La sbroccata di Grillo, la mossa di Conte e come andrà a finire

 

E per la serie “Sono stato sposato ho avuto quattro mogli oltre la mia”, la posta della settimana.

Caro Daniele, Grillo ha sbroccato di brutto. Perché? (Alberto Fait, Rovereto)

 

Grillo ha sbroccato di brutto perché Conte, con una mossa da politico navigato, gli aveva rivolto la “democrazia diretta” contro, proponendo che i grillini votassero sulla nuova piattaforma la bozza del nuovo Statuto. Così, adesso, anche chi non l’aveva ancora capito (Crimi) ha dovuto arrendersi all’evidenza: a Grillo la democrazia diretta va bene solo se è gestita da lui e da Casaleggio. “Il padrone sono me”. Allora Crimi ha ricordato a Grillo che il voto non può avvenire su Rousseau: ma questo non è vero, da statuto, e Grillo ha sfanculato pure lui (“Il garante della privacy non ha mai identificato in te il titolare dei dati degli iscritti, essendosi limitato a indicarlo genericamente nel movimento, probabilmente a causa della tua controversa reggenza”). L’intemerata di Grillo contro Conte (prima esaltato e poi definito uno che “non ha visione politica né capacità manageriali, non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione”, per la gioia delle destre, non solo renziane) non è una novità nel suo repertorio: nel 2010 ne fece una analoga, rinfacci compresi, contro De Magistris, prima appoggiato per l’Europarlamento e pochi mesi dopo definito “il mio più grande errore” (sul blog di Grillo quel post non c’è più, ma lo trovate sul Web Archive, insieme con le mail, un migliaio, di grillini contrari che già lo mandavano affanculo: bit.ly/3dyJtjb). Altri ripudiati eccellenti, due candidati grillini alla presidenza della Repubblica: Milena Gabanelli, dopo l’inchiesta di Report sui fondi del sito pentastellato; e Rodotà, definito da Grillo “un ottuagenario miracolato dalla Rete, sbrinato di fresco dal mausoleo dove era stato confinato dai suoi” dopo che Rodotà lo aveva bacchettato perché non ammetteva la sconfitta alle Amministrative. Ieri, con un post intitolato “Col cuore”, alla Barbara D’Urso, il comunicatore Grillo ha replicato alle migliaia di grillini nuovamente incazzati indossando il tono belante del papà buono, e la camicia bianca che è di rigore quando si ripara a gaffe sul web (vedi Hunziker/Diet Prada): “Ci sono dichiarazioni che mi fanno anche male, perché forse non le merito”. E le sue su Conte? Erano solo “battute”: il vecchio trucco di sparare ad altezza d’uomo, e poi, combinato il patatrac voluto, dire che era uno scherzo, per dare torto a chi ha reagito. In un’altra sbroccata celebre, la stessa forma mentis lo spinse a definire “quattro coglioni col pisello di fuori” quattro ragazzi indagati a seguito della denuncia per stupro di una ragazza, insinuando pure che la vittima era poco credibile perché li aveva denunciati dopo 8 giorni, nonostante la scienza abbia stabilito che i tempi per elaborare un trauma variano, e infatti la legge italiana permette alla vittima di denunciare entro 6 mesi. Ci fu chi parlò di triste epilogo del personaggio, e di una stagione politica. Il M5S era da tempo in crisi. Per uscirne, Grillo ricorse alla tecnica di simulazione ATTIRARE, che consiste nel proporre un modello alternativo (cfr. Ncdc 11 marzo), chiedendo a Conte, forte di un consenso clamoroso, di rinnovare il MoVimento (il calo grillino nei sondaggi è dovuto, oltre ai voltafaccia su questioni fondative con cui erano stati calamitati i voti del successo, all’assenza di organizzazione territoriale, tipica di un MoVimento guidato da un blog anti-partito che usa il voto sul web dopo aver ammazzato i MeetUp, troppo democratici). Grillo il visionario ha quindi svelato il suo nuovo progetto: portare il MoVimento su Marte nel 2050. Basterà a placare Lombardi e Taverna?

 

Basta Padania pure nel calcio

Un bel “Dajeeee” dopo il gol di Chiesa in Italia-Austria. E “Forza Azzurri” twittato spesso e volentieri. Da tifoso azzurro doc. Senza farsi mancare la polemica sull’inchino anti-razzista. “Ancora la sinistra contro gli Azzurri, ma basta! Lasciateli giocare (e speriamo vincere) in pace. Che Letta e Sala si occupino di problemi veri!”. Tutto questo è Matteo Salvini. Chissà, però, se il leader leghista si ricorda quando lui, e molti suoi amici leghisti, tifavano contro l’Italia. Succedeva negli anni 90, nella Lega bossiana e secessionista. L’attuale leader leghista, per esempio, nel 2000 conduceva una trasmissione su Radio Padania dal titolo Mai dire Italia, che faceva il verso a Mai dire gol: nella finale degli Europei del 2000, Salvini tifò la Francia contro l’Italia (vinsero i transalpini 2 a 1). E naturalmente la Lega mise su anche una bella nazionale della Padania, con maglia biancoverde. I cui eredi nel 2018 hanno partecipato ai mondiali degli “Stati non riconosciuti”. Salvini, però, ora fa lo gnorri: per puntare a Palazzo Chigi e ai voti degli italiani non si può mica tifare Padania…

