La denuncia partita dalle donne: madri e mogli “coraggio”

Le donne. Le mogli e le figlie dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Le donne che dovevano spiegare ai loro piccoli perché non avevano più notizie del papà. Le donne preoccupate da notizie allarmate e dettagliate che filtravano dalle mura del penitenziario. Le donne che hanno fanno rete, che si sono scambiate informazioni e audio nelle chat prima di andare a denunciare, sono state il motore delle indagini sui pestaggi compiuti il 6 aprile 2020 dagli agenti della polizia penitenziaria, e avallati e coperti dai superiori. Sono state loro, le donne, a capire per prime cosa era successo. Sono state loro, di fatto, a eseguire le primissime indagini. Quelle decisive. Quelle che hanno aperto gli occhi agli inquirenti, forse increduli, all’inizio, per la violenza dei racconti.

Prendete Rita (nome di fantasia), la compagna di un detenuto ora ristretto ad Ariano Irpino. Un anno fa l’uomo era rinchiuso nel carcere casertano, “uno di quelli messi peggio dopo i pestaggi, ci misi una settimana prima di riuscire a mettermi in contatto con lui”. Come seppe dell’accaduto? “Ci avvertirono le mogli dei detenuti degli altri reparti, il Tamigi, il Tevere, i loro mariti avevano riferito di aver ascoltato delle urla terribili dal reparto Nilo”. Era la mattanza in corso. Tre giorni dopo, le mogli dei reclusi si assembrano sotto i cancelli dell’istituto carcerario, dove sono in arrivo gli ispettori del ministero, per protestare. Chiedono e ottengono un colloquio con una funzionaria (la direttrice, il giorno del pestaggio era assente). Non ne escono per nulla tranquillizzate. “Ci conferma che era successo qualcosa. Quando ci allontaniamo, veniamo investite dagli insulti degli agenti”. Con pazienza e tenacia, Rita elabora una strategia e la compie: prima aspetta di riuscire a parlare con il compagno “e ci vorranno sette giorni, e registrai tutto: mi disse di essere stato massacrato e che avrebbe confermato tutto se denunciavo”. Poi si fa mandare i file audio di sei conversazioni di altrettante signore coi loro mariti detenuti. Tutte dello stesso tenore: le botte, il terrore, il sangue.

Così, quando Rita va a denunciare in caserma, non ha solo la parola del compagno. Ha quelle, concordanti, di altre sei persone. Le storie combaciano. Ci sono dettagli raccapriccianti. Il fratello del compagno di Rita dice di essere stato violentato con un manganello. La circostanza è citata nell’ordinanza di misure cautelari. “Ci ho messo quattro giorni per completare la denuncia. E ora sono preoccupata perché il mio compagno ad Ariano Irpino ha riconosciuto tre agenti che parteciparono alle percosse, che forse non sono stati nemmeno indagati, e ha paura di ritorsioni”. Non sarebbero gli unici: con lo stesso passaparola dell’anno scorso, la signora sostiene che ci siano agenti in servizio e pronti a vendicarsi anche nei penitenziari di Bellizzi e Secondigliano.

Flavia invece parla col suo vero nome. È la moglie di un detenuto con tendenze autolesionistiche e sotto cura farmacologica “perché è ancora molto scosso”. Quattro figli piccoli, uno in cura da uno psicoterapeuta, “che chiede sempre perché hanno picchiato papà”. Anche l’uomo di Flavia ha riconosciuto a Secondigliano, dove è ora ristretto, un paio dei suoi presunti carnefici. “Ho denunciato subito, forse sono stata la prima”. Non è stata l’unica.

Mattanza dei detenuti: Salvini sta dalla parte degli agenti

Sempre e per sempre dalla stessa parte, Matteo Salvini: quella della polizia. Tutta la polizia, in fondo pure quella col manganello facile. Perché “chi sbaglia paga”, dice. Anche e persino se porta la divisa. Ma poi il capo della Lega rimarca in ogni maniera la sua vicinanza a tutti gli agenti di tutte le carceri italiane. Con gli elettori non si scherza.

La scelta è politica, non casuale: l’ex ministro dell’Interno viene a portare la sua solidarietà alla polizia penitenziaria proprio nel carcere della vergogna, la Casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Il teatro della “mattanza” del 6 aprile 2020: botte, schiaffi, manganellate, umiliazioni e vessazioni che hanno ricordato Bolzaneto e le pagine più ignobili della storia repubblicana. Dopo un anno e due mesi d’inerzia, grazie alle immagini traumatizzanti pubblicate dal quotidiano Domani, il ministero della Giustizia ha sospeso 52 protagonisti di questo scempio, tra secondini e funzionari.

Il giorno dopo , con una certa coerenza, Salvini è qui. Per solidarietà a chi ci lavora, non a chi è recluso e ha preso le botte. Incontra la direttrice Elisabetta Palmieri, un gruppo di agenti, i dirigenti del Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria e un drappello di militanti leghisti. Tutti tranne i detenuti e la loro garante Emanuela Belcuore. Che d’altra parte non si sarebbe prestata: “Sono qui per incontrare chi vive in cella, non per sfilate politiche”, ha detto Belcuore all’ingresso del penitenziario.

