non mi ha mai convinto, nemmeno quando è diventato campione del mondo con la Francia. È uno a cui piace irridere gli avversari. E, storicamente, giocatori del genere non vanno mai troppo avanti. Così era anche Ronaldo agli inizi. Finché un giorno Van Nistelrooij, che ci giocava insieme nel Manchester United ed era già una stella, stufo di passare sempre la palla a Cristiano quando lo vedeva meglio piazzato e di non riceverla mai, gli diede un cazzotto in faccia. Una lezione salutare. Da allora Cristiano ha cambiato atteggiamento ed è diventato Cristiano Ronaldo.
Dicevo che le Nazionali esprimono il carattere e lo spirito di un Paese. Noi italiani, fatte le debite eccezioni, siamo antisportivi e sleali. Lo abbiamo dimostrato nell’ultima guerra mondiale quando abbiamo tradito l’alleato passando dalla parte dei vincitori. Con quell’alleato non bisognava allearsi ma abbandonarlo in una lotta per la vita o per la morte è una cosa ripugnante. L’abbiamo dimostrato in Afghanistan dove abbiamo tradito gli alleati facendo patti con i Talebani. Lo abbiamo dimostrato adesso nella vicenda De Bruyne. Quando il centrocampista belga s’è fatto male, tutta l’équipe di Sky, a cominciare dall’insopportabile Caressa, ne ha gioito. Solo il simpatico Billy Costacurta, che è stato un grande giocatore e ha conservato il senso della lealtà sportiva, ha detto: “Be’, adesso non esageriamo, non mettiamoci a gufare”. Inoltre da parecchi giorni il nostro premier sta cercando, molto sportivamente, di spostare la finale degli Europei da Londra a Roma con la scusa della variante Delta e la speranza che l’Italia abbia un ulteriore vantaggio per vincere il torneo.
Stasera la partita Italia-Belgio, con o senza De Bruyne, ci dirà molte verità sul nostro calcio, su noi stessi e sul nostro futuro.
Quirinaltango, sai che c’è? Mo’ me lo segno!
L’altro giorno, mentre tra Grillo e Conte fioccavano i vaffa, i giornalisti avvicinarono Enrico Letta che era a Bologna per la presentazione del suo libro Anima e cacciavite. “È una rottura che ci preoccupa”, esordì corrucciato il segretario del Pd, e subito taccuini e microfoni si protesero avidamente, attenti a non disperdere neppure una stilla di quell’apprensione del tutto giustificata. Certo, pensavano i cronisti, se vanno in frantumi i gruppi parlamentari di maggioranza, saranno guai seri per il governo Draghi alle prese con la variante Delta, le vaccinazioni incomplete, le tensioni sociali e il blocco dei licenziamenti non procrastinabile in eterno. Senza contare che i Dem, con l’implosione dei 5Stelle, rischiano di perdere una sponda importante nelle elezioni autunnali che eleggeranno i sindaci nelle principali città. Ma Letta aveva altro per la testa, un pensiero davvero angosciante che riportiamo testualmente per coglierne tutta la drammaticità: “Ci avviciniamo al tempo finale della legislatura, quello in cui si sceglierà il presidente della Repubblica, e lì bisogna essere determinati e con le idee chiare”. Fu allora che un giovane praticante, ancora poco avvezzo ai grandi appuntamenti istituzionali, si fece coraggio e sussurrò a un collega particolarmente toccato dalla rivelazione: “Ma quando è che si vota per il Quirinale?”. “Tra sette mesi”, rispose costui piuttosto seccato da tanta superficiale impreparazione. Del resto, pensò, anche lo scioglimento della calotta polare non è previsto per la prossima settimana, ma ciò non significa che l’umanità non debba farsene carico. Che non fosse un allarme da sottovalutare fu, nei giorni seguenti, doviziosamente illustrato in pensosi e autorevoli commenti che paventavano l’inevitabile balcanizzazione del M5S, e dunque il rischio che l’estate della politica trascorresse oziosa e colpevolmente priva della necessaria determinazione e delle imprescindibili idee chiare invocate da Letta. Devo confessare che pur non essendo di primo pelo, sono stato colto di sorpresa quando in un dibattito in tv il conduttore mi ha chiesto a bruciapelo come pensavo potesse essere risolto il problema del Colle, stante l’imminente scomparsa dei grillini dalla faccia della terra. Come lo sciagurato di cui sopra, ho chiesto quando si sarebbe votato. E quando la scadenza dei sette mesi mi ha colpito come una scudisciata, ho balbettato: mo’ me lo segno.