“Così il dl Brunetta mette a rischio il lavoro dell’Anac”

Il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ex presidente dell’Autorità anticorruzione, Anac, ha espresso tutta la sua preoccupazione sul decreto Brunetta, approvato dal Consiglio dei ministri ai primi di giugno, davanti alle commissioni congiunte Affari costituzionali e Giustizia del Senato. Stiamo parlando del decreto legge che riguarda “misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e per l’efficienza della giustizia”, in parole povere, sono le norme che contengono il reclutamento speciale in vista del piano europeo. Il procuratore Cantone teme, in particolare, che una delle norme del decreto (l’articolo 6) possa ridimensionare il potere di prevenzione anticorruzione dell’Anac, con la scusa di semplificare le procedure amministrative. Il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, anche lui ascoltato dalle due commissioni, ribatte: “Credo che non ci debba essere un unico luogo dell’anticorruzione, cioè l’Anac, a cui delegare tutto il processo di regolazione o monitoraggio. Le prerogative dell’Anac devono essere assolutamente intangibili, ma possono essere ‘complementarizzate’, cioè allargate, attraverso la strategia culturale, organizzativa, di trasparenza, di tutte le amministrazioni”.

Ma il procuratore Cantone non ne fa certo una questione di supremazia Anac fine a se stessa, per legame “sentimentale”, avendo presieduto l’Authority. In Senato ha posto l’attenzione sull’articolo 6 del decreto legge, quello che prevede che gli enti della P.a. debbano consegnare al ministero di Brunetta un nuovo “piano integrato” triennale che contenga, tra le altre cose, anche una parte sulla prevenzione della corruzione, perché rischia di essere un pericoloso doppione dei piani anticorruzione che vanno spediti all’Anac e su cui l’authority vigila. È proprio questa nuova modalità che può limitare di fatto i poteri dell’Autorità, creando un rischio di conflitto fra i due piani anticorruzione e una confusione, per esempio, nelle imprese, che non saprebbero a chi rivolgersi. “Questa norma – ha detto Cantone – rischia surrettiziamente, nella sua applicazione, di rappresentare un arretramento significativo in materia di prevenzione della corruzione. Può fare diventare il piano nazionale anticorruzione un adempimento burocratico perché gli fa perdere centralità, può trasformarlo in un semplice tassello che entra in un contenitore più ampio”.

Nel Pnrr viene detto che la normativa anticorruzione ha bisogno di una significativa semplificazione, Cantone è d’accordo, ma devono esserci dei paletti, teme “annacquamenti” delle norme attuali: “La semplificazione è auspicabile dato che il quadro normativo è farraginoso, mi auguro, però, che la semplificazione non sia un’occasione per il ridimensionamento delle attività anticorruzione, non solo dell’Anac. Spero, inoltre, che venga recuperato a tal proposito il lavoro della Commissione presieduta dal professor Bernardo Mattarella (il figlio del presidente della Repubblica, ndr) voluta dal precedente governo e dalla ministra Dadone, che ha compiuto un ottimo lavoro”.

Il decreto prevede anche la “delegificazione”, cioè un istituto che consente al governo, con un atto regolamentare, di introdurre semplificazioni sugli adempimenti dei vari piani del Pnrr. Anche su questo punto il procuratore Cantone ha messo in guardia le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia: “Non vorrei che anche attraverso questo aspetto venga utilizzata la semplificazione per attuare un ridimensionamento del piano anticorruzione”.

Corruzione, in Italia un indagato ogni 14 ore

Un indagato ogni 14 ore: 332 dall’inizio dell’anno. È questo il bilancio dei primi sei mesi del 2021, realizzato dal Fatto Quotidiano analizzando le inchieste in corso. E chi pensa che la corruzione sia sempre legata a grandi somme di danaro si sbaglia. Da gennaio Il Fatto assegna – ovviamente in modo ironico – il Premio Mazzetta della settimana, con l’altrettanto ironico impegno di revocarlo se gli indagati saranno poi archiviati o assolti. Ecco la carrellata dei premi assegnati in 183 giorni.

 

Tangente di Parma, ovviamente al prosciutto

Serafina La Placa, poliziotta dell’ufficio immigrazione di Parma – incastrata dai suoi stessi colleghi – è accusata di aver favorito alcuni immigrati nell’ottenere i permessi di soggiorno. Tariffario: dai 100 ai 500 euro per pratica. In un’intercettazione si lamenta perché un suo “cliente” 2 anni prima le avrebbe dato un prosciutto e quest’anno, invece, niente.