La visita di Salvini al carcere è breve, una decina di minuti, poi il capo della Lega si trattiene più a lungo insieme ai poliziotti e ai suoi sostenitori sotto un gazebo all’esterno della struttura. Un rinfresco, un breve comizio, applausi scroscianti, i soliti selfie seriali. Infine si concede ai giornalisti assiepati sul cancello d’ingresso dell’istituto. “È mio dovere essere qua a ricordare che chi sbaglia paga, anche se indossa la divisa, ma questo non vuol dire mettere a rischio la vita di 40mila uomini e donne della polizia penitenziaria”. Un colpo al cerchio e tre colpi alla botte: “Ringrazio le forze dell’ordine tutte, in tutta Italia, con qualunque divisa, per il lavoro che fanno”. Salvini è recalcitrante nell’usare il termine “mattanza”, quella con cui i magistrati casertani hanno definito l’azione punitiva dei poliziotti avvenuta nel carcere alle sue spalle: “D’accordo, se a lei piace tanto l’aggettivo ‘mattanza’ (sic!) chiamiamola così – risponde il leghista – ma è stata una mattanza anche quella che c’è stata in questa e altre carceri nelle settimane precedenti con morti, feriti, incendi…” e scoppia l’applauso della claque di poliziotti assiepati dietro di lui. “Io ricordo che dall’inizio di quest’anno si contano circa 500 aggressioni ai danni di uomini e donne della polizia penitenziaria”. Altro applauso. Salvini lo dice di fronte a un carcere dove l’aggressione, terribile e documentata dalle telecamere, è stata della polizia contro i detenuti, ma la circostanza non lo turba.

Tra i poliziotti che ha incontrato fuori dal penitenziario c’è Donato Fattorello, segretario nazionale del Sappe: “Condanniamo quanto accaduto, ma rifiutiamo la gogna mediatica”, dice. E poi si lascia sfuggire parole inquietanti: “È stata un’azione sfuggita di mano, come a Bolzaneto. Ma non è stata premeditata, altrimenti le telecamere sarebbero state spente”. Come ad ammettere: in genere quando si fanno certe cose si sta attenti a non farsi vedere. La direttrice dell’istituto Elisabetta Palmieri invece si chiama fuori, lei nel giorno della mattanza non c’era: “Sono stata assente per malattia per tre mesi”, al contrario di quanto dichiarato alla stampa da uno dei detenuti picchiati, che ieri ha riconosciuto di essersi sbagliato e ha chiesto scusa.

Mentre Salvini inaugurava fuori dal carcere il suo mini tour elettorale campano (oggi sarà a Sorrento e Salerno, per il leader della Lega “Catello Maresca rimane il migliore candidato possibile per il centrodestra”), il premier Mario Draghi riceveva a Palazzo Chigi il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Un incontro conoscitivo – fanno sapere le parti – che era stato programmato da tempo e non in conseguenza delle ultime notizie di cronaca. Il contenuto della conversazione resta riservato, ma il governo dei migliori ha capacità mimetiche: si sdoppia anche sulle carceri.

Social e follower: Grillo stracciato dall’avvocato

Negli ultimi 15 anni, dal primo Vaffa Day del 2007, ha cresciuto, coccolato e dato voce al “popolo della Rete”. E adesso il “popolo della Rete” si rivolta contro di lui. Se potesse, anzi, renderebbe concreta l’ipotesi di cui si parla in queste ore nel M5S: la maggioranza degli iscritti che si muove tra le bacheche, i gruppi e i meet up digitali del Movimento, vorrebbe sfiduciare Beppe Grillo per dare lo scettro a Giuseppe Conte, il leader in pectore liquidato martedì dal fondatore perché privo di “visione politica, esperienza di organizzazioni e capacità di innovazione”.

La base sta tutta con l’ex premier. E a certificarlo non ci sono solo le migliaia di commenti sulla bacheca Facebook di Beppe Grillo e le lettere che sono arrivate al Fatto: ora anche i numeri social di Grillo e Conte lo dimostrano. I dati sono stati analizzati dal sito specialistico Data Media Hub che ha studiato il comportamento dei follower dei due litiganti nell’ultima settimana, quella della rottura.

In primis, ci sono i numeri sui “seguaci”, un buon indicatore per capire da che parte sta la Rete. Negli ultimi sette giorni, il trend è chiarissimo e sta tutto dalla parte dell’avvocato: da domenica 27 giugno, alla vigilia della conferenza stampa di Conte al Tempio di Adriano per lanciare la sfida a Grillo, i follower dell’ex premier sono aumentati esponenzialmente facendo registrare un +2,2 mila (+0,05%) mentre, negli stessi giorni, i seguaci di Grillo sono crollati. Da martedì 29, giorno del post sul blog in cui ha rotto con Conte, il fondatore ha perso 4,4 mila follower , di cui oltre 2 mila solo nella giornata di martedì (-0,24%). Un trend chiaro ma soprattutto un numero indicativo, perché perdere follower significa che ogni utente ha deciso volutamente di cliccare sul profilo Facebook di Grillo e togliergli il “mi piace”, non volendo più ricevere notizie sui suoi post e sui suoi aggiornamenti pubblici.