La destra è contro il cashback. Eppure c’erano già dei risultati
L’Italia sarà l’unico tra i Paesi occidentali a essere prossimamente governato, se i sondaggi saranno confermati dal voto, da uno schieramento di centrodestra. L’unico in cui i due partiti più grandi, il primo e il secondo in classifica, sono di destra (il primo, Fratelli d’Italia, di destra classica; il secondo, la Lega, della destra nazionalista e sovranista).
L’Italia è sempre l’unica tra le democrazie cosiddette liberali a detenere il più alto tasso di evasione fiscale divenuta nel tempo carattere popolare, segno identitario, principio e fine del vizio nazionale. Ogniqualvolta si tenta di porvi rimedio, anche parziale, arriva lo stop. Succede adesso con il cashback: la misura che premiava il consumatore all’uso fedele del pagamento elettronico. Un premio al primo per costringere il secondo, cioè il negoziante, a farla finita con l’antica abitudine di accettare il nero.
Il governo aveva annunciato dei correttivi, sempre possibili per un provvedimento che è ancora in una fase di implementazione, e anche in qualche misura attesi, perché il premio così come congegnato andava anche a chi non aveva titolo, creando una “sperequazione tra ricchi e poveri”, come ha detto il premier Draghi. Dunque una misura che in qualche modo aiutava chi non doveva (i ricchi). Si sarebbe dovuto correggere il meccanismo, si sarebbe potuto farlo. Invece si è scelto di bloccarlo. Se ne riparlerà l’anno prossimo e campa cavallo!
I primi a esultare sono stati i due partiti di destra. Ambedue perché intravedono in questa misura non già una concessione ai ricchi, ma l’occhio lungo dello Stato controllore e censore, l’ombra del Grande Fratello. La tutela della privacy è infatti l’arma che, specialmente Giorgia Meloni, brandisce ogni volta che deve ostruire, contestare, far deragliare un provvedimento. Fu già così con l’app Immuni. Sarebbe dovuta servire a tracciare i nostri contatti, una misura inderogabile secondo tutti gli epidemiologi per tener testa al virus. La Meloni annunciò il boicottaggio per via della privacy violata: con Immuni la nostra vita privata sarebbe stata messa a nudo, passata ai raggi x, resa oggetto di ogni tipo di controllo. Si è visto poi che il tracciamento era rigorosamente anonimo, ma ormai ciò che doveva essere è stato. Immuni è rimasta allo stato larvale, anche per demerito del governo, e il tracciamento ha fatto flop.
Ora la Meloni riprova e rivince col cashback: svendiamo la nostra libertà per una mancia, ha accusato. La leader di Fratelli d’Italia (futura presidente del Consiglio?) evidentemente porta con sé sempre contanti, presumiamo sia di piccolo che di grande taglio. La carta di credito le fa paura, molto meno l’evasione. Perché il cashback sarà pure una misura provvisoria, ancora imperfetta e, come dice il premier Draghi, sperequata in favore di coloro che hanno maggiore potere di spesa, ma intanto il suo lavoro in questi cinque mesi l’ha fatto. Ha portato alla luce 747 milioni di operazioni (+48%) e dentro questo grande calderone ha fatto segnare il record di micro-transazioni (spese inferiori ai cinque euro) pari a 119 milioni (+ 16,2%) evidentemente acquisti non imputabili a portafogli particolarmente ricchi.