 

Le soffiate al clan in cambio di migliaia di euro

Carlo Ninnolino, in servizio nella Squadra mobile di Latina: secondo l’accusa, per un tariffario tra i 1.500 e i 10mila euro, rivelava a un membro del clan Travali notizie riservate sulle indagini in corso. Premio Mazzetta a rischio: scarcerato perché secondo il gip mancano i gravi indizi di colpevolezza.

 

Anche la permuta dal concessionario di moto

Salvatore Giuseppe Basiricò, funzionario dell’Agenzia delle Entrate di Brescia, per l’accusa ha compiuto accessi abusivi al sistema informatico del suo ente in cambio di un motociclo a titolo gratuito (al massimo, secondo i pm, l’ha pagato mille euro). Il collega Gaetano Vitrano, funzionario Inps, per lo stesso servizio ha ottenuto una Jeep Compass, del valore di 32mila euro, pagata con la sola permuta per 12mila euro della sua vecchia Hyundai Tucson.

 

90mila banconote contate in nove ore

A Salvatore Abbate, imprenditore nel ramo rifiuti, la Guardia di Finanza ha sequestrato 4,6 milioni. Non si tratta dell’importo della tangente – è coinvolto in un’inchiesta per corruzione – ma in quanto a mazzette è record: 90mila banconote da 50 euro. Per contarle la Gdf ha impiegato 9 ore.

 

A Vibo Valentia un rum davvero molto pregiato

Maurizio Piscitelli, ispettore del Miur e provveditore agli studi, indagato dalla Procura di Vibo Valentia. L’inchiesta riguarda la presunta compravendita di diplomi, attestati e master e scambio di favori tra dirigenti della pubblica istruzione. Secondo i pm, Piscitelli attestava la legittimità dell’istituto Fidia e in cambio otteneva soldi. Già, ma come li incassava? “… dentro la bottiglia del Rum (…) La bottiglia… chi ce l’ha?” chiede un intercettato. “Io” risponde tale Igor “gliela porto a Davide che gliela porta a lui… è un liquore da 70 euro”.

 

L’inventore della prima stecca detraibile

Alessandro Bandini, sindaco di San Vincenzo in provincia di Livorno è un fautore della mazzetta detraibile. Intercettato dice: “Parlando fuori dai denti, con Dal Pont c’era l’impegno di anda’ a fa qualche sponsorizzazione di 5mila euro qua e là… c’è la campagna elettorale … era il 2 per cento dell’appalto se non sbaglio… ”. Giorni dopo, quando l’appalto edile viene affidato e un collega gli chiede quanto sborserà Dal Pont: “15 mila… ma vengono girati tutti sul comune… al nero non te li dà più nessuno… loro li scaricano, questa è una fattura, la più grossa di tutte, 6.750 euro”.

 

Quando la corruzione diventa un’opera d’arte

Il catanese Orazio Buda, secondo l’accusa, estorceva al pittore Vittorio Ribaudo un quadro per donarlo a Calogero Punturo, direttore dell’Istituto autonomo case popolari di Catania, mirando in cambio all’assegnazione di un appartamento per suo nipote. “No… ”, dice intercettato mentre sceglie il quadro che sta estorcendo, “a lui piace il legno… come ti sembra questo per il direttore?”. E poi, quando porta l’omaggio a Punturo – dopo aver premesso “…ho scherzato che gli ho detto che gli bucavo la ruota…” – Buda spiega: “…questi vanno accompagnati (certificati, ndr) così non pensano che sono rubati… ”. E al direttore dell’Iacp che gentilmente ringrazia, ribatte: “Lei non mi deve dire niente, mi ha già pagato…”.

 

Per mille euro ti porto droga e coca in carcere

Michele Pedone, poliziotto penitenziario in servizio nel carcere di Augusta, secondo l’accusa, con tariffa standard da mille euro, introduceva nel penitenziario “bicarbonato di sodio”, ovvero cocaina, nonché cellulari e accessori. Non è solo il modo in cui s’intasca la mazzetta a fare la differenza, ma anche la sceneggiatura e la presenza scenica. Raccontano i testimoni: la consegna del materiale al detenuto avveniva in infermeria dove uno dei destinatari “simula di stare poco bene in modo da farcisi portare… una volta che in infermeria si sono accertati che non c’è nessun problema particolare, Pedone riaccompagna il detenuto alla cella e lo scambio avviene durante il tragitto (…)”. In altre occasioni il poliziotto rimprovera il detenuto che ha simulato il malore e lo porta con sé, per effettuare la consegna. Due grandi attori.

 

Olio e castagne per dimezzare una multa

Domenico Tedesco, direttore del dipartimento prevenzione Asp di Crotone, secondo l’accusa s’è impegnato a dimezzare l’importo di un’ammenda (per violazioni sull’igiene) in cambio di due latte d’olio e alcuni chili di castagne.

 

10 euro per segnalare un paziente da trasportare

Vito Pappalardo – ausiliario specializzato nel pronto soccorso dell’ospedale siciliano di Gravina di Caltagirone – è accusato, in qualità di incaricato di pubblico servizio, di aver “sollecitato” la “dazione… di 10 euro” per aver segnalato un paziente da trasportare.