Ancora più impietosi per Grillo sono i dati che riguardano le interazioni. Sotto ai due post di martedì e mercoledì in cui Grillo ha attaccato Conte e poi spiegato i motivi della rottura con toni più “moderati”, quasi 9 commenti su 10 sotto la bacheca del comico sono critici e a favore dell’avvocato. C’è chi, come Serena B., gli chiede di “farsi da parte” per far lavorare “i tuoi ragazzi del M5S”, chi lo accusa di voler “comandare senza contrappesi” mentre Rossana V. lo attacca perché ormai sarebbe “il garante di se stesso e non più del Movimento”. Le reazioni social della base sono durissime nei confronti del fondatore: i suoi post hanno ricevuto 13 mila like a fronte di 49,9 mila commenti, di cui la stra grande maggioranza negativi. Quattro commenti su cinque non apprezzano la posizione di Grillo. Monitorando il comportamento social degli utenti, inoltre, nell’8% delle reazioni ai post del fondatore vengono esplicitamente manifestati sentimenti di “rabbia” e “tristezza” a fronte di un misero 1% che apprezza.

Discorso opposto per le reazioni ai post di Conte che ha pubblicato sul proprio profilo la conferenza stampa integrale in cui ha dato conto delle diversità di vedute con il garante del M5S. Sulla bacheca dell’ex premier i “mi piace” superano di gran lunga i commenti (295 mila contro 56 mila), che sono quasi tutti di sostegno: ad andare per la maggiore è la richiesta di andare avanti e “prendersi il movimento” o di “fondare un proprio partito”. Sul profilo dell’avvocato prestato alla politica, il sentimento negativo in termini di interazioni non arriva all’1% tra “rabbia” e “tristezza” mentre l’apprezzamento è al 12%. Numeri e reazioni che, secondo chi conosce bene il fondatore, lo hanno portato a pubblicare un video di spiegazioni mercoledì con toni molto più pacati per provare a ricucire quantomeno con parte del suo popolo. Ma non basterà.

Il partito nuovo vola al 15%. Crollano i 5S e anche il Pd

Un partito di Giuseppe Conte può arrivare al 15%. O comunque stare in una forbice tra il 10 e il 15, rubando voti ai 5 Stelle, che rischiano di scendere al di sotto del 10%, addirittura al 7 (ora sono al 16/17%). E al Pd, che scenderebbe sotto il 15 (ora al 19/20%). Questo il dato che emerge facendo qualche telefonata ai principali sondaggisti italiani. Che, come tutti, stanno assistendo al feroce scontro tra Beppe Grillo e l’ex premier all’interno del M5S.

Il primo a sbilanciarsi, all’inizio della disfida tra i due leader, qualche giorno fa, è stato Antonio Noto (Noto Sondaggi). Partiamo da lui. “Premesso che all’interno dei pentastellati il 53% degli elettori sta con Conte e solo il 40% con Grillo, un partito nuovo di zecca fondato dall’avvocato del popolo può arrivare al 15%. Anche e soprattutto tenendo conto che l’ex premier gode ancora di un indice di fiducia nel Paese del 44%, terzo dopo Sergio Mattarella (62%) e Mario Draghi (53%)”, osserva Noto. Ma, secondo il sondaggista, il dato politico rilevante è un altro: un partito di Conte pescherebbe tra gli ex grillini, ma anche tra gli elettori Pd, tra i centristi e tra gli indecisi.

Attenzione, però: “Conte non deve commettere l’errore di contrapporsi a Draghi: i due non sono in antitesi ma complementari, perché questo non è il momento della politica contro ‘qualcuno’ ma per ‘qualcosa’. Gli italiani da Conte vogliono un cambiamento, ma anche essere rassicurati, come riusciva a fare, da premier, durante la pandemia”, aggiunge Noto.

Anche secondo Lorenzo Pregliasco (YouTrend) il bacino potenziale dell’ex avvocato sta tra il 10 e il 15%. “Una possibile lista Conte l’abbiamo monitorata per tutto il suo periodo da capo del governo, con oscillazioni tra l’11 e il 14%. Ora è ancora in quella forbice, con due terzi dei voti presi al M5S e un terzo al Pd”, dice il sondaggista. Secondo cui “i dem potrebbero subire un tracollo, passando dal 19% al 14%, ma se la devono prendere solo con se stessi: aver molto ‘pompato’ Conte, essersi legati a lui mani e piedi nella recente fase, non ha fatto altro che rafforzare un possibile competitor”.

Tra il 10 e il 15% è il bacino potenziale anche per Fabrizio Masia (Emg), con una fiducia personale al 40%, sotto Draghi (58), Meloni (44), Zaia (43) e Bonaccini (41). E con 5S a quel punto in crollo tra il 5 e il 7% e il Pd sotto al 15. “L’importante è che l’avvocato si muova con cautela, seguendo una strategia e un progetto politico. E delinei alleanze precise per il futuro. Progetto che, senza Conte, non si vede assolutamente in Grillo o negli altri 5 Stelle”, sottolinea Masia.

Ecco un altro punto importante: come muoversi e quali errori evitare. “Pescando voti oltre M5S, Conte deve presentarsi come leader trasversale, non ancorato al vecchio movimentismo grillino, ma andare oltre: essere radicale, ma pure moderato e rassicurante. E soprattutto evitare il partito personale, creare una forza aperta alla sinistra e al centro. E poi l’abbiamo visto con Monti e Fini: i partiti personali non funzionano. Ci è riuscito solo Berlusconi, ma era un’altra epoca”, spiega Maurizio Pessato di Swg. Che non si sente di dare percentuali, anche se il 10% è il numero a cui Conte può guardare. Ma “a giocargli contro è il tempo: votare nel 2023 per lui può essere uno svantaggio”.

