Le donne. Le mogli e le figlie dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Le donne che dovevano spiegare ai loro piccoli perché non avevano più notizie del papà. Le donne preoccupate da notizie allarmate e dettagliate che filtravano dalle mura del penitenziario. Le donne che hanno fanno rete, che si sono scambiate informazioni e audio nelle chat prima di andare a denunciare, sono state il motore delle indagini sui pestaggi compiuti il 6 aprile 2020 dagli agenti della polizia penitenziaria, e avallati e coperti dai superiori. Sono state loro, le donne, a capire per prime cosa era successo. Sono state loro, di fatto, a eseguire le primissime indagini. Quelle decisive. Quelle che hanno aperto gli occhi agli inquirenti, forse increduli, all’inizio, per la violenza dei racconti.
Prendete Rita (nome di fantasia), la compagna di un detenuto ora ristretto ad Ariano Irpino. Un anno fa l’uomo era rinchiuso nel carcere casertano, “uno di quelli messi peggio dopo i pestaggi, ci misi una settimana prima di riuscire a mettermi in contatto con lui”. Come seppe dell’accaduto? “Ci avvertirono le mogli dei detenuti degli altri reparti, il Tamigi, il Tevere, i loro mariti avevano riferito di aver ascoltato delle urla terribili dal reparto Nilo”. Era la mattanza in corso. Tre giorni dopo, le mogli dei reclusi si assembrano sotto i cancelli dell’istituto carcerario, dove sono in arrivo gli ispettori del ministero, per protestare. Chiedono e ottengono un colloquio con una funzionaria (la direttrice, il giorno del pestaggio era assente). Non ne escono per nulla tranquillizzate. “Ci conferma che era successo qualcosa. Quando ci allontaniamo, veniamo investite dagli insulti degli agenti”. Con pazienza e tenacia, Rita elabora una strategia e la compie: prima aspetta di riuscire a parlare con il compagno “e ci vorranno sette giorni, e registrai tutto: mi disse di essere stato massacrato e che avrebbe confermato tutto se denunciavo”. Poi si fa mandare i file audio di sei conversazioni di altrettante signore coi loro mariti detenuti. Tutte dello stesso tenore: le botte, il terrore, il sangue.
Così, quando Rita va a denunciare in caserma, non ha solo la parola del compagno. Ha quelle, concordanti, di altre sei persone. Le storie combaciano. Ci sono dettagli raccapriccianti. Il fratello del compagno di Rita dice di essere stato violentato con un manganello. La circostanza è citata nell’ordinanza di misure cautelari. “Ci ho messo quattro giorni per completare la denuncia. E ora sono preoccupata perché il mio compagno ad Ariano Irpino ha riconosciuto tre agenti che parteciparono alle percosse, che forse non sono stati nemmeno indagati, e ha paura di ritorsioni”. Non sarebbero gli unici: con lo stesso passaparola dell’anno scorso, la signora sostiene che ci siano agenti in servizio e pronti a vendicarsi anche nei penitenziari di Bellizzi e Secondigliano.
Flavia invece parla col suo vero nome. È la moglie di un detenuto con tendenze autolesionistiche e sotto cura farmacologica “perché è ancora molto scosso”. Quattro figli piccoli, uno in cura da uno psicoterapeuta, “che chiede sempre perché hanno picchiato papà”. Anche l’uomo di Flavia ha riconosciuto a Secondigliano, dove è ora ristretto, un paio dei suoi presunti carnefici. “Ho denunciato subito, forse sono stata la prima”. Non è stata l’unica.