 

Una bustarella chiamata Pippo Baudo

Gaetano Giannini, dipendente della società Smp Srl di Barletta, è indagato con Massimo Borgato e Antonio Capozza (presidente del Cda di Gelsia Ambiente Srl, società a partecipazione pubblica, con sede a Desio, in provincia di Monza, che gestisce il servizio di raccolta rifiuti e considerati pubblici ufficiali), Cosimo Sfrecola (amministratore di fatto della Smp Srl) e Fabrizio Cenci (amministratore di fatto della Cmb service Srl). Per i pm, Borgato e Capozza accettavano, con l’intermediazione di Giannini, la promessa di 60mila euro da Sfrecola, facendo ottenere un appalto a Smp che affidava un subappalto a Cmb. Giannini spiega come deve essere compilata la causale delle fatture: “Deve essere una frase che non deve puzzare nelle intercettazioni… in fiera tu dirai: devo chiamarlo Pippo? Devo chiamarlo Pippo Baudo? Chiamalo Pippo Baudo (…) te lo inventi nel momento… non devi averne modo di parlarne al telefono”. Ottima l’idea di indicare Pippo Baudo nella causale. Ma soprattutto va premiata l’avvertenza, per evitare d’essere intercettati, di non parlarne al telefono. Avvertenza fornita mentre era intercettato.

 

La promessa di 2mila litri di gasolio agricolo

Leonardo Iaccarino, ex presidente del Consiglio comunale di Foggia, è accusato di essersi fatto corrompere (insieme con un ex dipendente del Comune) per “influenzare” gli uffici del municipio. Obiettivo: accelerare i tempi di una “istanza di liquidazione” di un’impresa e il “suo successivo pagamento”. Non solo soldi per Iaccarino, ma anche la promessa di 2mila litri di gasolio agricolo.

 

L’asfalto per il parcheggio lido di Molfetta

Mariano Caputo, ex assessore ai lavori pubblici di Molfetta, e Riccardo Di Santo, rappresentante legale della “costruzioni generali Di Santo srl”, è accusato di aver indotto una “dirigente dell’Ufficio di ragioneria a liquidare fatture ” per una Ati, alla quale partecipava Di Santo, “in assenza della necessaria copertura (…)”. In cambio riceveva da Di Santo “50 metri cubi di asfalto (…) del valore di 10mila euro (…) che residuava dai lavori in corso sulle strade di Molfetta (…) destinata a essere impiegata da Caputo per realizzare un’area parcheggio al servizio del Lido a opera delle stesse imprese Disanto s.r.l (…)”.

 

L’assunzione dei “figli di” la pagano i cittadini in bolletta

Marco Campione, presidente della Girgenti Acque Spa, secondo l’accusa, in cambio dell’approvazione di un nuovo calcolo tariffario per le annualità 2012-2013, ha fatto assumere tra il 2013 e il 2014 i figli di Eugenio D’Orsi, Commissario Straordinario e liquidatore del Consorzio di Ambito Territoriale Ottimale di Agrigento. Una trovata geniale: se l’accusa fosse confermata, l’assunzione dei figli di D’Orsi l’avrebbero pagata i cittadini di Agrigento direttamente in bolletta.

“Santa Rita ci farà uscire dalla pandemia”

Il 5 giugno aveva comunicato il raggiungimento di quota 600 mila somministrazioni giornaliere (record del giorno precedente), ieri si è affidato a Santa Rita. Davanti all’urna che custodisce il corpo della santa, a Cascia, il commissario all’emergenza Covid, il generale Francesco Paolo Figliuolo ha detto di averle chiesto “di aiutare l’Italia a uscire da questa pandemia, far sì che la campagna vaccinale proceda e che tutti gli italiani ne capiscano l’importanza. Confidenti nella scienza ma anche nella spiritualità, auspico che Santa Rita posi la sua santa mano sopra di noi, per fare in modo che ne usciamo”. Del resto il record è un ricordo. Giugno avrebbe dovuto essere il mese della “spallata”, con la consegna di oltre 15 milioni di dosi solo dei vaccini Pfizer e Moderna (alla fine ne sono stati distribuiti 15,3) ai quali sommare i sieri di AstraZeneca e Johnson&Johnson, fino a raggiungere 20 milioni di dosi. Così non è stato. Sono state quasi sempre superate le 500 mila somministrazioni giornaliere, anche negli ultimi giorni del mese, ma nemmeno l’ombra di quel milione di inoculazioni auspicato. Non è stato certo un successo.