Diverso, infine, il parere di Nicola Piepoli (Istituto Piepoli), secondo cui Grillo e Conte devono cercare a tutti costi di convivere. “Una divisione farebbe male a entrambi, perché rischierebbero solo di spartirsi l’attuale 16,5% dei 5 Stelle, con un 8% a testa. L’ex premier gode ancora della fiducia di molti italiani (53%), ma da qui a fare un nuovo partito ce ne corre. Meglio fare la pace e andare avanti insieme”, sostiene Piepoli. Che ricorda la fiducia stellare di cui godeva Gianfranco Fini tra il 2011 e il 2012. Nel 2013, però, Futuro e libertà prese un misero 0,5%, segnando la fine politica dell’ex leader di An. Monti, invece, anche lui ex presidente del Consiglio, fece un exploit arrivando all’8,3%, ma poi la sua Scelta civica si sbriciolò nel giro di appena un paio d’anni.

Di Maio in missione. Ma Conte gli chiede: “Tu con chi starai?”

Di buon mattino, l’ex capo va a casa del capo mancato a cercare lo spiraglio per inseguire l’impossibile, cioè per evitare la scissione. Ma l’avvocato in testa ha solo il suo partito, il suo progetto politico “che non resterà nel cassetto” come ha assicurato mercoledì sera. Così Giuseppe Conte, dopo aver sondato già diversi big, lo chiede di persona anche a Luigi Di Maio: “Tu con chi starai, con me o con Grillo e Casaleggio?”. Perché la storia tra l’ex premier e il M5S sta finendo. E lo conferma indirettamente la risposta del comitato di garanzia (Vito Crimi, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri) al diktat con cui Beppe Grillo aveva ordinato al reggente Crimi di indire “entro 24 ore” sulla piattaforma Rousseau, quella di Davide Casaleggio, la votazione del comitato direttivo. Cioè del nuovo organo collegiale che dovrebbe guidare il Movimento. Il comitato gli fa sapere che ha avviato la macchina per indire la votazione, prevista “non prima di 15 giorni”. Ma non su Rousseau, “bensì su SkyVote”, come confermano in serata fonti del M5S. Traduzione, Crimi e Lombardi rispetteranno il suo ordine fin dove necessario. Poi si dimetteranno.

Battaglie legali e normative, nel corpo di una guerra politica che sta tracimando nella scissione. E allora si torna a quella domanda – “tu con chi stai?” – che non fa dormire tutti i big del Movimento. L’interrogativo che ha reso afono in pubblico anche lui, Di Maio, “il miglior ministro degli Esteri della storia” per citare il Grillo di giovedì scorso davanti ai deputati. Troppo complimentoso, quindi in modalità campagna acquisti, perché il Garante fiutava già la rottura e ha provato subito a tirare dalla sua parte il pezzo più pesante, Di Maio, quello che può ancora spostare gli equilibri nel gruppo. Ma il ministro, decisamente il miglior pokerista nel M5S povero di giocatori, ora non sa proprio che carta scegliere. Così ieri mattina prova a convincere Conte della necessità di cercare un’alternativa alla spaccatura. “Giuseppe, non possiamo dividerci, dobbiamo cercare una soluzione perché così i gruppi parlamentari esplodono” sostiene (in sostanza) il ministro. E rilancia l’ipotesi di un incontro con Grillo, la stessa via che in serata i parlamentari chiedono di battere ai capigruppo, Ettore Licheri e Davide Crippa. Ma Conte non ci crede.

Così nel colloquio, un’ora di confronto tra due uomini che non si sono mai amati ma che sanno di avere bisogno l’uno dell’altro, l’ex premier cerca soprattutto di capire dove potrebbe pendere Di Maio. Prova a farlo esporre. Ma il ministro prende tempo: “Ora sto fermo, devo evitare che i gruppi parlamentari si lacerino”. Schiva, l’ex capo. Però una cosa la ottiene. “Incontra i parlamentari, mostragli il tuo Statuto” chiede all’avvocato. E Conte dice di sì, tanto che in serata lo conferma pubblicamente: “Se ricevo un invito lo farò volentieri”. Lo stesso invito, in giornata, lo aveva ricevuto anche Grillo, dal capogruppo alla Camera Crippa: “Beppe, ci fai vedere lo Statuto?”. E anche il Garante si è detto disponibile, ventilando anche un ritorno a Roma. Insomma, almeno su questo l’avvocato e Grillo sono concordi. Ed è facile capire perché: accontentare gli eletti, e magari convincerli mostrando loro il proprio progetto nero su bianco, può essere la via per reclutarli. Invece Di Maio spera che riportare entrambi davanti agli eletti serva a guadagnare tempo, prezioso per far svelenire il clima e cercare un’intesa che a oggi pare un’ipotesi del terzo tipo. La certezza attuale però è il tormento di tanti, che non sanno chi e cosa scegliere. E può valere anche per l’ex presidente della Camera, Roberto Fico, anche lui alla disperata ricerca di un appiglio per non dover decidere. “Ma io non so proprio cosa fare” sibilano anche diversi deputati e senatori. Perché i calcoli politici cozzano anche con valutazioni umane, con antichi rancori e voglia di rivalsa.