Secondo lo studio realizzato da The European House-Ambrosetti sullo scenario possibile e i benefici attesi, un recupero dell’evasione a seguito dello sviluppo dei consumi alimentati da quella che per Meloni è una “mancia”, avrebbe prodotto un aumento del gettito pari a 1,2 miliardi di euro già nell’anno prossimo, e nel 2025 la misura a premi si sarebbe completamente ripagata dall’aumento della fedeltà fiscale. Troppo poco, non è vero?
Draghi così sbaglia: non si incentiva più la moneta elettronica
Spiace dirlo, ma Mario Draghi ha giustificato la scelta di sospendere il cashback con una truffa semantica. In Consiglio dei ministri, dopo le proteste di Pd e 5Stelle, il premier ha spiegato che la misura è di “carattere regressivo” ed è destinata “a indirizzare le risorse verso le categorie e le aree del Paese in condizioni economiche migliori”. Detto in parole semplici, Draghi sostiene che il cashback favorisce sopratutto i cittadini benestanti, già ora abituali utilizzatori di carte di credito, così come quelli che vivono al Nord e nelle grandi città. Molti Draghi-boys, sui social e sui giornali, hanno così esultato, curiosamente al pari di Fratelli d’Italia, arrivando a definire di destra il provvedimento voluto dal governo Conte.
Peccato però che il cashback, così come la lotteria degli scontrini, non sia stato pensato per redistribuire il reddito, ma per essere un volano che spingesse gli italiani a cambiare le loro abitudini. L’obiettivo principale, peraltro più volte dichiarato, era quello di incentivare la moneta elettronica; di indurre negozianti e artigiani a dotarsi di pos; di convincere i cittadini a scaricare l’app Io con cui si dialoga con la Pubblica amministrazione e di spingere i consumatori a entrare nel negozio sotto casa invece che acquistare online. Il cashback nasce infatti come una norma anti-evasione della durata di un anno e mezzo, cioè il tempo necessario per produrre nel Paese una sorta di rivoluzione copernicana.
Dopo soli sei mesi questo cambiamento era iniziato? O i dati raccontano che il cashback dal punto di vista della lotta al nero non ha dato alcun risultato? In un Paese serio sarebbero queste le domande cui dare risposta. E sarebbero pure le domande cui dovrebbe rispondere il premier. Il ministero dell’Economia, incredibilmente, ha però spiegato che non esistono “valutazioni d’impatto aggiornate”. E Draghi, in Consiglio dei ministri, ha confermato. L’ex numero uno di Bankitalia, insomma, pur essendo un uomo di numeri, non ha deciso in base ai numeri. E quindi anche la sua convinzione sul cashback che premia sopratutto i ricchi e meno i poveri è tutta da verificare. Intendiamoci, anche Fatti Chiari ipotizza che al momento sia così. Ma allo stesso modo è logico ritenere che col passare del tempo sempre più persone a basso reddito capiscano quanto il cashback sia per loro conveniente.
In ogni caso, l’approccio corretto, lo ripetiamo, è decidere in base ai numeri e all’esperienza. A oggi i dati pubblici sono pochissimi. Anche se ci forniscono delle indicazioni interessanti. Più di 13 milioni di italiani hanno scaricato l’app Io, con un picco impressionante nel periodo dell’entrata in vigore. Le transazioni con carta di credito e bancomat di importo inferiore ai 5 euro sono state 119.832.324 (il 16,3% del totale), segno che gli italiani hanno cominciato a pagare anche il caffè e il cappuccino con la moneta elettronica. E il fatto che il 21,4 per cento dei pagamenti si collochi tra i 25 e i 50 euro, lascia supporre che questi non siano acquisti al supermercato (un settore in cui l’evasione è praticamente assente). Sorprende però che il governo, adducendo motivi di privacy, non abbia fornito nemmeno alla Corte dei conti i dati disaggregati sul tipo di spese e di negozi interessati. Caro Draghi, da lei ci si aspetta serietà: il cashback può essere migliorato (come suggeriscono i giudici contabili) escludendo, per esempio, la grande distribuzione e mettendo altri paletti. Può persino essere abolito. Ma ci vogliono i numeri. Altrimenti anche la sua è solo politica politicante.