E intanto si profila il rallentamento della macchina vaccinale in luglio, a causa di 800 mila dosi in meno in arrivo di Pfizer e Moderna. Figliuolo ne ha annunciate in totale 14,5 milioni. Una parte di quello stock di quasi 45,5 milioni dei due vaccini statunitensi mRna attesi per il terzo trimestre dell’anno, da questo mese a settembre. Vaccini che, dopo il ribaltone su AstraZeneca, destinato ora solo agli over 60, dovranno coprire non solo chi sotto questa età deve fare ancora la prima dose ma anche i richiami a chi per la prima somministrazione ha ricevuto il siero di AstraZeneca appunto. E il quantitativo in arrivo è considerato insufficiente dalle Regioni. Tanto da congelare le nuove prenotazioni per le prime dosi. Dalla Puglia alla Toscana, dal Lazio alla Campania all’Emilia-Romagna. Quest’ultima le ha già sospese per il mese di luglio, cercando contemporaneamente di anticipare le seconde somministrazioni agli over 60, per proteggerli dal virus e dalla variante Delta.

Preoccupazione di cui si fa portavoce anche la Fondazione Gimbe. Perché come si legge nell’ultimo report, “2.384.966 over 60 (il 13,3%) non hanno ancora ricevuto nemmeno una dose e 4.648.515 (26%) sono in attesa di completare il ciclo con la seconda somministrazione”. Oltre 7 milioni di persone sono quindi “parzialmente o totalmente esposti al rischio di malattia grave perché non hanno adeguata copertura contro la variante”.

Secondo Renata Gili, responsabile Ricerca sui servizi sanitari della fondazione Gimbe, “pur non conoscendo al momento l’esatta prevalenza della variante Delta in Italia, la sua maggiore contagiosità e soprattutto la documentata limitata efficacia di una singola dose di vaccino richiedono una valutazione delle strategie vaccinali per minimizzare l’impatto clinico e quello sui servizi sanitari”. Da qui anche il consiglio di “anticipare quanto possibile la seconda dose” agli over 60.

Il Viminale chiude agli inglesi. Ma l’Uefa conferma Londra

Battere il Belgio, sul campo. Fermare gli inglesi, alla frontiera. L’Europeo dell’Italia ha preso questa strana piega per cui non si capisce più chi siano i veri avversari, se Lukaku&C. o il Covid. Stasera c’è la grande sfida: a Monaco di Baviera, ma in uno stadio praticamente italiano (attesi 10 mila azzurri) e vale la semifinale di Wembley del 6 luglio.

Tutti gli sforzi, le paure sono, però, rivolte alla partita di domani: a Roma arriva l’Inghilterra e chissà quanti inglesi. Bisogna stoppare la variante Delta, evitare che una partita di calcio diventi una “bomba virale”, come dice l’assessore del Lazio Alessio D’Amato, che ricorda l’infausto precedente di Valencia-Atalanta del 10 marzo 2020. Per questo il Viminale ha chiesto e ottenuto dalla Uefa di “stracciare” i biglietti venduti nelle ultime ore a britannici residenti nel Regno Unito. Il provvedimento d’urgenza firmato ieri dal capo della polizia Lamberto Giannini è la dimostrazione di quanto sia alta l’allerta per l’arrivo potenziale di circa 4 mila persone dalla Gran Bretagna, dove ieri i nuovi casi Covid hanno sfiorato quota 30 mila, il dato più alto dal 29 gennaio e per il 99% dovuto alla variante Delta. Alle compagnie aeree è stato imposto di non imbarcare tifosi stranieri diretti all’Olimpico, di qualunque nazionalità. Chi viene in Italia dovrà dichiarare di non recarsi allo stadio. La Federcalcio inglese ha rinunciato a vendere i suoi duemila biglietti extra, proprio a causa delle restrizioni, rimettendoli sul mercato Uefa. Mentre il Ministero dell’Interno ha preteso l’annullamento per i ticket venduti a residenti in Uk dopo il 28 giugno, ultima data utile per rispettare la fatidica quarantena di 5 giorni, e di bloccare a ieri sera la trasferibilità dei biglietti. Così una buona fetta di tifosi non avrà neppure in mano il biglietto per provare a entrare allo stadio. La Uefa non avrà fatto i salti di gioia, ma sempre meglio delle porte chiuse. Rimangono i ticket venduti mesi fa, duemila a cittadini inglesi, su cui non resta che il controllo del rispetto delle regole.

Per questo ieri è partita anche un’altra circolare dal Ministero della Salute per precisare che le varie esenzioni, dall’ingresso per 120 ore per lavoro a quello via terra per transito di 36 ore, non valgono per Euro 2020. Come a dire ai tifosi inglesi: non provate a fare i furbi, visto che i tabloid si erano già scatenati a suggerire i possibili trucchetti per recarsi all’Olimpico. Solo chi si è mosso per tempo e ha fatto la quarantena potrà andare allo stadio. Per assicurarsene, sono stati rafforzati i controlli in stazioni, aeroporti e autostrade, mentre la Questura prepara un piano per monitorare con agenti e varchi il centro di Roma, a partire dalle Fan Zone. Il governo spera che le misure prese per scoraggiare le trasferte bastino a limitare i danni. Anche a costo di avere uno stadio mezzo vuoto, la presenza di inglesi sugli spalti dovrebbe essere ridotta al minimo infatti. Confermato, invece, il via libera per il contingente legato all’evento (giocatori, tecnici, accompagnatori, giornalisti). Comunque un rischio, di questi tempi.