Poi ci sono i ragionamenti che fanno rima con paura, perfino di qualche 5Stelle pronto a saltare sulla nave di Conte: “Giuseppe non deve costruire un partito personale, ma un progetto condiviso. Non deve fare il padrone di casa che ci accoglie”. Consigli, mentre l’avvocato fa la lista dei parlamentari che considera già convinti. Nel frattempo sta sentendo tutti i big in bilico, e tramite due o tre parlamentari di fiducia cerca di sottrarre soldati al Garante. Ha fretta di partire. E di illustrare il suo nuovo progetto, con quel tour per l’Italia che avrebbe già dovuto fare da nuovo capo dei Cinque Stelle. Prima che Grillo facesse saltare tutto.

E il terzo gode

Un classico dei B-movie scollacciati anni 80 è la scena del marito ipnotizzato dalla partita di calcio in tv mentre la moglie nell’altra stanza se la spassa con l’idraulico. Mutatis mutandis, è il caso di dirlo, la stessa scena si ripete nella politica reale da quando Grillo ebbe la visione di trasformare il M5S (partito di maggioranza relativa) nella ruota di scorta del caterpillar di Draghi, poi di consegnarlo a Conte per tamponare l’emorragia di consensi, infine di sfanculare Conte dopo quattro mesi di lavoro volontario, lasciando i 5Stelle senza testa (cioè con la sua e quella di Casaleggio). E mentre il M5S si rimira l’ombelico e discute di temi appassionanti come lo statuto, il garante, il direttorio, i dati degli iscritti e la piattaforma, nell’altra stanza Draghi se la spassa con Confindustria & centrodestra alle loro (e nostre) spalle: ingaggia i migliori aedi del Partito degli Affari che s’è mangiato l’Italia per 30 anni; sblocca i licenziamenti e si fa beffe dei sindacati con un accordo-farsa che consegna ai padroni il diritto di vita o di morte sui lavoratori; dopo il condono fiscale, vara la sanatoria per i precari della scuola (per esservisi opposta, la Azzolina è ancora sotto scorta); si fa bello del Recovery ottenuto dal predecessore in una fiction con la Von der Leyen a Cinecittà; cancella il Cashback, ottima arma anti-evasione, primo passo per la digitalizzazione (era nel Piano Colao) e aiuto concreto ai negozianti distrutti dal Covid e poi dall’e-commerce; ingrassa il partito degli inquinatori e del fossile con l’apposito Cingolani; e raccatta l’assist delle destre con la mozione sul Ponte sullo Stretto, votata da una parte dei 5Stelle in stato confusionale, senza guida né bussola.

Di questo passo, smantellare anche le ultime conquiste targate M5S, dalla blocca-prescrizione alla Spazzacorrotti (si è già cominciato trasferendo poteri dall’Anac a Brunetta) al reddito di cittadinanza, sarà un gioco da ragazzi. Di queste quisquilie Grillo non si occupa né si accorge: l’ha detto lui che in tre anni i suoi ministri non han combinato nulla (invece vuoi mettere i veri grillini Draghi e Cingolani). Ma qualcuno dovrà pur occuparsene, il che rende comprensibile la fretta di Conte di partire. Purché non sia un partito personale da uomo solo al comando, ma un movimento collettivo con un gruppo di cofondatori che hanno dato buona prova al governo e in Parlamento e di nuovi innesti dalla società civile. Per dare una casa e una bussola a una comunità portata allo sbando da Grillo. A meno che questi non ritiri tutto quel che ha detto e fatto negli ultimi 7 giorni e si contenti di fare il garante muto. Ma è quasi un’ipotesi dell’irrealtà. E il tempo pare scaduto: basta dare una sbirciatina nell’altra stanza.

Dai Giochi di Tokyo fino ad “Accordi&Disaccordi” e “La Confessione”: la nuova stagione Discovery

Discovery cresce, sia nello share che nei contenuti. E i temi che fanno da guida alla programmazione spiegano il successo: “Abbiamo a cuore diversità e ambiente”, ha detto ieri alla presentazione dei nuovi palinsesti Alessandro Araimo, amministratore delegato di Discovery Italia.

Il terzo editore televisivo nazionale esce dalla pandemia rafforzato. “Nel 2021 il numero di spettatori è aumentato del 6% rispetto al 2020 – ha spiegato Fabrizio Piscopo, general manager di Discovery Media – È l’unica concessionaria ad aver raggiunto questo traguardo”. Lo dimostra il successo dell’ultima piattaforma Discovery+ che in soli 6 mesi dal lancio ha già conquistato un ruolo di primo piano dei servizi Ott. Questo ha permesso all’azienda di chiudere i primi mesi dell’anno con un fatturato pubblicitario in crescita del 33% sul 2020 e del 6% sul 2019, ha spiegato il manager. Ma anche il target raggiunto durante i mesi scorsi è interessante e forse spiega le ragioni del successo. “L’80% di chi ci guarda ha meno di 45 anni ed è prevalentemente un pubblico femminile”, ha analizzato Laura Carafoli, chief content officer di Discovery Italia. Tutti traguardi che fanno ben sperare per la stagione autunnale presentata ieri: in tutto 150 titoli originali. Le Olimpiadi di Tokyo saranno l’evento che inaugurerà la stagione a fine luglio: quasi 3mila ore di trasmissione per ospitare tutte le medaglie del mondo. Seguirà poi la new entry di Drag Race Italia, il programma nato negli Usa che si basa su una competizione tra drag queen. La giuria sarà composta dall’influencer e vincitore del Grande Fratello Vip Tommaso Zorzi, da Priscilla (Mariano Gallo all’anagrafe) e l’attrice Chiara Francini. “Tommaso avrà un ruolo chiave – ha sottolineato Carafoli – perché è capace di parlare a un pubblico molto ampio e noi vogliamo parlare a tutti”. All’intrattenimento si lega poi l’esperimento sociale. Il nuovo format dal titolo Back in time sfiderà i giovani concorrenti a trovare l’amore nell’800, quando le App per appuntamenti erano sostituite dal corteggiamento. E, sempre in tema di esperimenti, andrà in onda la seconda puntata di Naked attraction, il reality che “mette a nudo” i concorrenti davanti ai loro potenziali partner. Sarà riconfermata anche la seconda edizione di Love Island, il programma più visto sulla piattaforma. “Sicuramente con Giulia De Lellis, se vorrà”, spera Carafoli.