Le dieci contraddizioni di Grillo verso Conte
Non fa piacere dovere concludere che, nel brusco licenziamento di Conte da parte di Grillo, abbia contato più la psicologia che non la politica né tantomeno la logica. Troppe e troppo evidenti le contraddizioni. Mi limito a dieci, per fare cifra tonda, ma potrei andare oltre.
1. Da ultimo, nel ripudio, l’addebito mosso a Conte è quello di avere proposto un “partito unipersonale”. Nel mentre l’Elevato, con un atto d’imperio, decideva la sorte del M5S, l’opposto dell’uno vale uno. Come usa dire, il bue che dà del cornuto all’asino.
2. Il M5S deve il suo straordinario exploit politico-elettorale alla polemica, spesso urticante, contro la casta, contro un ceto politico imbullonato al potere, e ora il suo carismatico fondatore ne decreta il tracollo per una neppure celata ambizione di preservare i pieni poteri personali.
3. Fu lui a chiedere a Conte di assumere la guida del Movimento nel recente, lacerante passaggio della (sua) decisione di sostenere il governo Draghi, mettendo fine, d’autorità, agli estenuanti e inconcludenti “stati generali” che si stavano per concludere con l’elezione di un Comitato direttivo.
4. Ora, egli ripudia Conte e pretende di ripartire di lì, come non bastasse richiamando in servizio la opaca piattaforma Rousseau e il giovane Casaleggio dal quale aveva divorziato solo un paio di mesi fa, con tanto di contenzioso legale e finanziario.
5. Non è facile comprendere come si concilia il suo diktat al M5S perché esso sostenesse il governo Draghi con la svolta rappresentata dalla sua “retropia” ai moduli antagonisti dello stato nascente del Movimento. Al punto di guadagnasi il plauso e la disponibilità a rientrare degli espulsi perché contrari al governo Draghi.
6. Fu sempre Grillo, dopo il Papeete, a imporre ai tanti recalcitranti l’alleanza con l’odiato Pd e far digerire loro la premiership di Conte al governo giallorosso. Una collaborazione con il Pd che, nel tempo, si è consolidata, che prometteva un ulteriore sviluppo grazie al positivo rapporto personale e politico tra Letta e Conte e cui certo non giova il licenziamento dell’ex premier.
7. Nel mentre bombardava Conte, Grillo si profondeva in un enfatico elogio di Di Maio, cioè di uno degli esponenti pentastellati che di più e meglio ha interpretato la maturazione del Movimento quale forza di governo al fianco di Conte. Una figura, quella di Di Maio, di sicuro poco incline a una regressione alla stagione del Movimento allo stato nascente.
8. Stiamo a vedere che ne sarà del limite dei due mandati, un nodo sensibile per gli eletti, ma anche per militanti ed elettori, sul quale Grillo sembrava irremovibile. Non escludo che, nei giorni a venire, si possa assistere a un ammorbidimento suggerito dal proposito di fare l’occhiolino ai parlamentari con due legislature che hanno dissentito dalla rottura con Conte.
9. Grillo dovrebbe riflettere sulla esplosione di gioia della legione di quanti detestano il M5S: dalla destra a Italia Viva, ai media dell’establishment (con commentatori improvvisatisi tifosi di Grillo). Più o meno il vasto fronte di esecutori e mandanti del “conticidio”.
10. Sino all’ultima, clamorosa contraddizione: Grillo imputa a Conte il tradimento della democrazia diretta che rimette agli iscritti la decisione ultima, nel mentre lui da sé solo, da sovrano assoluto, rigetta pregiudizialmente e anzi mette sotto segreto la bozza di statuto stilata da Conte dietro sua richiesta, impedendo che su di essa si esprimano gli iscritti. Chi mai, dotato di dignità e raziocino, può prestarsi ad avallare un tale cumulo di contraddizioni?