Ma più Euro 2020 va avanti più aumentano i pericoli. L’Oms chiede più controlli, non solo negli stadi ma anche in piazze e trasporti, segno che non tutto ha funzionato per il meglio. È stato lanciato un portale online per monitorare i casi di contagio nelle città ospitanti: un po’ tardi ormai ai quarti, dove la partita peggiore è toccata proprio a Roma. Ma Svizzera-Spagna a San Pietroburgo, oltre 20 mila nuovi casi al giorno in Russia, non è da meno. Mentre in Germania, a Monaco, ci saranno 10 mila italiani stasera. Poi il gran finale. A Londra, nonostante tutto. “Il calendario procede come previsto”, conferma l’Uefa: semifinali e finale a Wembley, e 60 mila persone sugli spalti (salvo contrordini dell’ultimo minuto), mentre fuori impazza la variante Delta. Inutile il tentativo del premier Draghi di scippare l’evento a Boris Johnson. Inutili anche le accuse tedesche: “L’Uefa è irresponsabile” per il ministro dell’Interno Seehofer. Inascoltato l’appello dell’Ue a riconsiderare la scelta: l’Uefa va avanti, i contagi pure.

L’Italia “riparte” dai precari: crescono solo i “contrattini”

Il mercato del lavoro sta ripartendo da dove si era fermato: da una nuova ondata di precariato. A maggio, l’aumento di contratti a termine è di ben 93 mila, mentre per i permanenti si è fermato ad appena 6 mila. Nel trimestre marzo-maggio i rapporti a scadenza sono saliti di 188 mila; gli stabili sono scesi di 70 mila. In primavera le imprese hanno sì assunto, ma senza impegno. Come accadde alla fine della crisi del 2008, quando il decreto Poletti – dal 2014 – diede la spinta ai “contrattini”. I dati Istat di ieri spiegano anche l’insistenza della Confindustria nel chiedere di abolire definitivamente – dopo averne sospeso l’efficacia – le causali imposte dal decreto Dignità: l’obiettivo è operare un ricambio negli organici, liberandosi dei più tutelati e facendo entrare nuovi precari.

Dai numeri emerge pure un numero ancora alto di addetti con ammortizzatori sociali a zero ore. I dipendenti a tempo indeterminato, infatti, risultano diminuiti di 225mila in un anno, perché il nuovo metodo di calcolo non considera più occupati i cassintegrati del tutto fermi: la differenza su base annuale suggerisce un ricorso ancora importante alla Cig. Ora vedremo l’impatto dello sblocco dei licenziamenti economici, intanto nel 2020 abbiamo avuto il record di quelli disciplinari: 124mila. Gli allontanamenti per giusta causa crescevano da anni (specie dall’abolizione dell’articolo 18), ma i difensori del Jobs Act sostenevano dipendesse dall’aumento dell’occupazione: più persone al lavoro, più licenziati. Nel 2020 però il Covid ha affossato l’occupazione, eppure i recessi punitivi sono aumentati ancora e così pure nel primo trimestre 2021.

Bollette, rincari record (nonostante il governo)

Per i prossimi tre mesi una famiglia tipo in regime di tutela pagherà il 9,9% in più per la luce e il 15,3% in più per il gas. Tradotto significa che si spenderanno 559 euro per l’elettricità e 993 euro per cucinare o utilizzare la caldaia. Una stangata a doppia cifra, quella ufficializzata dall’Authority per l’energia (Arera), che sarebbe stata ancora più pesante se il governo, in extremis, non avesse inserito nel dl Lavoro un fondo da 1,2 miliardi di euro per attenuare l’aumento delle tariffe riducendo gli oneri generali di sistema in bolletta. Senza questo provvedimento, finanziato anche con parte del ricavato dalle aste del mercato Ue dei permessi di emissione di CO2, l’incremento della luce sarebbe stato addirittura del 20%.

C’è, però, poco da stupirsi: l’incredibile impennata dei prezzi delle materie prime (come metallo, legno o plastica) si è abbattuta anche sull’energia che sconta in aggiunta il costo delle politiche energetiche imposte dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con un aumento senza precedenti proprio delle quote di CO2 pagate dai produttori di energia per continuare a inquinare. Fattori ben noti da mesi che hanno portato il governo a esporsi solo a ridosso dell’entrata in vigore delle nuove tariffe. E se nelle prossime settimane non verrà affrontata la questione, vista la congiuntura, i rialzi non si fermeranno qui. Una bomba sociale per un Paese già schiacciato tra aumento della povertà e salari stagnanti. Per questo il presidente dell’Arera, Stefano Besseghini, ha chiesto al governo di prevedere che parte dei proventi dalla vendita dei permessi a inquinare venga automaticamente impiegata “a contenimento delle bollette”. Cosa succederà non è però chiaro alle famiglie che subiranno le conseguenze della nuova politica energetica, soprattutto perché nel Pnrr è stato inserito anche lo stop definitivo del mercato tutelato in cui ci sono ancora 15 milioni di famiglie. La liberalizzazione forzata, va ricordato, nasce nel 2016 con il governo Renzi “in favore del monopolista Enel”, come spiegò l’allora presidente della commissione Industria del Senato Massimo Mucchetti. Dopo gli slittamenti previsti dalla legge sulla Concorrenza del 2017, dal Milleproroghe nel 2018 e nel 2019, lo scorso dicembre è stata prevista la nuova deadline: il 1° gennaio 2023. Ma a fronte di una data certa, non c’è traccia di una road map reale. Va ancora scritto il complicato decreto attuativo che deve spiegare le misure per garantire il passaggio automatico al servizio di salvaguardia o, in alternativa, allo stesso fornitore che opera nel libero, con delle aste che dovrebbero scattare tra i vari venditori per “spartirsi” i clienti. Dove il rischio, mai smentito, è noto: finire in balia di centinaia di società che si contendono a colpi telefonate i clienti facendo pagare loro luce e gas più di prima.