Ma non ci sarà solo reality. In prima serata su Nove tornerà Accordi&Disaccordi, con Luca Sommi, Andrea Scanzi e Marco Travaglio. Il venerdì sera, dopo Crozza, seguirà Peter Gomez con 14 nuove puntate de La Confessione. Inedito sarà invece il documentario dal titolo Il Celeste che racconterà la parabola politica dell’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni. L’autore del programma, il giornalista del Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto, ripercorrerà attraverso i documenti la storia del personaggio. “Solidità, creatività e capacità di osare – ha sottolineato Laura Carafoli – sono i pilastri su cui da sempre costruiamo la nostra offerta di contenuti”.

Quando Hitler venne beffato: voleva a Berlino le ossa di Dante

Su L’Osservatore Romano, il 4 luglio del 1965, uscì un articolo di monsignor Giovanni Mesini (1879-1969), rettore della basilica di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, “cultore dotto e appassionato della memoria di Dante”, come recita una lapide. Il sacerdote rammentò che “nel 1944, durante la guerra, per salvare le Ossa di Dante dai bombardamenti (caddero bombe dappresso il Tempietto), fu riaperta l’urna ed estratte le due cassette (non furono aperte), vennero messe dentro una cassetta di ferro e nascoste in una buca, aperta nel giardino, e coperte da un cono tutto in cemento armato (23 marzo). Furono poi tolte dal loro rifugio il 23 dicembre 1945”.

Ciò che don Mesini non volle svelare, per modestia o per riserbo, è che il salvataggio dei resti del Sommo Poeta non fu originato dalla paura delle bombe, ma per impedire che le SS li trafugassero su ordine di Hitler e li inviassero a Berlino. Erano destinati a un mausoleo che avrebbe dovuto ospitare anche le ossa di Cervantes, Zola, Molière, Victor Hugo, Tolstoj, e della cui costruzione era stato incaricato il gerarca Albert Speer, l’architetto del Terzo Reich. Il piano fu però sventato grazie a don Mesini, a Bruno e a Giorgio Roncucci, e ad Antonio Fusconi, custode della tomba di Ravenna dell’Alighieri. Tutto ciò con la collaborazione dell’Oss americano, il progenitore della Cia, dei partigiani dell’Ori (l’Organizzazione per la Resistenza Italiana) di Raimondo Craveri, genero di Benedetto Croce, dello stesso Croce e del grecista Manara Valgimigli. Le ossa furono sostituite con quelle di un anonimo, prese da una tomba abbandonata. Quando i tedeschi si accorsero della beffa, la guerra era alla fine.

A raccontarlo è Sergio Roncucci, 87 anni, fratello e figlio di due dei protagonisti della sostituzione delle reliquie dell’Alighieri. Lo fa in un articolo pubblicato nella rivista trimestrale Pen. Poets Essayst Novelists del Pen Club Italia, diretta da Sebastiano Grasso e in uscita oggi. La storia, che sembra tratta dai romanzi di Robert Ludlum come Il treno di Salonicco o dai film di Indiana Jones, comincia sul declinare del 1943, quando, narra Roncucci, “un gruppo di giovani, provenienti da Ravenna e dalla Romagna, raggiunge Napoli in bicicletta per combattere tedeschi e fascisti”. Tra loro “c’è mio fratello Giorgio”. Si uniscono all’Ori di Craveri, saranno inviati in missione oltre la Linea Gotica. A quel punto, l’Oss avverte l’Ori della decisione di Hitler di impadronirsi dell’urna di Dante.

Si muovono Craveri, Croce, Valgimigli e monsignor Mesini. Craveri “incarica mio fratello Giorgio di contattare direttamente Valgimigli a Padova, dove il grecista vive; il quale, a sua volta, informa monsignor Mesini. Davanti al pericolo imminente, il sacerdote decide di sostituire le ossa. Se tedeschi e fascisti se ne accorgono, cercheranno di recuperarle a tutti i costi, pensa: occorre inventare qualcosa”. Il prelato “chiama mio padre, Bruno, con cui è legato da profonda amicizia e dal comune antifascismo”.

Nella notte “fra il 22 e il 23 marzo del ’44, data in cui le ossa avrebbero dovuto essere trasferite da un posto all’altro, monsignor Mesini e mio padre si recano nel cimitero di Ravenna e da una vecchia tomba abbandonata recuperano ossa anonime”. Vengono messe nella cassetta ormai vuota di Dante, che i tedeschi portarono via. Al termine del conflitto, conclude Roncucci, “monsignor Mesini e mio padre vengono a sapere che a Berlino i tedeschi si sono accorti della sostituzione delle ossa”. Però era troppo tardi.