Intanto il costo della CO2 continuerà ad aumentare.

“Premier e sindacati: sui licenziamenti solo una presa in giro”

“Quale accordo? Il testo firmato non lo è di certo, si fa fatica perfino a definirlo”. Sergio Cofferati si mostra assai perplesso quando gli si chiede cosa pensi della “presa d’atto” sul blocco dei licenziamenti, il documento di 7 righe siglato martedì tra le parti sociali e il governo. L’ex segretario della Cgil che ha portato milioni di persone in piazza per difendere l’articolo 18 (marzo 2002) osserva sconsolato l’epilogo di un passaggio fondamentale. “Mi chiamavano, sbagliando, il signor No. La verità è che spesso serve dire di no e proporre soluzioni migliori”.

I sindacati, Cgil compresa, hanno salutato con entusiasmo l’accordo che raccomanda alle imprese di usare le 13 settimane di Cig prima di licenziare…

Un’enfasi ingiustificata. Non è un accordo, a partire dal titolo “Presa d’atto”: mai visto prima. Il governo sollecita le parti a convergere su una “raccomandazione”: cosa vuol dire? Non si capisce quale fondamento giuridico possa avere e quindi la sua efficacia. Peraltro riguarda solo una parte, i datori di lavoro, che in realtà non avranno alcun vincolo. È un contorto atto politico che non risolve il problema di fondo. Una scelta sbagliata destinata a creare molti problemi.

Perché i sindacati sono contenti?

Temo abbia prevalso la paura per la reazione delle persone in caso di rottura. Ma non si è deciso nulla e il governo si è inventato nuove forme di rapporti fra le parti sociali…

Come si poteva risolvere?

Perché affidarsi alla buona volontà di Confindustria? Se va bene si sposta il problema di 13 settimane, se va male avremo migliaia di licenziamenti. Si incentivano le aziende a non licenziare, ma la Cig è temporanea, serve per trovare una soluzione al problema che ne ha richiesto l’uso, che qui non viene trovata. Serviva svuotare la sacca di lavoratori a rischio licenziamento, cioè una vera politica del lavoro.

Il governo Draghi sottovaluta il tema lavoro?

Mi pare non lo consideri proprio. C’è un vuoto enorme. Prendiamo il Pnrr: miliardi di investimenti che avranno effetti sull’attività delle imprese e sul lavoro. Dei primi si parla poco, dei secondi zero. Eppure dovrebbe essere normale valutare gli investimenti anche in termini di obiettivi occupazionali, sia quantitativi che qualitativi.

L’asse di questo esecutivo è a destra?

Non è certo progressista, e non è un problema piccolo. Decidere di non decidere dà la sua cifra: lascia mano libera a una parte dei contendenti, i datori.

Perché le forze di centrosinistra non riescono a incidere?

Considerano la sua nascita l’unica via percorribile, non hanno pensato o costruito altro e sono prigioniere di loro stesse. Dovrebbero avere idee sui grandi temi, valorizzare e far crescere il lavoro. Non c’è nulla.

Lei 20 anni fa teneva in scacco i governi, Landini oggi deve elemosinare l’invito di Draghi. Di chi è la colpa?

Un sindacato in crisi deve trovare al suo interno le cause della sua debolezza. Landini fa il suo lavoro con passione, ma le difficoltà sono antiche, la sconfitta sul Jobs act è stato un dei momenti più duri. La politica ci ha messo del suo emarginando i sindacati.

I confederali hanno scelto di essere minoritari nei settori dove c’è conflitto, dalla logistica ai rider, combattendo il sindacalismo di base e siglando accordi capestro.

È un problema enorme. Si è incancrenita la relazione tra le forme di rappresentanza. La Cgil deve mostrare di avere qualcosa da dire ai lavoratori di questi settori e avere un rapporto leale con i sindacati di base. Sono i confederali a dover promuovere questo dialogo.

Cosa va fatto oggi?

Due leggi fondamentali: sulla rappresentanza sindacale, all’interno della quale si deve inserire il salario minimo, e la revisione dei diritti del lavoro. Lo Statuto del 1970 va aggiornato alle nuove forme di lavoro.

Le uniche cose di sinistra fatte in questi anni le ha fatte il M5S…

Il Pd è vittima dell’illusione della terza via blairiana, ma il Jobs act non c’entra nulla con la sinistra. Su questo i 5Stelle si sono rivelati progressisti: il centrosinistra deve trovare un dialogo sistematico con loro.

Draghi teme il ritorno dei vincoli di bilancio: “Il debito crescerà”

Per il momento siamo ancora alle dichiarazioni di principio, e questo è un problema perché il tempo è quasi finito, ma lo scontro sui vincoli di bilancio europei è ripartito appieno. Non sappiamo se “la festa è finita” davvero, come sostiene il candidato della Cdu alle Politiche, e probabile prossimo cancelliere tedesco, Armin Laschet, ma Mario Draghi deve aver capito che a Berlino vogliono spegnere la musica quanto prima.

Dopo il “meglio nessun accordo che un cattivo accordo” con cui il premier ha liquidato le trattative sull’unione bancaria, ieri tanto lui che il suo ministro dell’Economia Daniele Franco hanno preso di petto la vera battaglia che li aspetta, quella per cui Draghi potrebbe davvero rappresentare un valore aggiunto per l’Italia: quando e come si torna al Patto di Stabilità?

Il fronte del rigore, con la Germania che stavolta neanche finge di nascondersi dietro i Paesi del Nord, dice: nel 2023 e senza modifiche. Ursula von der Leyen ha indicato in “18 mesi” il tempo necessario ai 27 Paesi Ue per tornare al Pil pre-pandemia. Il suo vice, Valdis Dombrovskis, ha da poco chiarito che “la clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità resterà in vigore nel 2022, ma non più a partire dal 2023”. Il programma della Cdu-Csu (il partito di Angela Merkel e di Laschet) per le elezioni di settembre dice: “Ripristinare rapidamente le regole fiscali del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact (su cui si combatte la vera battaglia, ndr)”. Seguono altre affermazioni perentorie sulla necessità di tornare all’assetto anti-solidale disegnato dai Trattati: ad esempio, “il Next Generation Eu è temporaneo e una tantum”; “Continuiamo a rifiutarci di mettere in comune i debiti o i rischi”.

Il pericolo per l’Italia, che ha visto crescere il suo debito fino al 160% del Pil durante la pandemia, è enorme: il primo è che l’austerità da Fiscal Compact bruci anche quel poco che il Pnrr farà per la crescita; il secondo, conseguente al primo, è che la spirale bassa crescita-alto debito ci butti nelle braccia del famigerato Mes in vista di quella “ordinata procedura d’insolvenza degli Stati” di cui parla proprio il programma Cdu.

Non è un caso allora che Draghi, ieri, abbia dedicato la sua lezione all’Accademia dei Lincei proprio al debito: “È molto probabile che, per diverse ragioni, questa fase di crescita del debito, pubblico e privato, non sia ancora terminata. La ripresa non basta per riparare i danni della crisi” (tradotto: la festa non è finita); “Una politica fiscale espansiva non è in contrasto con la graduale discesa del rapporto tra debito e Pil” (tradotto: no al ritorno del Fiscal compact); “A livello europeo dobbiamo ragionare su come permettere a tutti gli Stati membri di emettere debito sicuro per stabilizzare le economie in caso di recessione. La discussione sulla riforma del Patto di Stabilità, per ora sospeso fino a fine 2022, è l’occasione ideale per farlo” (tradotto: serve una qualche forma di debito comune).

Sempre ieri, sul Corriere della Sera, anche il ministro Franco aveva messo le mani avanti: “Siamo per la riapertura di un dibattito sulla riforma delle regole di bilancio dell’Ue nella seconda metà di quest’anno. Penso che nei prossimi trimestri dovremmo evitare una stretta prematura della politica di bilancio in Europa che rischierebbe di inficiare l’impulso alla crescita indotto dal progetto Next Generation Eu”. Quanto alle nuove regole, “credo debbano evitare effetti pro-ciclici”.

Il bilancio pubblico presentato da Draghi vede già deficit e debito in discesa fino al 2024 grazie alla crescita, ma anche a “risparmi di spesa e aumenti delle entrate che saranno dettagliati nella legge di Bilancio 2022”. I ritmi del ritorno all’ordine, però, non sono certo quelli che imporrebbe un Fiscal compact funzionante dal 2023: il Def prevede anzi “un graduale percorso di consolidamento fiscale dal 2024”. Il problema è che i rigoristi stavolta hanno un argomento piuttosto convincente: le erogazioni del Pnrr sono legate a una serie di parametri, tra i quali il rispetto delle “raccomandazioni per Paese” per il 2019 e 2020, che ovviamente contengono anche indicazioni sugli “squilibri eccessivi” a partire dall’alto debito. Sul tavolo delle trattative c’è una pistola.