La “doppia” vita della Golino

È una doppietta al quadrato quella di Valeria Golino al 67° Festival di Taormina (fino al 3.7), in cui non solo è interprete in due film, ma in uno di questi fa vivere una donna di doppia “identità”. Coraggiosa come la conosciamo, l’attrice e regista ha ancora una volta dimostrato di saper selezionare le opere cui associare il proprio talento. Eccola dunque protagonista in Occhi blu, esordio in regia della collega Michela Cescon (nelle sale per I Wonder Pictures dall’8 luglio), e personaggio “chiave” ne La terra dei figli di Claudio Cupellini (in uscita oggi per 01 Distribution).

Due lavori assai diversi tra loro ma accomunati dalla valorizzazione del cinema di genere – il primo è un omaggio alla miglior tradizione del noir, più specificamente del polar, il secondo si ascrive alla fantascienza distopico/post-apocalittica –, ma soprattutto dell’idea del guardare, nutriti da quella forza dello sguardo che si chiama cinema. E se questo titola in maniera evidente in Occhi blu, in cui Golino è una “woman in black” tanto veloce nell’azione quanto silenziosa nella vita, nel dramma esistenzialista di Cupellini emerge nel paradosso della cecità che caratterizza il suo personaggio, una sopravvissuta rasta e sensibile soprannominata La strega.

Partendo dalla magnifica opera prima di Cescon, come definisci questa donna anomala, una silente motociclista in black di notte e una semplice impiegata di giorno, certamente diversa dai personaggi finora da te interpretati?

È un personaggio favoloso, di quelli normalmente “abitati” dagli uomini nel nostro immaginario, specie nelle sue qualità di apatia, di rigore matematico, di comportamento studiato ai limiti del chirurgico.

Si tratta di una villain, ed è la seconda volta che “fa la cattiva” dopo Lasciami andare di Stefano Mordini. Come c’è finita nei panni di questa rapinatrice inafferrabile quanto implacabile?

Questo ruolo, così come quello che mi ha offerto Mordini, più o meno consapevolmente lo andavo cercando perché per mi interessa da spettatrice, da interprete, da regista. Dopo 30 anni di carriera, sento l’esigenza di “levarmi da me”, togliermi quegli orpelli che mi porto addosso e che – volente o nolente – hanno determinato il modo in cui il pubblico mi percepisce. Questo accade a tutti gli attori quando diventano troppo se stessi. Per quanto mi riguarda l’effetto è di indagare ruoli al limite dello sgradevole. Rispetto all’ingannatrice di Lasciami andare, che era più convenzionalmente legato ai tipici tratti della dark lady, la motociclista creata da Michela è un personaggio estremamente contemporaneo, ferocemente estraneo.

Michela Cescon si è rivelata una narratrice immaginifica. Come avete dialogato attorno al film?

Certamente abbiamo parlato molto prima del film ma l’esercizio da parte mia è stato di ascoltarla a fondo. Poi la vera cifra stilistica è arrivata solo a inizio riprese, come una sorta di rivelazione che fino ad allora era rimasta inespressa, oscura a lei, a me. Gradualmente Michela ha iniziato a sfrondare, a lavorare sull’essenza, e così ha fatto sul mio personaggio che lei stessa rifiutava di guardare, non a caso spesso mi ha ripreso di spalle, di nuca. Non voleva conoscere questa donna, si è imposta di cancellare tracce del suo passato portatrici di motivazioni, le bastava il suo presente e – nel paradosso – di mostrare il pre e il post delle azioni, esercitando un sapiente utilizzo del fuori campo.

Passando all’interessante lavoro di Cupellini, alcune frasi sembrano alludere al nostro “post pandemia”, benché il film sia stato girato prima che scoppiasse. Una è “ti puoi fidare” per bocca della sua Strega. Quanto maggiormente pesano oggi queste parole così necessarie ma difficili da pronunciare?

È vero, da sempre esercitano una grande potenza che oggi suona decuplicata. Ma è importante continuare a sentirsele dire e a dirle: ecco, è una cosa che vorrei sentire dire e vorrei dirla agli altri a mia volta più spesso. Io per natura mi fido molto, per me le persone sono tutte innocenti.

Emblematica è soprattutto “Manca a tutti la vita com’era prima”. È così, oppure vorremmo migliorare l’esistenza che avevamo nel pre-Covid?

Questa frase mi ha evocato più potenza risentendola nel film rispetto a quando l’ho pronunciata facendolo. All’epoca pre-pandemica, infatti, era astratta, ora invece ci riguarda tutti. Sarebbe bello ritornare a una consapevolezza “altra”, più evoluta, direi lungimirante. Fra tutte le cose che ho sentito in questo anno e mezzo, cioè tutto e il suo contrario, quanto ho notato maggiormente è proprio la mancanza di lungimiranza, specie in chi ci governa. Nessuno si ricorda di cosa sia accaduto prima. Quello mi disturba molto. La storia si ripete, è un’amara verità. O forse, più semplicemente, è questa la legge del sopravvivere.

“Insieme, cambiamo ora il finale delle sorelle Pilliu”

Oggi esce in tutte le edicole d’Italia in co-edizione Paper First con Feltrinelli, in allegato con Il Fatto Quotidiano, il libro Io posso scritto con Pif e dedicato alla storia di resistenza civile delle sorelle Maria Rosa e Savina Pilliu.

Gli autori devolveranno i diritti d’autore per permettere alle sorelle Pilliu di pagare la cartella esattoriale inviata lo scorso anno dall’Agenzia delle Entrate. Una richiesta assurda di tasse su un risarcimento mai incassato dopo 30 anni di battaglie legali contro la società di un costruttore legato alla mafia. L’uscita in edicola è l’occasione per fare un bilancio di questa operazione con Pif, in un dialogo un po’ surreale tra co-autori.

Pif, è trascorso più di un mese dall’uscita in libreria, il 27 maggio scorso. Come è iniziata questa storia di Io posso?

Ovviamente lo sai bene, però fingo che le tue domande siano mosse da sincera curiosità e spiego ai lettori. La nostra molla è la stessa dei lettori che lo stanno comprando: il desiderio di cambiare qualcosa. Questo è il senso del titolo: “Io posso”. Tutti insieme possiamo cambiare il finale di una brutta storia iniziata 30 anni fa a Palermo. Noi abbiamo ceduto i diritti d’autore e con questi soldi vogliamo aiutare le sorelle Pilliu, che hanno lottato per 30 anni contro la prepotenza mafiosa, e ora si trovano lo Stato che gli chiede pure 22 mila e 800 euro con una cartella esattoriale ingiusta.

Allora visto che sei il più bravo su piazza a semplificare le storie, anche di mafia, vediamo se ci riesci con questa che è davvero un garbuglio.

Provo a rinfrescare la memoria ai lettori del Fatto, che la conoscono bene, sintetizzando al massimo: trent’anni fa un costruttore – poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa – vuole comprare e abbattere una fila di casette a Palermo di fronte al Parco della Favorita. Ha bisogno di spazio per costruire alla distanza legale un palazzone di 9 piani. Tutti cedono alle sue offerte, ma le sorelle Maria Rosa e Savina Pilliu dicono no. Il costruttore se ne infischia e dichiara falsamente al comune che le casette sono già sue, corrompe l’assessore, abbatte le altre confinanti e danneggia le casette delle Pilliu. Loro, donne sole e sarde, si ribellano al maschio siciliano e denunciano tutto. Alla fine lo fanno condannare per concorso esterno e per falso e corruzione. Lo Stato, dopo 30 anni, riconosce che la società costruttrice ha danneggiato le casette e riconosce 780 mila euro di danni alle Pilliu.

Vabbè la storia finisce un po’ tardi ma bene. Allora a che serve il nostro libro?

Come sai bene non finisce bene per niente. I 780 mila euro più interessi le sorelle non li avranno perché nel frattempo la società del costruttore è stata confiscata per mafia e non ha un euro. Quindi le sorelle chiedono allo Stato di riconoscerle vittime di mafia e pagare al posto del costruttore.

Perfetto. Il ministero dell’Interno pagherà i 780 mila euro. Tutti felici e contenti. A che serve allora questo libro?

Visto che continui a far finta di esserti dimenticato quel che abbiamo scritto, spiegherò pure questo. Nemmeno per idea! Il ministero sostiene che non sono vittime di mafia perché il costruttore, pur condannato per i suoi rapporti con i boss, non le avrebbe danneggiate come “soggetto legato alla mafia” ma come costruttore. Come se fosse legato alla mafia part-time.

Però a un certo punto lo Stato si ricorda di loro e a casa Pilliu finalmente arriva una lettera…

Sì, peccato che non è una nomina a Cavaliere per la resistenza civile trentennale. No, è una cartella esattoriale dell’Agenzia delle Entrate che chiede alle sorelle Pilliu il 3 per cento di tasse sul risarcimento che mai hanno avuto. Anche se non incasseranno i 780 mila euro, le Pilliu devono pagarci sopra il 3 per cento di tasse che la società condannata, ma ormai confiscata e nullatenente, non paga.

Effettivamente non è un bel finale: il palazzo abusivo costruito violando i diritti delle Pilliu, resta in piedi. Le casette restano diroccate. La società non paga i danni dopo una battaglia legale di 30 anni. Lo Stato non paga il risarcimento perché non riconosce le sorelle vittime di mafia e chiede loro pure il 3 per cento pari a 23 mila euro. Questo è il finale del libro?

No, per la semplice ragione che questo è il primo libro della storia che non si può spoilerare perché il finale non c’è. Lo devono scrivere i lettori insieme a noi che cediamo i diritti alle sorelle per pagare la cartella esattoriale e per altre iniziative antimafia. Abbiamo tre obiettivi. Il primo è il minimo: pagare la cartella; il secondo è far conoscere questa storia in modo che quando altri giudici, quelli della commissione che delibera lo status di vittime di mafia, dovranno esaminare la richiesta delle Pilliu, non le trattino come una pratica. Infine il terzo obiettivo è un sogno: ricostruire le casette per dimostrare che la legalità prevale e lo Stato non lascia sole le persone che si ribellano alla prepotenza. E quando lo Stato si distrae, come in questo caso, i cittadini possono sostituirlo. Io posso perché anche io, inteso il lettore non io e te Marco, anche io sono lo Stato.

Come sta andando?

Anche qui lo sai benissimo. Sta andando bene. Voglio usare questa occasione per dire grazie a tutti per la risposta dei lettori. Prima ancora di uscire il libro era già primo nelle ordinazioni. Ora tocca ai lettori del Fatto. In città come al mare o in montagna, non avete più scuse: potete comprare il libro e aiutare la battaglia delle Pilliu anche nel più sperduto paesino dove siete in vacanza. E buona estate a tutti.